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Autore: deborahdonato4    28/05/2015    3 recensioni
Dopo la battaglia tra semidei greci e romani, e la sconfitta della Madre Terra Gea, i ragazzi del Campo Mezzosangue godono di un periodo di pace.
Nico di Angelo deve mantenere una promessa strappata dal figlio di Apollo Will Solace, che intende assicurarsi il mantenimento.
Tra i due sorgerà amicizia o gli atteggiamenti contrastanti dei due semidei li faranno tenere a distanza?
Ps: Contiene spoiler dal Sangue dell'Olimpo
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Cross-over, Missing Moments, OOC | Avvertimenti: Spoiler!
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Will afferrò la terza freccia della faretra, tese la corda dell'arco e tirò. La freccia si conficcò dritta nel cuore del manichino a cinquanta metri di distanza, insieme alle prime due.
Compiaciuto, Will indietreggiò di tre passi, e prese la quarta freccia. Lasciò scorrere quaranta secondi. E questa volta puntò in mezzo agli occhi del manichino. E riebbe successo.
Indietreggiò ancora.
Ormai si allenava nel tiro con l'arco tutti i giorni. Aveva scoperto che l'attività fisica lo aiutava a distendere i pensieri, e a dimenticare. Invece, l'attività continua in infermeria gli permetteva di immedesimarsi nel dolore dei suoi pazienti. Poteva essere utile, soprattutto in quei giorni in cui si risvegliava con un acuto dolore al petto e le guance bagnate.
Si era tuffato nell'attività fisica otto mesi prima, quando si era accorto che Nico di Angelo si era dimenticato di lui. E l'attività fisica gli bruciava tutte le energie non consumate in infermeria, e gli permetteva di coricarsi la sera senza pensieri, facendolo sprofondare in un sonno ristoratore privo di sogni.
Faceva parte del Campo Mezzosangue ormai da cinque anni, dopo una lunga discussione con la madre e il patrigno sulle sue origini. Si era fatto accompagnare fino ai pressi del Campo, e poi aveva proseguito senza voltarsi nemmeno una volta.
A quel tempo, sperava solo di trovare qualcuno di simile a lui, qualcuno che potesse aiutarlo ad entrare a far parte di quel mondo che conosceva da anni, e a cui non aveva mai pensato di farvi parte. Qualcuno che potesse capire il caos che aveva dentro. Non si era aspettato tutti quei fratelli, quelle sorelle, tutti quegli altri figli di Apollo, tutti con le sue stesse passioni. Avendo passato la vita leggendo libri sugli Dei greci, non si era stupito che suo padre Apollo avesse dato alla luce così tanti pargoli.
Era rimasto stupito, però, nello scoprire che non era solo Apollo ad avere dei figli semidei. Quando sua madre gli aveva parlato del Campo Mezzosangue, non lo aveva compreso appieno. Pensava che il Campo fosse un luogo esclusivamente per lui, e per gli altri figli di Apollo. Fino a quando non si trovò da solo di fronte a quella moltitudine di case, non aveva compreso le parole della madre.
A molti era stato simpatico, soprattutto ai suoi fratelli maggiori e minori della cabina di Apollo. Ad altri, come la giovane Clarisse Le Rue, era sorto spontaneo odiarlo. Will non aveva mai disprezzato nessuno dei semidei suoi compagni, da alcuni era sempre stato terrorizzato, o troppo intimorito davanti alle loro imprese per provare a dire o fare qualcosa.
Nel corso delle settimane, dei mesi, degli anni dal suo arrivo, Will aveva partecipato a centinaia di caccia alla bandiera. E ad altrettante corse sui carri. E aveva vinto decine di volte i tornei come miglior tiratore con l'arco. Dopo i primi allenamenti, aveva scoperto di non avere un dono particolare nel maneggiare la spada. O i pugnali. Ma con arco e frecce era tutt'altra storia.
Come altri tra i suoi fratelli, Will aveva prediletto la guarigione allo sport. E nelle battaglie che si erano svolte in quei cinque anni, Will, oltre ad occuparsi dei feriti, si era battuto con il suo fedele arco. Non si era mai tirato indietro di fronte ad una battaglia, e non gli era mai importato molto di morire. Faceva parte della sua nuova vita come semidio.
Ora, dopo cinque anni, il pensiero della morte lo divertiva. Era sicuro che fosse l'unico modo per mettersi in contatto con Nico di Angelo, o almeno per incontrarlo. Giù, negli Inferi. In attesa di una collocazione. Non avrebbe avuto nemmeno la forza di arrabbiarsi, se avesse incontrato il figlio di Ade durante la coda per i Campi Elisi, o al momento della partenza.
Sorto com'era nei suoi pensieri, Will inciampò in avanti mentre arretrava e cadde in ginocchio, ferendosi i palmi. Il sangue colava giù dai piccoli tagli. Li curò, afferrò il sassolino che l'aveva fatto scivolare e lo scagliò con violenza contro il manichino, colpendo un paio di frecce e spezzandole a metà.
Si rimise in piedi, asciugandosi qualche goccia di sudore dalla fronte, e portò una mano alla faretra. Gli rimanevano solo più cinque frecce. Aveva le braccia stanche e doloranti, quindi immaginò di trovarsi lì da almeno un'ora abbondante. Non poteva arrendersi. Negli ultimi mesi, aveva decido di scoccare cinquanta frecce al giorno, tutti i giorni, e non poteva tirarsi indietro proprio ad un passo dall'obiettivo.
Afferrò una delle frecce e mirò ad un bersaglio diverso. Il manichino, ormai, somigliava ad un riccio. Una volta, uno dei suoi fratelli si era offerto di lanciargli dei dischi volanti, pensando che non riuscisse a prenderli. Invece, Will li aveva distrutti tutti e cinque, causando ammirazione da parte del fratello e rabbia dal figlio di Efesto che glieli aveva imprestati. Puntò ad un bersaglio colorato, utilizzato di solito per i principianti, e scoccò la freccia. Colpì il centro. C'era da aspettarselo.
Nei primi giorni di quel duro allenamento, Will non aveva avuto la capacità necessaria per colpire con precisione i propri bersagli. Le mani gli tremavano, la vista gli si appannava per le lacrime, e spesso le frecce cadevano a terra dopo metà percorso. E quando accadeva, Will litigava con sé stesso.
Non doveva permettere ai pensieri di avere la meglio su di lui.
Doveva proseguire. Doveva riprendersi. Doveva vivere.
Doveva lasciare il Campo Mezzosangue prima che fosse troppo tardi.
Will inspirò profondamente e prese un'altra freccia. Si spostò di qualche passo prima di mirare ad un nuovo bersaglio, che gli provocò uno spasmo alla spalla. Una tavola da surf nera, con un teschio bianco ghignante sopra. Mirò e la freccia si conficcò nell'orbita vuota del teschio, facendo oscillare di qualche centimetro la tavola. Era stato Austin a consigliargli di metterla lì, in mezzo agli altri bersagli. E dopo i primi giorni, Will lo aveva considerato un obiettivo come un altro.
Abbassò l'arco e prese una bottiglietta d'acqua. Quel giorno d'estate era particolarmente afoso. Bevve a lungo, occhieggiando il cielo azzurro. Erano già le tre del pomeriggio. Alle cinque doveva rientrare in infermeria per il suo turno. Nelle ultime settimane, erano giunti al Campo tanti nuovi semidei - persino tre nuovi figli di Apollo, dai nove ai dodici anni - e il tour in infermeria sembrava obbligatorio ogni qualvolta prendevano un'arma in mano per un allenamento. Ma le loro ferite erano così semplici da medicare che tendeva a salutarli con un «Ci vediamo domani!» e un ghigno.
Ah, i giovani semidei! Così pieni di vitalità, di gioia nello scoprire cosa fosse toccato loro, così ingenui e pronti a fare mille domande su tutto ciò che non conoscevano o capivano.
Will ricordò Roxanne Kane, la sua giovane e nuova sorella di dieci anni, conosciuta da sole due settimane che, curiosa, gli domandava come mai passasse così tanto tempo ad allenarsi da solo.
«Gli piace combattere.» aveva risposto per lui Austin, scoccandogli un'occhiata per controllare come l'avesse presa, ma Will aveva semplicemente sorriso alla piccola sorellina e le aveva risposto con sincerità.
«Ho così tanta rabbia assopita dentro me, che mi alleno da solo per la sicurezza degli altri.»
A Roxanne Kane era piaciuta molto come risposta, e Will si era allontanato in fretta dall'infermeria prima che potesse chiedergli a cosa fosse dovuta la sua rabbia interiore. Aveva passato mezza giornata nei boschi, cercando di trattenere le lacrime. Prima Drew Tanaka, poi Nico di Angelo... forse doveva solo accettare l'invito ad uscire di uno dei numerosi amici di Jem. Ameno avrebbe cercato di rimediare alla voragine nel petto, che dopo così tanto tempo, ancora doleva.
Quando smise di bere, Will contò tre frecce nella faretra. I muscoli gli chiedevano un altro attimo di sosta, un po' di pietà, ma sapevano bene quanto fosse inutile. Accarezzò distante le piume della terza freccia e si preparò ad incoccarla.
«Ciao, Will.»
Quella voce lo fece rabbrividire. Per rabbia? Paura? Sollievo? Non sapeva dirlo con certezza.
Rabbia? Inutile negarlo. Era arrabbiato.
Paura? Sì, lo aveva spaventato, comparirgli alle spalle in quel modo.
Sollievo? Ora aveva la certezza che non fosse morto.
Will si maledì. La mano iniziò a tremargli, e l'arco scese di due centimetri dalla solita postazione di tiro. Quella voce aveva attivato pensieri dolorosi che aveva tentato in tutti i modi di soffocare.
Non si voltò. Non rispose. Lo ignorò, per quanto fosse capace. Scoccò la freccia di nuovo contro la tavola da surf, questa volta all'interno del ghigno del teschio.
«Sei in gamba come al solito, Will. Ora ho trovato un soprannome per te, anche se stupido. L'arciere. Che ne pensi?»
Per tutta risposta, Will prese la penultima freccia e puntò al manichino. La freccia sibilò nell'aria mentre si conficcava dritta nei genitali inesistenti del manichino.
«Ahi.» fischiò la voce alle sue spalle, colpita. «Questo ha fatto male.»
Will si conficcò le unghie nei palmi. Non doveva voltarsi. Doveva reprimere quel desiderio. Sebbene fosse seguito da una ferrea decisione di prenderlo a schiaffi. Doveva trattenersi. Doveva ricordare le sue lezioni sull'autocontrollo.
Le mani gli tremavano così tanto che non si sforzò nemmeno di prendere l'ultima freccia. Tenne gli occhi puntati sul manichino.
«Sei arrabbiato, lo so.» continuò la voce di Nico di Angelo alle sue spalle. Parlava in fretta, come se considerasse la pausa come un invito a scusarsi. «E non ho alcuna intenzione di chiederti di non essere più arrabbiato con me. Mi sono comportato male. Molto male.»
«Allora perché sei di nuovo qui?» ringhiò Will. Portò la mano alla faretra, mordendosi l'interno della guancia, e prese l'ultima freccia. Le dita continuavano a tremare mentre teneva gli occhi puntati sui bersagli.
«Perché... volevo vederti. E parlarti. E chiederti scusa.»
«Vederti. Parlarti. Chiederti scusa.» lo scimmiottò Will, incoccando la freccia. La puntò di nuovo verso la tavola da surf. Provava un piacere un po' perverso nel colpirla. «E cosa ti suggerisce che io voglia vederti, o parlarti, o accettare le tue stupide scuse?»
Nico saltellò da un piede all'altro, a disagio. «Be', hai del tempo libero.» mormorò. «E se mi lasciassi spiegare...»
«Appena questa freccia colpirà il suo bersaglio, io non avrò più tempo libero.» sibilò Will, tendendo le braccia fino allo stremo. Il dolore gli schiarì la mente. «Quindi ti consiglio di parlare in fretta.»
Will non lasciò all'altro nemmeno il tempo di aprire la bocca, perché la freccia partì. E si sarebbe conficcata nel secondo occhio del teschio, se uno scheletro comparso dal nulla a metà percorso non l'avesse afferrata.
«Le cose sono andate in modo diverso da come io o mio padre ci eravamo aspettati.» iniziò a dire Nico, mentre il suo scheletro porgeva la freccia a Will, che si sentiva le guance ardenti per la rabbia. La prese, irritato, e la spezzò in due, lasciandola cadere in terra, insieme alle ossa dello scheletro che vennero risucchiate dalla terra.
«Mi hai appena rovinato mesi e mesi di allenamento, di Angelo, spero tu ne sia soddisfatto!» ringhiò Will, voltandosi a guardarlo.
Si maledì per averlo fatto.
Erano passati più di dieci mesi dall'ultima volta che lo aveva visto, ma il suo cuore reagì come se non lo vedesse da sole poche ore. Come se non avesse sofferto a causa sua in tutto quel tempo. Il cuore iniziò a battere sempre più forte, il sangue gli fluì di nuovo alle guance, e i ricordi dei loro pomeriggi di baci gli tornarono alla memoria, soffocando il dolore e la tristezza di tutti quei mesi di solitudine. L'impulso di stringerlo tra le braccia fu soppresso nel giro di una manciata di secondi, gli stessi che gli servirono per rendersi conto che quello non era più il piccolo Nico di Angelo a cui si era abituato.
Dieci mesi. In quel lasso di tempo, il corpo di Will si era modificato. Aveva ottenuto l'irrobustimento che non gli aveva mai concesso nei primi quattro anni al campo. I muscoli si erano ispessiti, dandogli una nuova forma alle spalle, alle braccia e alle gambe. Era più resistente, riusciva a correre per dieci chilometri prima di stancarsi, e poteva sopravvivere settantadue ore senza chiudere occhio. Non era diventato più alto, il metro e ottanta era contenuto nel gene di sua madre, visto che tutti i suoi fratelli umani erano alti quanto lui. Era solo diventato più forte, il suo corpo si era modificato per rispettare il suo nuovo equilibrio, e i vestiti ora gli stavano stretti. E in costume faceva una figura ancora migliore. La sua carnagione era sempre dorata da perfetta abbronzatura.
Invece, per Nico, quei mesi negli Inferi erano serviti al suo corpo per ricordargli che si trovava nel pieno della pubertà. Era ancora pallido per via di tutto quel tempo sottoterra, e gli scuri occhi erano ancora infossati, ma pieni di vita, il che lo rendeva diverso. Aveva tagliato i capelli, ora li teneva rasati ad entrambi i lati della testa, e i capelli superstiti restavano dritti e scompigliati, dandogli la solita tipica aria di essersi appena alzato dal letto e di essersi dimenticato di darsi una spazzolata prima di uscire.
Ed era più alto. Will riusciva a guardarlo dritto negli occhi senza dover inclinare la testa. Era più alto, e aveva messo su muscoli. Indossava jeans neri, attillati, come se avesse seguito corsi di moda mentre si trovava alle prese del lavoro di suo padre. Anfibi neri, senza rialzo, gli fasciavano i piedi. Inoltre, indossava una maglietta di un rosso cupo, a maniche corte, senza disegni o scritte, e la sua solita giacca da aviatore, che sembrava essere cresciuta con lui come una seconda pelle. Come se non facesse un caldo bestiale, quel pomeriggio.
Al collo portava ancora il laccio di cuoio con l'unica perla del Campo Mezzosangue, che proprio Will gli aveva legato tempo e tempo prima. Nel vederla scintillare prima di arancio e poi di viola, a Will si strinse il cuore, e capì che da quell'incontro la possibile soluzione era soltanto una.
   
 
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