A Ellie
“Eterno
Aprile Velato”
Ispirato a “La Passeggiata” di G.
D’Annunzio
“Voi non mi amate ed io non vi amo. Pure
qualche dolcezza è ne la nostra vita
da ieri: una dolcezza indefinita
che vela un poco, sembra, le sventure
nostre e le fa, sembra, quasi lontane.”
Un tonfo pesante; il paio di
pantaloni neri usati il giorno precedente erano stati lanciati malamente contro
la valigia, buttandola a terra.
Uno sguardo seccato di Sasuke
verso il contenuto del bagaglio – ora completamente rovesciato al suolo.
Si allontanò dall’armadio,
ormai vuoto, per raccogliere i pochi abiti che si era portato in viaggio, ora
sparpagliati a terra. Nel piegarsi, le medagliette al valore - che numerose
pendevano dal taschino sinistro della sua uniforme militare – tintinnarono
all’unisono, ricordandogli per un momento il modo in cui le aveva conquistate.
Un fremito lo percorse lungo
ogni cellula del suo essere, facendolo rimanere piegato al suolo per qualche
altro minuto, perso per un attimo nei ricordi di quel passato apparentemente
così lontano, specchio perfetto del futuro che lo attendeva domani.
Rivedeva la sua vita come un
immenso campo di battaglia, invaso da sangue, fango, cadaveri, ansia e
rassegnazione; il rumore di distruzione dei carri armati, i boati di bombe a
mano e gli spari dei fucili come perpetua colonna sonora.
Lo sguardo di onice cadde
nuovamente su quel paio di pantaloni del suo stesso colore, ed un pensiero
candido, puro, scalfì come un lampo improvviso quella realtà nera di morte,
sangue rappreso e polvere da sparo; sull’orlo dei pantaloni neri erano ancora
visibili le macchie color ocra, residuo della sabbia rimasta intrappolata sui
pantaloni il giorno prima.
Leggermente, con una mano
pallida, Sasuke afferrò i pantaloni, passandovi lentamente sopra il pollice,
nella vaga e non completamente convinta intenzione di cancellare quel lieve
residuo di ricordo. Ma la macchia anziché svanire si ingrandiva, e più si
allargava più nella sua mente la macchia di luce bianca guadagnava spazio e
memoria, trasformando il dolore e l’ansia per il ritorno in guerra in una
pacata dolcezza, una dolcezza pura e consolatrice che aveva in qualche modo
cancellato ogni traccia di quel ricordo,
ora apparentemente così lontano, quasi inesistente, un pallido riflesso di
incubo.
Eppure, sapeva che quella
dolcezza non era amore. Sapeva che, in effetti, non era nulla. Non poteva essere nulla.
Eppure… sapeva che qualcosa c’era, e gli confondeva la mente, facendogli perdere lucidità.
Con un sospiro seccato, Sasuke
raccolse da terra i vestiti, ripiegandoli ordinatamente dentro la valigia
riposta nuovamente sul letto; fu nell’atto di piegarsi nuovamente per
raccogliere un’ultima camicia che il corpo dell’Uchiha
si bloccò, come paralizzato alla vista della sua pistola argentea rimasta a
terra dopo la caduta.
Il dolce candore, che aveva avvolto
la sua anima per quel giorno senza tempo, svanì così com’era arrivato,
sovrastato da un bagliore scuro dall’odore metallico, scosso da sussulti di
morte che avevano ripreso posto nel suo cuore e nella sua anima nel giro di
pochi secondi.
Il volto di Naruto, che così a
lungo era svanito dai suoi occhi, ora era ritornato, e se ne stava lì chiaro e
nitido; illuminato solo dal fuoco di carri armati brucianti e dalla fioca luce
delle stelle, sporco di fango e di polvere da sparo, macchiato del sangue che
gli colava a fiotti dalla fronte – lacerata dopo la caduta in trincea – e dalla
bocca – proveniente dai polmoni trapassati da tre proiettili fatali.
“Hi… na… ta… Sa…su…ke…”
Il nome di lei, seguito dal proprio. Le ultime parole di suo fratello. Gli erano morte sulle labbra
insieme al suo ultimo respiro.
Che significato poteva avere,
se nemmeno la conosceva?
Cosa poteva fare lui, per
onorare quell’ultimo respiro d’amore che gli aveva dedicato per metà?
Come far conciliare quei due
nomi, secondo una logica razionale?
“Ben, ieri, mi sembravano lontane
mentre io parlava, mentre io v'ascoltava,
e il mare in calma a pena a pena ansava,
ed eran quei vapori come
lane
di agnelli, sparsi in un benigno cielo.
Mi veniva da voi o da quel cielo
e da quel mare l'umile riposo?
Certo, in un punto, io fui quasi oblioso.”
Che significato poteva avere,
se nemmeno la conosceva?
Cosa poteva fare lui, per
onorare quell’ultimo respiro d’amore che gli aveva dedicato per metà?
Come far conciliare quei due
nomi, secondo una logica razionale?
Forse, il primo passo era
proprio quello di cercare l’altra metà di respiro.
La seconda volta l’aveva intravista sulla riva della spiaggia
dalla terrazza di villa Hyuuga, ma gli era parsa solo
un punto bianco lontano, spezzato da una lunga chioma corvina ondeggiante al
vento. Era la seconda volta, perché Sasuke l’aveva già intravista in compagnia di Naruto una volta ad una festa, tempo
prima. Ne ricordava solo vaghi particolari: lo sguardo basso, le gote
arrossate, i capelli tagliati corti e sgraziati, il balbettio incerto ed
irritante. Sasuke ne ricordava ciò che ricordavano tutti: la timida
insicurezza.
Aveva chiacchierato con Neji sulla
terrazza per una buona mezzora, ringraziandolo dell’ospitalità che gli avrebbe
offerto per quella singola notte. Le solite ciarle riguardo la guerra, le armi,
le scelte politiche, gli alleati e i nemici; lo sguardo dello Hyuuga diretto a leggere le cicatrici lasciate dalla guerra
nel volto pallido dell’Uchiha, lo sguardo di Sasuke
diretto ad indagare l’enigmatica ninfa che non si era ancora mossa dalla riva
della spiaggia dal suo arrivo.
-“Notizie degli altri?”-
domandò Neji, avvicinandosi anche lui alla ringhiera del balcone che si
affacciava sulla spiaggia.
-“Naruto è morto.”-
Lo Hyuuga
si voltò di scatto verso l’Uchiha, gli occhi
cristallini sbarrati e increduli. Il labbro inferiore, ancora sconvolto, aveva
preso a tremare un po’.
-“Oh… dannazione.”- sibilò
Neji, abbassando il viso e stringendo con forza la ringhiera, sofferente.
-“Devo dirlo a Hinata. Naruto
me l’ha… chiesto… credo.”- asserì Sasuke, lanciando un ultimo sguardo alla riva
e allontanandosi dalla ringhiera, senza dire nulla.
Scese con lenta grazia le scale
che conducevano alla spiaggia privata della villa, un piccolo incavo nella
costa di pietra bianca circondata da una folta e rigogliosa vegetazione.
I lunghi pantaloni neri, di una
seta pregiata e costosa, affondarono nella sabbia dopo che Sasuke si fu tolto
le scarpe per attraversare il piccolo deserto che lo divideva dalla riva.
I piedi affondarono nella
morbida sabbia bianca, tiepida e piacevole, così diversa dal fango freddo e
melmoso delle trincee francesi che fino a due giorni prima avvolgeva i suoi
stivali e la sua divisa militare.
Una piacevole brezza giungeva
da nord, sollevando la sabbia come nebbia, infiltrandosi nella leggera camicia
bianca sbottonata dell’Uchiha, scompigliandogli i
folti capelli corvini.
Finalmente, dopo un paio di
minuti, il riflesso del sole sulle onde lo abbagliò, accecandolo per qualche
secondo; e quando la vista si fu abituata alla luce, finalmente la vide, per la prima volta.
Gli scuri capelli brillanti ora
erano lunghi e le oscuravano metà schiena. Gli dava le spalle, assorta
completamente dal mare, non curandosi della presenza dietro di sé.
La brezza scompigliava pure le
lunghe ciocche corvine, e le sollevava con grazia i lembi del lungo vestito
bianco, scoprendole i piedini e parte delle nivee gambe.
-“Hinata.”- la richiamò l’Uchiha con voce bassa e composta, affondando nervosamente
le mani nelle tasche di seta.
-“…Sasuke.”- gli rispose la Hyuuga, voltandosi appena verso di lui, regalandogli un
lieve sguardo spento, già rassegnato.
All’udire quei due loro nomi
accostati, un brivido nacque naturale nel cuore del ragazzo, che gli percorse
rapidamente la colonna vertebrale, trasformandosi in spasmo una volta giunto al
cervello, uno spasmo di dolore dovuto al ricordo di un sussurro di morte…
“Hi… na… ta… Sa…su…ke…”
L’Uchiha
strinse le palpebre e scosse lievemente la testa, come per allontanare
quell’odore di sangue amico che aveva riempito nuovamente la sua mente.
Gli parve di aver ancora le
mani macchiate del sangue caldo dell’Uzumaki e con
uno scatto felino avanzò, affondando d’impeto i palmi nell’acqua fresca del
mare, sperando che potesse lavare via quei ricordi.
-“Ha sofferto tanto?”- domandò
Hinata, senza sprecarsi nemmeno in un minimo intento di camuffare la voce rotta
dalla disperazione.
Sasuke le scoccò un’occhiata
smarrita, attento a non far trapelare troppo la sua sorpresa, e sollevò la mano
fradicia e tremante per passarsela sulla fronte, nella vana speranza di
ritrovare un po’ di freddezza mentale.
Ma il tremore passò dalla mano
all’intero corpo, cosicché avvertì l’imperante bisogno di sedersi. Il ragazzo si
lasciò cadere di peso accanto alla fanciulla, che intanto era scoppiata a
singhiozzare molto discretamente, rispettosa del dolore di Sasuke più che del
proprio.
-“Sì. Ha sofferto. Molto. Lui…
non se lo meritava.”- assentì lui con voce fredda e atona, lo sguardo di onice
fisso e vacuo verso l’orizzonte luminoso.
Un sussulto sofferto fu tutto
ciò che il ragazzo udì, e la curiosità lo portò a spostare lo sguardo verso di
lei, scorgendo finalmente con chiarezza quei puri occhi d’ametista straziati da
lacrime di cristallo.
Non seppe nemmeno il perché, e
sebbene comprendesse con chiarezza che la situazione non era delle migliori,
Sasuke incominciò a parlare. Probabilmente fu il discorso più lungo che avesse
mai fatto di sua spontanea volontà. Il suo tono apatico e freddo raccontò con
precisione scientifica e cruda ogni passaggio di quei giorni di guerriglia, le
raccontò tutto ciò che la sua memoria riusciva a ricordare riguardo a Naruto;
soprattutto, le raccontò la sua morte e la sua incapacità di salvarlo e di
reagire. Ella non lo interruppe in alcun modo; si limitò ad ascoltarlo, assorta
e silenziosa, le lacrime che scendevano naturali su un volto ritornato
inespressivo e freddo.
Sasuke finì il racconto per
abbracciare finalmente il dolce silenzio di quella spiaggia surreale, per
abbandonare la sua mente finalmente svuotata di quel pesante bagaglio di dolore
ad una tranquillità più che meritata.
Si lasciò andare all’indietro,
accomodandosi sulla morbida spiaggia, lasciando che i raggi del sole riscaldassero
il suo corpo e la sua anima, gelidi.
Dopo quella che gli parve una
misera eternità, Hinata parlò.
-“E tu? Come stai?”-
Che domanda banale ma al
contempo terribilmente frustrante.
-“Io? Io non sto. E basta.”- rispose lui, con vena irritata, tirandosi su a
sedere di scatto.
-“Penso che lui… fosse
indispensabile per entrambi. Siamo… simili, io e te, per un certo verso.”-
asserì Hinata, la voce simile ad un piacevole fruscio di foglie.
-“Come farai senza di lui?”- le
domandò Sasuke.
-“Continuerò a guardare
l’orizzonte, finché il sole o la luna non mi diranno cosa fare.”- spiegò lei,
la voce bassa e tremante.
Uno strano sentimento
indicibile fece palpitare lievemente più forte il cuore di Sasuke: compassione?
Tenerezza? Dolcezza? …comprensione?
-“E se non ti dicessero
nulla?”- le domandò lui, quasi ansioso.
-“Non penso di avere altre
alternative.”-
-“Capisco.”-
-“Tu cosa farai per riempire
il… vuoto?”-
-“Domani riparto.”-
-“Per la guerra?”-
-“Per la guerra.”- sospirò
Sasuke, gli occhi fissi sull’orizzonte infinito del mare –“Eravamo partiti
insieme… ora devo finirlo, almeno per non lasciare che il suo sacrificio sia
stato vano.”-
-“E poi… tornerai?”- gli
domandò Hinata, gli occhi ora bassi sull’acqua che accarezzava la rena.
-“Se vorrai.”- si limitò ad
assentire, quasi con un sospiro.
-“Sì, lo voglio.”-
-“Hinata… come facevi a sapere
che Naruto…”-
-“Un gatto. Un gatto dal pelo
color sabbia, gli occhi azzurri come… ecco… quel gatto era… laggiù.”- e la
ragazza indicò un punto in fondo alla spiaggia, dove le rocce incontravano il
mare –“…lui era… morto. E poi tutto… tutto è diventato diverso… il cielo, il
mare… erano diversi da com’erano quando c’era ancora lui…”- pronunciò, mentre
un gemito di dolore le sfuggiva dalle labbra pallide.
-“Capisco.”- annuì Sasuke, sdraiandosi
nuovamente all’indietro, respirando a fondo l’aria di quel tiepido e
stranamente sereno Aprile velato dalle nubi.
Hinata, con voce soave e
melodiosa, prese ad intonare una dolce melodia, che accompagnò l’Uchiha in un sonno profondo e sereno, per la prima volta
privo di incubi e di dolore.
“Dite: non foste mai convalescente
in un Aprile un po' velato? È vero
che nulla al mondo, nulla è più soave?
Qualche cosa era in me, di quel soave.
Pure, voi non mi amate ed io non vi amo.
Pure, quando vi chiamo, io non vi chiamo
per nome.”
Riportando gli occhi al cielo,
Sasuke sbuffò fuori una boccata di fumo, perso nei ricordi.
Al suo fianco, Kiba imprecava
in mille modi, dolorante per via della ferita alla coscia destra, mentre Ino
prontamente lo richiamava al contegno, attenta a non fare troppo male a
Shikamaru mentre gli fasciava con cura la ferita alla spalla.
Per un attimo, lo sguardo dell’Uchiha sostò sull’uniforme candida da infermiera della
Yamanaka, ora macchiata di terra e sangue, così come il suo volto angelico.
Quel bianco… era come quello
del suo vestito.
Erano passati così tanti
giorni, da allora? Il suo ricordo non
era altro che un pallido riflesso nella sua memoria, come quello di un grazioso
spettro in riva al mare.
Eppure, il suo calendario
tascabile – inzuppato di fango – segnava ancora Aprile inoltrato. Pochi giorni
dunque, forse solo un paio di settimane erano passate.
Sasuke tornò a fissare il cielo
di quell’Aprile francese, sdraiato in mezzo alla melma della trincea; era così
simile a quello che aveva visto dalla spiaggia insieme a lei.
L’aria tiepida, leggermente
velata di nubi, gli richiamò alla mente una voce dolce e melodiosa, che alleviò
il puzzo di sangue, i rimbombi lontani degli spari, annegandoli in una specie
di dolce oblio; ora, Sasuke era stranamente sereno, mentre il cielo di Aprile
era nuovamente sopra di lui, insieme al melodioso canto e alla risacca del
mare.
Chissà se anche lei provava serenità nel guardare quel
cielo.
Chissà se anche lei faticava a chiamarlo per nome,
almeno quanto lui faticava a pronunciare il suo.
Chissà se anche lei continuava a pensarlo, ben conscia
di non amarlo.
Eppure, per Sasuke, lei era lì, fissa nella sua mente, un
pensiero vago e costante che non lo abbandonava neanche di notte.
E, portandosi nuovamente la
sigaretta alla bocca, una leggero sorriso si spaziò per la prima volta dopo
tanto tempo su quelle sue labbra perennemente serrate.
“Quando parlate, io non guardo la bocca
parlare, o al men non
troppo guardo. Ascolto;
comprendo, vi rispondo. Il vostro volto
non muta se la mia mano vi tocca.
La vostra mano è quella che non dona.
Nulla di voi, nulla di voi si dona.
Però, nulla io vi chiedo, nulla attendo
se bene, debolmente sorridendo
come chi langue e pur non s'abbandona...”
Quel sonno – il più riposante
della sua vita – era durato più di due ore, cullato dal canto di Hinata e dalle
onde del mare.
Richiamandolo dolcemente, la Hyuuga l’aveva poi destato, invitandolo a rientrare in
casa, ora che le tenebre stavano calando sulla spiaggia inondata di luce.
Senza risponderle, ancora
intontito dal sonno, Sasuke si era alzato e aveva preso a seguirla,
ascoltandola mentre, senza un motivo apparente, la ragazza aveva iniziato a
parlargli di dove e quando l’avesse visto
la prima volta e che cosa avesse pensato di lui.
L’Uchiha
si sentì terribilmente in colpa quando intese che fin dal primo sguardo, Hinata
aveva capito tutto di lui, senza soffermarsi in superficie come aveva fatto lui
la prima volta che l’aveva intravista.
Tre volte aveva dovuto incontrarla prima di carpirne la vera essenza, prima di
rimanere affascinato da quegli occhi di ametista che ora gli parevano ciò che
di più sfuggente c’era al mondo. Solo ora l’aveva vista, l’aveva compresa; e ora ne rimaneva intrappolato,
incatenato, senza riuscire a staccarsene, senza riuscire a scollare il suo
sguardo da lei.
Impaziente, desideroso, preda
di un istinto privo di razionale logica, Sasuke allungò la mano verso quella
piccola e candida di Hinata, stringendola improvvisamente nella sua.
Hinata si fermò, senza
voltarsi, irrigidendosi sul posto, mentre i brividi le graffiavano la schiena,
le mozzavano il respiro. Sentiva la presenza dell’Uchiha
vicina, dietro di sé, il suo respiro freddo sulla propria pelle improvvisamente
infuocata.
Ma la ragazza non ricambiò la
stretta; avrebbe voluto, ma davvero non ci riusciva. Si voltò lentamente,
sfilando la mano da quella di Sasuke e ritraendosela al petto, dove il cuore
pulsava come impazzito.
Il volto arrossato era rivolto
verso il basso, così come gli occhi d’ametista; le labbra pallide tremavano,
nervose e ansiose.
-“Sasuke…”-
-“Perché vuoi che ritorni?”- le
domandò il ragazzo, la voce bassa e fredda, diretta ad indagare la sua anima.
-“Perché… perché con te… al mio
fianco… il cielo e il mare… non sono come quando c’era Naruto però… ritornano
ad essere belli, lo stesso.”- la voce di Hinata era incerta, ma era sincera.
Alzò lo sguardo verso l’Uchiha, bella e imbarazzata
come solo lei sapeva essere.
-“Mi aspetterai in riva al
mare?”-
-“Sì… credo che da oggi in poi…
il mare mi parlerà sempre di te…”-
-“E non ascolterai più ciò che
la luna e il sole ti diranno di fare?”- le domandò Sasuke, un ghigno di
provocazione sul volto.
-“Il sole e la luna si
riflettono sul mare, Sasuke.”- sorrise Hinata, illuminando il suo volto di una
strana e gioiosa speranza.
-“E allora cercherò di giungere
in barca o a nuoto, la prossima volta.”- ghignò l’Uchiha,
superandola e precedendola sulle scalette che riportavano alla villa.
Avrebbe voluto abbracciarla,
stringerla a sé, affondare il volto nei suoi capelli, ma sapeva che non era
giusto, che non ce l’avrebbero fatta. E questo Hinata l’aveva capito prima di
lui.
Non era ancora tempo per loro.
Ma ci sarebbe stato. Questo l’avevano capito entrambi.
“Oh, no! Voi eravate, ieri, stanca.
Voi eravate ieri molto stanca,
oh tanto che vi caddero di mano
i fiori. Non è vero che di mano
vi caddero le rose, tanto stanca
eravate? Così vi vedo ancóra.
E fate che così vi veda ancóra,
un'altra volta, un'altra volta sola.”
-“Le rose…”-
-“Taci, razza di cretino!
Ino!”- sbraitò Kiba, il volto sporco di terra e polvere da sparo, le mani
affondate nella stoffa impregnata di sangue; la sua sagoma era illuminata solo
dal fuoco che si alzava dal camioncino in fiamme lì di fianco, punto caldo ed
infuocato in mezzo alla notte fredda e azzurrina.
-“…le…rose…”- sussurrò ancora
Sasuke, un rivolo di sangue dalla bocca lungo il mento.
-“Oddio Kiba!”- trasalì la voce
di Ino, ansimante, seguita dai richiami di Shikamaru.
-“Presto, è stato colpito al
petto…”- la pregò l’Inuzuka, indicandole la propria
mano che premeva contro il busto sanguinante dell’Uchiha.
-“Oh no… non ancora…”-
singhiozzò la Yamanaka, mentre si accingeva a medicare l’amico dalle condizioni
disperate.
-“…le rose… era stanca… lei
non…”- bisbigliò l’Uchiha, gli occhi rivolti alla
luminosa luna in cielo.
-“Sasuke, cos’è successo?”-
Era stata la voce di Hinata a parlare, timida e candida, proveniente
dalla porta.
Prontamente, con un calcio, Sasuke sbatté la pistola ai suoi piedi sotto
il letto, sperando che l’attenta Hinata non se ne fosse accorta.
-“Nulla, mi è caduta a terra la valigia”- spiegò lui nervosamente,
chiudendo il bagaglio appoggiato sul letto.
-“Speravo ti saresti trattenuto qualche giorno di più.”- sospirò la
ragazza, un velo di dispiacere nella voce.
-“Non posso. I nostri… i miei amici hanno bisogno di me al fronte.”-
asserì l’Uchiha, indossando velocemente la giacca.
-“Capisco…”- sforzò un sorriso Hinata, stringendosi al petto il mazzo di
rose bianche colte quella mattina appositamente per l’Uchiha.
Sasuke afferrò la valigia e, con sguardo freddo, si fermò davanti alla
ragazza, che rimaneva impalata sull’uscio.
-“Tu… le rose?”- domandò lui, senza razionalità, guardandola confuso.
-“Sasuke… io…”- ma non vennero le parole alla piccola Hinata. Non
vennero perché in effetti non sapeva cosa dirgli. Cosa poteva dirgli?
Svelto, agile, elegante, Sasuke si abbassò verso di lei, scoccandole un
leggero bacio a fior di labbra.
Hinata percepì le braccia cederle, la forza abbandonarla; i sensi erano
tutti rivolti a godere di quell’intensa sensazione nata da quel lieve ed
improvviso contatto.
Le rose caddero a terra con un lieve tonfo sordo, mentre Sasuke
interrompeva quel dolce e sfuggente bacio.
-“Le rose.”- la richiamò lui, indicandole con un cenno i fiori al suolo.
-“Ah sì. Le… rose.”- assentì lei, ancora stordita, scuotendo il capo e
piegandosi a raccoglierle.
Sasuke si appoggiò al muro, lasciando scivolare a terra la valigia. Con
ghigno compiaciuto, si soffermò a guardare la ragazza che, con il volto ancora
in fiamme, si era inginocchiata al suolo a raccogliere le rose, terribilmente
impacciata e graziosa, avvolta nel suo vestitino bianco.
-“Cosa ti succede?”- le domandò il ragazzo, con tono canzonatorio.
-“Nulla… sarà s-stata la… stanchezza.”- si giustificò Hinata, sempre più
imbarazzata.
-“Ah, certamente. Sarai stanca.”- ripeté lui, beffardo, raccogliendo la
valigia da terra.
-“Sasuke…”- sospirò lei, cercando di sollevarsi da terra.
-“No, ferma. Resta così. Sei perfetta.”- le disse seriamente l’Uchiha, guardandola per l’ultima nella sua graziosa
bellezza: le gote arrossate, il vestito candido, i lunghi capelli corvini, le
rose bianche sparse al suolo intorno a lei a coronarne la bellezza.
-“…come Naruto…”- sibilò una
voce bassa e confusa, forse quella di Shikamaru.
-“…lei era stanca…”- sussurrò
Sasuke, la luna che ormai si stava sfuocando davanti ai suoi occhi stanchi.
Un lamento straziante e lontano
gli ronzava nelle orecchie, il pianto angosciato di Ino, probabilmente.
Un caldo rovente si alternava
al freddo raggelante nel suo petto, mozzandogli il fiato, spaccandolo a metà.
-“Chi? Chi era stanca?
Sasuke?”- lo pregò Kiba, con tono fraterno.
-“…lei…”- sussurrò l’Uchiha, lanciando il suo ultimo sguardo al punto bianco
confuso che illuminava il cielo. La luna. Candida come lei. Chissà, forse la luna l’avrebbe avvisata del suo addio?
Sasuke chiuse gli occhi, mentre
il dolore di Ino e dei suoi compagni scoppiava in un sibilo lontano.
Avrebbe voluto poter
pronunciare il suo nome, almeno prima di morire.
Avrebbe voluto vederla ancora.
Una volta ancora.
Stanca, bella, candida,
circondata dalle rose.
Un’altra volta, un’altra volta
sola.
Il tramonto è una fiamma, e i marinai
cantano da le navi, e odora il mare.
Voi vedete: non è lo stesso mare
di ieri. Voi vedete: è un altro cielo.
Una lacrima scivolò lungo la
guancia pallida di Hinata, cadendo silenziosa sulla sabbia.
La ragazza stava rigida in
piedi sul bagnasciuga, fissando inorridita l’orizzonte davanti a sé.
Il tramonto davanti a lei
infuocava il mare, quello sconosciuto che ancora una volta si stagliava di
fronte a lei.
Perché, perché improvvisamente
il mare era tornato ad essere freddo e orribile?
Eppure, le barche di marinai
erano ancora allo stesso posto, il sole infuocava la superficie dell’acqua come
ogni sera – anzi, forse era anche più bello delle altre sere – e l’odore di
sale era pressoché identico, meno fastidioso del solito.
Ma lei lo vedeva chiaramente:
non era più lo stesso mare. Non era lo stesso mare di quando aveva lui accanto.
Sconvolta, agitata, Hinata si
voltò verso la villa, prendendo a correre disperatamente verso le scalette.
Inciampò, cadde, si sbucciò il
ginocchio, macchiandosi di sangue il candido vestito bianco; pianse, confusa e
stanca, battendo i pugni al suolo, disperata. E fu allora che, alzando lo
sguardo, una piccola macchia di pelo nera attirò la sua attenzione verso i
roseti.
-“Oh… no…”- singhiozzò Hinata, avvicinandosi
al piccolino gattino nero privo di vita che giaceva fra le rose bianche.
La Hyuuga
si portò entrambe le mani al volto, soffocando un urlo disperato, lasciandosi
andare all’indietro e sdraiandosi sul prato, sconvolta dal pianto.
Aprì gli occhi, guardando il
cielo scuro e sfuocato davanti a sé: la luna, mestamente, pareva annunciarle il
suo cordoglio, apparendo in un cielo che non era più quello di Hinata e Sasuke.
“Noi
saremo paghi
di qualche dolcezza
mite, noi
cercheremo una tristezza
riposata ed
eguale. Ed abbia i suoi
cieli velati Aprile,
come ieri,
i suoi mari
quieti, come ieri;
sì che
possiamo noi recar lungh'essi
i lidi, o
sotto gli alberi, sommessi
colloqui e
sogni e taciti pensieri…
Rimase sdraiata a lungo, divisa
fra il profumo di rosa e la sgradevole luce della luna.
Perse il conto del tempo e
delle ore.
Avrebbe dovuto fare qualcosa,
ma ora come ora, tutto ciò che desiderava fare era sparire, smettere di pensare
e di soffrire.
Perché era sola.
Né Naruto, né Sasuke al suo
fianco.
Nessuno.
Perché il suo Aprile non aveva
più lo stesso cielo ricolmo di serenità;
perché il suo mare non era più
attraversato da onde soavi e tranquille;
perché tutto ciò che amava era
svanito ieri, e il sentimento di dolce pacatezza che la teneva aggrappata alla
vita era morto, come il gattino nero fra i roseti.
Perché Naruto la aspettava
ancora sorridente fra le onde del mare, e Sasuke la osservava ancora
compiaciuto seduta in mezzo alle rose bianche, ma non lì, non in quel tempo; in
un tempo che se n’era andato e che non esisteva più.
-“Sas-…”-
si interruppe Hinata.
Avrebbe voluto pronunciare il
suo nome, ma ora come ora le pareva impossibile. Come pronunciare il nome di un
concetto troppo bello ed importante per essere espresso a parole.
Ma il suo ricordo, il ricordo
di ogni breve istante passato insieme viveva nella sua memoria, nitido e
attento.
Li percorse tutti quei ricordi,
uno ad uno.
Ma non giunse al finale. Non
giunse al bacio, né alle rose bianche.
Si fermò prima.
Si fermò ad un suo calcio veloce e deciso per buttare
qualcosa di argenteo e brillante sotto il letto.
Qualcosa di argenteo che aveva
visto una volta che lui se n’era
andato, quando, ancora inginocchiata a raccogliere le ultime rose, aveva
buttato uno sguardo sotto il letto.
E Hinata guardò ancora il cielo
e la luna, e la luna parlò.
E le raccontò di come sarebbe
andata nella camera degli ospiti, che profumava ancora di lui, e si sarebbe inginocchiata al suolo, guardando sotto il letto,
e avrebbe raccolto la pistola argentea che portava le sue iniziali.
E le raccontò di come sarebbe
tornata in spiaggia, si sarebbe seduta a guardare quel mare, e, sorridendo dei
bei ricordi legati a quel luogo, si sarebbe portata la pistola alla tempia.
E le raccontò di Naruto e
Sasuke che l’attendevano, sorridenti, porgendole la mano, sulla spiaggia, su
quella bella spiaggia, i piedi
immersi nel loro bel mare, insieme
per sempre sotto quel bel cielo di un
eterno Aprile velato di nuvole.
E le raccomandò di guardare
Sasuke negli occhi, sorridergli, ma di non chiamarlo per nome. Perché il loro
tempo, non sarebbe mai venuto.
…- o voi dal
dolce nome che io non chiamo! -
perché voi
non mi amate ed io non vi amo.”
Da “La
Passeggiata”
Gabriele
D’Annunzio
*Angolo di Luly*
Sì,
ehm… beh, ecco una SasuHina. Cioè, più o meno…
diciamo che alla fine è venuta fuori NaruHinaSasu,
però fa niente. ù_ù
Non mi
reputo una Black Cat,
perché shippo con ardore con NaruHina
e SasuSaku, però la Ellie
è tanto cara [e convincente c’è da dire], che mi ha ispirata una SasuHina. Quindi gliela dedico tuttaH
a lei [e a quelle due mentecatte della Mimi e della Lee ù_ù].
In
realtà mi è venuta in mente alle 6 di mattina facendo colazione [e si vede ù_ù]. Poi ho letto questa poesia di D’Annunzio e… beh, ecco
a voi il disastro. <3
Ne
approfitto per augurare un buon SasuHina’s Day a tutte le Gattine Nere!
Un
bacione,
Sakurina
dicasi Luly