I quattro camper color crema scambiato erano dinanzi a me: mi fermai … tremavo come una foglia …
Quel nanetto di Nanni mi venne incontro:
- Ah, finalmente sei arrivato.
era alto appena un metro, era calvo, con gli occhi piccoli e scuri e un naso grosso come un pomodoro.
Madre natura non era stata generosa con lui.
Mi prese per mano e mi trascinò verso il suo camper, come un padre che trascina il figlio con sé verso chissà cosa.
Entrai nel suo camper, nella sua casa.
Non era così piccolo come pareva da fuori: c’era un tavolino per mangiare, un piccolo frigo, una piccola toilette e ben due letti.
C’era poco, insomma, ma in compenso lo spazio era sufficiente per muoversi e respirare.
- Quello - disse, indicando il letto più vicino alla toilette – sarà il tuo letto … sempre che Antonio ti voglia.
- Antonio?
- Antonio, il tuo capo, anzi, il nostro.
- Quando posso vederlo?
- Subito!
- Cos’hai lì dentro? – chiese Nanni indicandola
- Le mie poche cose.
- Ovvero?
- Niente riviste sporche, se ti interessa!
Almeno Nanni dovette prenderla come una battuta, dato che mi rise in faccia, per poi riprendermi per mano e portarmi dal nostro capo.
*****
Attraversammo il tracciato in polvere del parcheggio per arrivare da Antonio.
Fuori dal suo camper, vidi una figura che catturò subito la mia attenzione: una donna ballava da sola e con dolcezza accanto ad una sedia sulla quale era riposto uno stereo … ballava sulle note di un brano classico.
Non ricordo quale … forse un brano di Schubert.
Non riuscii a vederla in faccia, ma balzò subito alla mia vista i lunghi e lisci capelli biondi che la “inondavano” fin giù alla schiena.
Non m’importò nulla di che vestito avesse indosso (neanche lo ricordo), il mio sguardo era solo per quei capelli e quella figura celestiale.
Senza una parola, Nanni diede uno scossone al braccio che mi fece tornare con l’attenzione sul pianeta Terra.
Dunque mi spinse dentro il camper del nostro capo.
*****
Mi sedetti su una vecchia sedia in legno ad un tavolo che si affacciava su una piccola finestrella, l’unica del camper.
Dalla toilette uscì un signore vestito di un frac con una coda lunga che gli arrivava fino ai piedi, tutta rossa e con chiazze tonde color giallo, verde e fucsia; il pantalone era bianco e a righe azzurre e largo tre volte la sua taglia, quanto le scarpe bianche di taglia cinquanta … di certo non la taglia dei suoi piedi.
Quell’aspetto buffo faceva pensare ad un autentico clown … o ad una persona buona …
- Sto provando gli abiti di scena: non sapete bussare? – chiese quest’uomo bruscamente
- Antonio ... questo – e mi indicò – è quello nuovo.
Antonio si ammutolì e si sedette senza pensarci al tavolo con me e Nanni.
Potei guardarlo bene in faccia: aveva una chioma di capelli castani lunghi fino alle spalle, la fronte alta, due occhi piccoli e blu e un naso e una bocca di misura perfetta.
Non era proprio il massimo del fascino maschile, ma non era di certo uno scorfano umano.
A differenza mia che avevo i capelli corti e scuri, gli occhi grandi e verdi, le guance grossacce, la bocca piccola e un naso grosso, per fortuna non come quello di Nanni.
Certo, non che fossi uno scorfano umano (almeno non mi ritenevo così … e sinceramente poco mi importava di quanto fossi bello o brutto), ma di certo Antonio aveva più fascino di me.
Egli mi studiò per un attimo in silenzio e con il solo ausilio degli occhi … poi si riempì un bicchiere con del vino rosso e bevve un sorso d’un fiato.
- Come ti chiami? – mi chiese
- Glauco – risposi io con voce bassa
- Quanti anni hai?
- Ne ho compiuti trenta due giorni fa. E lei?
Mi sentivo come un bambino con un riflettore puntato in faccia e pieno di curiosità quanto il mio “interrogatore”.
- Quaranta compiuti un mese fa. – rispose lui.
- Hai avuto esperienze?
- Ho fatto qualche spettacolino teatrale anni fa, con una compagnia amatoriale, nei pressi di Scafati.
- Scafati? Abitavi nella provincia di Salerno?
- Poi? – chiese lui
- Poi niente: la compagnia si sciolse cinque anni fa e da allora non ho fatto più nulla … ma mi sono esercitato in questo tempo: se dovessi salire su un palco, sarebbe come se questi anni di pausa non fossero mai passati.
- Non hai un lavoro?
- No.
- Proprio niente?
- Voglio essere chiaro – disse – Io e il mio gruppo non abbiamo dimora; avrai notato i camper … non sono solo mezzi di trasporto, sono le nostre uniche abitazioni. Siamo tutti in preda della crisi e ci guadagniamo il pane con pochi soldi, perché solo quelli riusciamo a guadagnare: è un lavoro che da poche soddisfazioni, il nostro.
- Perché, il successo del pubblico non è una soddisfazione? – intervenne Nanni – Le loro risate non lo sono?
- Con le risate non ci mangi – ringhiò di rimando Antonio
- Perché vuoi fare cabaret?
- RISPONDI ! – ringhiò lui, sbattendo un pugno sul tavolo che fece tremare il bicchiere e per poco a far cadere la bottiglia di vino rosso in terra.
- PERCHE’ VUOI FARE CABARET? – mi chiese di nuovo con durezza
- E lei? Perché lo fa?
Ora mi picchia e mi sbatte fuori a calci, pensai.
Mi guardò rabbioso, senza una parola.
Ma invece di alzare le mani, rispose:
- Perché altrimenti sarei un morto di fame!
- E io sarei un morto e basta! – risposi.
Mi aveva in pugno.
Nanni voltava lo sguardo tra me e lui, preoccupato.
Antonio mi versò del vino in un bicchiere vuoto e me lo porse; facemmo un cin-cin e bevemmo: sapeva di aceto.
- Inizi domani!
- Benvenuto tra noi – e mi sorrise.
Ancora.
- Che ore sono? – chiese egli al nanetto
- Le ore 20:30.
- Dobbiamo festeggiare: si va a cena fuori!
*****
Poco vicino al Disco Pub c’era una piccola pizzeria/trattoria, “La Giara”; in cinque minuti si raggiungeva comodamente a piedi.
Erano le 21:15 quando mi avviai verso il sosto: avevo impiegato il tempo a farmi una doccia dato che ero sudato non poco (era l’inizio di un giugno afoso) e per cambiare vestito.
La piccola toilette del camper di Nanni aveva davvero poco da offrire: un lavandino, un water e un minuscolo spazio per la doccia; inoltre, lo spazio era stretto in modo che, se mi sedevo sul water, potevo appoggiare la testa sul lavandino.
Ma non mi importava.
Avevo impiegato una buona mezz’ora per asciugarmi con una lunga asciugamano usata, uno dei miei oggetti personali e volevo lavare la camicia sudata, ma si stava facendo tardi e gli altri si erano già avviati: così avevo lasciato la camicia nel lavandino (che avrei lavato in nottata o all’indomani) e avevo messo una vecchia t-shirt color rosso ciliegia.
Pantalone e giacca, color beige consumato, sapevano ancora di pulito, dunque diedi solo una pulitina alle scarpe di camoscio usate e infine mi guardai nello specchio del bagno:
nonostante mangiassi poco, avevo ancora la pancetta.
Lasciai l’asciugamano bagnata sul water, richiusi la valigetta e mi avviai.
Lungo quel breve tratto di strada, la testa mi ribolliva di pensieri: il giorno dopo avrei iniziato una nuova attività e avrei avuto una nuova casa, forse una nuova famiglia.
Certo, quell’Antonio non mi ispirava ancora fiducia, ma forse, col tempo … col tempo … non so cosa sarebbe capitato col tempo, ma volevo avere fiducia nel futuro: mi serviva quel lavoro.
Non mi era rimasto più nulla: mia madre e mio padre erano passati a miglior vita da tre anni e il contatto familiare più stretto l’avevo con la mia anziana nonna, ma ormai ella aveva perso il lume della ragione (aveva novanta anni) ed era incapace di intendere e di volere, figurarsi a mantenere un nipote scapestrato e senza uno straccio di lavoro.
Così, affidata la nonna a Laura, la mia cugina più grande, avevo preparato i bagagli (la mia piccola valigia) ed ero partito: mi era dispiaciuto lasciarle, ma la modesta cittadina di Scafati non aveva più nulla da offrirmi.
Era stato un miracolo quando avevo incontrato Nanni, il nanetto;
ero in un bar e stavo mangiando qualcosa, era tardo pomeriggio: poco dopo avrei fatto l’autostop e sarei andato in giro a cercar fortuna, come si faceva ai vecchi tempi (e come si fa ancora); notai due bambini, un maschietto ed una femminuccia, forse fratellini, che piangevano ininterrottamente.
Era una bella rottura di scatole.
I genitori non sapevano più come calmarli … e io amavo i bambini.
D’impulso mi ero alzato e mi ero avvicinato a loro: sulle prime i due genitori mi avevano guardato storto, ma poi si erano rilassati quando avevo agito: iniziai a cantar loro una canzone in lingua africana, una canzone buffa e insensata e con voce da cartone animato, una canzone che mio padre mi cantava da piccino.
In quella canzone imitavo due personaggi: uno dalla voce altisonante e un altro dalla voce più bassa e rauca, entrambe voci molto buffe; inoltre usavo molto i movimenti degli occhi e del viso: stringevo e spalancavo gli occhi, gonfiavo e sgonfiavo le guance e scuotevo le spalle per rendermi ancor più buffo; poi improvvisai un balletto mentre cantavo e scossi le gambe, saltellando ripetutamente; finita la canzone, feci un inchino e sorrisi ai bambini, che si trattenevano la pancia dalle risate, come i genitori.
Ero felice.
Il suono di un applauso era arrivato al mio orecchio destro; mi girai …
Un nanetto seduto al bancone rideva come un matto e non la finiva di applaudire.
- Ehi, tu! – mi diceva, indicandomi – Vieni qui!
- Come ti chiami?
- Perché me lo chiede?
- Hai bisogno di lavorare?
- Cosa? – chiesi stupito
- Ti serve un lavoro?
- Beh … sì … - stavo rispondendo imbarazzato
- Se sai far ridere come ora, potresti andar bene.
- Per cosa? – domandai io, confuso
- Mi chiamo Nanni.
- Io Glauco – risposi.
- Piacere di conoscerti – rispose – Ora che ci siamo presentati, ti spiego tutto: lavoro come attore comico insieme a degli amici, abbiamo i camper presso il Disco Pub “Morositas”, a Poggiomarino.
- Perché non vieni a trovarci stasera? Ti presento al mio capo, potrebbe darti un lavoro.
- Mi prende in giro?
- Assolutamente no! Ti lascio il mio numero – e subito afferrò un tovagliolo e scrisse qualcosa con una penna tirata fuori dalla tasca, per poi porgermelo – Ti ho scritto anche l’indirizzo del locale: vieni stasera e vedremo di darti qualcosa.
- Ma … - ero imbarazzato a dirgli la verità.
- Cosa? – chiese lui.
- Veramente io sono in viaggio …
- E dov’è la tua macchina?
- Non vedo automobili fuori!
- Se non te la senti, non c’è problema, non sentirti imbarazzato …
- In verità … sono a piedi: ho appena lasciato la mia città e stavo andando a cercar fortuna.
Nanni scoppiò a ridere.
- A cercar fortuna? – domando ridendo, ma con una vena di malinconia – Come nei film?
- Non ho più niente: ho perso i genitori e mia nonna si è ammattita; sono scappato perché ero incapace di pensare a lei. Non so dove andare, non so cosa fare, so solo che devo allontanarmi, che devo tentare qualcosa, altrimenti sarò morto!
Nanni aveva smesso di ridere; mi aveva poggiato una mano sulla spalla e aveva detto:
- Scusami.
- Senti, io ho un letto in più nel mio camper: se il capo ti “assume”, puoi dormire da me.
Gli sorrisi, come un bambino che sorride al padre che gli ha promesso un bel gioco.
Non serviva aggiungere altro. Si era alzato e andandosene disse:
- Ti aspetto per stasera verso le otto.
Avevo lanciato un’occhiata al tovagliolo scritto: non c’era bisogno di telefonare al numero … mi bastava l’indirizzo.
Ed ecco che camminavo felice lungo una strada consumata dal tempo per raggiungere la mia nuova famiglia in pizzeria, pronto ad iniziare una nuova vita.
*****
Alle 21:20 arrivai alla pizzeria “La Giara”: mi accolse Nanni, fermo sulla porta principale.
- Ce l’hai fatta, eh?
Una tavolata di sette persone aspettavano me: ora eravamo al completo.
Mi sedetti affianco a Nanni, affianco a lui c’erano Oreste e Federica (), i cugini più grandi di Antonio: lui grassoccio e buffo, lei magra e altrettanto bruttina e buffa; ancor più affianco Gigi e Lisa, due anziani marito e moglie e genitori di Antonio; lui bassino, lei più alta, ma entrambi con i lineamenti del figlio; accanto a loro c’era quest’ultimo, stavolta di natura allegra e con in mano un bicchierone di birra.
La quarta di quella sera.
Mi sorrisero e mi salutarono tutti, tranne Antonio che era impegnato con una conversazione a bassa voce con una donna: la mia vista e il mio udito caddero subito su di lei.
- Secondo te – chiedeva ella ad Antonio – questa parrucca mi sta bene?
- Ma perché l’hai messa per uscire?
- Volevo vedere come mi sta … mi sta bene o no?
- Che ne sooooo … sì, ti sta bene, dai! – rispondeva un Antonio scocciato e mezzo ubriaco.
Ora potevo vederla in viso: aveva i miei stessi occhi, grandi e verdi (forse più scuri), un naso alla francese e una bocca di grandezza perfetta, due labbra carnose e ammorbidite da un grazioso rossetto color lampone; inoltre aveva una fronte piccola che ben si sposava con il viso.
La bella chioma bionda aveva lasciato posto a dei capelli ricci e castani … una parrucca.
Parrucca o no, non potevo che rimanere colpito da tanta bellezza … e dal bel paio di tette che si intravedevano dalla sua camicetta.
Quando mi sedetti, i due si accorsero di me.
- Ciao, Glauco. – disse Antonio alzando il bicchiere in segno di saluto.
- Piacere. – disse la donna al suo fianco, sorridendomi e mostrando tutti i suoi denti perfetti.
Arrivò un cameriere:
- Siete pronti per ordinare?
Io mi accontentai di una pizza bianca con pomodorini, mentre gli altri si ingozzavano di crocchette di patate, arancini, zeppole fritte con sale e olio e pizze imbottite di ogni ben di Dio: chi la prese con salame e peperoni, chi con salsiccia, pomodoro e wurstel, chi con melanzane e salsiccia, chi con patatine e peperoncini … dovevano avere una gran fame.
Mangiavano in silenzio, ogni tanto interrotto da qualche chiacchiera su argomenti a caso (il calcio, la Formula 1, i ricordi dei vecchi spettacoli), io rimasi zitto … avevo occhi solo per la bellissima donna accanto ad Antonio, che ogni tanto accarezzava sul viso e rideva alle sue battute; dovette accorgersi che la guardavo, dato che, d’un tratto, mi lanciò un’occhiata curiosa ed io, di scatto, abbassai lo sguardo verso la mia pizza e continuai a mangiare.
Poi i nostri bicchieri furono riempiti di birra e il capo si alzò:
- Adesso facciamo un brindisi al nuovo arrivato – e indicò me – nella speranza che domani ci faccia fare bella figura e che non ci faccia cacciare a calci in culo!
Bevvi a stento un sorso di birra, mentre Antonio finì il bicchiere in un sorso.
Il suo quinto bicchiere.
- Nanni! – urlò il capo al nanetto – Com’è che lo conosci? – chiese, mentre mi indicava ancora
- L’ho conosciuto stamattina in un bar.
E mi guardarono come se ci fosse uno scarafaggio a tavola con loro.
Antonio alzò il tono di voce:
- E tu porti uno sconosciuto a casa nostra?
Io ero stupito: guardai Nanni;
- Ma scusa – gli chiesi – non gli hai detto niente?
- Gli ho detto che probabilmente c’era uno nuovo e lui non ha chiesto nulla, solo di incontrarti.
- Pensavo che fosse un tuo amico! – ringhiò Antonio.
- Beh – sorrise preoccuoato Nanni – lo è da stasera!
- Ma come? – urlò – Io mi fido di te da una vita ... e tu mi porti uno qualunque? Magari è un ladro!
- Non c’è bisogno che ti infuri! – rispose il nano di rimando e senza timore – Eri tu che dovevi interessarti meglio, te ne sei fregato: ora lo accetti come uno di noi! E poi non è un ladro, è un vagabondo come noi e si aiuta chi è in difficoltà … hai visto la sua valigia in che stato è? Se fosse un ladro non ne avrebbe una più decente? O vestiti più decenti?
Il capo lo guardò per svariati secondi, poi sembrò calmarsi: si rimise a sedere;
- Mi fido di te da sempre … voglio fidarmi ancora: ma se domani va male o combina qualche casino, va fuori dalle palle.
D’un tratto, il capo scoppiò a ridere.
- Che hai? – chiese la donna al suo fianco
- Mi è venuta in mente una barzelletta – disse lui, come se il fatto di pochi secondi prima non fosse mai accaduto
- Beh, raccontala! – rispose il padre, stringendo la mano al figlio, sorridente.
- Allora … tre carabinieri vanno a caccia in un bosco; il primo spara un colpo e colpisce qualcosa, va per vedere e i colleghi chiedono: “Cos’hai colpito?” e lui risponde: “Dalla pelle, sembrerebbe un orso”. Il secondo spara e colpisce qualcos’altro, va a vedere e i colleghi chiedono: “Che cos’hai colpito?” e lui risponde: “Dalle ali, sembrerebbe un pavone”. Il terzo spara e colpisce un’altra cosa, va a vedere e ritorna preoccupato; i colleghi chiedono: “Cos’hai colpito?” e lui fa: “Dai documenti … sembrerebbe un comunista!”
Antonio se ne accorse: guardò prima lei e poi me:
- Che c’è? – chiese ad entrambi – Non vi ha fatto ridere? … Glauco – e mi guardò – non ti ha fatto ridere?
- In verità … non l’ho capita.
- Come sarebbe? – chiese lui
- Non l’ho capita!
- Ma è divertente … - come se cercasse l’approvazione da me.
- Neanche io l’ho capita!- esordì la ragazza.
Tutti rimasero immobili, terrorizzati.
Come me.
Quando ebbe finito tornò a sedersi come se niente fosse.
La ragazza era stesa per terra a piangere in silenzio.
Il cameriere aveva visto tutto, ma rimase al suo posto, in disparte.
- IO … - urlò il capo – DECIDO COSA FA RIDERE: IO SONO IL CAPO, IO VI SFAMO E IO COMANDO!
Cinque minuti dopo, egli pagò il conto e ci alzammo tutti per andarcene.
La donna era ancora per terra, immobile e muta.
Nessuno si azzardava a darle una mano a rialzarsi.
Se voleva alzarsi, dipendeva solo da lei.
Uscirono tutti e la lasciarono sola; io rimasi indietro … avrei voluto aiutarla … ma avevo paura del capo …
Alla fine mi decisi: corsi da lei e l’alzai da terra, facendola sedere su una sedia.
Mi guardo sorpresa …
Senza una parola, uscì di corsa dal locale.
*****
Erano le undici di sera.
Eravamo tornati da appena dieci minuti e tutti si erano già rintanati nei loro camper.
Nessuno aveva chiesto della ragazza.
Nanni notò che tremavo, così mi diede un’altra pacca sul braccio;
- Stai tranquillo, fa sempre così quando beve.
- E quando beve?
- Quasi ogni sera.
Dovevo scaricare la tensione: non potevo dormire così.
- Ti senti bene? – chiese il nano sulla porta
- Sono solo un po’ teso … ora mi passa …
Ok, mi piacevano i bambini e mi piaceva far ridere e soprattutto amavo recitare: gli anni trascorsi a recitare con la compagnia amatoriale della mia città natale erano stati tra i più belli e divertenti della mia vita, ma ora, in quel gruppo, con un uomo brusco come capo avevo paura di sbagliare tutto …
Ma che potevo fare? Tornare a Scafati e ricominciare da capo con il nulla?
Possibile che la mia vita doveva basarsi sul nulla?
- Sono preoccupato per domani. – confessai – Sono preoccupato per Antonio.
- Hai paura di lui? – domandò Nanni.
- Una volta che ci fai l’abitudine – mi disse – non lo temi più.
Rientrò nel camper e mi lasciò solo, in balia delle mie paure.
Poi la vidi arrivare: la donna misteriosa attraversava il parcheggio di ghiaia e si avviava lentamente nel suo camper, nella casa del capo.
La sua casa.
Mi alzai e le corsi incontro, fregandomene che potessero vederci, in particolare che mi vedesse il capo.
- Ehi! – la chiamai.
- Stai bene? – chiesi preoccupato
- Non preoccuparti.
- Perché ti ha picchiato?
- Mi picchia sempre quando beve … gli piace – mi colpì il modo in cui lo disse: senza emozione, come un animale rassegnato alle sevizie del padrone.
- Non dovrebbe farlo!
- Sciupa la tua bellezza! – risposi come uno scemo e arrossendo.
- Grazie – mi disse.
- Dico sul serio – continuai – sciupa la tua bel …
- No … grazie per prima. – e il sorriso lentamente si spense.
Rimasi fermo ad osservarla entrare e chiudersi dietro la porta.
Nanni mi chiamo a sé. Corsi nel mio camper.
Appena ebbi chiusa la porta, egli mi disse:
- Non perdere tempo con lei, è la donna del nostro capo!
- Me n’ero accorto … però è bella. – risposi sorridendo come un idiota
- E’ pur sempre la donna del capo!
- Cos’è questa camicia nel lavandino?
- E’ mia. – risposi – E’ sudata, la lavo domani.
Mi sedetti sul mio nuovo letto e mi spogliai lentamente.
Solo in quel momento mi venne in mente la cosa più importante:
- Nanni … ma lei come si chiama?
- Carol! Carol Banglesia! – urlò lui da dentro il bagno.
- Che strano nome …
- E’ spagnola!
- Sul serio? – chiesi io, sorpreso – Ma parla bene l’italiano, sembra italiana …
- La madre era spagnola!
Grandi e verdi come i miei.
Dieci minuti dopo dormivo profondamente, sognando tori, toreri e spagnole sexy.