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Autore: Fenio394Sparrow    24/05/2015    2 recensioni
{Lo Hobbit|| OC|| Arya!Centric || Movieverse|| Long|| Prequel! Winter is Coming}
{«State sorvolando sulle condizioni in cui lascerete andare, signore.»
Thranduil la guardò stupito, senza capire dove stesse andando a parare Arya. «Non so quale considerazione abbiate riguardo gli uomini, signore, o delle bambine che si accompagnano ad un gruppo di nani, ma vi assicuro che io non sono stupida, e questo accordo mi puzza d’imbroglio. Ci lascerete liberi, certo, ma magari nel mezzo della foresta e senza viveri né armi e saremo alla mercé dei ragni in meno di un giorno, e tanti saluti alla nostra impresa. Perciò penso che vi convenga alzare un po’ la posta, Sire, perché io non faccio beneficenza e i miei servigi non sono a poco prezzo.» Arya sorrise amabilmente.}
Genere: Avventura, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bilbo, Nuovo personaggio, Thorin Scudodiquercia, Un po' tutti
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Di Sette Regni e una Terra di Mezzo'
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~ The moon loved the sun~


You’ve got something I need
In this world full of people, there’s one killing me
And if we only die once
I wanna die with you



 
«Quant’è vicino il branco?»
Arya si sporse subito dalla roccia su cui era poggiata, sospirando di sollievo alla vista di Bilbo.
«Un paio di leghe, non di più» rispose trafelato: «Ma questa non è la parte peggiore»
«I mannari ci hanno fiutati?» chiese Dwalin.
«Non ancora, ma lo faranno» rispose lo Hobbit, ora circondato dai nani desiderosi di ascoltare com’era andato il giro di ricognizione. Arya avrebbe voluto andare con l’amico –non potevano lasciarlo andare da solo sul serio- e invece no, glielo avevano impedito, costringendola a restare fra loro a mordicchiarsi le unghie per l’ansia.
«Abbiamo un altro problema» disse grave Bilbo.
Gandalf lo interruppe: «Ti hanno visto?»
«No, non è questo il problema» Bilbo scosse la testa, impaziente.
Gandalf rise: «Che vi avevo detto, silenzioso come un topo!» Tutti i nani risero e si complimentarono fra loro, ma Bilbo pareva incredibilmente preoccupato, continuava ad aprir bocca senza riuscire a parlare, interrotto da una fiumana di voci che mettevano loro stessi e la propria famiglia al suo servizio fino alla fine dei tempi.
«Volete darmi ascolto? Volete darmi ascolto!?» urlò lo Hobbit per farsi sentire.
Tutti tacquero, osservandolo sorpresi: «Sto cercando di dirvi che c’è qualcos’altro là fuori» Indicò con la mano la direzione da cui era venuto. Si guardarono l’un l’altro, destabilizzati. Cosa poteva esserci di così pericoloso da far in modo che Bilbo fosse più preoccupato per quella cosa che per Azog?
«Quale forma ha assunto?» domandò Gandalf, serio: «Quella di un orso?»
«S..sì, ma più grosso, molto più grosso» rispose sorpreso Bilbo. «Lo sapevi?» domandò Arya  a Gandalf: «Sapevi di quest’orso?»
Gandalf non le rispose. I nani presero a parlare fra loro, avanzando una teoria più stupida dell’altra: Bofur voleva tornare indietro, appoggiato da Gloin e Dori; Thorin si opponeva con veemenza, ma non sapeva come controbattere, mentre la maggior parte del gruppo parlava troppo velocemente perché Arya potesse intendere ciò che dicevano.
«C’è una casa» disse Gandalf.
«Sì, nella prateria» rispose Arya guardandolo storto. Lui la ignorò, guardando Thorin: «Non è lontana da qui, dove noi potremmo trovare rifugio»
«Di chi è la casa?» chiese Thorin: «Amico o nemico?»
Bella domanda.
«Nessuno dei due» rispose Gandalf: «Lui ci aiuterà o … ci ucciderà»
«Che scelta abbiamo?» chiese retorico Thorin. Un ruggito squarciò l’aria, facendoli girare di scatto verso i sentiero da cui proveniva. Arya strinse la mano di Bofur accanto a lei, in un impeto di paura.
Lo Stregone li guardò sconsolato: «Nessuna»
 
Non aveva mai corso così tanto in vita sua. Nemmeno quando all’inizio erano fuggiti dai mannari ed erano arrivati a Granburrone, nemmeno nelle caverne dei goblin, nemmeno allora aveva corso così veloce come correva in quel momento. Ed era leggera, oh sì. Correva non solo per la propria vita, correva e basta, perché se c’era una cosa che Arya aveva sempre, sempre desiderato fare, era correre, correre e basta, correre fino a che non avesse più avuto fiato in corpo e le gambe le avessero tremato tanto da non reggerla più. Ma quei mesi di peregrinazioni erano valsi a qualcosa: aveva le gambe più forti e resistenti oltre che più scattanti, e il respiro era quello profondo e saldo di chi vive in continuo movimento, e la stanchezza non si faceva sentire se non dopo ore intere di corsa, ore e ore passate a correre e a mettere un piede davanti l’altro. Non era veloce, neanche la metà di Gandalf o Thorin –avevano le gambe più lunghe!-  eppure le sembrava di essere veloce quanto un autotreno. Non era l’ideale, certo, per la sua caviglia, recentemente guarita. Il terreno non era affatto liscio e privo di ostacoli: sassi, buche, fiori ed erbacce minavano ai loro piedi, desiderosi solo di farli cadere e interrompere la loro corsa, ma ad Arya non importava e rideva come una bambina: che importanza aveva essere a meno di un giorno da loro? Nessuna, perché quando correva era facile non pensare. Arya non si era mai sentita più viva di così.
La Terra di Mezzo era così varia e vasta, bellissima, piena di sorprese. Proprio un giorno prima fuggivano in mezzo al nulla più totale e adesso lei correva spalancando le braccia, sentendo i soffi delicati delle lavande sotto i palmi. Ed era facile relegare il pensiero di Azog in un angolino nella mente per tirarlo fuori quando le gambe cominciavano a far male e l’andatura a diminuire. Procedevano anche più leggeri perché in una precedente imboscata erano stati costretti ad abbandonare i propri bagagli restando con poca roba. Stava ingaggiando una gara più o meno lecita con Fili e Kili quando udì un ruggito dietro di loro che la spinse a voltare la testa verso la fonte del suono. Inciampò.

Un gemito terrorizzato le sfuggì dalle labbra quando vide la cosa che li seguiva. L’enorme orso avanzava snudando le zanne e ruggendo come un leone. Arya si alzò con impeto aiutata da qualcuno che non riconobbe. Voltò di nuovo la testa, vedendolo sempre più vicino. Non avevano via di scampo! Il cuore batteva a mille nel suo petto, il fiato era spezzato da ansimi di fatica, le gambe si muovevano da sole per paura. Terrore era poco per descrivere quello che provava. Non penseresti mai di morire sbranato da un orso troppo grosso per essere vero, eppure quella sarebbe stata la morte più normale a cui sarebbe andata incontro, in quel mondo. Non voleva morire, voleva scappare. Entrarono nel giardino della casa di corsa, attraversando velocissimi il vialetto e buttandosi sulla porta. Commise l’enorme errore di gettarsi a capofitto sui suoi compagni, certa che avrebbero aperto la pesante porta di legno subito; invece sbatté contro il corpo di Nori, rimbalzando all’indietro per il contraccolpo. «Aprite la porta, PRESTO!» urlò disperata quando vide la bestia varcare la soglia del giardino. Si avvicinava, correva avanzando feroce verso di loro, un balzo più veloce del precedente. Vicino, sempre più vicino …
Thorin aprì di scatto il battente. Qualcuno l’afferrò per la collottola e la spinse dentro, facendola rotolare sul pavimento. La bestia attaccò con un ruggito il portone, ringhiando inferocito per assaggiare le loro carni. Arya, riversa sul pavimento, si allontanò strisciando di alcuni passi, rabbrividendo le vedere quanto grande e feroce fosse. Snudava le zanne con rabbia e cattiveria, sputi di saliva volavano via dalle fauci affamate. Ma i nani spinsero, spinsero, spinsero e riuscirono a lasciarlo fuori, rinchiudendosi in quell’enorme tenuta. Si tirò su con qualche difficoltà e si osservò intorno, ignorando gli altri. Quel Beorn doveva essere davvero alto, molto più di un uomo normale, se i soffitti erano così alti e le api così grosse. Vide dove avevano il nido, perciò decise che si sarebbe stabilito dalla parte opposta del fienile – perché era quello ciò che la casa sembrava. La parte dell’abitazione che poteva essere chiamata “casa” comprendeva un tavolo e delle sedie, punto. C’erano anche dei buoi, constatò un po’ stupita, ma decise di non aprir bocca e pregò che non venisse loro voglia di esplicare le loro funzioni durante la loro breve permanenza. Anche in quel caso si diresse dalla parte opposta, trovando un bel posticino arieggiato al punto giusto.
Quel pomeriggio pareva aver perso la sua vena ciarliera, giacché non partecipò attivamente alle conversazioni dei suoi amici, come faceva di solito, limitandosi ad ascoltare e a rispondere solo se interpellata –cosa che accadde molto di rado: i nani coglievano ogni occasione per mantenere la quiete, per quanto potesse essere quieta una stanza con Fili, Kili e Bofur insieme. Non aveva nulla: nessun malessere, anzi, nonostante il grande spavento di prima si sentiva leggera e felice e percepiva un onnipresente sorriso aleggiarle in viso. Non sapeva perché si ritrovasse ad arrossire o a ridacchiare, ma non le dispiaceva. Si addormentò col sorriso, schiacciata dall’abbraccio di Kili.
Quando riaprì gli occhi, la luna le colpiva il viso, bagnandolo di luce. Sbatté un paio di volte le palpebre, sedendosi con cautela. Kili non la stava abbracciando più, era riverso sulla schiena e aveva un braccio sulla faccia, la luna che baciava anche lui e russava a bocca aperta. Arya sorrise intenerita e si alzò, facendo attenzione a non svegliare gli altri. Anche Bombur russava sonoramente, ingerendo ed espirando delle farfalline capitate lì per caso, e tutti gli altri erano tranquilli. Non sapeva perché si fosse svegliata all’improvviso, ma le lame di luce che filtravano alle finestre non erano di certo un incentivo sufficiente per farla riaddormentare, anzi. Cercando di non fare rumore, si diresse verso una delle finestre della casa, poggiò il capo su un cornicione e iniziò ad osservare il cielo, lasciando vagare lo sguardo. La luna piena era enorme, così grande che riusciva a vederne i crateri  con estrema nitidezza; le stelle brillavano come tenui lucine nel cielo di un blu puro e deciso, di quelli che si posso incontrare solo nei sogni. Alla ragazza sembrava proprio di essere precipitata in un sogno – il suo sogno. E che Dio la perdonasse, non voleva più svegliarsi.
Per tutta la vita aveva vissuto sentendosi come il pezzo mancante di un puzzle, sbagliata, uno di quei pezzi che non coincidono perfettamente con il disegno. E se ne era fatta una ragione, aveva imparato a conviverci, ad apprezzare le piccole cose, perché era quello che faceva lei: si accontentava. Non che non amasse la sua famiglia e i suoi amici, ma c’era sempre stato –sepolto in profondità, ma c’era – un senso di malessere e disagio che non era riuscita ad estirpare del tutto. La fotografia, i fumetti e lo studio erano ottime valvole di sfogo, ma come poteva evitare di far tornare a galla quei sentimenti che, maligni, si manifestavano nei momenti meno opportuni? Aveva provato a gettarsi sui rapporti umani, fallendo miseramente anche in quel campo. Era stata innamorata di Leo, lo aveva amato profondamente, quanto può una quattordicenne verso il suo primo ragazzo, e lui l’amava – l’amava ancora, e questo le faceva male.
Quello che c’era stato fra loro era stato dolce, ma l’amore non può cambiare la natura di un uomo. O di una donna, nel suo caso. E qual era la natura di Arya? Glissare, fuggire, evitare gli argomenti spinosi. Era un buon metodo che funzionava male, come era solita dirle una sua amica. Il metodo era buono perché in linea di principio andava, solo che alla lunga perdeva funzionalità e i sentimenti che provava a reprimere bussavano alla soglia del suo cuore con crudele soddisfazione: per quanto tu possa chiudere gli occhi e ignorare i tuoi problemi noi saremo sempre qui a tormentarti!

Era da molto tempo che Arya non amava più Leo, ma non aveva mai avuto il coraggio di uscire allo scoperto, soprattutto perché lui l’amava, l’aveva sempre amata, fin da bambini, quando lei lo aveva spinto in piscina per scherzo – o per dispetto? Arya non se lo ricordava, e conoscendosi sospettava fosse più per il secondo motivo: dopotutto da bambina era una terrorista, non si sarebbe sorpresa se avesse provato l’impulso di annegare qualcuno.
Sotto quel cielo trapunto di stelle veniva da chiedersi come potessero esistere tutti i sentimenti come tristezza, odio e disperazione, come potesse, una ragazzina di diciotto anni, essere tanto vigliacca da non riuscire a confessare al suo ragazzo che erano anni che non lo amava più. Il chiaro di luna era così splendido, così romantico, che riuscì a virare i suoi pensieri su argomenti meno amari.
Lei era viva, e non perché non era morta di recente, ma perché … perché … non era in grado di spiegarlo nemmeno lei. Erano forse le immense distese erbose della Terra di Mezzo che le davano tutta quella carica? Era stata un primate, miliardi di anni prima, forse antichi geni sopiti si erano risvegliati? No, non era questo. Volse lo sguardo verso l’interno della casa e trovò la risposta che russava con mala grazia, assolutamente ignara delle sue considerazioni. Un sorriso dolce le increspò il viso: i miei dolci nani, non potè fare a meno di pensare, anche se di dolce non avevano proprio niente. Nonostante non sarebbero dovuti nemmeno esistere – erano personaggi di un libro, dopotutto – era molto più affine a loro che alle sue vecchie conoscenze, sospettava, e amava molto di più loro che gli altri, e di questo ne era sicura. Prese dalla tasca del giacchetto il suo portafogli, l’unica cosa che non si era sentita di lasciare a Granburrone. Il peso familiare delle monetine da venti centesimi le riportò alla mente l’odore fragrante del bar della sua scuola, dove si recava ad ogni intervallo per acquistare le caramelle gommose alla frutta che nemmeno le piacevano tanto. Era un portafogli molto semplice, di tela rosa, imbrattato dai disegni che aveva fatto con il pennarello indelebile, con due scompartimenti: il primo serviva per gli spiccioli, il secondo conteneva eventuali – ed inesistenti – carte di credito e i contanti. Sua madre era piena di carte fedeltà dei supermercati, lei invece aveva solo tessere di biblioteche, librerie e della metro. La carta d’identità era un po’ usurata, ma non era messa male. Un altro problema andava ad aggiungersi a quelli che aveva già, e forse solo quel foglietto ora inutile poteva aiutarla.

I ricordi … le persone … stavano sparendo. Le loro personalità erano ancora ben definite nella sua mente, ma l’aspetto fisico … c’era già qualcuno di cui non ricordava il nome … per esempio, quella ragazza dalla personalità vivace e riflessiva … Chi era? Sentiva di volerle tanto bene, ma se provava a ricordare il suo nome, quello le sfuggiva via come acqua fra le dita. E non era un bene, perché sebbene non volesse tornare a casa, non doveva dimenticarsi chi era.
«Notte insonne?»
La sua voce la fece trasalire: «Thorin! Mi hai spaventata!»
Il nano si avvicinò a lei scrutando con vago interesse l’esterno della casa, le mani giunte dietro la schiena: «Progettavi la fuga?»
La domanda non era stata fatta come un’accusa, bensì come un tentativo di iniziare una conversazione.
«No.»
 Non me ne andrei mai. E’ questa la vita che ho sempre desiderato vivere. Arya capì troppo tardi di aver sussurrato, invece di aver fatto una considerazione personale, perchè Thorin si girò verso di lei: «Tu hai sempre desiderato vivere una vita vagabondando senza un tetto sulla testa e fuggendo ogni giorno da pericoli più grandi di te?»
Arya avrebbe potuto eludere quella domanda con facilità, se solo non avesse avuto la mente svuotata da ogni pensiero. Rispose quindi con sincerità: «Io ho sempre desiderato vivere una vita combattendo per qualcosa in cui credo.»
«E in cosa credi?»
In noi, avrebbe potuto rispondere: in noi, nella Compagnia. Ma non poteva farlo. «Io credo che tu abbia ragione a riprenderti ciò che è tuo perché è un tuo diritto. Che sarai un buon Re e che è giusto aiutare gli amici. Perché noi siamo amici, vero?» Non voleva correre il rischio di aver detto una cavolata, non dopo che sembravano aver iniziato ad instaurare un rapporto basato sul rispetto reciproco invece che sui dispetti e le linguacce.
Per la prima volta dopo l’abbraccio, Thorin le sorrise. Un sorriso dolce che si estese fino agli e che le trasmise tanto calore da contagiarla: «Arya, tu sei molto di più.»
Spiazzata, non trovò nulla di intelligente da dire, quindi si limitò a sorridergli e a tornare a guardare il cielo, realizzando solo dopo che loro erano lì, vicini, al chiaro di luna, e nulla avrebbe potuto essere più perfetto di così. Stavano parlando, semplicemente parlando, e il mondo era perfetto.
«Che cos’hai in mano?» le chiese Thorin. Arya, realizzando che stringeva ancora il documento in mano, arrossì leggermente perché quella non era una delle sue foto migliori, ma glielo porse lo stesso, dicendogli che era la sua carta d’identità. Gli spiegò brevemente a cosa servisse e cosa c’era scritto, mormorando che qualche giorno di qualche settimana prima – ormai aveva perso la cognizione del tempo – aveva compiuto diciotto anni e che quindi era diventata maggiorenne. «E’ importante, sai» annuì con fierezza: «Ora posso firmarmi le giustificazioni da sola, a scuola.» Aveva la testa sulle spalle, lei.
Thorin indicò foto: «L’artista è stato davvero molto bravo»
«Si chiama “macchina fotografica”. Bello il chiaro di luna, vero?»
Il nano annuì vago. «E’ una fortuna che sia piena. Abbiamo più luce e riusciamo a vedere quasi come se fosse giorno: ci sarà molto utile in caso di fuga.»
«Non è quello che intendevo ma rispetto la tua opinione.» Arya ridacchiò. «Io lo trovo romantico, è un peccato che non possa fotografarlo.»
Thorin alzò gli occhi al cielo: «Tu trovi tutto  romantico»

Arya gli fece una linguaccia, rivolgendo lo sguardo al cielo, alla ricerca di qualche costellazione. Balin era in grado di riconoscerle tutte, di scovare anche il più piccolo gruppo di astri: «Ogni stella ha la sua storia, bambina mia» le aveva detto una notte, quando l’aveva sorpresa a scrutare la volta celeste: «Anche la più insignificante. Alcuni credono che siano delle lucciole rimaste intrappolate nel cielo, altri pensano che siano raggi del Sole adottati dal suo grande amore, la Luna. Ogni giorno il Sole tenta di raggiungerla, ma la Luna è timida, e si nasconde, fuggendo per un pelo. E’ solo durante le eclissi che i due amanti si ricongiungono, seppur per un breve periodo. Baci fugaci, lesti abbracci e dolci carezze sono tutto ciò che possono concedersi, prima di riprendere il loro doloroso gioco. Molte persone pensano che le stelle siano il frutto dell’amore fra la Luna e il Sole, per sempre accuditi dalla madre, alla costante ricerca del padre. In realtà nelle stelle è scritto il destino di tutti noi, bambina, e pochi sono in grado di leggerlo.»
«Ancora meno sono in grado di essere il destino. Rare sono le persone che in vita hanno brillato così tanto che per grazia dei Valar continuano a vivere nella volta celeste anche dopo la loro morte su questa terra: non sarebbe giusto farli morire e basta, non credi? E così i loro spiriti si trasformano in polvere fatata, e veglieranno su di noi, fino alla fine dei tempi. E’ questo che sono le stelle in realtà: non lucciole, non raggi di Sole, non i figli della Luna: sono persone buone, le migliori fra noi, che vivono per narrare la loro storia. Lì, ci sono i grandi Re del passato.»
Arya non aveva avuto il cuore di dirgli la verità. Con quale coraggio avrebbe potuto dirgli che i grandi Re del passato non erano altro che corpi gassosi distanti anni luce da loro e destinati, prima o poi, a svanire? «Anche il nonno di Thorin è lassù?»
«Certo» aveva risposto Balin, non senza una nota di tristezza ad incrinargli la voce: «Certo.»
«Una volta nel cielo c’erano due lune» aveva allora detto Arya: «Ma una si avvicinò troppo al Sole e cadde, bruciando. La leggenda narra che dai suoi frammenti nacquero delle uova di drago, che piovendo sulla terra trovarono la casa perfetta per prosperare, e portarono con loro la magia. Presto, anche questa luna si avvicinerà troppo, e i draghi ritorneranno nel nostro mondo.»
«Allora speriamo che quel presto giunga tardi» Balin le aveva sorriso: «Abbiamo ancora un Drago da togliere di mezzo»
Fu la voce di Thorin a riportarla alla realtà. «Dovresti dormire. Domani ci rimetteremo in viaggio.»
Arya sospirò: «D’accordo. E tu?»
«Vengo anche io.»
«’Notte»
Tornò al suo posto vicino a Kili e Fili, e chiuse gli occhi, molto più stanca di quanto si sarebbe aspettata. Cominciò a mormorare i nomi dei ricordi, come faceva da molte notti a quella parte, per non dimenticare. In italiano, perché non la potessero capire. «Mamma, papà, Martina, Leo, A … Arianna? Mamma, papà, Martina, Leo, Arianna. Mamma, papà, Martina, Leo, Arianna.» Ogni notte diventava più difficile ricordare qualcuno o qualcosa. Ogni notte, prima di dormire, perché non dimenticasse.
 
La mattina giunse inattesa e indesiderata, troppo presto per i suoi gusti. La notte precedente era stata limpida quanto la mattina che aveva preceduto: così come la luna le aveva colpito il viso, il sole filtrava con prepotenza, arancione e giallo, e sembrava stranamente alto. Capendo di aver dormito molto più del normale, Arya si alzò, sbuffando. I ragazzi sembravano essere tutti riuniti a tavola, a giudicare dal chiacchiericcio, ma lei decise di andare alla ricerca di un catino d’acqua per sciacquarsi un po’. Non le piaceva stare per troppo tempo senza lavarsi – cosa che ai nani non sembrava dar per niente fastidio, invece – ma aveva capito sin dall’inizio che avrebbe dovuto farci l’abitudine, quindi di solito non ci prestava attenzione. Ma in quella casa un po’ d’acqua doveva esserci, e infatti, stiracchiandosi, vide un recipiente pieno proprio accanto a lei. Sospettava che Bilbo fosse l’artefice di quel pensiero gentile. Quando si specchiò sulla superficie d’acqua per poco non urlò per l’orrore, però restò a bocca aperta, incredula.
 Non poteva esser davvero conciata così. Non aveva mai badato tantissimo al proprio aspetto, non con la cura maniacale di sua sorella, ma molto di più di altre ragazze che si trascuravano proprio: insomma, dal suo punto di vista, si prendeva cura di sé nella maniera appropriata, giusto il necessario per apparire presentabile e risultare gradevole alla vista. Ma così … oh, non era mai stata più trasandata di così. Lo specchio d’acqua le rimandava l’immagine di una ragazzina sporca di terra, le guancie coperte di lividi e il viso bruciato dal sole. Un taglio sottile e quasi del tutto rimarginato attraversava la guancia sinistra, completamente coperta di sporcizia. E i capelli. I capelli erano un altro paio di maniche. Già erano abbastanza inutili prima, ma adesso … adesso il fango e la terra li avevano resi luridi e impastati, afflosciati una coda di cavallo che Arya non aveva alcuna intenzione di toccare. Ho bisogno di una doccia, pensò decisa la ragazza. Ho bisogno di una doccia e guai a lui se mi dice che non c’è tempo. Non osava immaginare che odore dovesse avere. Il Dì di Durin poteva essere incombente quanto voleva, ma lei non avrebbe mosso un altro passo se non si fosse lavata come diceva lei. Perciò fece il suo meglio con l’acqua del catino e si diresse a grandi passi verso la tavola.

«Senti un po’» aveva un tono deciso e lo sguardo fermo, l’indice accusatore puntava verso Thorin: «Noi abbiamo bisogno di lavarci e non dirmi che non è vero perché …» la voce si perse nell’aria non appena la ragazza vide in nuovo arrivato. Era enorme, alto quanto lo stipite del portone, se non di più, visto che quando camminava doveva abbassare  la testa. Camminava posando pesantemente i piedi per terra, aveva uno sguardo pieno di diffidenza, duro e stranamente animale. Le iridi erano d’orate come il miele, ma non possedevano neanche un briciolo della sua dolcezza. La scrutava con sospetto. «Chi sei tu?»
«Arya Sparrow.» Una bugia così naturale da sembrare la verità. Battè le palpebre, confusa. «E tu chi sei?»
Gandalf s’intromise: «Lui, mia cara Arya, è Beorn, mutatore di pelle. Il nostro anfitrione e salvatore, visto che ci ha concesso asilo in casa sua, cosa di cui siamo grati.»
Arya aveva letto abbastanza libri fantasy da capire che c’era qualcosa nel tono dello stregone che non andava, qualcosa che non andava nemmeno nello sguardo di Beorn, che la faceva sentire a disagio, come se fosse stata una preda braccata nella foresta. Ma capiva anche che dire la cosa sbagliata, o fare la domanda sbagliata, avrebbe potuto far precipitare le cose, perciò si esibì nel sorriso più cortese del suo repertorio, ed emulò il comportamento dei nani, inchinandosi leggermente: «I miei ringraziamenti, mutatore di pelle.» Era lui l’orso.
«Cosa ci fa una ragazza umana in compagnia di tredici Nani, un Hobbit e uno Stregone?» chiese Beorn, con voce cavernosa.
«Non quello che pensi tu» Gandalf sorrise conciliante: «Arya è nostra amica. Si è persa sulla strada di casa, e in cambio dei suoi grandi quanto pericolosi servigi noi le abbiamo offerto protezione e un posto nella nostra Compagnia»
Beorn non ricambiò il suo sorriso: «Allora benvenuta alla mia tavola, Arya Sparrow.»
«Grazie» Arya si sedette accanto a Bofur, che le strinse la mano per darle il buongiorno. Gli altri, che avevano seguito lo scambio di battute con attenzione, temendo di vederle negata l’ospitalità, la salutarono con sorrisi e battute, riprendo a mangiare. Arya perlustrò due volte la tavola con lo sguardo, prima di capire che la crema che stava cercando non c’era. Non ricordava il nome del dolce, ma ne ricordava il sapore: casalingo, squisito, di nocciole. Era solita spalmarlo sul pane o sulle fette biscottate, prima. Leggermente delusa, si servì di tutte le cose dolci che riuscì  a trovare, versando una generosa quantità di miele nel suo latte. Bofur le offrì anche una salsiccia affumicata, ma Arya declinò l’offerta con veemenza cedendola a Bombur, che le sorrise radioso. Prestava scarsa attenzione alle conversazioni del tavolo, annuendo vagamente qua e là, visto che la sua attenzione era catturata da Fili che stava bevendo da un bicchiere più grande di lui. Quella vista la fece ridacchiare stupidamente, considerando l’argomento che Thorin e Beorn stavano trattando.

«Dimmi, perché Azog il Profanatore è sulle vostre tracce?»
«Tu sai di Azog» rilevò Thorin. «Come?»
«Il mio popolo è stato il primo a vivere sulle montagne, prima che gli orchi venissero giù dal nord. Il Profanatore uccise molti della mia famiglia, ma alcuni li resi rese schiavi.» Man mano che proseguiva il racconto stringeva a sé la brocca con cui aveva riempito il boccale di Fili, come se necessitasse di un appiglio a cui aggrapparsi per sopportare la crudeltà dei ricordi. Lo sguardo era vacuo, perso. Aveva dei ceppi ai polsi, cosa che Arya non comprese fino a quando Beorn non andò avanti a raccontare. «Non per necessità, vedi …» ogni parola grondava di disprezzo: «Ma per sport.» Sguardi allarmati serpeggiarono nella Compagnia: molti di loro si mossero sulle sedie, a disagio. «Intrappolare mutatori di pelle e torturarli sembrava divertirlo molto» concluse Beorn, riempiendo il boccale di Fili.
«Ci sono altri come te?» chiese Bilbo, dando voce agli interrogativi di Arya.
Beorn distolse lo sguardo. «Una volta ce ne erano molti.»
Oh. «E ora?»
«Ora, ce ne è solo uno»
«Oh.»
«Dovete raggiungere quella Montagna, prima degli ultimi giorni d’autunno» disse Beorn.
Gandalf confermò espirando il fumo della pipa: «Prima che il Dì di Durin giunga, sì.»
Beorn li osservò pensoso: «State correndo contro il tempo»
«Per questo prenderemo la via per Bosco Atro» Gandalf annuì.
«L’oscurità grava su quella foresta» il mutatore di pelle guardò lo Stregone con gravità: «Strane creature prosperano sotto quegli alberi. C’è un alleanza fra gli orchi di Moria e i goblin di Dol Guldur. Io non mi avventurerei lì, se non in caso di grande necessità»

Arya non era spaventata da ciò che Beorn raccontava: certo, un po’ d’inquietudine l’aveva, sarebbe stato anormale il contrario, ma da quanto aveva capito degli Elfi vivevano in quella foresta. Gliene aveva parlato qualche volta Balin, anche se non ne era sicura. Se c’erano ci Elfi, allora non avevano di che preoccuparsi. Memore del soggiorno avuto a Granburrone, Arya quasi sperava di imbattersi in loro – magari così avrebbero fatto quella stramaledettissima doccia.
Gandalf confermò le sue supposizioni: «Prenderemo il sentiero elfico.»
«Attenti. Gli Elfi dei boschi non sono come gli altri parenti: sono meno saggi e più pericolosi. Ma non importa.»
Thorin si girò di scatto: «Che intendi dire?» Anche Arya si stava preoccupando. Quando una persona usa quel tono, vuol dire due cose: uno, non importa perché vi ammazzo io ora; due, non importa perché vi uccideranno loro dopo. Non sapeva decidere quale opzione fosse meglio.
«Queste terre sono piene di orchi. Il loro numero aumenta. E voi siete a piedi … Non raggiungerete mai quella foresta vivi.»
Si alzò dalla sedia, ergendosi in tutta la sua altezza. Lo sapeva, li avrebbe uccisi lui per primo lì.
«Non mi piacciono i nani. Sono avidi e ciechi, ciechi verso la vita di chi considerano meno di loro …» prese con delicatezza un topolino che Bofur stava scacciando dal suo braccio e lo osservò pensieroso. Taceva, e quel silenzio era carico d’attesa. Arya sentiva i muscoli tesi e pronti all’azione. Sembrava pronto a strizzare il topolino nelle sue dita, e Thorin lo osservava con le braccia incrociate, anche lui guardingo. Arya riusciva a percepire la tensione nell’aria. Beorn accarezzò il topolino. «Ma gli orchi li odio di più. Che cosa vi serve?»
Un sospiro le sfuggì dalle labbra e percepì i muscoli sciogliersi.
 
Beorn possedeva tanti bei cavalli, grandi stalloni dal pelo chiazzato di marrone, le criniere folte e pallide come un timido raggio di sole. Erano bellissimi, e sebbene Arya non avesse mai amato i cavalli, non potè far a meno di accarezzarli con gentilezza sul muso, mormorando qualche parolina dolce in italiano.
«Arya, vieni qui, noi non possiamo usare i cavalli» Kili la prese energicamente per mano: «Siamo troppo bassi. Perfino tu. E io sono più alto!»
«Sì, grazie per aver constatato l’ovvio, Kili. Li stavo solo accarezzando: sono così belli …»
«Ma dai! Allora accarezza anche i pony, che altrimenti si ingelosiscono!» Arya gli diede un pugno sul braccio, mormorandogli uno scemo veramente sentito, anche se sorrideva.
La ragazza dovette condividere la cavalcatura con Bofur, visto che non ne ce ne erano abbastanza con tutti. Comunque non era in grado di cavalcare, quindi alla fine sarebbe andata lo stesso così, ma evitò di raccontarlo in giro. Kili si era offerto di farle da cavaliere, ma Arya, per ripicca, aveva rifiutato con una linguaccia. Il pony di Fili era troppo carico, e Bofur era stato più che felice di aiutare il suo Uccellino. L’uccellino aveva provato a canticchiare, ma canticchiare a cavallo era impossibile. Fu così che a fine giornata arrivarono ai margini del Bosco. La ragazza era tutta intirizzita per tutte le ore passate a cavalcare e scese solo grazie all’aiuto di Bofur. Le doleva tutto: braccia, gambe, natiche e cosce erano le parti messe peggio, infatti camminava come se fosse stata uno zombie particolarmente sgraziato. Ma tutti ebbero la delicatezza di non farglielo notare, e Kili addirittura l’abbracciò. Quegli slanci di affetto non le dispiacevano affatto, quindi, mentre gli altri scaricavano le provviste dai pony, si avvicinò a Gandalf. Doveva chiedergli una cosa.
Lo Stregone non li stava aiutando, stranamente, perché guardava verso un’altura poco distante, che delimitava la radura erbosa su cui si erano fermati. Seguendo il suo sguardo Arya capì perché avevano attraversato indenni la strada. Beorn, sotto forma di orso, li aveva scortati, e li osservava ancora, a distanza di sicurezza. Le sembrava quasi di poter percepire lo sguardo da predatore sulla pelle e rabbridì, volgendogli le spalle. «Gandalf, devo chiederti una cosa.»
«Dimmi, ragazza mia.»
Deglutì, alla ricerca di parole: «Io … io, ecco … Tu lo sai che questo non è il mio mondo, anche se vorrei che lo fosse, vero? Mi credi, giusto?» Gandalf annuì e lei andò avanti: «Io … io mi sto dimenticando del vecchio mondo.» Strano come dirlo ad alta voce lo aveva fatto sembrare più vero. Sapeva che stava accadendo, eppure dirlo, confessarlo, faceva sembrare tutto più grave di quanto già non fosse. Arya si stava dimenticando degli affetti, della sua vita precedente.
«Cosa intendi dire?»
«Quello che ho detto: sto dimenticando. Le persone stanno sparendo: se penso a loro le personalità sono definite e so chi sono, ma il loro aspetto fisico … alcuni non hanno nome. Non mi ricordo nemmeno che scuola frequentavo – l’uso del passato la spaventò, soprattutto perché era venuto così naturale usare quel tempo, quasi avesse già deciso che aveva finito – e ieri non sono riuscita a ricordare il nome della mia professoressa. Mi spaventa, Gandalf. Come … perché sta succedendo?»

Gandalf le posò uno mano sulla spalla: «Non agitarti, Arya. Farò di tutto per aiutarti. Confesso che quello che dici però non mi risulta inaspettato e anzi, mi sorprende che tu ci abbia messo tanto a iniziare a dimenticare …»
«Tu lo sapevi?» scattò Arya, sbattendo le palpebre scioccata: «Tu lo sapevi e non mi hai detto niente?»
Non sapeva perché stesse sussurrando, forse perché non voleva far sapere che una grave amnesia le stava facendo dimenticare il suo passato. Sì, forse era per quello che sussurrava. 
«No, mia cara, io lo sospettavo. Cose di questo tipo sono grandi e pericolose, e so di certo che solo pochi riescono ad uscirne più o meno indenni. La magia ha sempre un prezzo, ricordalo bene, e i tuoi ricordi potrebbero essere lo scotto. Oppure, questa cosa potrebbe dipendere da te.»
«Me?» ripetè Arya: «In che senso da me? Gandalf, pensi davvero che io dimenticherei per mia scelta i nomi e i visi dei miei amici?»
«No, non sto dicendo questo. Ma tu stai facendo delle scelte, anche se potresti non accorgertene. Tutti devono fare delle scelte, nessuno escluso, e tutti hanno l’opportunità di fare grandi cose, è cosa risaputa. Ma alcuni hanno scelte più difficili di altri da affrontare, e solitamente sono le persone più forti a saper decidere la cosa giusta.» Le accarezzò la guancia in un gesto affettuoso: «Io sono molto affezionato a te, e tu sei una persona davvero coraggiosa, confido nella tua capacità di giudizio. Sono le scelte che facciamo a rivelare chi siamo, molto più delle nostre capacità.»
Arya lo guardava negli occhi, le labbra leggermente dischiuse. Non sapeva cosa dire, ma si costrinse ad annuire debolmente: «Spero che la tua fiducia non sia malriposta.»
«Io credo di no, mia cara» rispose lo Stregone, sorridendole.
Ma cosa ne poteva sapere lui, che riteneva coraggiosa una persona che non aveva mai avuto il coraggio di dire al fidanzato che non l’amava più? Che molte volte aveva taciuto quando piccole ingiustizie si verificavano davanti ai suoi occhi, impotenti e lacrimanti?
Non molto, si disse la ragazza, ma abbastanza da darmi fiducia, e questo mi deve bastare.
 


 


 
And if we live once, I wanna live with you.
-One Republic, Something I need-

Devo sbrigarmi, che mia sorella rompe. Vi vioglio bene e scusate l'ennesimo immenso ritardo.
Feniah <3
   
 
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