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Autore: Delirious Rose    26/05/2015    1 recensioni
Sbatté le palpebre un paio di volte e poi aggiunse, forse più a se stesso: “Non sapevo che tu fossi una Podestaria. Questo cambia molte cose.”
Lei lo guardò confusa, come se stesse parlando una lingua che suonava familiare ma che non riusciva a capire. “Pode-che?”
“Magus, strega o qualsiasi altro termine comune per indicare una persona iscritta nel Registro: Podestarius – o Podestaria, al femminile – è il termine più corretto.”

Virginia Bergman è una ragazza come tante: le piacciono i dolci di sua madre, la Matematica e, come il 15% della popolazione, ha dei poteri che considera come un'accessorio fuori moda. Tuttavia, quando al suo penultimo anno di scuola una supplente mette in pericolo la sua media, IContiNonTornano l'aiuterà a superare le sue difficoltà: chi si cela dietro questo username, un geek grassoccio e brufoloso o... un ragioniere azzurro? E di certo ignora ciò che questo incontro porterà nella sua semplice vita.
Svegliati, bambina, e guardati dall'Uomo dalle Mille Vite.
{Nuova versione estesa de "RPN"}
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico, Sovrannaturale
Capitoli:
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Podestaria

 

 

Capitolo 13

 

Virginia osservava il paesaggio scorrere oltre la finestra dell’auto, la tempia premuta contro il vetro e un vaso di erica posato sulle ginocchia: cercava di riempirsi la mente con la versione pop di White Christmas trasmessa dalla radio., senza riuscirci. I suoi pensieri andavano al sogno ricorrente su Biagio, come limatura di ferro attratta da una calamita. Virginia voleva avrebbe voluto dato che in effetti non ci riesce tenere sotto controllo i suoi sentimenti, soffocarli, lasciarsi alle spalle il tempo che avevano trascorso insieme; tuttavia ma ogni volta che credeva di aver fatto un passo sulla via di guarigione dal mal d’amore, quel sogno tornava, vivido, riportandola due passi indietro.

A turbarla veramente, tuttavia, era il modo in cui il sogno diventava ogni notte più lucido, più aggettivo, più difficile da abbandonare. Quella mattina, Virginia era rimasta a letto con lo sguardo sbarrato sul soffitto per un tempo che le era sembrato eterno, paralizzata: aveva provato a girarsi, a chiamare aiuto, ma non era neanche riuscita a sbattere le palpebre. Solo quando Lady Déa le aveva annusato il volto, solleticandole il naso fino a farla starnutire, Virginia era riuscita a scuotersi dalla catalessi. Quando si era sentita abbastanza tonica da alzarsi, aveva fatto una rapida ricerca su internet: leggere di paralisi del sonno e illusione ipnagogica le aveva permesso di razionalizzare l’esperienza, anche se non l’aveva completamente tranquillizzata. Chiuse gli occhi e inspirò piano, desiderosa di dimenticare la spiacevolezza del formicolio e dell’insensibilità che l’aveva pervasa, di dimenticare il terrore.

Virginia scosse la testa con uno sbuffo e, riconoscendo le prime note di una canzone che le piaceva, si allungò verso l’autoradio per alzare il volume proprio mentre suo padre la spegneva. Lei lo guardò con un’espressione interdetta e fece per protestare.

“Siamo arrivati, Vir’,” la interruppe suo padre, indicando con il capo la chiesa davanti a loro.

Virginia premette appena il naso contro il finestrino, lasciando lo sguardo scorrere dall’edificio all’entrata del cimitero sul lato opposto della strada. Sentì un groppo alla gola, ricordando quel giorno di quattordici anni prima: vedere Radvna costretta in un letto che la faceva sembrare ancora più fragile e vecchia, l’aveva sconvolta ma Virginia ricordava di essere salita sul letto per accoccolarsi un’ultima volta sul petto della bisnonna. Strinse il vaso d’erica, sentendo di nuovo sul viso il fantasma delle dita rachitiche di Radvna e nelle orecchie le ultime parole che le aveva detto. Ricorda, mia piccola renna, i vivi e i morti non sono altro che due metà di una stessa famiglia.

Virginia seguì suo padre nel cimitero, soprappensiero, e dopo pochi metri raggiunsero la fila in cui erano sepolti i suoi bisnonni: si fermò, sorpresa dal rumore di un incedere ineguale sulla ghiaia. Alzò lo sguardo e vide Un anziano signore camminare in direzione opposta alla loro, trascinando la gamba destra e appoggiandosi a un bastone: aveva un aspetto comune e affabile, il tipo di nonnino che trascorreva i pomeriggi al parco impegnato in una partita di scacchi oppure a dar da mangiare a piccioni e anatre. L’anziano signore sollevò appena la testa, rivolgendo un educato cenno di saluto a Mr. Bergman e, per il più breve degli istanti, Virginia incrociò il suo sguardo.

Una paura irrazionale, atavica, le strinse la gola fino a soffocarla, lo sguardo atterrito scivolò lungo la schiena di suo padre verso la sfilza di lapidi alla loro sinistra. Correva tanto velocemente quanto la neve alta fino al ginocchio glielo permetteva, l’aria gelida le fendeva i polmoni come una lama di ghiaccio. Allungò una mano verso suo padre e si appigliò al suo cappotto, nascondendosi sotto il suo braccio come faceva da bambina quando i suoi fratelli la obbligavano a guardare un film dell'orrore, nello stesso istante in cui il vecchietto passava accanto a loro. Qualcosa le premeva contro la bocca dello stomaco, quasi l’annuncio di un conato. L’odore di vita putrefatta, prolungata oltre il suo tempo, le bloccava il respiro. Virginia premette la bocca contro la manica della giacca di pelle di montone, macchiandola con la solitaria goccia di sangue che le scorreva dalla narice.

“Vir’?” La voce preoccupata di suo padre era un eco lontano, ovattato.

Virginia ansimò, incapace di scrollarsi di dosso il terrore, desiderosa di vomitare in quel preciso istante tutto il contenuto del suo stomaco, con le gambe che si facevano deboli e il corpo insensibile. Cercò di stringere più forte il cappotto di suo padre con le dita intorpidite, di aggrapparsi alla sensazione della stoffa come a una boa di salvataggio.

“Vir’, stai bene?” insisté suo padre, scrollandola delicatamente.

Virginia alzò lo sguardo su suo padre: boccheggiò una risposta, ma nessun suono uscì dalla sua gola, per cui annuì tremante . “S-sto… bene,” balbettò infine, inumidendosi le labbra secche e sentendo un sapore metallico ed elettrico sulla lingua.

Non era la verità e sentiva che suo padre lo sapeva: aspettò il suo rimprovero, il non dirmi bugie signorina di quand’era bambina. Ma Marcus Bergman non disse nulla, si limitò ad accarezzarle il braccio per confortarla. Quando raggiunsero le tombe, Virginia si lasciò quasi cadere a fianco alla lapide e guardò senza vedere suo padre che sostituiva i fiori recisi ormai rinsecchiti con le piantine di erica.

Vorrei che tu fossi ancora qui con me per dirmi che mi sta succedendo, áhkku1. Pensò, mentre le sue dita sfioravano il contorno della parola Radvna.

 

——————

 

L’aria dell’antro era appesantita dall’odore dolciastro e inebriante dei vapori (esalazioni di etanolo dal suolo) e delle erbe bruciate, il silenzio era rotto solo dal chioccolare di una sorgente nascosta nel ventre della montagna. Biagio non oltrepassò la lama di luce, lasciando che solo la sua ombra si addentrasse nell’oscurità della grotta, e attese che gli fosse rivolta la parola. Le Grigie Dame si ergevano davanti a lui, sedute sui loro sgabelli e avvolte in vesti di un grigio polveroso, simili a ragnatele: avevano l’aspetto di ragazzine della stessa età di Linda, eppure qualcosa nello sguardo le rendeva senza età. Erano tre sorelle identiche e le pupille, dilatate dai fumi e dai vapori, sembravano pozzi d’oscurità sulla pelle troppo chiara.

“Salute a te, Buon Camminatore che percorri Sentieri Nascosti.” Fu il loro saluto, mormorato con triplice voce.

“Salute a voi, Grigie Signore che vedete degli Spirti gl’intenti.” Fu la sua risposta, mormorata con ossequio naturale.

“Cosa, o Giovin Sparviero, ti conduce alla nostra presenza?”

Comunicare con le Grigie Dame era un po’ come esprimere un desderio: bisognava scegliere con cura le parole, in modo che questa lasciasse poco spazio all’interpretazione creativa. Biagio fu tentato di chiedere, senza mezze misure, se la profezia dell’anno precedente si riferisse a Devi o a qualcun altro: tuttavia una flebile speranza, che non aveva alcuna intenzione di morire, lo fece desistere.

Desidero sapere cosa mi riserva il nuovo anno” disse, abbastanza forte da far riecheggiare la propria voce nell’antro, preferendo ricevere una risposta generica invece di una più specifica che, come sempre, avrebbe cozzato con i suoi desideri e le sue ambizioni.

Le tre donne annuirono, o forse era solo un ciondolare del capo dovuto ai vapori e alle erbe che ardevano nel braciere di bronzo ai loro piedi. I loro occhi erano fissi sulle volute di fumo che si alzavano languidamente verso il soffitto dell’antro, disegnando nastri e viluppi che solo loro erano capaci di interpretare. Le Grigie Dame iniziarono a cantilenare, la loro voce tanto bassa da rendere impossibile comprendere le loro parole.

Biagio strinse il bastone di ferula in una mano, cercando forza e sostegno in quell’oggetto che era appartenuto al fratello maggiore e al padre di suo nonno e a ogni erede della sua famiglia. Trattenne il fiato per un istante infinito, in cui cercò di ignorare una dolorosa speranza – il desiderio che qualcosa nella loro risposta potesse indicare Virginia.

Quando le Grigie Dame parlarono, lo fecero con un’unica voce, in una miscellanea di lingue che Biagio poteva comprendere solo grazie a un incanto.

“Era dalle bianche braccia, Levriero d’Erin, scuote il capo:

“Perché la tua mente è sorda e il tuo cuore cieco?

“Prima che Ecate Apotropaia si presenti al crocevia

“Presentati al mio tempio e offrimi libagioni segrete:

“Oshun, schiava liberata, prenderà per mano e ti condurrà

“Colei che t’è destinata, sostegno e verga verdeggiante.

“L’Antico Lupo caccia la Candida Cerva.”

 

 

Mentre attraversava il boschetto di allori che nascondeva l’antro, Biagio finì di annotare sul suo taccuino la traduzione della profezia e guardò accigliato la pagina, cercando di trovare un senso a quelle parole. A caldo, aveva l’impressione che ci fosse qualcosa di sbagliato nell’interpretazione che aveva dato alla profezia dell’anno precedente, ma in quel momento non aveva le energie necessarie per ricominciare da capo: desiderò tornare a casa e lavorarci con calma, ma sapeva che non poteva lasciare Omphalos senza suo nonno e Maximiliano.

No, Biagio, sai bene che è meglio riflettere su queste cose a mente fredda, si disse riponendo il taccuino in una tasca. Decise di non pensare alla profezia almeno fino all’indomani: aveva organizzato un veglione a casa sua con i suoi amici, e Biagio voleva iniziare il nuovo anno nel modo più tranquillo possibile.

 

——————

 

Quando entrarono nel locale, Virginia, Chantal e Audrey furono accolte da una cacofonia di voci e musica un po’ troppo alta. Si fecero strada attraverso la calca e cercarono di raggiungere i tavoli in fondo: non appena intravide il suo ragazzo, Chantal afferrò le sue amiche per il polso e affrettò il passo.

“Scusa il ritardo, Eddy,” esordì Chantal, gettandosi fra le sue braccia e rivolgendogli uno sguardo da cucciolo.

“Non ti preoccupare, Chantie, non è colpa tua,” rispose lui con aria sdolcinata e dandole il primo, profondo bacio della serata.

Virginia era tentata di dire che, se avevano dovuto aspettare mezz’ora in stazione, era a causa dei tacchi dodici che Chantal aveva insistito a indossare, nonostante non fosse abituata. Tuttavia preferì tacere e roteò gli occhi nel vedere i due ancora intenti a baciarsi: non sapeva se fosse l’influenza di Chantal, ma trovava che Eddy fosse un po’ troppo sdolcinato per un metallaro, tanto che si chiese se sarebbe riuscita a reggere tutte quelle smancerie per l’intera serata.

Audrey le diede una gomitata nelle costole e bisbigliò: “Andiamo Vir’, basta fare il muso lungo.” Quindi allacciò un braccio al suo e la tirò verso il tavolo, dove furono accolte dagli altri tre membri dei Mars Steel che si spostarono per far loro un po’ più di spazio.

Trenton che non pronunciava una parola se non era direttamente interpellato, per poi trasformarsi in una persona completamente diversa quando prendeva le bacchette in mano. Douglas, il vero rockettaro del gruppo, che l’aveva sorpresa con la sua ammissione alla facoltà di Legge a Cambridge. E poi c'era Matt. Matt con i suoi capelli ricci che non lo facevano più somigliare a una cima di broccolo e le fossette sulle guance quando sorrideva. Matt che non era più il dodicenne allampanato con un inizio d’acne che Virginia ricordava e cui la pubertà aveva fatto bene. Matt che avrebbe potuto anche piacerle, se solo non avesse incontrato Biagio.

“Ciao Zenzy! Guarda che questa è una festa, non un colloquio,” Matt la canzonò schioccando un dito contro il collo della camicia bianca che lei portava sotto la canotta di lustrini.

“Allora al vostro prossimo concerto verrò con la tuta da lavoro, così la puzza di letame farà scappare i tuoi fan, Broccolo,” ribatté lei con tono di sfida.

La rassicurava constatare che si pizzicavano ancora, anche dopo sei anni; poter pensare che Chantal avesse interpretato male i commenti di Matt, che lui la vedesse ancora come la bambina cui fare i dispetti. La rassicurava sentire i loro amici prenderli in giro, chiedendo se preferissero lo sciroppo di ribes o quello di fragola poiché non erano altro che due bambini di terza elementare.

Dai, pensa a divertirti, Vir’, si disse quando, ridendo, Chantal e Audrey la presero per mano e la tirarono assieme agli altri per ballare.

E Virginia ballò per buona parte della serata, tornando al tavolo per riposare i piedi stretti negli stivaletti dal tacco alto oppure per ordinare una nuova bottiglietta d’acqua al bancone. Virginia ballò con Audrey e Trenton e Douglas, e rifiutò l’invito di Matt con una linguaccia; ballò al ritmo della musica, così forte da costringerla a urlare per farsi sentire. cantò a squarciagola alcune canzoni con i suoi amici, oppure approfittò di un brano un po’ più tranquillo per decidere di trascorrere tutti insieme l’ultimo sabato delle vacanze natalizie. Ballò, fino al punto da non sentire altro che il ritmo della musica rimbombare nella cassa toracica, fino a essere cosciente dell’aria che entrava e usciva nel naso, delle collane che battevano sul suo petto, delle gocce di sudore che scendevano lungo la schiena – che ripercorrevano i sentieri segnati dalle dita di Biagio.

 La musica suonò sempre più ovattata nelle sue orecchie e la melodia si disperse lasciando solo l’eco del battito, cui se ne frappose un altro, il ricordo quasi dimenticato di Radvna che le insegnava a danzare. Virginia reclinò il capo all’indietro, fissando il soffitto attraverso le ciglia e non si chiese se quel ragno dalle ali di farfalla che volteggiava fosse un’illusione creata dalle luci della discoteca – sapeva che era reale, doveva solo allungare una mano e l’avrebbe toccata, acchiappata…

Un colpo alle anche le fece rivolgere tutta la sua attenzione alla persona alla sua sinistra: il sorriso di Matt durò un istante. Lui avvicinò il proprio viso al suo, avvolgendola nel suo odore di dopobarba e sudore, solleticandole la guancia e il collo con un ricciolo e l’alito che sapeva di birra e mentine – vicino, troppo vicino. Virginia sentì un’ondata di panico stringerle lo stomaco, temendo che lui volesse valicare quel confine invisibile che solo Liam e Biagio avevano oltrepassato.

“Ti sta sanguinando il naso, Zenzy,” disse Matt, abbastanza forte da farsi sentire nonostante la musica, porgendole un tovagliolo di carta giallo dorato.

Virginia si sfiorò la narice, sentendo la texture No viscosa dell’umore e un leggero sapore metallico ed elettrico sulla lingua: mimò un grazie con le labbra, accettando il tovagliolo, e si fece strada verso il loro tavolo. Aveva fatto non più di una mezza dozzina di passi, cercando un passaggio tra i ragazzi che ballavano, quando la musica si fece di nuovo un eco e tutto quello che la circondava, divenne un ammasso confuso di ombre. Virginia sgranò gli occhi, sentendo il proprio respiro bloccato e la testa vorticare, le membra quasi insensibili.

“Ehi, guarda dove vai!” le urlò una ragazza, guardandola di tralice.

Virginia le rivolse un sorriso tirato e gorgogliò delle scuse. Dicendosi che forse aveva bisogno di prendere una boccata d’aria fresca per allontanare quella sensazione di pesantezza che le opprimeva il petto, cercò di raggiungere l’uscita del locale: una volta fuori, si appoggiò contro il muro e prese dei respiri profondi.

Era solo l’aria viziata, il caldo e forse un bicchiere di troppo, pensò mentre l’ossigeno e il freddo della notte le vivificavano il corpo e la mente, anche se non poteva ignorare il sospetto che ci fosse altro oltre alla calca e all’alcool. Virginia aveva tenuto bene a mente i consigli di Bob: aveva preso solo bevande in bottiglia sigillata e non si era fatta offrire drink da nessuno, neanche da un amico. Si tamponò il naso e osservò la macchia nel tentativo di trovarvi chissà cosa. Un ricordo, una frase che Biagio le aveva detto un paio di mesi prima, riecheggiò nella sua testa. L'epistassi è un modo con cui il corpo gestisce l’energia in eccesso.

“Stupidaggini, come potrebbe trattarsi di un incantesimo? Stavo solo ballando…” borbottò abbracciandosi e strofinandosi gli omeri per scaldarsi un po’.

Era tentata di entrare almeno per prendere il cappotto e la borsa, forse anche per trovare una scusa e tornare a casa prima della fine della serata, ma temeva che se fosse tornata dentro il locale quella cosa sarebbe successa di nuovo. Alzò lo sguardo al cielo in cui brillavano le poche stelle che osavano sfidare l’inquinamento luminoso, chiedendosi per la prima volta perché avesse paura dei suoi poteri: non le avevano mai dato problemi, a parte un po’ di mal di testa e di sangue dal naso quando li usava, e l’ostracismo della supplente di Matematica. Erano come un accessorio fuori moda di cui non poteva sbarazzarsi, un tatuaggio ridicolo fatto in un momento di ubriachezza, oppure una voglia imbarazzante. Era una parte di lei che preferiva ignorare, perché non le avrebbe portato granché nella vita che desiderava.

Sentì la porta aprirsi e si stupiì quando qualcuno le gettò addosso il suo cappotto di lana di montone.

“Lo avevi dimenticato dentro, Zenzy,” le disse Matt, appoggiandosi anche lui al muro. Volse la testa verso la coppietta che era uscita dopo di lui, poi guardò di nuovo Virginia e le chiese: “Tutto ok?”

Virginia annuì, infilandosi il cappotto. “Avevo bisogno di una boccata d’aria.” Non era una bugia, ma era l’unica spiegazione che avrebbe dato.

“Idem con patate,” annuì lui iniziando a masticare una gomma. Dopo un po’, Matt aggiunse: “Sei cambiata parecchio, sai?”

“Si chiama crescere, Mr Testa-di-broccolo Winters,” ribatté  lei con tono saccente. “Non è poi tanto male, dovresti provarci.”

“Sai, sono stufo di litigare con te, Virginia,” rispose lui con una punta d’esasperazione. “Non facciamo che litigare come se fossimo due bambini di terza elementare.”

Virginia s’irrigidì nel sentirlo chiamarla per nome invece che Zenzy, il soprannome che lui le aveva affibbiato quando erano bambini. Voleva dirgli che era d’accordo, che adesso erano quasi due adulti, eppure sentiva che qualsiasi cosa avesse detto in quel momento le si sarebbe ritorta contro. Lo sentì inspirare come per dire qualcosa, ma un botto improvviso gli bloccò le parole sulle labbra, e il cielo venne illuminato da un’esplosione di effimere stelle multicolori: Virginia sobbalzò quando sentì la mano di Matt stringere la sua, mentre i fuochi d’artificio annunciavano la mezzanotte. Con un groppo alla gola incrociò lo sguardo di Matt, il quale le rivolse uno dei suoi sorrisi ornati di fossette.

“Buon anno, Zenzy,” disse lui con una punta d’esitazione.

Una parte di Virginia si era aspettata quel bacio e sapeva anche che non aveva nulla a che fare con quello di Biagio. “Non credi di andare un po’ troppo di fretta?” mormorò, girando la testa e sfilando la propria mano dalla sua. “Dopotutto non ci siamo parlati per sei anni.”

Ipocrita, con Biagio non hai fatto tanto la preziosa. Le sibilarono le voci di Chantal e Audrey, per poi canticchiare chiodo schiaccia chiodo, come avevano fatto tre o quattro settimane dopo la fine della sua storia con Liam, e quella stessa parte di se stessa le suggeriva di dar ascolto alle sue amiche e di dimenticare Biagio iniziando a uscire con Matt.

“Beh, mi era sembrato un modo carino di iniziare l’anno, Zenzy.” Matt rise complice, poi la sua voce si fece più seria.

Se Liam non avesse distrutto la sua fiducia nel genere maschile, se Biagio fosse rimasto solo un username senza volto, Virginia avrebbe scherzato e accettato le avances di Matt con la stessa leggerezza di una quindicenne. Non era infastidita con lui ma con se stessa, perché Matt era il tipo di ragazzo che le era sempre piaciuto e che sarebbe continuato a piacerle se non avesse imparato a sue spese come soddisfare tutti i suoi criteri ideali non fosse sempre sufficiente per essere la scelta migliore.

Si strinse nel cappotto, affondando il mento nella lana. “Beh, sì, Buon Anno anche a te, Broccolo.”

 

——————

 

Biagio stappò la bottiglia, che produsse un sibilo leggero invece del tanto atteso botto: gli amici più vicino a lui rotearono gli occhi o scrollarono la testa, o fecero entrambe le cose, cui lui rispose con un sorriso e riempendo flûte –i suoi amici conoscevano e perdonavano le sue piccole manie insignificanti. Irene gli cinse il collo con le braccia e gli stampò un bacio sulla guancia augurandogli un felice anno, un gesto che ripeté con George e con i loro amici comuni. Non erano più di una quindicina fra amici e compagni di corso più stretti, gli stessi che erano stati presenti quando si era deciso di festeggiare il Capodanno da Biagio.

Biagio stappò un’altra bottiglia e riempì nuovamente bicchieri, annuendo soprappensiero alla proposta di qualcuno di andare al cinema il sabato successivo. Finse di non vedere le occhiate e i bisbigli che Devi e la sua migliore amica si scambiavano, così come finse di non vedere lo sguardo che gli aveva riservato Andrew, il suo ex-compagno di stanza,. Biagio sentiva che confabulavano qualcosa alle sue spalle, ma non percepiva alcuna minaccia da parte sentiva che stavano confabulando qualcosa alle sue spalle, ma non percepiva alcuna minaccia da parte loro e continuò a svolgere il suo dovere d’ospite.

I primi invitati iniziarono ad andare via verso l’una, lasciando che pochi insistessero a pulire sommariamente il salotto: alcuni raccolsero la spazzatura, altri i cadaveri di bottiglie accumulati fra i divani, altri ancora le stoviglie da lavare. Biagio caricò con dovizia la lavastoviglie, cercando di metterci più roba possibile, quindi infilò i guanti di gomma e, dopo aver indicato ad Andrew dove posare i cartoni delle bottiglie, attaccò la pila di piatti.

“Dove ti metto questi?” gli chiese Devi, reggendo fra le mani un paio di insalatiere sporche di salsa e frammenti d’insalata.

“Lascia pure qui,” rispose lui indicando con il naso uno spazio libero sul piano d’appoggio. Si sentiva addosso lo sguardo di Devi, la sua indecisione, il leggero imbarazzo con cui aveva risposto al saluto di Andrew quando questi se n'era andato.

“C’è… altro che posso fare?” lei chiese infine.

Ma Biagio scosse la testa. “Posso finire da solo,” rispose scoccandole un sorriso che la fece arrossire.

Devi strinse le labbra, incerta, poi afferrò uno strofinaccio e iniziò ad asciugare le stoviglie nello scolapiatti. Biagio fece per protestare ma lei lo zittì con un piccolo sorriso e mormorando: “Tenevo a ringraziarti di persona per l’e-mail dell’altro giorno. Spero che l’avermi passato quella… ehm… traduzione non ti dia problemi.”

 “Non è proprio un’infrazione del Trattato di M’gronn,” rispose Biagio strofinando lo sporco incrostato di una teglia.

“Prego?”

Alzando la testa, non poté fare a meno di notare quanto fosse confuso lo sguardo di Devi, per cui le diede un sorriso colpevole e spiegò. “Prima di mandarti quel documento ho fatto qualche ricerca: nel nostro piano di realtà c’è chi ha già proposto una possibile connessione fra alcune infezioni croniche e l’autismo.”

“Solo che da noi le infezioni si curano con gli antibiotici,” rise lei dandogli una gomitata, “e in quell’articolo si parlava di usare i poteri di Podestari specializzati nell’eliminazione dei batteri e la degradazione molecolare delle tossine.”

“Oddio, la mia traduzione non è perfetta!” rise Biagio imitandola, poi aggiunse un po’ più serio. “Alkonost è un mondo molto più avanzato del nostro, sia scientificamente che magicamente: per esempio, con le loro coordinate dei Mondi Distanti potrei accedere anche a un piano di realtà che non conosco.”

Devi annuì e per un po’ continuò ad asciugare i piatti in silenzio, riscuotendosi dai suoi pensieri per ricambiare il saluto di un paio di amici che andavano via.

“Ehi, se mi dici dov’è l’aspirapolvere, ti do una passata al pavimento che sembra un campo di battaglia!” chiese a gran voce l’amica di Devi.

“Tu non hai mai visto un vero campo di battaglia, Martha! Lascia stare, me ne occuperò non appena ho finito qui,” rispose Biagio, ma Martha fu insistente e pochi minuti dopo l’aria si riempì del rumore dell’aspirapolvere.

Biagio tornò all’acquaio sospirando e scuotendo la testa, fingendo di non notare lo sguardo che Martha gli aveva lanciato. In quel lasso di tempo, Devi aveva finito di asciugare i piatti e aveva iniziato a rimetterli a posto: Biagio la trovò allungata verso la mensola in cui erano allineati i bicchieri. Le sfilò dalle mani i flûte e li pose sulla mensola più in alto, poi si volse verso di lei per ricordarle che si stava facendo un po’ troppo tardi, per ringraziarla dell’aiuto; tuttavia le sue parole furono bloccate dalle labbra di Devi.

“Un grazie era più che sufficiente,” mormorò Biagio, scostandosi quanto bastava per separare le loro labbra e prendendole le mani che avevano iniziato a scivolare sulle sue spalle.

Non era proprio disagio, quello che gli serpeggiava nel petto ma incertezza: in altre circostanze avrebbe considerato le avances di Devi come un segno e le avrebbe accettate, tuttavia aveva incontrato le Grigie Dame neanche ventiquattro ore prima e aveva bisogno di tempo per interpretare le loro parole. La questione si riduceva a come rifiutare momentaneamente Devi senza eliminare la possibilità di una relazione fra loro.

“Non era solo un grazie,” rispose Devi, il suo bisbiglio udibile solo grazie alla vicinanza. “Mi piaci, Biagio, e… beh, anch’io ti piaccio, no?”

“Non trovi che la risposta sia irrilevante a questo punto?” Biagio sospirò senza scostarsi.

Non gli piacque l’espressione che fece Devi a quelle parole, tanto che per un attimo credette di aver usato quelle sbagliate. Poteva anche leggere un cenno di confusione sul suo viso, perché lui non aveva fatto nulla per respingere né accettare le sue avances. Devi fece per rispondere, quando il rumore dell’aspirapolvere si spense per lasciar posto alla voce di Linda, probabilmente tornata a casa in quel momento. Devi fece un passo indietro, con un’espressione delusa dipinta sul volto.

“Non dovevi restare a dormire da Jane?” Biagio chiese a sua sorella, attraversando il corridoio che portava dalla cucina all’ingresso.

Linda non rispose subito. Fissò lui e Devi che trotterellava alle spalle di suo fratello senza curarsi di nascondere il sospetto e l’astio. “Ho cambiato idea. E mi sono fatta dare uno strappo dalla madre di Sabrina.” Poi Linda rivolse un sorriso amabile e complice agli altri amici di Biagio. “Vi ringrazio per aver aiutato mio fratello a distruggere le prove dei bagordi.”

George rise a quella battuta e Martha lanciò una rapida occhiata a Devi dicendo: “Allora ti cediamo il posto. E grazie per la serata, Biagio: a sabato, allora!”

Rimasti soli in casa, Linda fissò suo fratello, silenziosa e guardinga, mentre si sfilava il cappotto e iniziava a spazzare il pavimento lì dove l’aspirapolvere non era stato passato. “Lei ci ha provato, nevvero?” sibilò avvelenata. “Le hai permetto di provarci nonostante tu sia innamorato di Virginia… perché accidenti glielo hai permesso?!”

Biagio non diede a vedere quanto fosse infastidito da quelle parole: avrebbe dovuto ringraziare Linda per il suo rientro imprevisto che gli aveva permesso di evitare di dare un o un no a Devi, tuttavia lo infastidiva che sua sorella minore si rivolgesse a lui con quel tono. “Non è a te che devo rendere conto di quel che faccio.” Borbottò infine. “Inoltre non sei tu che devi avere a che fare con le Grigie Dame, sei ancora troppo giovane.”

“Andiamo Biagio! Chi al giorno d’oggi consulta un oracolo?!” esclamò lei, alzando le braccia e gli occhi. “Te l’ho già detto una volta: non puoi decidere la tua vita secondo quello che dicono tre vecchie fatte di chissà cosa!”

“E fare la stessa fine di Nonno e Kathleen? O peggio: dello zio Vittorio, buon’anima, che se ne fregò dei suoi, di oracoli?”

Nella loro famiglia, non mancavano gli aneddoti curiosi o interessanti, ma le vicende legate alla scomparsa del fratello maggiore di suo nonno era qualcosa che, da bambino, aveva causato a Biagio degli incubi. Perdersi nel Mezzo senza la possibilità di ritornare dai propri cari, per morire o forse vivere in eterno sospesi in un attimo cristallizzato era qualcosa che gli faceva comprendere quanto fosse pericoloso essere un Viaggiatore. Biagio si massaggiò quasi meccanicamente l’avambraccio destro, immaginando più che sentendo la cicatrice felciforme che lo percorreva – il monito a non aprire mai più un Ponte senza conoscere la destinazione.

“E comunque, auguri.”

“Già, buon anno anche a te.”

 

 

L’inutileangolo dell’autrice

1. Ahkku: nonna in Samii del nord

 

Questa volta, facciamo un po' di pubblicità ;-)
La versione inglese di Podestaria partecipa ai Wattys Awards 2015, per cui, se siete iscritti anche su Wattpad e volete che Virginia e Biagio abbino una chance in più di vincere, vi invito caldissimamente a votare la loro storia! Infatti, uno dei fattori che peseranno maggiormente nella scelta delle storie vincitrici sono proprio le statistiche (intese come numero di letture complete, voti e suppongo anche commenti), per cui il vostro sostegno è essenziale!

Vi ricordo la pagina FB dedicata a “Podestaria”: mipiaciatela e non esitate a lasciare una parolina o due, aiutatemi a farla crescere perché è molto, molto importante per me e per i programmi che ho per questa storia!

Grazie a chi, non solo ha letto queste righe, ma lascerà anche un commento.

 

Kindest regards,

D. Rose

   
 
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