ESSERE NEL VENTIDUE
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«Ho
i biglietti per Osaka»,
si annunciò Daisuke, infilandosi a sedere di fronte a lui. Per la fretta con cui si tuffò sulla seggiola,
picchiò il piede contro una gamba del tavolo e rischiò di causare un
catastrofico terremoto tra quel che Masa stava mangiando. In Giappone c’erano
già troppe scosse sismiche, e Daisuke Ido era fra quelle. «Tra due settimane si
levano le tende. Prenotare con anticipo è stata la scelta migliore. Tanto tu
finisci tra quindici giorni, qui, no? Mi stai ascoltando?»
Masa
non stava mangiando nel vero senso della parola. In risposta a quella domanda,
sventagliò distrattamente le bacchette e non scollò lo sguardo da una direzione
non ben definita, neanche stesse spiando i movimenti di un pugno di possibili furfanti
all’opera. Messo a quel modo, i gomiti puntellati sul tavolo e le pupille a far
capolino da sotto i sottili ciuffi neri dei capelli, sembrava un soldato
vietnamita immerso in una palude e intento a farsi passare per un coccodrillo. «Lo stanno facendo
ancora», mormorò. «Le stanno portando via.»
Daisuke,
che ascoltava quella storia praticamente dal giorno in cui avevano entrambi
cominciato a lavorare per l’azienda di Matsumoto, ruotò gli occhi verso il
soffitto e si sistemò il proprio vassoio sotto al naso. «Sei paranoico,
Ikeshima.»
Ad
onor del vero si chiamavano per nome la gran parte delle volte. Il cognome, per
loro che erano cresciuti praticamente assieme, era solo un modo per esprimere
un profondo quanto ironico sarcasmo. Per una serie di coincidenze si erano ritrovati
a firmare un piccolo contratto per lo stesso uomo, che aveva assunto giovani con
lo stesso atteggiamento del Papa che chiama a raccolta le pecorelle smarrite.
Masa non aveva ancora realizzato come fosse stato possibile, soprattutto perché
aveva impietosamente abbandonato il biglietto da visita di Okawa sul seggiolino
di quella supposta su rotaie. Pochi giorni prima del termine dell’anno
scolastico, quando era stato sul punto di scordarsi del tutto di quello scambio
di parole, sua madre aveva però scovato lo stesso annuncio sul giornale e lo
aveva convinto – o costretto, dipendeva dai punti di vista – a provare quella
piccola esperienza di lavoro che gli avrebbe portato via solo tre delle sei
settimane di vacanza.
La
vera sorpresa era stato scoprire che Matsumoto, il dirigente di cui non
conosceva nemmeno il volto, aveva assunto un numero spropositato di altri
studenti e persino qualche disoccupato oltre la trentina; il dettaglio
inusuale, quello di cui solo Masa sembrava essersi reso conto, era il modo in
cui erano organizzate le giornate di lavoro. Ognuno, al momento
dell’assunzione, aveva avuto in regalo una ventiquattrore. La sua era bella,
lucida e professionale, con il problema che non la usava. Era forse
paradossale, ma era così; non poteva aprirla, dal momento che serviva una
chiave che solo il capo del settore possedeva. Ed era così per tutte le altre.
Sul contratto, in uno specchietto a parte, stava scritto che “Ai dipendenti più meritevoli verrà
consegnata la propria chiave! All’interno, premio per lo sforzo del buon
lavoratore!”; era una bella iniziativa, eppure restava un mistero il perché
dovessero portarsele sempre dietro. A voler essere sinceri, quelle valigette
sembravano più dei decori che strumenti di lavoro veri e propri.
Alcuni
operai le raccoglievano durante la pausa pranzo e prima delle diciassette, orario
di chiusura, salvo poi riconsegnarle ai rispettivi proprietari. Se
l’immaginazione gliel’avesse permesso, e lui non ne aveva a sufficienza per
concedersi questo lusso, Daisuke avrebbe detto che la sensazione era quella di
assistere alla raccolta della biancheria da lavare e da rimettere poi a posto.
Tra i due, l’unico in grado di partorire un pensiero tanto surreale era Masa.
«Avranno le loro ragioni», disse Daisuke,
stringendosi nelle spalle. Aveva gettato uno sguardo verso le due porte
socchiuse della mensa, oltre le quali l’amico aveva visto passare in fretta i
carrelli colmi di valigette. «Forse è per evitare che qualcuno le rubi mentre
tutti sono assenti.»
L’altro fece silenzio per qualche istante.
Poi, nel tono meditabondo di chi si ritrova ai piedi del pero quando prima ci
era sopra: «Non ci avevo mai pensato.»
«È perché ti complichi
sempre la vita. Lascia perdere i meccanismi; in fondo l’importante è che
l’oggetto funzioni.»
L’oggetto,
ovvero l’azienda, funzionava bene. Non che avessero pienamente idea di che cosa
si occupasse – qualcuno optava per la finanza, altri per la produzione di parti
meccaniche -, ma gli orari erano buoni, la paga anche, l’ambiente organizzato. Il
loro unico compito era fare qualche calcolo, ricopiare qualche dato al
computer, controllare che le fotocopie colme di numeri fossero impeccabili. Andava
tutto alla grande.
«C’è un’altra cosa che
mi sorprende.» Masa tornò a
rovistare nel vassoio con le bacchette, ma questa volta stava sorridendo.
«Cosa?»
«Il fatto che non ti
abbiano detto niente per i capelli.»
Daisuke,
che aveva atteso la risposta con tanto d’occhi, buttò uno sbuffo e allungò un
pugno sopra al tavolo, beccando con entusiasmo la spalla dell’altro. «Sei un cretino. È tutta
invidia.»
«No, sul serio.»
«Mi hanno detto che mi
darò una regolata io, con il tempo. E ciò vuol dire che è invidia anche la loro.»
Masa
non trovava nulla di eccezionale in quel suo orgoglioso senso di appartenenza
alla moda hosuto1. Sancì la
chiusura del sipario con una scrollata di capo e un sorrisetto che gli disegnò
due fossette nelle guance. Erano
anni che Daisuke viveva a quel modo, esibendo un costoso vestiario che poteva
permettersi solo perché suo padre era un banchiere di quelli con la B
maiuscola. Non frequentava l’università e si accontentava di girare in branco
con altri suoi amici, facendo attenzione che i polsini delle giacche fossero a
posto e le etichette ben in vista. I suoi capelli erano uno spruzzo nucleare in
un parco acquatico. Letteralmente. Uno come lui sarebbe forse stato meglio a
Ginza, dove girare con capi alla moda non era un optional.
«L’unica cosa che ti invidio è il senso
dell’umorismo», confidò Masa, riguardando la sua prima intenzione di non
aggiungere più nulla. «Per il resto, non ci terrei ad andarmene in giro con un
riccio sciolto in testa.»
Daisuke strinse le labbra per costringersi a
non ridere. Alcuni dipendenti accomodati lì vicino avevano origliato abbastanza
da girare su di loro sguardi tra ammonizione e perplessità. «Mangia,
Ikeshima, altrimenti un riccio te lo infilo nelle mutande stanotte.»
* * *
La
nonna di Masa sfornava i migliori dorayaki
2 del mondo. Almeno era quello che dicevano tutti, e almeno era
quel che lei faceva quando ancora era in vita. Dal momento che erano tre anni
che riposava in pace, era naturale dubitare che continuasse a impastare e
infarcire. Forse, e l’idea non era niente male, metteva insieme qualche nuvola
e li preparava lo stesso.
La
vera fortuna era che questa brava donna spirata a ottantadue anni suonati aveva
lasciato questo suo passatempo in eredità alla figlia. Midori, che da lei si
era presa anche il piccolo neo sul collo e le dita un po’ corte, aveva imparato
a preparare quei dolci proprio seguendo la sua stessa ricetta. Di contro, Masa
aveva sì il neo e le dita poco eleganti, ma non si era scoperto ugualmente
portato nell’arte della pasticceria. Così lasciava che a prepararli fosse lei,
salvo poi mangiarli quasi tutti lui. Un buon ragionamento.
Aveva
trascorso l’infanzia e la prima adolescenza coi dorayaki della nonna, per poi imboccare la strada verso la maturità
con quelli della madre. Si sentiva quasi un eroe antico, uno di quelli
consapevoli di essere l’ultimo a poter gioire di un gran vanto di famiglia.
Aveva ottime ragioni di credere che i suoi nipoti non avrebbero avuto
l’opportunità di assaporare quella prelibatezza fatta in casa, per cui si
godeva il momento con l’orgoglio di un titano prossimo alla caduta. Era una
bella sensazione e lo faceva sentire importante, sempre che ci si potesse
considerare tale quando l’eredità di cui si va tanto fieri è un simpatico
dolcetto di forma circolare.
Ricordava
con morbosa chiarezza la passione con cui li mangiava da bambino, il gesto quasi
rispettoso con cui prendeva il primo pezzo e la serenità con cui pensava che
era un po’ come scaricare la vescica dopo ore di silenzioso supplizio. La
dolcezza di quei bocconi gli dava un sollievo quasi fisico, e le cose non erano
cambiate nemmeno ora che aveva superato di poco i vent’anni. In passato era
stato più corto, non avvertiva il fastidioso prurito della barba che minacciava
di ricrescere, ma per il resto non era cambiato quasi nulla; sul futon, in un giaciglio
di coperte, rivista o libro aperto sulle gambe, piatto di dorayaki lì accanto, per terra.
Stava
per portesene uno alla bocca, concentrato come solo lui sapeva fare quando si
trattava di mangiare e leggere in contemporanea, quando il cellulare si mosse.
L’apparecchio fece un salto e, colpa della vibrazione, prese a girare su se
stesso come una trottola. Chiamata. Masa, che a causa del silenzio accolse quel
rumore un po’ come si accoglierebbe un bombardamento aereo, ebbe un sobbalzo
più simile ad una scarica di elettroshock. Solo in un secondo momento fu in
grado di allungare la mano libera per acciuffare quell’aggeggio infernale e
dare un occhio al nome di chi gli aveva fatto rischiare l’infarto.
«Nao, quando saremo a Osaka, ricordami di
svegliarti facendoti scoppiare un palloncino in faccia», rispose quando si
portò il telefono all’orecchio.
«Non dirmi che stavi dormendo. Sono le otto di
sera.»
«No, me ne sto seduto sul letto. Che è la
stessa cosa.» Non scherzava. Era uno studente brillante, ma abbastanza
distratto da confondere le due cose. «Daisuke ti ha dato il biglietto? Li ha
comprati lui per tutti.»
«Sì, ma non è di questo che voglio parlarti. Accendi
la tv. Hai la tv in camera, no?»
Masa si era già tuffato di lato per acciuffare
il telecomando. Si era sistemato il cellulare fra spalla e orecchio e stava
sorridendo senza sconti. In qualche modo, destreggiandosi in un comico gioco di
equilibrismo per non far cadere il libro che reggeva sulle gambe o restare
imbrigliato nelle coperte, recuperò quel che cercava. «Ho tutto quello che
vuoi, Fuyutsuki. È che in camera di norma faccio altro.»
«Non fare lo spiritoso.» Dalla voce era facile
capire che cercava di non ridere. Sapeva della tv e sapeva che in camera si
poteva fare di meglio che accenderla. Non per nulla era la sua ragazza da ormai
due anni. «Prendi il telecomando e metti sul Ventidue.»
Il televisore era un piccolo gioiellino
firmato Samsung. Se ne stava in un angolino della stanza, per di più ignorato e
ricoperto da un perenne strato di polvere. Se era in funzione, il comando audio muto lo zittiva. Masa non poté biasimarlo quando si accese con un
ronzio indispettito.
«Guarda che non scherzo», diceva nel frattempo,
gli occhi abbassati a digitare il numero. C’era qualcosa di innaturale nella
postura in cui si trovava, seduto tra le coperte con un dorayaki nella sinistra, il telecomando nella destra e il cellulare
schiacciato in un bacio tra spalla e orecchio. Wow, degno di un supereroe, o di
un contorsionista thailandese. «Questa storia del divorzio dei tuoi è un
bell’impaccio. Quand’è che passi a trovarmi?»
«Appena posso. Lo sai, voglio stare vicina a
mamma e papà. Sei sul Ventidue?»
«Sì, ma non vorrei essere nel Ventidue, se capisci cosa intendo. Cos’è quel gregge di gente?
Soffocherei.»
«Vorrai dire chi è. È il tuo capo, testa di cocco. Matsumoto, quello
dell’azienda.»
L’immagine imbottigliava in un unico spazio un
gran numero di persone. Era un interno, probabilmente un grattacielo, a
giudicare dalla finestra che si intravedeva e che testimoniava una certa
altezza da terra. Tutti quanti erano disposti davanti ad un corridoio grigio,
che filava in lontananza e suggeriva la presenza di parecchie porte, quasi per
certo uffici nuovi di zecca. Uomini e donne in giacca e cravatta osservavano
l’inviato, al centro, che sorrideva con la bocca forse troppo vicina al
microfono. È alle prime armi, pensò
Masa. E poi, senza un nesso logico: è un’emittente
piccola, di quelle di classe C. C come Cicca. Ovvio che non conosco chi ci
lavora. Un sacco di mosche indistinte. Accanto a Senza Esperienza c’era un
uomo un po’ più alto degli altri, dai radi capelli scuri e dalle sopracciglia
folte. Teneva le mani dietro la schiena e i suoi occhi erano tanto neri da
sembrare senza pupille, luminosi come la promessa di Mosè.
«È lui?» domandò Masa. «Il tizio impagliato?»
«Hai davvero un gran rispetto per il tuo capo.»
«L’era del Bushido
3 è passata da un pezzo. Stanno davvero inventando altri posti
qui in città?»
«A quanto pare sta dando lavoro a un sacco di
gente. Gente come lui serve, di questi tempi.»
Senza Esperienza presentava l’iniziativa con
molto entusiasmo. Matsumoto aveva acquistato tre piani di quel grattacielo e
voleva riaprirli come uffici. Quanto a lui, non era intenzionato ad
interrompere il gran discorso dell’inviato e si limitava ad annuire e a
scambiare qualche sorriso con qualcuno dei colleghi. Davanti a loro ma distante
un bel po’ di chilometri, Masa prese un morso dal dorayaki e cominciò a masticare lentamente, seguendo il filo del
discorso. Era chinato in avanti in un modo un poco inquietante, ma non c’era
nessuno a farglielo notare.
«Nao, ma tu sai da dov’è balzato fuori?»
«Chi? Cosa?»
«Matsumoto.»
«Da un uomo e da una donna che si vogliono tanto
bene. Che razza di domanda è?»
«Non intendevo quello.» Masa mandò giù il
boccone senza perdersi il momento in cui Senza Esperienza consegnò un paio di
forbici al grande capo. Poco più indietro, un nastro giallo chiudeva il
corridoio. «Deve averne, di soldi, per assumere e comprare.»
«Proverrà da una qualche famiglia facoltosa. Non
tutti i ricchi del mondo hanno il loro nome e cognome nella Hall of Fame. Ci
sono molti imprenditori che si fanno strada dal nulla; magari i suoi nonni
erano contadini.»
«Forse», convenne lui. Si concesse l’ultimo
pezzo di dolce e si pulì la mano sulle coperte.
«Ti trovi bene?»
«Non mi lamento. È bello avere qualche
risparmio per me. Non dovrò chiedere denaro ai miei quando partiremo per Osaka.»
«Pensavo la stessa cosa. Avevo una mezza idea
di fare domanda; manca ancora un po’ prima della partenza.»
Da suo collega alla Ohu, Masa non trovò nulla
da dirle in contrario. Si strinse nelle spalle e riacciuffò il cellulare,
sgranchendosi il collo. «Sarebbe bello. C’è un sacco di gente che conosco che
lavora per Matsumoto.»
«È vero che regalano a ciascuno una borsa?»
«Una valigetta.
Ventiquattrore. Niente di troppo lussuoso o femminile.»
«Ma è una bella cosa. Mi dà l’idea di
un’azienda responsabile e affettuosa. Penso proverò a farmi assumere.»
Amorevole come fresco dopobarba, rifletté lui, ma non lo disse. Quello che invece fece fu
sorridere, un sorriso decisamente da idiota, e uscirsene in un tono da
lapidario giornalista con un: «Koriyama: la città-dipendente.»
Lei rise. Fu un suono fragrante, anche se
velato dal fruscio della linea telefonica. Rise su una battuta su cui solo
qualche giorno più tardi non avrebbe riso più.
* * *
Il
quartiere più a nord dipese per primo. La minoranza che ancora non era stata
assunta o non aveva scelto di lasciare il proprio lavoro per abbracciare il solo un giorno, ogni giorno lo fece in
un secondo momento. Alcuni firmarono contratti di poche settimane, altri di un
intero anno. Era persino possibile lavorare per sole ventiquattr’ore, salvo poi
lasciare la scrivania ad un nuovo collega.
Leggevano
gli annunci sui giornali, su Internet, sui cartelloni, e proseguivano per un
periodo con le loro vite di sempre. Poi, chi presto e chi tardi, si svegliavano
la mattina e decidevano di fare domanda. Negli esercizi commerciali esistenti
da tempo rimase solo un minimo numero di dipendenti; il resto ebbe in regalo la
bella e lucente valigetta scura.
Più
a est, dove molti spazi erano in vendita, vennero aperti altri uffici. Un buon
numero di palazzi finirono con l’essere interamente acquistati dalla società di
Matsumoto. In una città già presa d’assalto dal vorticoso giro di affari della
prefettura, uomini e donne con anonimi completi neri cominciarono ad affollare
la stazione, la metropolitana, le strade. Divennero sciami.
Prese
a lavorare anche Nao. Sei giorni dopo l’assunzione, un mercoledì, quando Masa si
fece consegnare la propria ventiquattrore come ogni mattina, la trovò più
pesante del solito. Pensò che fosse stanchezza. Il giovedì sembrava che
qualcuno ci avesse sistemato dentro un piccolo peso di piombo.
Daisuke mi ha dato del paranoico, pensò. Comincio a credere che abbia ragione.
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1 La moda
hosuto prevede abiti di marca e
capelli voluminosi dai tagli fantasiosi e appariscenti.
2 I dorayaki sono dei tipici dolci
giapponesi: due pancake riempiti, di norma, con una salsa di fagioli. Ne
esistono innumerevoli varianti, tra cui quelli farciti con marmellata o varie
creme.
3 Può
essere identificato come il corrispettivo della nostra cavalleria europea. Seguita dai samurai, è una condotta morale e di
vita improntata sul rispetto per gli altri, per i superiori e anche per il nemico.
B T W _ Su questo sito ho un sacco di gente che mi vuole bene. Nel senso, è che vorrei finire di pubblicare prima della scadenza del Contest, aka 2 giugno, sia per una fissa mia (?), sia per, come dire, correttezza. Non so spiegarmi, non sono mai capace di farlo, quindi prestate pazienza anche per questo x'
Sostanzialmente, spero mi vogliate bene anche se corro con gli aggiornamenti. Chu (?) <3
Dew_ <3