Madonna, dir vo voglio
como l’amor m’à priso
inver lo grande orgoglio
che voi, bella, mostrate, e no m’aita
Oi lasso, lo meo core,
che ’n tante pene è miso
che vive quando more
per bene amare, e teneselo a vita!
Dunque, mor’ e viv’eo?
No, ma lo core meo
more più spesso e forte
che non faria di morte naturale,
per voi, donna, cui ama,
più che se stesso brama,
e voi pur lo sdegnate:
amor, vostra ‘mistate vidi male.
[…]
Seduto sul proscenio, il giovanotto Louis Tomlinson se ne stava distratto a leggere e rileggere le parole della poesia che avrebbe declamato di lì a pochi giorni alla corte del Re. Era strano, per l’epoca, che fosse chiamato un poeta d’oltremare per declamare davanti a sua maestà; si diceva, però, che il giovane Tomlinson fosse la rivelazione del secolo terzo; di bell’aspetto, e di buon cuore, una combinazione alquanto insolita per i poeti della sua generazione.
Si trovava in Italia da qualche mese ormai e non aveva potuto far altro che apprezzarne gli usi e costumi, così tanto diversi dalla sua madre patria, l’Inghilterra. Così tanto freddi e lontani da lui che erano sbiaditi perfino nella sua memoria. Se qualcuno gli avesse chiesto di definirsi, non sapeva cosa avrebbe risposto. Era rimasto colpito dall’Italia fin dall’inizio, e il maggior difetto di Louis era uno solo: era troppo semplice entrargli nel cuore.
Questo, lo riportava con la mente al suo disastro più grande. Lasciare entrare nel suo cuore Harry Styles. Non che quest’ultimo gli avesse chiesto il permesso per farlo. Ma poi, riflettendoci, l’amore chiede il permesso?
No, l’amore non lo fa. L’amore entra, ti stravolge e va via, lasciandoti con un po’ di cenere che scivola tra le tue stesse dita. Se solo Louis l’avesse avuta, quella cenere.
Non si poteva nemmeno dire che il suddetto Harry Styles, lo conoscesse. Ed era questa la cosa peggiore, Harry non sapeva nemmeno della sua esistenza e per questo, Louis un po’ lo odiava. E poi lo amava, e poi lo odiava ancora. E così via, in un circolo senza via d’uscita alcuna.
Lo aveva visto per la prima volta, al suo primo debutto italiano, durante una declamazione in piazza. Indossava un completo scuro, che gli fasciava perfettamente le gambe, lunghe e toniche. I capelli, lasciati liberi, gli cadevano perfettamente ai lati del collo con qualche riccio che gli accarezzava la fronte, dandogli quell’aspetto da bambino. Due labbra carnose e morbide, Louis poteva dirlo pur non avendone mai assaporato la consistenza, di un rosso color ciliegia e gli occhi, verdi e brillanti; ci si poteva vedere il mondo in quegli occhi. Era un angelo, un angelo tentatore sceso sulla terra per rendere la sua vita un inferno.
Aveva scoperto il suo nome quasi per caso, ascoltando le conversazioni dei suoi compagni di teatro che parlavano di un ragazzo misterioso che appariva spesso alle loro rappresentazioni nell’ultimo periodo. Si era sentito quasi un ladro, Louis, ad ascoltare di nascosto quelle conversazioni ma la curiosità si era impadronita di lui e non aveva potuto fare nulla per fermarla. Poi aveva pensato che almeno questo, quell’angelo glielo doveva.
E così Harry aveva iniziato ad impadronirsi dei suoi pensieri, poi delle sue notti, poi dei suoi sogni. Così, d’improvviso, senza nemmeno avergli chiesto come si chiamasse. E Louis glielo permetteva perché, in fondo, era l’unico modo che aveva per sentirlo, amarlo.
Eppure, Harry era sempre lì durante le sue esibizioni. A volte si chiedeva se era il suo modo per sostenere quello che faceva, il suo lavoro da poeta. Era lì, pronto ad osservarlo e studiarlo; Louis li sentiva i suoi occhi verdi liquidi su di lui mentre cercava di concentrarsi nella parte. Li sentiva perforargli la pelle e rubargli l’anima, per poi ricucire la ferita e andare via. Ogni volta, Harry rubava una parte di lui, e lui glielo lasciava fare.
Più lui gli rubava l’anima, più Louis lo amava. E avrebbe continuato a farlo perché l’amore non ha un senso, è illogico; ti macchia il cuore e non puoi cancellarne i segni. Anche se Harry non avrebbe mai saputo il suo nome.
[…]
Lo vostr’ amor che m’àve
in mare tempestoso
è sì como la nave
ch’a la fortuna getta ogni pesanti,
e campan per lo getto
di poco periglioso:
similemente eo getto
a voi, bella, il miei sospiri e pianti,
che s’eo no li gittate
parria che soffondesse,
e bene soffondara,
lo cor tanto gravara in suo disio
che tanto frange a terra
tempesta che s’atterra
ed eo così rinfranco
quando sospiro e piango posar crio.
Ciao!
Sinceramente? Non so da dove questa flash sia uscita fuori. So solo che stavo preparando un esame, ho letto questa poesia sul libro e più leggevo e più queste frasi mi saltavano in mente e indovinate chi vedevo come protagonisti di tutto? Sempre loro! Ahhh, che tragedia che sono!
Niente, spero davvero che questa mini-mini-mini storiella vi sia piaciuta e che abbiate colto il senso di quel che volevo dirvi. In caso contrario sono lieta di accogliere dubbi, critiche, insulti(?) ovunque voi vogliate.
Se vi è piaciuta, non risparmiatevi: fatemi sapere comunque cosa ne pensate. Sapete quanto mi faccia piacere leggere i vostri pareri **
Ringrazio Flavia, che ha subito i miei scleri e le mie perplessità prima di chiunque altro su questa cosa. Sei unica **
Una canzone che mi ha aiutata particolarmente durante la stesura di questa cosetta è Wasted di Jack Savoretti.
Vi lascio come al solito i miei contatti, così sapete dove trovarmi per qualsiasi cosa voi vogliate dirmi :)
Vi saluto annunciandovi che ho già in cantiere la prossima storia e spero di postarla quanto prima!
Alla prossima, C. xx