Anime & Manga > Kuroko no Basket
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Autore: Agapanto Blu    24/05/2015    5 recensioni
Partecipante al Contest "Progetto Ripopola Fandom - Seconda Edizione" indetto da __Bad Apple__ sul Forum EFP.
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Parings: AKAKURO - MayuMibu - MidoTaka - AoKise - AlexMomo.
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Dal prologo: Che cosa doveva fare?! Una parte di lui voleva chiamare Akashi e dirgli tutto, ma la sua mente gli urlava che in quella storia Seijuro non aveva proprio colpa. Era solo lui che aveva deciso di tenergli segreto quel piccolo particolare della sua vita quando si erano messi insieme per la prima volta alle medie, e poi di non dirglielo nemmeno alle superiori nonostante fossero una coppia ormai da due anni; il rosso non meritava di essere tirato in mezzo per la sua sola stupidità.
“Kami-sama, ti prego…” scivolò fuori dalle sue labbra prima che potesse fermarsi, “Ti prego…!”

***
Dal primo capitolo: Kuroko pianse ininterrottamente per i successivi tre giorni, con le mani saldamente strette al suo ventre lievemente arrotondato, ma non venne meno alla sua decisione.
Akashi non richiamò.

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ATTENZIONE: M-PREG! e Transgender!Character. Non piace, non leggete. v.v
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai, Yaoi | Personaggi: Nuovo personaggio, Seijuro Akashi, Tetsuya Kuroko, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Gender Bender, Mpreg
Capitoli:
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Sei pronto?
 
- CAPITOLO I
 
“Sei pronto?”
La voce sottile di Sakura stonò nel silenzio assoluto del rifugio vuoto. Kuroko prese un respiro profondo, si aggiustò la tracolla del borsone da viaggio sulla spalla e prese di nuovo un respiro profondo. Vagò con gli occhi sulla camera, ma senza vederla veramente, quindi si passò piano una mano sul ventre, senza notare quanto questa stesse tremando.
Alla fine, si voltò verso sua madre, sulla porta, e con un nodo in gola annuì, senza voce per rispondere a parole.
 
Per ragioni mediche, a poche settimane dalla fine del suo terzo anno di scuole superiori, Kuroko Tetsuya dovette abbandonare il ritiro congiunto della sua squadra di basket e di quella del Liceo Rakuzan per rientrare a Tokyo. Quattro giorni dopo, comunque, al ritorno degli altri ragazzi, era alla fermata dell’autobus per accoglierli al loro ritorno.
Sul suo viso, era calata di nuovo la sua maschera più spessa e impenetrabile.
 
Tetsuya, non so…
“Andrà tutto bene, Sei-kun, ti prego, non preoccuparti.” Kuroko scosse la testa, pur sapendo che il suo fidanzato non poteva vederlo.
La stanza attorno a lui non era né grande né piccola, con pareti di un bianco acceso e pavimenti di parquet scuro. La maglietta nera e bianca, con il numero undici in rosso luminoso, penzolava pigra da mollemente appesa all’angolo alto dell’alto dell’anta dell’armadio di legno e guardava in religioso silenzio al futon sfatto che le stava di fronte. Era mezzogiorno, ma Kuroko non si alzava da tre giorni; si rigirava tra le lenzuola, ora fissando la parete e ora il cielo oltre la finestra verso cui puntavano i suoi piedi, inseguendo fila e fila di pensieri senza capo né coda, incapace di dare loro un senso o quantomeno uno scopo. Aveva fatto correre i polpastrelli sulla superficie del cuscino immaginando fosse il viso di Akashi, aveva pianto contro la fodera fingendola il petto ampio e accogliente del fidanzato, ma ora che poteva parlare con il vero Seijuro invece che con un guanciale silenzioso non faceva altro che mentire.
Non si tratta di preoccuparsi o meno, Tetsuya.” ribatté immediatamente il rosso, testardo come sempre, “Non mi piace l’idea di lasciarti da solo in questo momento. Forse dovrei davvero posticipare la partenza: anche se perdo le prime lezioni, non è nulla che non possa recuperare studiando per conto mio e…
“Sei-kun, per favore, non dire sciocchezze.” Gli occhi azzurri di Kuroko scivolarono oltre il vetro per specchiarsi nel cielo stesso, “Mia madre si riprenderà in fretta, i dottori dicono che è stato solo un caso di anemia e che con un po’ di tempo e cure si rimetterà completamente. Non ha senso che tu rimandi la partenza e perda i primi giorni di college solo per colpa mia.”
Se la madre del mio ragazzo sta male, è mio dovere stare accanto a lui, Tetsuya.
“E se il mio ragazzo vuole fare una sciocchezza, è mio dovere impedirglielo, Seijuro.” Kuroko sospirò, suo malgrado intenerito dalla gentile protezione che Akashi gli dispensava continuamente, ma poi riprese a giocare con il bordo della coperta su cui si era sforzato di mettersi quantomeno a sedere e tornò al cellulare che teneva all’orecchio, “Sei-kun, ascolta, ormai sei in aeroporto e il tuo volo parte fra trenta minuti, non puoi tirarti indietro adesso. Vai, davvero, io starò bene.”
Il sospiro di Akashi, al di là della cornetta, gli fece alzare gli occhi al cielo.
D’accordo, ma promettimi che mi raggiungerai presto.
Kuroko deglutì, ma a fatica.
“Ti prometto” I suoi occhi si alzarono e incrociarono quelli silenziosi e gentili di sua madre, affacciata sulla porta della sua camera, “che verrò a New York appena potrò.” Non disse che questo non sarebbe mai accaduto.
Questo è il mio ragazzo.” mormorò Seijuro e Tetsuya poteva immaginarselo sorridere, coi capelli rossi illuminati dalla luce del sole che attraversava le vetrate dell’aeroporto, bellissimo mentre osservava la pista d’atterraggio come la possedesse, con il giacchetto di pelle nera stile motociclista che lui stesso gli aveva regalato per il suo diciassettesimo compleanno e con gli occhi scarlatti scintillanti e tentatori, “Non prenderla nel senso sbagliato, non voglio metterti fretta nel lasciare tua madre, ma non vedo l’ora di poter andare a vivere insieme. Sono certo che sarai una mogliettina fantastica…
“Sei-kun!” Kuroko rimproverò, ma debolmente. Qualcosa gli si era incastrato nella gola alla prima risposta evasiva data al suo ragazzo e si stava gonfiando sempre più ad ogni menzione di quel futuro attentamente programmato e aspettato così tanto ma che era ormai fuori portata, anche se Akashi non lo sapeva ancora, “Va’, ormai sarà quasi ora dell’imbarco.”
Sì, in effetti hanno già chiamato una volta, sarà meglio che vada. Ti telefono appena atterriamo.
“Sì, per favore, non farmi preoccupare.” Non avrebbe potuto sopportare anche quello.
Promesso. Ti amo, Tetsuya.
E Kuroko chiuse gli occhi, allentò la pressione dei singhiozzi lasciando scivolare lacrime silenziose lungo le proprie guance e lentamente, d’istinto, portò la mano sinistra ad accarezzarsi il ventre piatto.
“Ti amo anche io, Seijuro.” mormorò.
Dentro di sé, dentro il suo corpo, però, c’era ormai qualcuno che amava ancora di più.
 
Una telefonata al giorno non era molto, ma con la madre di Kuroko che continuava a stare male Akashi era determinato a non far pesare affatto al fidanzato quella lontananza forzata. Così stette zitto e accettò, come un umile postulante, quell’acqua che Tetsuya lasciava cadere nelle sue mani.
 
L’acqua divenne sempre più poca, sempre più lenta, sempre più sottile. Divenne un filo, poi gocce, poi una singola goccia così rara da far sentire Seijuro come un assetato nel bel mezzo del deserto.
Infine, arrivò la siccità.
 
…Tetsuya, temo di aver capito male.
“Hai capito perfettamente. Ti prego, non rendere tutto questo ancora più difficile.”
No, aspetta. Non voglio parlare di questo al telefono. Prendo il primo aereo per il Giappone e quando sarò lì…
“Non voglio che torni qui. Hai il college da portare avanti, sei a metà semestre, sarebbe una follia lasciare adesso.”
Cosa cazzo pensi che me ne freghi del college, Tetsuya?!” Kuroko non sobbalzò, anche se era in assoluto la prima volta che sentiva Akashi urlargli contro, per di più con parole tanto volgari. “Tetsuya, perdonami, scusa… È che…non… Tetsuya, tu non puoi voler davvero rompere con me, giusto? Dopo tutto quello che è successo e che c’è stato, dopo cinque anni insieme non riesco a credere che tu abbia cambiato idea così, in soli tre mesi.
“Mi dispiace.” Erano le sole due parole oneste che Tetsuya avesse detto dall’inizio di quella discussione e lui sorrise amaramente pensando a come si sarebbero perse nel caos di menzogne molto più grandi e dolorose. “Non avrei voluto che succedesse, ma mi sono davvero innamorato della ragazza che era in ospedale con mia madre. Non so spiegartelo, è successo all’improvviso. So che avevamo fatto dei piani e tutto il resto, ma…non voglio più farlo.” Perché lui mentiva ma tutte quelle bugie lo ferivano forse più di quanto non ferissero Seijuro stesso? Kuroko chiuse gli occhi e pensò a tutte le cose che avrebbe desiderato con tutto il cuore poter fare. Poi vi aggiunse una negazione. “Non voglio venire a New York, non voglio venire a vivere con te e non voglio continuare a stare con te. Perdonami, non era mia intenzione ferirti, ma non posso farci nulla.”
Tetsuya…
Per favore.” E Kuroko sapeva che la supplica in quelle due parole era troppo forte perché Seijuro la ignorasse, troppo disperata perché insistesse, troppo vera perché semplicemente non lo lasciasse andare come gli stava chiedendo di fare.
Il silenzio che seguì fu pesante e violento, come quello che segue uno schiaffo in pieno volto, ma Tetsuya non avrebbe saputo dire chi fosse la vittima e chi il carnefice. Alla fine, forse, erano entrambi la prima e non c’era un secondo.
Tetsuya…
“Sayonara,” mormorò, prima di riagganciare, “Akashi-kun.
 
Kuroko pianse ininterrottamente per i successivi tre giorni, con le mani saldamente strette al suo ventre lievemente arrotondato, ma non venne meno alla sua decisione.
Akashi non richiamò.
 
Tetsuya detestava le nausee. Detestava sentire l’acido bruciarlo da dentro, il gusto rovente in fondo alla sua gola, la sensazione di impotenza del suo corpo che si contorceva in spasmi che lui non aveva la forza di trattenere. Le detestava perché si sentiva debole e fragile; perché erano già dieci notti che non riusciva a dormire bene, perché era stanco e perché non riusciva a smettere di piangere, nemmeno quando iniziava senza alcun motivo. Nella sua mente, le malediceva in ginocchio sulle piastrelle bianche di ceramica del bagno, con la testa ciondolante sopra il sanitario e tutto il corpo che tremava e sobbalzava e cercava di resistere seppur allo stremo.
Allora, però, suo padre gli faceva portare delicatamente le mani al ventre rigonfio, gliele teneva lì e gli baciava la fronte assicurandogli che sarebbe andato tutto bene e all’improvviso lui non era più né debole, né stanco, né sporco.
Chiudendo gli occhi, poteva vedere il punto di luce dentro di sé crescere, lentamente ma inesorabilmente, e il suo corpo si scopriva ancora più inerme che per il vomito di fronte al sorriso che prepotente gli sollevava gli angoli della bocca. Tutto d’un tratto, Tetsuya sapeva di potercela fare.
La mattina dopo sarebbe stato di nuovo nello stesso stato, ma finché suo padre fosse stato lì per portargli le mani al grembo sarebbe andato tutto bene.
 
Akashi ci mise altri tre mesi per iniziare a cercare un coinquilino con cui dividere la casa che aveva comprato per sé e per Kuroko.
Era un appartamento abbastanza piccolo per due persone, con una cucina, un salotto e due camere da letto perché lui e Tetsuya avevano pensato di usare la seconda per accogliere gli amici che avessero fatto visita loro dal Giappone. Era un appartamento troppo grande per un ragazzo solo.
A rispondere all’annuncio fu un altro nippo-americano dai capelli neri e dal sorriso ampio, simpatico e gentile e consapevole della sua cultura madre a sufficienza per evitare contatti troppo esagerati con Seijuro e per dimostrargli un’educazione in cui il rosso aveva smesso di sperare, dal suo arrivo negli States. Era probabilmente il miglior candidato che potesse trovare.
“Koji-kun, mi dispiace. L’agenzia ha appena chiamato dicendo che hanno già fatto firmare il contratto ad un altro ragazzo; io non lo sapevo. Scusa ancora.”
Koji non se la prese. Con il sorriso ancora sulle labbra, uscì dalla casa salutando Seijuro con un inchino cui Akashi rispose sentendosi solo vagamente in colpa per la bugia appena detta.
Un mese dopo, il rosso vendette la casa e si trasferì nel dormitorio del college. Camera singola.
 
“Sembra tu abbia una palla da basket infilata sotto la maglietta.”
Momoi fu la prima a colpire la nuca di Aomine quando questi spezzò il pesante silenzio che era calato nel salotto di casa Kuroko, ma Midorima la seguì di poco.
Il blu era seduto per terra, tra la rosa e il verde, e di fronte a loro, oltre un basso tavolino, stava il corpo effettivamente sformato di Tetsuya. Kagami era seduto a destra dell’azzurro, tra Kise e Murasakibara, mentre alla sinistra stavano Takao, Kiyoshi e Hyuuga. Himuro era in piedi appoggiato al muro dietro Aomine e accanto a lui stava Mitobe, ma la più vicina in assoluto era Aida Riko. La coach era stata l’unica – dopo aver guidato quella piccola mal assortita combriccola fino a casa Kuroko per scoprire che fine avesse fatto il loro amico – ad aver avuto il coraggio di sedersi accanto al fantasma dopo aver appurato la sua palese condizione.
Tetsuya fece scivolare piano le dita sulla superficie tesa del ventre, coperto dall’enorme maglione blu sformato che era stato di suo padre e che a lui arrivava sino a metà coscia, e intanto annuì.
“Ma i palloni da basket non scalciano, Aomine-kun.” replicò apaticamente.
Riko e Momoi accennarono una risatina, ma Sakura interruppe la discussione portando tè per tutti gli ospiti. Solo quando la donna fu svanita in cucina, Midorima si decise a chiedere, a bassa voce, mentre si aggiustava gli occhiali sul naso.
“È di Akashi?”
Kuroko stava iniziando a chiedersi quando la domanda sarebbe arrivata, ma immaginò che ‘com’è possibile che tu sia incinto?!’ fosse una questione un po’ più pressante.
“Lui non lo sa.” disse immediatamente, serissimo nell’incrociare le iridi smeraldine dell’ex compagno di squadra, “E non dovrà saperlo mai.”
“Che cosa?!” L’esclamazione di Kagami fu messa a tacere da una gomitata allo stomaco direttamente da Kise, ma anche Takao non riuscì a trattenersi, pur rimanendo più calmo del rosso.
“Tecchan, ma ne sei sicuro?!” domandò, scioccato. Loro malgrado, la differenza e la stima reciproca avevano avvicinato lui e il fantasma nei tre anni di scuola superiore appena passati, “Se è suo figlio, allora forse dovresti…”
“Akashi-kun ha una vita perfetta ed una brillante carriera che lo aspettano.” Kuroko mormorò, abbassando la testa, “L’ultima cosa che merita è che io gli rovini tutto.” Momoi tentò di intervenire, ma Tetsuya la precedette. “Non ha nemmeno diciotto anni. Suo padre lo ammazzerebbe, se lo venisse a sapere.”
Ci fu un silenzio teso alla menzione di Akashi Seito, l’uomo che tutti ricordavano di aver visto alla cerimonia di chiusura della Winter Cup del primo anno di superiori, quando aveva schiaffeggiato il figlio davanti a tutti per essere arrivato solo secondo.
“Neh, Kuro-chin, ma allora cosa farai, tu?”
Kuroko sollevò la testa in direzione di Murasakibara senza un minimo di esitazione.
“Terrò il bambino.” rispose, “Da solo.”
Ancora non sapeva quanto poco solo gli sarebbe stato permesso essere da lì in poi.
 
Akashi era il migliore del college intero. Superava di gran lunga tutti per voti e molti dei senpai più anziani avrebbero venduto l’anima per avere la sua intelligenza; il coach della squadra di basket lo supplicava a settimane alterne di unirsi a loro, ma lui rifiutava puntualmente.
Si alzava, studiava e andava a letto intermezzando quelle tre azioni con pasti minimi e ormai privi di alcun gusto, per lui. Nessuno lo vide mai fare qualcosa di più.
Era come un corpo vuoto che andasse avanti solo per inerzia.
 
Passò un mese ancora e Kuroko iniziò a fare il conto alla rovescia di quei trenta giorni che lo separavano dalla nascita del bambino.
Ogni mattina si svegliava con qualcuno diverso in salotto, pranzava con qualcun altro e finiva per trovare qualcun altro ancora a preparagli la cena. Tra i Miracoli, gli aiuto-Miracoli – come aveva deciso di chiamare Momoi, Takao, Himuro e Kagami – e quei pochi ex-senpai del Seirin che erano venuti a conoscenza della sua particolare situazione, la sua casa era perennemente infestata e la sua privacy praticamente inesistente, ma andava bene lo stesso. Midorima aveva addirittura trascinato suo padre a visitarlo, sotto lo strettissimo giuramento del silenzio più assoluto.
Fu proprio con il verde – mentre pranzavano assieme davanti a due ciotole di riso bianco, perché un certo bambino sembrava determinato a non accettare altro, e i suoi genitori parlavano con il padre di Shintarou in cucina – che il conteggio raggiunse quota ‘meno ventotto’ e a Tetsuya si ruppero le acque.
L’unica cosa che l’azzurro realizzò con precisione fu di aver lasciato cadere la ciotola sul pavimento e di aver iniziato ad urlare come mai prima.
 
Non era diverso da quello di un animale, il respiro di Kuroko. Era lo stesso di un cavallo purosangue che stesse correndo disperato su di una pista o in una pianura. Rapido e pesante, affaticato, continuo, usciva dalle narici con forza di mantici perché le labbra del fantasma erano serrate in un vago tentativo di trattenere gli urli che risuonavano ovattati nella sua gola. Sdraiato sulla schiena, su un lenzuolo messogli sotto alla bell’e meglio, Tetsuya si rigirava a destra e a sinistra, ma stava attento a non contorcersi per non far male al bambino e non aumentare le contrazioni.
Il dolore era atroce, come non aveva mai sperimentato prima. Dentro il suo ventre, qualcosa si muoveva e si agitava, scavava nella sua carne, lo apriva in due, lo spezzava, lo lacerava, era tutto rosso, tutto rosso, tutto rosso, faceva male e faceva male e faceva male, faceva male, faceva male!
Oltre la nebbia dalle lacrime, cercò con gli occhi le sagome dei propri genitori, la macchia azzurra dei capelli di sua madre e quella nera di suo padre, ma trovò solo lo scarabocchio verde dei capelli di uno dei due Midorima. Gli occorse un attimo per realizzare che qualcuno lo stesse chiamando, quindi sbatté le palpebre e alla fine l’impalcatura rigida degli occhiali di Shintarou gli apparve netta.
Aprì le labbra, per chiedere, ma quella sfera d’acciaio nel suo stomaco prese a scavare con più forza, verso il basso, e a dilatargli ancora di più il ventre. Un urlo fu tutto ciò che la sua bocca lasciò uscire.
“Tecchan!” Sakura, inginocchiata alla sua destra, si piegò verso il suo volto e gli mise una mano sulla fronte, ma Tetsuya non sembrava in grado di sentirla mentre inarcava la schiena all’indietro e si aggrappava al lenzuolo con entrambe le mani. “Midorima-sensei!”
Midorima Aiato, il padre di Shintarou, si morse la lingua, ma forzò le ginocchia del ragazzino di fronte a lui ad allargarsi. Non era un ostetrico né un pediatra, ma anche un imbianchino avrebbe potuto dire che c’era davvero troppo sangue. Ignorando le suppliche della donna e facendo del suo meglio per non ascoltare i gemiti disperati del giovane, costrinse Kuroko padre e Midorima figlio a tenere ferme le gambe aperte del paziente e a trattenere le sue spalle sul pavimento per impedirgli movimenti bruschi, quindi si allungò a tastare il ventre. Alla prima minima pressione il flusso di sangue aumentò.
“È troppo stretto!” ringhiò, strappando un brandello del lenzuolo per tamponare i diversi liquidi e cercare di osservare meglio, “Degli asciugamani!”
“Che succede?!” esclamò Kuroko Haru, mentre Sakura correva a prendere il necessario, “Che cosa è troppo stretto?!”
“Tutto!” Aiato aveva la fronte imperlata di sudore e le maniche della sua camicia che stava arrotolando erano macchiate di rosso, “La placenta, il canale, l’apertura… Il ventre stesso di Tetsuya non è abbastanza elastico, non quanto quello di una donna, e non è riuscito ad ampliarsi abbastanza per il feto che cresceva. Dannazione, dev’essere per questo che il parto si è anticipato così tanto…!”
“Che cosa vuol dire?!” esclamò Sakura, scioccata, passando gli asciugamani al dottore.
L’uomo non le rispose. I suoi occhi smeraldini corsero al viso sottile di quello che era poco più di un bambino a sua volta tra le sue mani. Pallido, come mai prima, e sudato e ansante, aveva gli occhi e le labbra sigillati mentre lacrime silenziose gli correvano giù per le guance e ogni tanto singhiozzi fuggitivi lo facevano sobbalzare e tremare. Nella sua mente, due scenari opposti lottavano tra loro, ma Aiato sapeva che la decisione spettava solo a quel fragile ragazzino.
“Tetsuya, mi senti?!” lo chiamò, piegandosi su di lui, “Riesci a capire cosa sta succedendo?!”
Kuroko gettò la testa all’indietro, un gemito gli uscì dalle labbra improvvisamente schiuse, ma a metà del gesto, con la schiena inarcata, quel suono prese un flebile e tremulo senso. Era uno dei “No…” più sofferenti che Midorima avesse mai sentito.
“Ascoltami, Tetsuya, è importante!” cercò di dire con calma, allungandosi per mettere una mano sulla guancia del ragazzino e attirare la sua attenzione, pur tenendo fermi gli asciugamani con l’altra. Un paio di occhi azzurri allucinati e lucidi di lacrime, dalle sclere rosse, si puntarono esitanti su di lui. “Il bambino non riesce a uscire, capisci? Ti sta…ti sta strappando in due per aprirsi un passaggio e non può finire bene per nessuno dei due così.” Gli occhi di Kuroko si fecero grandi, enormi, per la paura e Aiato lo vide tentare di tirarsi a sedere, ma fortunatamente Shintarou e Haru riuscirono a tenerlo giù. “Ascoltami!” cercò di attirare nuovamente la sua attenzione afferrandogli il mento, ma all’improvviso quel ragazzino così fragile sembrava aver trovato una forza sovrumana e una determinazione assoluta nel reagire a ciò che si era appena sentito dire. “Tetsuya, ascoltami! Ti darò due opzioni, ma sei tu che devi scegliere, d’accordo? Ho bisogno che tu lo faccia in fretta, va bene?!”
Kuroko ansimava, il cuore nel suo petto batteva a mille e tra le onde del rosso mare in tempesta che gli annebbiava il cervello di dolore i pochi pensieri razionali che riuscisse a mettere insieme lo stavano spezzando ancora più del bambino nel suo ventre.
Non riesce a uscire… Non riesce a uscire, non riesce a uscire! Non riesce a uscire, perché state tutti fermi a non fare niente?!, la sua mente era un vulcano in eruzione, c’erano fuoco e fiamme e distruzione e non riusciva a capire. Nella sua gola esistevano solo grida e non riusciva a trovare il modo di pronunciare una sola frase. Due opzioni, aveva detto Midorima-san. Quali?!
Aiato vide negli occhi di Tetsuya l’istante in cui l’azzurro realizzò appieno le sue parole e tornò lucido a sufficienza da capire e ne approfittò subito. L’asciugamano tra le sue mani, ormai zuppo, fu sostituito da un altro.
“Tetsuya, dobbiamo tirare fuori il bambino, in un modo o nell’altro, prima che le tue lesioni diventino troppo gravi ed entrambi moriate, tu dissanguato e lui stritolato nella tua pancia.” disse, serissimo, “Abbiamo chiamato l’ambulanza, ma c’è stato un incidente stradale e a questo ritmo non arriveranno in tempo quindi dobbiamo fare qualcosa adesso.” deglutì, “Le possibilità sono queste. Posso provare a praticare un cesareo d’urgenza e tirare fuori il bambino; ho il necessario, ma è troppo precoce e dovrò lasciarlo attaccato al cordone ombelicale fino all’arrivo dell’ambulanza con un’incubatrice e questo significa che non so se e quando potrò ricucire te.” Un gemito diverso, sofferente ma più gutturale, scappò a Kuroko a quelle parole, ma Midorima tirò avanti, “L’altro caso è che io ti dia la precedenza, pratichi un’incisione chirurgica per l’estrazione del bambino e tagli il cordone sperando che l’ambulanza arrivi in tempo per salvare anche lui. Devo sapere che cosa vuoi che faccia perché se aspettiamo sarà troppo tardi per entrambi.”
Kuroko sgranò gli occhi e la sua bocca si aprì immediatamente, incurante delle urla nella sua gola. Che razza di domande erano?!, non era ovvia, la scelta?! Solo grida uscirono dalle sue labbra e la sua schiena si inarcò un’altra volta quando qualcosa si strappò ancora di più dentro di lui, causandogli uno spasmo alle gambe trattenute a forza.
Stava urlando a pieni polmoni, quando il viso familiare di Shintarou si parò davanti al suo. Aveva il volto pallido e sudato, gli occhi grandi che mostravano tutta la paura che invece lui stava cercando di nascondere sotto una maschera seria, gli occhiali che erano scivolati fino alla punta del naso, ma era la cosa più vicina ad Akashi che Tetsuya avesse e fu grato, suo malgrado, che il tiratore fosse lì.
“Kuroko, concentrati.” gli ordinò questi proprio in quel momento, lasciandogli la gamba e la spalla per prendergli il viso tra le mani. “Guardami e dammi una risposta, nanodayo, ma pensaci bene!” Le iridi verdi ebbero un lampo che Tetsuya non riuscì a identificare. “Kuroko, se…se anche il bambino morisse, tu…potresti tornare a com’era prima, capisci, nanodayo? Da Akashi e da tutti gli altri sogni a cui dovresti rinunciare andando avanti… Forse dovresti lasciare che…”
“NO!” Quel grido, Kuroko era certo fosse stato il più forte mai uscito dalle sue labbra e la forza nella sua voce si era trasmessa anche alle sue spalle perché riuscì a sottrarsi alla mano di suo padre, “NO! No, no, no! NO!”
Fu solo un attimo, ma anche dal suo mare di dolore Tetsuya poté vedere il lampo di sollievo nelle iridi di Shintarou, prima che questo si girasse verso il padre.
“Dimmi cosa devo fare.” ordinò, determinato, al genitore.
Aiato soppresse il pulsare doloroso nel suo petto che gli urlava che non poteva fare una cosa del genere ad un ragazzo di appena diciotto anni, quindi prese un respiro profondo.
“Altri asciugamani, la mia valigetta, acqua calda…di corsa.”
Shintarou schizzò senza aggiungere altro e Sakura prese il suo posto nel stringere la mano destra del figlio, mentre Haru si aggrappava alla sua sinistra.
Kuroko chiuse gli occhi, gettò la testa all’indietro e urlò ancora.
 
I capelli azzurri sembravano improvvisamente sfibrati e spenti, appiccicati alla fronte da un sudore ormai asciutto, e le palpebre pallide erano chiuse su di un volto ormai cinereo. Nel letto bianco dell’ospedale, tra le lenzuola candide e con i tubi trasparenti nei suoi gomiti, nel dorso della mano e nel naso, sembrava una statua di marmo le cui sfumature bluastre erano in realtà vene. Respirava appena, il petto sembrava non alzarsi nemmeno, e il macchinario alla sua sinistra mostrava un battito cardiaco lento, incostante ed esausto.
Eppure, quando la porta della camera si aprì e Haru entrò con cautela, due occhi azzurri scoloriti, con le sclere macchiate dal rosso dei capillari rotti, si aprirono lentamente su un minuscolo fagotto bianco. Un frammento di lenzuolo macchiato di sangue.
Quegli occhi si alzarono, supplicanti, e Haru rivolse loro un sorriso affaticato.
“Va tutto bene, Tecchan…” sussurrò, ma la sua voce era così lontana e Kuroko così stanco…
Tetsuya resistette abbastanza solo per sentire la mano del padre sulla fronte e la sua voce dire “È nell’incubatrice. Sta bene, Tecchan, è…” poi tutto si fece improvvisamente nero.
Il bip della macchina a fianco del letto divenne prolungato e fisso.
 
C’era tanta luce e il cielo fuori dalla finestra era limpido e rosato, con i rami degli alberi che si allungavano verso l’alto brillando di ori, di marroni e di rossi, come gioielli sulla pelle di una donna. Se il ‘fuori’ era un tripudio di colori e sfumature calde e accese, ‘dentro’ il prevalere di bianco – le pareti, i pavimenti, il soffitto, le lenzuola, i macchinari, ogni cosa – creava una sensazione di freddo e paralisi. Kuroko si sentiva come se avesse dormito per anni, quando finalmente aprì gli occhi.
Gli occorse un attimo per capire che il corpo fragile e sottile sotto le coperte fosse il suo così come le braccia smagrite attorno ai tubi delle flebo, che il suono continuo della macchina alla sua sinistra fosse lo specchio del cuore nel suo petto e che quella strana sensazione di perdita – come di qualcosa di importante che fosse improvvisamente venuto a mancare – fosse dovuta al suo ventre piatto.
Nell’istante in cui tutto ciò che era successo – il dolore, la paura per sé e per il bambino, i pochi flash prima di perdere conoscenza – gli crollò di nuovo addosso, Kuroko saltò a sedere gridando.
“Aspetta, nanodayo!”
Tetsuya sobbalzò, voltandosi di scatto, solo per trovare le mani di Shintarou sulle sue spalle e il volto un po’ smunto e spettinato, pallido e con pesanti occhiaie violacee, del verde di fronte al proprio.
…strappa con forza l’involucro di plastica di un…qualcosa…di affilato e sterilizzato
e lo passa ad Aiato stando attento a non toccarlo.
Il dottore prende l’oggetto, respira profondamente e poi lo avvicina a…
Una mano debole, incurante della flebo, si sollevò faticosamente e si aggrappò al colletto della camicia di Midorima.
“…Dov’è?!” supplicò Kuroko con voce roca e non aveva la forza di dire quella parola, bambino, ma sapeva che non era necessario perché l’altro avrebbe capito lo stesso, “Come sta?!”
“Sta bene.” si affrettò ad annuire Midorima di fronte al panico dell’amico, allentando attentamente con la propria la presa della mano sul suo colletto; la appoggiò delicatamente lungo il fianco del fantasma e costrinse quest’ultimo a sdraiarsi di nuovo, quindi si sedette sulla sedia accanto al materasso con i gomiti piantati sulle proprie ginocchia e le dita che si intrecciavano tra loro sotto l’analisi attenta dei propri occhi. Fece un verso a metà tra uno sbuffo e un sospiro, ma poi riprese a parlare. “È forte, nanodayo.” commentò, “Ha resistito fino all’arrivo in ospedale, quasi venti minuti in tutto. È un maschio, comunque. Adesso è in incubatrice a far impazzire le infermiere.”
Tetsuya sospirò di sollievo, quindi osservò Midorima con un piccolo sorriso di aspettativa sulle labbra screpolate.
“Com’è?” chiese piano, a bassa voce, quasi con referenza, come un fedele che parlasse di un miracolo. Forse, un po’ di un miracolo si trattava.
Mentre ancora pronunciava quella domanda, Tetsuya lasciò scivolare per istinto la mano sul proprio ventre piatto, sorprendendosi confuso dall’assenza di quella rotondità divenuta ormai familiare nel tempo. Si chiese quante volte avesse compiuto quel gesto immaginando come fosse il piccolo che cresceva dentro di lui, sognandone il momento della nascita o l’istante in cui l’avrebbe preso in braccio per la prima volta. E ora…
Midorima sbuffò, aggiustandosi gli occhiali sul naso.
“Un demonio.” rispose seccamente, ma con una nota di tenerezza nascosta in mezzo all’irritazione che Tetsuya riuscì a notare solo grazie agli anni di allenamento come ombra, “Urla perennemente, non lascia vivere nessuno e l’unico che riesca a calmarlo almeno per un po’ è tuo padre. Ma solo per poco, poi ricomincia.” Shintarou gli rivolse un’occhiata vagamente isterica. “Dorme un’ora e ricomincia a urlare per altre due. Poi dorme un’altra ora e urla per altre due e mezza. Un’ora di sonno, una e mezza o due o due e mezza di strilli e così via, senza tregua. È il diavolo in persona, nanodayo.”
Tetsuya sorrise un po’ dello stress dell’amico, ma poi una lieve amarezza dipinse le sue labbra.
“Ha preso da Akashi-kun, allora…” mormorò pianissimo, come spaventato dalla sola idea di essere sentito.
“Ha preso da te, vorrai dire, nanodayo.” ribatté però Midorima, deliberatamente ignorando il riferimento al rosso come nulla fosse. Kuroko fu grato di quella silenziosa dichiarazione di schieramento. “È cocciuto.” stava continuando intanto il verde, “Mio padre dice che probabilmente ha già inconsciamente memorizzato il tuo odore e adesso questo sarebbe il suo modo di protestare per farsi portare da te.”
La macchina accanto al letto perse un battito a quelle parole, ma quando Shintarou si voltò Tetsuya aveva un sorriso dolce sulle labbra e le lacrime agli occhi. Iridi azzurre si sollevarono a cercarne di verdi.
“Voglio vederlo.” Kuroko sentiva il cuore battere impazzito nel suo petto, il bisogno di incontrare quella creatura uscita da lui correva nella sua mente che cancellava tutto il resto. Non era riuscito neanche a cogliere un minimo di lui, durante il parto, perché il dottor Midorima lo aveva sedato come possibile e tutto ciò che ricordava erano flash confusi e senza senso. Doveva assolutamente…
“No.”
Per un attimo Tetsuya fissò Midorima, poi la parola lo raggiunse veramente.
“Perché?!” esclamò, improvvisamente in panico. Per quale ragione non avrebbe potuto vedere il suo bambino?!
Shintarou prese un respiro profondo nel vedere l’espressione scioccata e terrorizzata dell’azzurro, ma poi sollevò il mento e sostenne il suo sguardo con serietà.
“I tuoi genitori stanno parlando con mio padre proprio adesso.” esordì, “Durante tutto il parto e il viaggio in ospedale, il tuo corpo è stato sottoposto ad uno sforzo immane. Il tuo cuore in particolar modo.” Deglutì, incerto se fosse suo diritto dare quella notizia, ma poi chiuse gli occhi, conscio di non potersi tirare indietro a quel punto, e li riaprì cupi sull’amico, “Poco dopo la fine del parto, hai avuto un arresto cardiaco.”
 
Passarono due giorni prima che a Kuroko fosse permesso lasciare la sua stanza e andare – anche se in sedia a rotelle – a visitare il suo bambino nel nido, ma ne valeva la pena.
C’era una sola incubatrice in quel momento e il piccolo al suo interno era il più bello che Tetsuya avesse mai visto. Che fosse suo, ovviamente, non influiva sul suo giudizio. Era piccolo, piccolissimo, ma agitava i pugni chiusi e i piedi nudi al cielo mentre urlava con tanta forza da essere ormai color rosso pomodoro, quasi a pretendere qualcosa; aveva il viso rotondo e paffuto, le palpebre ancora chiuse e due labbra sottili appena al di sotto di un naso piccolo e dalla forma inequivocabilmente ‘alla Akashi’, ma lo strato sottilissimo di capelli sulla testa era color biondiccio e non lasciava capire verso quale tonalità si sarebbe rivolto. Nella sua voce potente c’era comando e forse un po’ di rabbia, ma non tristezza: Kuroko non avrebbe saputo spiegarlo diversamente, ma sembrava che stesse chiedendo, anzi ordinando, qualcosa.
Il giovane padre era così preso dall’osservazione di suo figlio che neanche si accorse del camice azzurro che sua madre gli stava facendo indossare, almeno fino a che la donna non gli prese delicatamente il braccio per farglielo infilare in una delle quattro aperture della teca. Tutto d’un tratto, Kuroko sentì un calore immenso contro il dorso di un dito e sobbalzò nel realizzare che si trattava della pelle del pugnetto del piccolo.
Vagamente nel panico, si voltò verso la madre, ma Sakura gli sorrise solo, annuendo incoraggiante.
“Fagli sentire che ci sei.” consigliò un’infermiera abbastanza anziana, osservandolo da un’educata distanza ma con un sorriso sulle labbra, “Ti ha aspettato tanto, sai?”
Anche io., pensò Tetsuya, ma non trovò la voce per dirlo. Invece, si voltò verso la teca e osservò ancora una volta il piccolo. Lentamente, con esitazione, iniziò a strofinare il dorso del dito contro il pugnetto.
Il bambino abbassò un po’ il volume delle sue grida.
Kuroko ridacchiò un po’. Si fece appena più sicuro e con attenzione fece scivolare il dito nella mano chiusa del figlio, sentendo la mente accogliere con stupore il calore immenso proveniente da quel corpicino.
La presa del piccolo non poteva essere considerata forte, ma si strinse appena attorno al dito del genitore e il pianto, improvvisamente, smise.
Domo,” mormorò Tetsuya nel silenzio e ignorò le lacrime che iniziarono a scendere lungo le sue guance, “Seiji.”
Kuroko Seiji sventolò i piedi nell’aria a quel saluto, ma la sua manina rimase saldamente ancorata a quella del papà, quasi a volergli impedire di lasciarlo solo un’altra volta.
 
La prima volta che Kuroko tenne Seiji tra le braccia, finalmente senza il vetro dell’incubatrice tra loro, fu quasi un mese dopo la sua nascita e per l’ennesima volta il fantasma non riuscì a non farsi venire le lacrime agli occhi, però questa volta stette attento a non lasciarle cadere.
Seiji era un bambino perfettamente sano, senza alcuna ripercussione per la sua venuta al mondo così turbolenta. Aveva la pelle rosea e le guance tonde, due occhi grandi ma ancora chiusi e polmoni che non mancavano mai di provare la propria forza al giovane Shintarou; i capelli sulla sua testa stavano virando dal biondiccio al color carota, come Aomine gentilmente continuava a sottolineare a dispetto di tutti gli scappellotti che riceveva puntualmente da Momoi. Tra le braccia di Tetsuya, faceva sembrare l’azzurro ancora più minuto.
Al fantasma occorsero una decina di minuti per capire come tenere il piccolo, accettare che non fosse fatto di cristallo ma che la sua presa dovesse essere un po’ più salda e che non l’avrebbe assolutamente fatto cadere. Era certo di non aver mai portato un peso più importante, prima.
All’inizio lo cullò sussurrandogli gentilmente, ma presto fu chiaro che il piccolo non aveva alcuna intenzione di andare a dormire. Gorgogliava mezzi gemiti che sembravano borbottii, ma non piangeva. Non lo faceva quasi mai con il papà e la teoria di Kagami era che fosse un piccolo demonio doppiogiochista che voleva far impazzire con le sue urla tutto il resto del mondo per potersi tenere Kuroko tutto per sé. A sorpresa di tutti, Murasakibara e Momoi si erano dichiarati d’accordo.
Tetsuya avrebbe alzato gli occhi al cielo a quell’ennesimo sfoggio di stupidità della sua luce se le parole di Midorima Aiato non fossero state ancora forti nella sua mente come il giorno del suo risveglio in ospedale e gli impedissero di godere pienamente di quella gioia…
“Sei molto giovane, Tetsuya, ma un infarto è una cosa seria.
È stato provocato dal parto, è vero, ma questo non vuol dire
che tu ora sia completamente fuori pericolo.
Il tuo cuore è stato seriamente danneggiato ed è quasi certo che
d’ora in poi ti darà dei problemi, anche abbastanza grossi.
Per ora, tutto ciò che si può fare è prescriverti delle medicine, ma
dovrai cominciare a stare molto attento, capisci?
Niente sforzi fisici esagerati, niente sport estremi e cerchiamo
di evitare emozioni forti o improvvise.
So che sarà difficile, soprattutto in questa situazione,
nei tuoi primi passi da padre,” e Aiato aveva sorriso un po’,
lanciando un’occhiata a Shintarou appoggiato al muro,
“ma tieni bene a mente che qualsiasi sforzo potrebbe essere pericoloso
per il tuo cuore, d’accordo?”
Lui e Shintarou avevano parlato di quello e alla fine erano giunti alla stessa conclusione: Kuroko non avrebbe abbandonato lo ‘stile di vita’ dell’ombra nonostante il basket fosse ormai fuori portata per lui. L’apatia che aveva appreso poteva fare la differenza, in quella situazione, e lui non pianificava di lasciare da solo il suo bambino tanto presto.
Prese il biberon che gli veniva porto dall’infermiera e un po’ esitante diede da mangiare a suo figlio per la prima volta.
Nascose il sorriso nel vederlo ciucciare avidamente, ma questo non significava che, nel suo cuore malconcio, non si sentisse comunque l’uomo più fortunato della Terra.
 
Kuroko Seiji, alla tenera età di quattro mesi, era un piccolo tiranno dai capelli color fuoco e gli occhi azzurri.
In seguito alla sua e di Tetsuya dimissione dall’ospedale, la casa della neo-famiglia era perennemente invasa da ragazzoni grandi, grossi e in buona parte stupidi, ma il bambino non sembrava aver alcun problema nel comandarli tutti a bacchetta, pur essendo ancora incapace di parlare.
Da Kagami e Aomine non si lasciava prendere in braccio, iniziando subito a piangere disperato; aveva un’autonomia di tre minuti con Momoi e quattro con Riko, addirittura cinque con Kise, ma gli unici due tra le cui braccia era disposto a stare oltre i dieci erano Himuro e Mitobe; Murasakibara non aveva ancora avuto il coraggio di prenderlo in braccio per timore di fargli male e con Teppei il piccolo sembrava trovare sempre uno stimolo improvviso che costringeva ad un rapido cambio del pannolino. Hyuuga aveva riso della situazione fino a quando non si era scoperto che Seiji adorava vomitargli addosso. Con Midorima esisteva un rapporto reciproco di amore e odio perché il verde non sembrava mai molto entusiasta di prendere il piccolo, ma non passava giorno senza che l’avesse tenuto in braccio; e il bambino non faceva altro che strillare tra le braccia dell’aspirante medico, ma si metteva sempre a singhiozzare se gli veniva tolto prima che avesse avuto almeno il suo quarto d’ora di sfogo. Takao era diventato il buffone di corte ed era l’unico tra le cui braccia Seiji potesse qualche volta anche ridere. Però, di solito, le preferenze del piccolo erano tutte per il papà.
Con Tetsuya, il piccolo demonio diveniva improvvisamente un angioletto. Non piangeva spesso e quando lo faceva era sempre ad un livello di decibel accettabile, sembrava accontentarsi dello stringere un dito del genitore e, sin da quando aveva iniziato ad aprire i due grandi e meravigliosi occhioni e aveva finalmente iniziato a mettere a fuoco il distante volto del padre, sembrava divertirsi nell’osservarlo senza tregua, gorgogliando soddisfatto.
Kuroko lasciava cadere la maschera con lui e gli sorrideva sempre, incitando i mugolii fintamente gelosi di Momoi e Kise.
A vederli da fuori, o anche solo dalla prospettiva di Haru e Sakura, sembravano una banda di matti mal assortita, però Tetsuya li considerava la sua famiglia e ringraziava il cielo ogni sera per loro.
 
Verso il quinto mese, l’occhio destro di Seiji divenne rosso. Il sinistro rimase azzurro.
 
Seiji compiva otto mesi, una settimana e tre giorni quando una piccola task force composta da Midorima, Aomine, Kise, Takao, Mitobe e Himuro si presentò alla porta dell’appartamento dei Kuroko alle sei di sera.
Tetsuya, il figlio tra le braccia, rimase per un attimo imbambolato sulla porta, alla vista. Non che fosse strano che in tanti si presentassero a far visita, ma l’orario era inconsueto.
“Minna.” salutò comunque, educato, facendo spazio per lasciar entrare gli amici, “Come mai qui?”
Con sua sorpresa, Takao, Mitobe e Himuro si tolsero scarpe e giacche ed entrarono, ma Midorima, Kise e Aomine rimasero fermi sulla soglia.
“Molla l’adorabile bestiolina alle tre fate madrine e vestiti.” ordinò Daiki accennando con il mento ai tre mori, “Stasera esci con noi.”
Tetsuya si prese un attimo per elaborare e poi ne concesse un altro alla sua prima luce per rimangiarsi ciò che aveva appena detto, quindi, in mancanza di grida ‘Scherzetto!’, sbatté la porta in faccia agli ex-compagni di squadra e si voltò verso i tre che riteneva avessero più giudizio.
Non trovò comprensione negli occhi di nessuno di loro, solo tanta pena e determinazione.
“Non potete costringermi.” ricordò e quasi senza accorgersene strinse la presa su Seiji tra le sue braccia. Il bambino mugolò offeso.
“Non siamo qui per costringerti a fare nulla, Kuroko-kun.” assicurò Himuro, alzando le mani come in segno di resa, ma in realtà senza retrocedere di un passo, “Vorremmo solo che cercassi di capire…”
Prima che potesse finire, Mitobe mostrò a Kuroko una pagina del blocco per gli appunti che si portava sempre dietro per comunicare quando Koganei non era disponibile come traduttore simultaneo.
-Non sei uscito di casa una volta da quando è nato Seiji. Capiamo come ti senti e immaginiamo che, dopo quello che è successo, sia difficile l’idea di lasciarlo solo, però...-
Kuroko non riuscì a finire di leggere perché Takao gli mise le mani sulle spalle e reclamò la sua attenzione.
“Siamo preoccupati per te, Tecchan. Tutti quanti.” disse serio, ma poi azzardò un sorriso, “Consideralo un favore personale a dei vecchi amici, okay?”
Kuroko tentò di obiettare, portandosi Seiji al petto come temesse i tre gliel’avrebbero strappato via, ma poi Tatsuya fu più veloce di lui.
“Non devi preoccuparti di nulla.” assicurò, onesto, “Ci prenderemo cura noi di Seiji e giuriamo che non lo perderemo di vista neanche un secondo.” Piegò un po’ la testa di lato, implorante. “Solo un paio d’ore così che tutti possiamo metterci il cuore in pace. Uscite, mangiate qualcosa, quei tre fanno un po’ i cretini e poi tornate subito qui. Non accadrà nulla.”
Mentre Himuro parlava, Mitobe si avvicinò piano e allungò le braccia verso Tetsuya, chiedendo silenziosamente il bambino.
Kuroko indietreggiò istintivamente di un passo ma così facendo si accorse del bussare basso ma continuo alla porta e dei borbotti indispettiti dei Miracoli al di là di essa. Guardò Seiji.
Il piccolo aveva le palpebre semiabbassate sugli occhi e stava sbadigliando per la terza volta in un quarto d’ora. Aveva già mangiato e per tutto il giorno aveva giocato senza sosta con Kagami e Teppei quindi era probabile che sarebbe crollato presto e non si sarebbe svegliato per due o tre ore almeno. Forse…
“Usciamo, mangiamo, torniamo qui.” mormorò, “Niente deviazioni. E se succede qualcosa, se anche solo tossisce, mi chiamate immediatamente.”
“Sul nostro onore!” giurò Takao, solenne, osservando con un sorriso Mitobe sfilare il piccolo Seiji, in tutina rossa come i capelli, dalle braccia del padre.
Solo allora i tre si accorsero che l’azzurro indossava una tuta sgualcita e macchiata di bava e latte. Un’occhiata d’intesa corse tra Kazunari e Tatsuya, mentre Rinnosuke sospirava.
“Tecchan, ne hai più bisogno di quanto credessimo.”
 
Tetsuya riscoprì con meraviglia la sensazione di jeans sulla pelle, come non l’avesse indossato da anni, e quando si osservò allo specchio, con addosso una camicia bianca priva di macchie ed un giacchetto di pelle blu scuro, si chiese quasi chi fosse quella creatura nel riflesso.
Gli erano cresciuti i capelli e non se n’era accorto, era dimagrito perdendo i chili presi nella gravidanza e forse anche qualcosa in più senza realizzare neanche quello e aveva pesanti occhiaie che non aveva notato prima.
“Sei stato rinchiuso in casa quasi nove mesi, diciotto se contiamo il periodo della gravidanza, Kuroko-kun. È quasi un miracolo che non sia peggio.” commentò piano Himuro, mettendogli una mano sulla spalla, e l’azzurro gli annuì prima di uscire dalla sua camera e tornare a passo di marcia in salotto.
Seiji sembrava aver ripreso un po’ di energia nel vedere i suoi tre zii più ‘ben accetti’ e sul divano – nel salotto di fronte all’ingresso –, seduto sulle cosce di Mitobe rivolto verso di lui, giocava con le mani enormi del moro alzandole e abbassandole con un enorme sorriso soddisfatto sul volto. Kuroko aveva un brutto presentimento riguardo a ciò e si morse il labbro inferiore, esitante, ma un’occhiataccia da Takao lo trattenne dall’aprir bocca. Almeno fino a quando non ebbe preso le scarpe.
“Se succede qualcosa…”
“…chiamiamo.” concluse Takao per lui.
Kuroko gli rivolse uno sguardo supplice, ma Kazunari, da seduto a fianco di Mitobe, carezzò la testa del piccolo guadagnandosi una risatina e gli rivolse un sorriso incoraggiante.
Himuro, poi, lo ‘accompagnò’ alla porta spingendolo di peso e ripetendo rassicurazioni.
“Vai!” concluse, aprendo la porta e spingendolo in mezzo a tre ex-Miracoli palesemente offesi.
Kuroko esitò, sentendosi un po’ in colpa, ma poi la porta si chiuse alle sue spalle e lui si voltò di scatto.
Midorima, Kise e Aomine si scambiarono un’occhiata significativa, ma alla fine fu il biondo a mettere una mano sulla spalla dell’azzurro per convincerlo a muoversi.
“Andiamo, Kurokocchi.” incitò, “Saremo già di nuovo qui prima che tu possa accorgertene.”
Midorima annuì, aggiustandosi gli occhiali sul naso, e quando Tetsuya si voltò, fu il primo ad avviarsi con Ryouta verso il cancelletto della casa a due piani dei Kuroko.
Da quando era nato Seiji, il cane Nigou era andato a vivere con Riko Aida e l’appartamento inferiore era diventato la casa della nuova famigliola per permettere anche la permanenza degli invadenti protettori mentre Sakura e Haru vivevano in quello superiore quando era loro permesso dal lavoro che spesso invece li teneva occupati anche a ore improponibili, come quella notte. L’idea che i propri genitori non fossero presenti, non aiutava affatto Kuroko.
“Forse dovrei…” azzardò, senza nemmeno sapere cosa dire, ma Aomine lo agguantò mettendogli un braccio attorno alle spalle prima che potesse girarsi.
“Non lo fare.” ordinò, costringendolo a scendere i due gradini davanti alla porta, “Andiamo, vedrai che andrà tutto bene, d’accordo?”
Kuroko lo guardò, alto e forte nella sua maglietta nera a maniche corte, con gli occhiali da sole tenuti boriosamente alti sulla testa e con gli occhi e i capelli che svettavano contro il cielo ancora luminoso di Giugno. In quel momento, gli avrebbe anche creduto se un pianto potentissimo e disperato non li avesse raggiunti a neanche tre quarti del vialetto.
Midorima e Kise, a metà strada verso il cancelletto d’uscita, si paralizzarono e non osarono voltarsi.
Per un attimo nessuno ebbe il coraggio di muovere un muscolo e da dentro la casa Seiji urlò di nuovo, a pieni polmoni, con una sofferenza che Kuroko ricordava di avergli sentito solo quando gli erano venute le coliche.
Quando sentì la voce bassa e sofferente dell’amico raggiungerlo in un supplichevole “Aomine-kun…”, Daiki già sapeva di aver perso, però tentò lo stesso.
“Tetsu…”
Fece l’errore di voltarsi. Piccolo sotto il suo braccio, Tetsuya lo guardava dal basso con espressione apatica ma i suoi occhi erano un tumulto di disperata necessità.
Aomine sospirò, ma tolse il braccio dalle spalle dell’azzurro.
“Dovrai farti perdonare.” borbottò.
Kuroko gli rivolse un sorriso minuscolo, a malapena visibile, come quelli delle medie, prima di voltarsi e correre di nuovo verso la porta con le chiavi già in mano.
Mesto, Aomine raggiunse i due compagni.
“Non saremmo riusciti a portarlo in giro lo stesso, dopo che lo ha sentito piangere, Aominecchi.” assicurò Kise, battendo una mano sulla spalla del blu, “Ci riproveremo un’altra volta.”
“‘Kay…” borbottò questi, ma non pareva convinto.
Midorima si limitò a sospirare silenziosamente.
 
Dopo il terzo tentativo fallito, Midorima decise di tentare con una nuova soluzione: un’uscita pomeridiana con Seiji al seguito. Tutti concordavano che Tetsuya non si sarebbe rilassato poi molto portando suo figlio in giro praticamente per la prima volta, ma che entrambi rimanessero ancora bloccati in casa era fuori discussione.
Seiji aveva nove mesi quando Tetsuya gli avvolse una sciarpa rossa attorno al mento per proteggerlo dal vento settembrino, sorrise nel vederlo tutto infagottato nella sua tuta rossa e nella giacca beige e infine lo aiutò ad infilare le scarpette prima di prenderlo in braccio. Si avviò alla porta, ma esitò un attimo.
Si rendeva conto della follia assoluta nel suo comportamento fino ad allora, ma dentro di sé non riusciva a farne a meno. Aveva rischiato di perdere Seiji una volta e nella sua testa, da qualche parte, persisteva l’assurdo istinto che se lo avesse portato fuori, dove non poteva tenere tutto sotto controllo, qualcosa di brutto sarebbe accaduto. In verità, lo aveva portato a casa di Midorima, di Kagami, di Kise, di chiunque, ma mai erano andati in giro per le strade o al parco. Malintenzionati, macchine, germi…Tetsuya vedeva pericoli ovunque e per questo la mano sulla maniglia iniziò a tremare un po’ e l’altra strinse più forte al petto il piccolo. Senza contare il rischio che…
“Kuroko.”
L’azzurro si voltò, cercando Midorima con lo sguardo. Gli altri li aspettavano fuori, quindi erano rimasti solo loro in casa a preparare Seiji e la borsa con le cose per lui.
“Sì?” chiese, mascherando la sua esitazione.
“Akashi non torna dall’America, quest’estate. Anche se andassimo a Kyoto proprio di fronte a casa sua, non potrebbe vederci.”
Tetsuya sgranò gli occhi, ma fu lesto a recuperare la propria impassibilità. Si aggiustò Seiji tra le braccia chiedendosi quando lui e Midorima fossero diventati così uniti da permettere ad entrambi di capire i pensieri dell’altro così facilmente. Probabilmente mentre Shintarou aiutava suo padre ad aprirgli pancia, immaginò.
Comunque fosse, lasciò passare il verde e nascose la propria incertezza limitandosi a stringere il bambino mentre l’altro apriva la porta e gli faceva spazio per farlo passare.
“Grazie…” mormorò comunque passandogli davanti.
Quel nome non fu più pronunciato per il resto del giorno.
 
Seiji non aveva mai riso così tanto e Tetsuya sembrava aver dimenticato a casa la sua maschera di cera mentre, con le spalle contro un albero e le ginocchia sollevate, teneva il figlio seduto sul suo ventre e appoggiato alle sue cosce così da potergli stringere le mani e lasciare che questi si divertisse a scuoterle come maracas, un gioco che lo divertiva molto.
Takao rise a sua volta quando Seiji iniziò ad agitare i piedi e a concedersi una serie di urletti divertiti appena Midorima comparve nel suo campo visivo per lasciare al fianco dei due Kuroko una bottiglietta d’acqua e un vasetto di omogeneizzato. Il dottore era veramente d’ispirazione per l’ugola del piccolo.
Beh, non più così piccolo. Kuroko sapeva che nove mesi erano pochissimo, ma paragonato a quando era un fagotto uscito prematuramente dal suo ventre, Seiji era cresciuto parecchio. I tratti tondi da bambino si stavano paradossalmente già affievolendo, ma solo un po’. I capelli rossi si ergevano dritti e spettinati sulla sua testa, dopo che Kagami aveva osato passarvi una mano in mezzo, e lo facevano sembrare la versione appena nata del Cappellaio Matto interpretato da Johnny Depp. I due occhi eterocromi erano grandi e si guardavano attorno sempre scintillanti e pieni d’emozione: il sinistro, azzurro, e il destro, rosso, sembravano gioielli scintillanti della luce tipica dei bambini. Era un fagotto di un livello di dolcezza da diabete, come Kise continuava a commentare.
Un altro particolare di quella giornata pomeridiana al parco Ueno, sulle rive del fiume, era la presenza di un grosso bestione peloso attualmente seduto a fare buona guardia accanto al suo nuovo piccolo amico.
Nigou era scappato a Riko, che lo teneva al guinzaglio, per scacciare alcuni uccelli che si avvicinavano a Seiji e che Aomine, lasciato di guardia al bambino mentre l’azzurro salutava il suo cane, non aveva ritenuto pericolosi. Per un momento, vedendo l’enorme cane husky ormai adulto correre ringhiando verso il piccolo, il panico si era diffuso, ma l’animale aveva semplicemente scacciati i pennuti e subito dopo, voltandosi verso quello strano fagotto, aveva sostituito l’abbaiare con un’espressione confusa. Seiji era scoppiato a ridere e gli aveva afferrato le orecchie quando Nigou si era piegato ad annusarlo. Da allora, cane e bambino erano diventati inseparabili. Kuroko ne era contento, però, perché questo significava poter riprendere il bestione a vivere con loro. Riko ne sembrava altrettanto sollevata.
“Ohi, a che età iniziano a parlare i bambini?”
Tetsuya alzò gli occhi su Kagami nell’udire quella domanda, ma fu Midorima, professionale, a rispondere aggiustandosi gli occhiali sul naso.
“Tra l’ottavo e il nono mese, nanodayo.” disse, per poi voltarsi verso il piccolo, “In effetti, dovrebbe iniziare presto. Questi versi sono già i suoi primi tentativi di ricopiare le nostre parole.”
Tetsuya abbassò lo sguardo sul visetto intento di Seiji – che aveva sfilato una mano dalle sue per potersela portare alla bocca e provare ad ingoiarla intera, chiusa a pugno – e ignorò Aomine e i suoi lamenti sulla falsa riga di “Quando il mostriciattolo imparerà a parlare, ci renderà tutti i suoi schiavetti personali, vedrete!” per osservare il piccolo negli occhi.
Un’iride fiordaliso ed una color sangue si puntarono nelle sue con interesse e attesero, stranamente pazienti e concentrate.
Pa-pa.” scandì Kuroko piano, ottenendo tutta l’attenzione del bambino, “Seiji, papa.
Seiji fissò il genitore per un lungo istante…poi scoppiò a ridere di gusto, urlando e agitando gambe e braccia contemporaneamente.
Tetsuya rise un pochino a sua volta, pur sospirando.
“Qualcosa del genere…” lodò, annuendo al bimbo soddisfatto.
“Beh, come primo tentativo non è andato così male…” cercò di dare supporto Teppei, ma Hyuuga lo interruppe.
“Andiamo!” esclamò, indicando il bambino che piegò la testa per cercare di guardarlo, costringendo Kuroko a prenderlo in braccio così che fosse girato verso il centro del cerchio di ragazzi seduti sull’erba, “Non potete pretendere che da un momento all’altro impari a dire ‘Otou-san’ con tanto di onorifico come nulla fosse!”
“Giusto, è intelligente ma…”
‘To-tan.
Takao si zittì a metà frase e per un attimo tutti rimasero fermi, poi, lentamente, varie paia di occhi si posarono sul bambino che, l’indice di una mano vicino alla bocca e l’altra allungata verso l’alto in direzione del viso del papà che lo guardava con tanto d’occhi, valutava con serietà il risultato appena ottenuto con quel minimo di sforzo.
‘To-tan.” ripeté, cercando di rubare il naso di Tetsuya e poi ridendo quando si accorse del silenzio sbalordito in cui era caduto anche questi, “‘To-tan!
Nel silenzio scioccato e un po’ spaventato, Kuroko realizzò che suo figlio aveva appena imparato la sua prima parola e scoppiò a ridere.
 
“Non ci provare neanche!” ruggì Aomine, afferrando un intrepido gattonante Seiji prima che questi cercasse di scendere il gradino dell’ingresso che guidava alla porta e alla scarpiera.
Il bambino borbottò offeso prima di iniziare a urlare a gran voce: “‘Tou-tan!
“Sì, bravo, è inutile che ci provi.” borbottò il blu, appoggiandosi il piccolo su una spalla e reggendolo con un braccio solo per poi riportarlo sul tappeto del salotto, metterlo per terra e infine sedersi a gambe incrociate di fronte a lui. Gomito su un ginocchio e guancia sul pugno chiuso, Daiki scrutò il piccolo mostro. “Tuo padre è a farsi una doccia, puoi concedergli quindici minuti di tregua?” borbottò.
Seiji si tirò a sedere dalla sua posizione a pancia in giù quindi rimase fermo a squadrare il blu con un’attenzione alquanto inquietante per un bambino di dieci mesi e mezzo. Aomine aveva i brividi ogni volta. All’improvviso, qualcosa alle spalle di Daiki sembrò catturare l’attenzione del piccolo e il blu si voltò immediatamente, pronto a vedere una nube di forbici cadergli addosso.
Niente.
Aomine aggrottò la fronte.
“Di’ un po’, mi prendi per il…” La frase gli si mozzò in gola quando si voltò e scoprì che Seiji non era più seduto di fronte a lui. “Uh?”
Quando realizzò di avere davvero perso il figlio di neanche un anno del suo migliore amico, urlò.
 
Non poteva essere andato tanto lontano, Aomine ne era sicuro. Era un piccolo poppante neanche in grado di camminare e capace di dire giusto ‘Papà’, ‘pappa’, ‘pizza’ – pitta per essere precisi, cortesia di Kagami – e altre cose di basilari necessità. Aveva già un sacco di zii di cui ricordare il nome, probabilmente in quel suo cervelletto minuscolo non c’era spazio per parole più utili come ‘tette’, ‘basket’ e ‘nanna’, nonostante tutti i suoi sforzi per insegnargliele. Beh, comunque fosse, doveva trovarlo in fretta, prima che…
“Aomine-kun.”
Aomine sobbalzò, squittendo terrorizzato, e si voltò di scatto pronto a cercare di fermare con la supplica l’inferno che stava per essergli rovesciato in testa.
Seiji, avvolto in un asciugamano e con i capelli bagnati appiccicati alla fronte, ridacchiò indicandolo dalla sua posizione d’onore tra le braccia di suo padre.
Tai-tan!” gorgogliò felice, ma suo padre, a dispetto delle carezze che gli lasciava sulla testa, non sembrava condividere il sentimento.
“Aomine-kun,” ripeté e Daiki si ritrovò a mandare maledizioni mentali ad un bambino di neanche undici mesi, “perché mio figlio è spuntato all’improvviso in bagno anziché essere qui con te?”
Considerando che la sua morte era ormai inevitabile, Aomine decise di guardare il lato positivo della cosa.
“Bakagami avrà vita difficile con due ombre in giro.”
Kise riferì di non aver mai visto livido più grosso di quello che il blu portò a casa sul fianco, quella sera.
 
Il primo anno era sempre il più duro, così gli aveva detto sua madre.
Kuroko le aveva creduto e aveva stretto i denti per quei primi dodici mesi, ma quando aiutò suo figlio a spegnere la singola candelina della sua prima torta di compleanno, circondato da – quasi – tutti i suoi amici delle medie e delle superiori, si scoprì a pensare che, sì, ne era proprio valsa la pena.
Pensò ad Akashi in quell’occasione, a quanto bello sarebbe stato averlo lì con loro, ma scacciò in fretta l’immagine del ragazzo dalla sua mente e, ignorando la stilettata dolorosa che gli prese il cuore, sorrise a Seiji tra le sue braccia.
Il bambino lo guardò con attenzione e poi scoppiò a ridere.
“‘Tou-tan!”


 
Ehm...
Lo so, sembra inutile, ma giuro che mi serviva! Dovevo aggiustare la situazione con Akashi, iniziare a definire la personalità di Seiji, lasciarvi qualche indizio su cosa succederà nel prossimo capitolo... Era un sacco di roba!
Scusate se sparisco in fretta, ma sono un po' di corsa XD Vi ricordo solo che, se volete chiedermi qualcosa o mandarmi qualche RICHIESTA, da adesso potete farlo sul mio account Tumblr: Agapanto Blu
E poi che altro? Niente... Ricordate che questa storia partecipa al contest "Progetto: Ripopola Fandom - Seconda Edizione" assieme a anche "Crudele"
Basta, adesso me ne vado per davvero :) Ovviamente, se lasciate un commento non mi offendo, ma nemmeno vi tolgo il saluto se non lo fate ;) (
NdAkashi: Non che a qualcuno importi del tuo saluto, popolana.
NdMe: T-T Ma perché?! NdAkashi: Chiedo scusa? Hai realizzato quello che mi stai facendo passare?! NdMe: ... scusa...)
Okay, a presto allora!

Agapanto Blu
  
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