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Autore: disastroushurricane    27/05/2015    0 recensioni
Tratto dalla storia:
"La signora era seduta su di una sedia nera, impeccabile nella sua gonna nera lunga fino a sotto le ginocchia, coordinata ad una camicetta bianca senza nessuna piega. I capelli biondi erano raccolti in un ordinato chignon, senza che neanche un capello sfuggisse da quest’ultimo.
Mi ricordava tanto Lei, me la ricordava così tanto che guardarla mi faceva stare male."
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La tuta arancione.
When all of your flaws and all of my flaws
Are laid out one by one
The wonderful part of the mess that we made
We pick ourselves undone
All of your flaws and all of my flaws
They lie there hand in hand
Ones we’ve inherited, ones that we learned
They pass from man to man
There’s a hole in my soul
I can’t fill it, I can’t fill it
There’s a hole in my soul
Can you fill it? Can you fill it?

— Flaws; Bastille.


Le ore in quella cella passavano lentamente, senza non poter far nulla, costretti a star seduti su metallo freddo per tutto il tempo mentre si aspetta il proprio turno di lavoro. Un buon sistema per scappare dai propri pensieri. Per cercare di non impazzire.
Le tre mura che mi ci circondavano erano piene di taglietti che indicavano le settimane passate in quell’inferno, pochissime in confronto a quelle che mi aspettavano, dietro l’angolo, pronte a saltarmi addosso per strapparmi la carne a morsi, levandomi quel poco di energia che mi era rimasta.
Niente in quelle mura poteva distrarmi dai miei pensieri. Nulla poteva aiutarmi a non indirizzare i miei pensieri a Lei.
La tuta arancione /ormai / mi andava larga. Da quando sono entrato in questo posto la mia massa muscolare è scesa notevolmente, forse le dovevo consigliare questo posto invece lasciarle provare tutte quelle dite /idiote/.
Quando si doveva mangiare tutti ci riunivamo nella mensa, senza distinzione fra i vari colori che ci identificavano (verde: casi lievi, furti, risse e alcolisti; arancione: casi gravi, omicidi), con un piatto di plastica gialla davanti, con sopra un pezzo di pane secco, un po’ di riso bianco e un bicchiere d’acqua, sempre se ti eri comportato bene durante le ore di lavoro evitando risse.
Stavo ancora completando le pieghe che la tuta arancione creava quando la porta di ferro della mia cella si aprì, rivelando una guardia in compagnia di un ragazzino dalla tuta verde, proveniente dalla zona ovest, chiamata anche zona verde, per l’appunto.
«In piedi, Miss Walker vi sta aspettando.» Disse in modo rude la guardia guardandomi come se fossi feccia, cosa che alla fine iniziavo a credere anch’io.
Mi tirai su dalla mia postazione, piegando appena la gamba che mi doleva, regalo di una delle risse a cui avevo partecipato quando ero ancora libero.
Uscì dalla “gabbia” che mi divideva dal resto del mondo, restando però a debita distanza dal ragazzino che mi guardava con paura, come se da un momento all’altro potessi derubare la guardia dalla sua arma e ucciderli tutti e due, un pensiero triste dal momento che le mie mani non erano sporche di sangue come tutti pensavano.
Mi venne quasi da roteare gli occhi al cielo, ma mi trattenni dal momento che ogni passo falso in quel posto / soprattutto se avevi una tuta arancione / veniva intesa come una possibile rivolta.
La guardia ci portò nella stanza dove Miss Walker era solita vederci. La porta era sempre chiusa, controllata da fuori da due guardie e da dentro da altre due guardie. Questo solo perché una tuta arancione era presente fra i verdi.
La signora era seduta su di una sedia nera, impeccabile nella sua gonna nera lunga fino a sotto le ginocchia, coordinata ad una camicetta bianca senza nessuna piega. I capelli biondi erano raccolti in un ordinato chignon, senza che neanche un capello sfuggisse da quest’ultimo.
Mi ricordava tanto Lei, me la ricordava così tanto che guardarla mi faceva stare male.
Mi sedetti al mio solito posto, sulla solita sedia di plastica rossa distaccata dal cerchio di sedie bianche, come a indicare il distacco che c’era tra la mia storia e quella degli altri dieci ragazzi che erano lì con me, come se non era abbastanza sottolineata dal diverso pigmento che segnava i nostri indumenti.
Non conoscevo nessuno, e di certo non per mia volontà. Forse per una tuta arancione la prima regola era proprio quella, “non stringere amicizia con tute verdi, e se non le stringi con nessuno è meglio.”
Che idiozia.
Incrociai le braccia al petto, sprofondando nella sedia alquanto scomoda mentre mi guardavo intorno, osservando le faccine / quasi / bianche dei ragazzi e delle ragazze.
Ridacchiai fra me e me, portandomi poi una mano davanti la bocca e dando un colpo di tosse per coprire la risata, attirando così l’attenzione di Miss Walker, cosa che avrei volentieri evitato.
«Allora, Daniel, ti va di raccontarci la tua storia?» Mi chiese educatamente, come se ero nuovo e come se nessuno sapeva la mia storia, o almeno quello che dicevano.
Sospirai piano, tirandomi su portando la caviglia della gamba destra sulla gamba sinistra. Schioccai poi la lingua al palato, passando lentamente lo sguardo sui ragazzi che mi circondavano, con un piccolo sorrisetto sulle labbra, prima di aprire bocca.
«E va bene. Ciao a tutti, sono Daniel e sono un ex-alcolista, o almeno è quello che sta scritto sul mio bellissimo curriculum, oltre all’accusa di aver ucciso la ragazza che amavo, ma a quello ci arriveremo con calma, naturalmente.
Ho iniziato a bere a sedici anni, cari miei amici, la vita mi andava male, i miei genitori non mi capivano, la ragazza che mi piaceva non mi considerava, sapete, i soliti drammi che affliggono ogni ragazzino durante la sua adolescenza. Così ho iniziato a bere, andavo ogni sera in un bar diverso, bevevo fino allo sfinimento e poi sapete come vanno le cose, un insulto vola e si finisce per fare a botte, ma questo forse era il più piccolo fra i miei mali.
Le cose poi sono degenerate, credevo di riuscire a fermare la mia / ormai / dipendenza. Evidentemente credevo male.
Una sera ero sconvolto, avevo diciotto anni, e sono uscito come sempre per bere ma quella sera ci sono giù pesante, quasi tre risse in una sola sera. Mi sorprende il fatto che ci sono uscito vincitore, ubriaco com’ero. Ma questo non è l’importante. Quando tornai a casa trovai la ragazza che amavo seduta sul divano, sapete, Annabeth era bellissima, stava in classe con me e da qualche settimana a quella parte abbiamo iniziato a parlare, tutto per un progetto che dovevamo fare insieme. I suoi boccoli biondi le ricadevano sempre liberi sulle spalle, e i suoi occhi.. ah, erano le cosa più bella che c’era nel mondo. Sapete, si riflettevano alla luce che c’era nella stanza. Fondamentalmente erano grigi, ma quando veniva a casa mia diventavano quasi trasparenti o bianchi, dipende dai punti di vista.
Comunque, erano scappati dei baci durante quelle settimane, tanto che ormai sapeva dov’era la chiave di scorta, sotto lo zerbino o dentro al vaso di rose che mia madre si ostinava a curarmi ogni domenica mattina. Lei non sapeva della mia dipendenza, non volevo fargli vedere il marcio che cercavo in tutti i modi di coprire, e ce l’ho sempre fatta. Quella sera trovai la porta a terra, e lei nel salotto, per terra, in un lago di sangue. Non potevo credere che l’amore della mia vita era orm-ormai..» Mi fermai quando un singhiozzo bloccò il mio racconto, portandomi le mani sul viso rendendomi conto solo in quel momento che stavo piangendo. Lacrime scendevano velocemente sul mio viso, abbattendo le mura che avevo cercato / inutilmente / di tirar su durante queste settimane. Premetti le mani sul viso, chiudendo gli occhi imponendomi di finire il mio racconto, così da poter tornare a crogiolarmi nel mio dolore. «Non potevo credere che l’amore della mia vita era ormai scomparso, iniziai ad urlare, buttandomi in ginocchio e prendendola fra le braccia e stringendola a me, non m’importava del suo sangue sui miei vestiti o sulle mie mani, lei era fredda fra le mie braccia. Niente aveva più senso. Non aveva più battito. I suoi capelli non erano più biondi come prima. I suoi occhi eri vuoti, spettri di quello che erano una volta.
Dopo poco arrivò la polizia, qualche vicino curioso forse aveva sentito le mie urla, ma non m’importava, volevo che fosse fatta giustizia per quel che avevano fatto alla mia piccola Beth, ma tutti hanno frainteso. Credevano fossi stato io, che in un momento di follia io l’abbia uccisa. IO! MA COME POSSO IO AVER UCCISO L’AMORE DELLA MIA VITA?! COME POSSO AVERLO FATTO?!»
Non mi resi conto di star urlando, non fin quando la porta non venne aperta e fui trascinato via, non mi accorsi neanche che mi ero alzato.
Iniziai a ridere, a ridere istericamente mentre mi tiravano via, ammanettato.
Forse quella sera per me ci sarebbe stata la sedia elettrica.
Forse per loro sono senza recupero, senza speranza, un matto fatto e finito.
Forse hanno ragione.
Forse, a forza di contare le lineette sul muro create per segnare i giorni son diventato pazzo.
E forse è un bene la sedia elettrica, nei migliori dei casi potrò rivedere la mia Beth, o forse no, dopotutto com’ è possibile distinguere un angelo nel Paradiso?
 

 

   
 
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