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Autore: s o m e o n e    05/01/2009    0 recensioni

L'uomo tende a dimenticare che da un germoglio nasce una quercia. Ed è in quel momento che l'arte di essere diventa cupa, inutile. Nello stesso istante in cui perdiamo la grazia nel nostro animo e l'attenzione nella nostra mente, qualcosa in noi muore, quella scintilla si spegne. Ci dimentichiamo il contatto con quella parte del mondo che crediamo scontata.

 

Genere: Romantico, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L'arte del sopravvivere .

 

Esiste una forma d'arte in ogni cosa. Talvolta, anche nelle cose meno aggraziate si può trovare quella scintilla divina, quella che Dio ha voluto racchiudere in ognuno di noi, quell'arte che sta proprio nel nostro essere; che questa scintilla venga sfruttata o meno, possiamo dire che il mondo, anzi, ogni forma di vita che lo compone, non è altro che una pennellata destinata a formare una tela di valore, non è altro che una mezza notta che forma una melodia, non è altro che una sillaba che crea la poesia.

Purtroppo la mente umana non è mai propensa a vedere i dettagli, le piccole cose, è propensa a interessarsi dei grandi fatti, dello scalpore; è nella natura dell'uomo non provare dolore per un fiore che appasisce, che si accascia lentamente sul suo stesso stelo, facendo cadere languidi e delicati i petali ormai raggrinziti. La necessità del straordinario.

L'uomo tende a dimenticare che da un germoglio nasce una quercia. Ed è in quel momento che l'arte di essere diventa cupa, inutile. Nello stesso istante in cui perdiamo la grazia nel nostro animo e l'attenzione nella nostra mente, qualcosa in noi muore, quella scintilla si spegne. Ci dimentichiamo il contatto con quella parte del mondo che crediamo scontata.

 

 

 

E' scoccata l'una di notte di una fredda notte di metà Dicembre. Sentiva distintamente il freddo nelle ossa, l'aria intrufolarsi fra i lunghi e lisci capelli color castano e giocare fra le ciocche colore del grano; nei suoi occhi, il riflesso di una luna placida e candida.

Nonostante il freddo, Elisabeth se ne stava fuori sul balcone di casa sua, pantofole ai piedi, vestaglia da notte e niente altro, ad assorbire il freddo di una notte senza sogni, ma soprattutto si una notte piena di pensieri. Pensava troppo.

Il momento della sera, della notte in particolare, era sempre letale per gli istinti della sua mente, cacciandola in pensieri troppo grandi per essere contenuti, e in altri troppo complessi per evitare un mal di testa. Benchè la sua testa la tenesse sveglia, quell'insonnia non la odiava, anzi, c'erano notti in cui ringraziava della sua esistenza, altre la malediceva.

Quella notte il pensiero macabro della morte faceva da padrone: pensava a come avrebbe voluto morire, pensò a lungo, ma in realtà lo sapeva fin troppo bene.

Voleva andarsene in grande stile, come succede nelle tragedie, una morte che non passa innoservata e la si ricorda per lo sfilare della sua bara, no. Il suo suicidio sarebbe stato il finale perfetto di un'opera di valore. Impeccabile, alla shakesperiana.

Pensò alle morti banali dei più grandi personaggi della storia, la cui fine era spesso per malattie che oggi non definiremmo certo gravi. Se fosse nata nel secolo precedente, avrebbe voluto morire davanti a un pubblico mentre non negava la sua fede al femminismo, insieme alle altre suffraggette; oppure come Maria Stuart, la cui morte è persino descritta nei libri di storia, con la celebre frase: nella mia fine c'è il mio principio. Sarebbe uscita dal palcoscenico con eleganza, grazia. Le morti banali sono per le persone banali e lei non si riteneva tale.

L'aria aveva sapore di inverno, un sapore aspro. Non le piaceva, non le era mai piaciuto, inverno significava vestiti pesanti, cappotti, sciarpe e guanti vari, voleva dire soffocare il proprio corpo per non farlo morire di freddo, le sembrava quasi una restrizione dell'anima stessa; l'inverno la faceva sentire imprigionata, a disagio, spenta.

Forse era per colpa dei fiori appassitti e degli alberi spogli, oppure delle panchine troppo fredde per sedercisi sopra o del cielo troppo grigio. L'inverno era una stagione letale, infida, ma aveva quel qualcosa di puramente magico: la bellezza della neve, la sua grazia nello scendere e nel posarsi sui tetti delle case, la brezza che sapeva di ghiaccio e i raggi del sole che infondevano un po' di calore in quella ghiacciaia.

Rientrò in casa, chiudendo piano la porta finestra. Notò un biglietto sulla scrivania, quello che Alice le aveva dato, a dire il vero non lo aveva ancora letto, ma, forse, non gliene importava, o forse sì. Si avvicinò, e nel biglietto vi era scritto un indirizzo. Alice la conosceva, doveva essere un indirizzo di qualcosa o qualcuno di interessante.

Sabato sera, sapeva sarebbe stata fuori. Non sapeva se mandarle un messaggio e chiederle di chi era quell'indirizzo, oppure stare nel mistero e, l'indomani, scoprirlo di persona. La curiosità la stava uccidendo, ma da un lato non voleva sapere. Decise il dubbio. Prese posto dalla scrivania sulla sua sedia, accese una lampada e si poggiò sui gomiti. Da quanto tempo non usciva? Non se lo ricordava, il suo essere asociale le faceva dimenticare le azioni, accentuando i sensi. Però, aveva voglia di uscire, raggiungere Alice. Il pc ancora acceso, emetteva un ronzio insopportabile, lo chiuse con cattiveria e fastidio. Sentiva nell'altra stanza i suoi genitori che dormivano profondamente, chissà quali sogni stavano facendo, o se pure le loro menti di notte erano tanto ovattate da non produrre paura e desiderio alcuni.

Il cellulare la distolse dai pensieri, un messaggio, Alice, chi mai poteva essere? quasi trecento numeri (o di più?) in rubrica, ma a malapena ricordava i volti a cui appartenevano i numeri: non le importava delle persone al di fuori del cerchio, il suo cerchio.

Ogni sabato sera, alle due e cinquantacinque, anzi, ogni domenica mattina, arrivava un messaggio dell'amica che le chiedeva se alla fine era uscita. La risposta era sempre un no, ma ogni domenica mattina (o sabato sera) c'era sempre un barlume di speranza, quasi il desiderio che Elisabeth avesse una vita. A dire il vero ce l'aveva, nel suo cerchio di persone e pensieri, un privé, riservato a pochi, ma comunque una vita. Di Alice il difetto era quello di non vedere il mondo invisibile. Il mondo visibile c'era anche, ma non era ben curato, anzi, sarebbe quasi da dire che Elisabeth non avesse buoni rapporti con esso, quasi come fosse incompatibile. Però c'era. Gli amici, la reputazione, la vita. Piatta, monotona, quella che ti ricorda che sei su questo mondo. Che poi, quale mondo? Ormai la differenza fra il suo e quello di tutti era quasi nulla, bisognava solo stare con un piede in uno e un piede nell'altro, lasciare equilibrata la cosa, senza diventare noiosa e monotona per la realtà e nemmeno troppo assorta e persa nei viaggi mentali. Era un equilibrio troppo fragile. Un equilibrio che, prima o dopo, anche lei lo sapeva, poteva, anzi, doveva spezzarsi. 

 

  
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