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Autore: Quisquilia Radioattiva    29/05/2015    2 recensioni
L’amore e la natura coesistono come germogli della stessa matrice. Perfetti. Eterni. Brutali.
La loro immortalità s’impregna nell’anima degli amanti, fin oltre le terrene concezioni.
Buona lettura.
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Angolo Autrice:
Molto bene, devo dire che riprendere la scrittura dopo troppo tempo, con qualcosa nella quale non mi sono mai cimentata,  non so quanto sia saggia come scelta.
Dire che ho il cervello arrugginito è un eufemismo, davvero; e, a dirla tutta, non so neppure se questa cosa tirata giù, a forza, dalla mia mente afflosciata possa essere considerata “ concludente “.
Orsù, è tardi per ripensarci o, meglio, finché non la pubblico ci penserei ancora troppo per i miei gusti, quindi …
Anyway, non posso che sperare vi piaccia.
La Shot è ispirata alla poesia “ La Pioggia Nel Pineto “ di Gabriele D’Annunzio che, onestamente, trovo splendida.
 Nel testo l’ho resa riconoscibile grazie al corsivo ( giusto per chi ancora non la conoscesse ).

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Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.

Camminai a lungo, come sempre, da allora.
Assaporai l’odore dolciastro delle felci, sfiorai distrattamente i fusti rugosi ed irti che abitavano quella terra dai respiri silenti ed invisibili.
Le gambe carezzate dai fili d’erba incolta, eppure inebriata di essenza selvaggia, come i tuoi capelli di rame. Al sol ricordo, le dita formicolarono, quasi li avessi ancora sotto le mani, annodati alle mie falangi in un abbraccio imperituro ed immortale nel tempo.
Sospirai, respirai ancora l’aria imbevuta di brina che mi solleticava il palato. Il sole trapassava le fronde, muto, come i miei passi leggeri  e cadenzati; filtrava delicato eppure prepotente come la mia brama di raggiungerti.
Superai  abile il solito sentiero. Traversai  il mucchio di cespugli incolti, i muschi rampicanti fino a giungere al roseto in fiore, ridente di rose bianche che tanto mi ricordavano la tua pelle, le tue sclere di un tempo… quando ancora non conoscevi tutte le vie del dolore.
Come mia consuetudine, mi fermai un momento e contemplare i margini tondeggianti e perfetti di quei candidi fiori. Oh, se li amavo. Mi portavano alla mente la sinuosità dei tuoi fianchi di donna, amabile e femminea, insieme a tutto ciò che mi legava spasmodicamente al suolo, all’anima tua.
Quando immolavo ogni casto pensiero al cospetto dei tuoi sapori, talvolta da megera meretrice, più spesso da fragile amante, consorte, sognatrice.
Ogni volta che la mia pelle si confondeva alla tua e le sinuosità ai miei umori maschili, non riuscivo a comprendere se mi stessi intrattenendo con la mia donna o con la mia rosa.

Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.


 

Un rumore impulsivo scosse le fantasie. Un urlo del cielo mi distolse, violento, dalle distrazioni nelle quali tanto amavo crogiolare la mente.
Un tuono.
Mi accorsi che il sole si era già congedato, lasciando scena alla pesantezza e al grigiore; sicché mi apprestai, ansioso e lesto, verso l’inizio della radura.
La prima goccia toccò la prima foglia con un rumore sordo, poi un’altra, poi altre due fino a comporre una melodia malinconica ed ovattata che avrebbe potuto sconsacrare l’attesa di quell’intimo, ormai abituale, incontro.
Affannoso e trepidante, come sempre quando stentavo a scorgerti, quasi fosse la prima volta, scrutai l’arco naturale formato dai due alberi che affacciava all’immensità sterminata e verdeggiante, la quale, oramai,  cantava spensierata al tocco della pioggia sottile ed ossessiva.
Avrei avuto un brivido, poi ti vidi, lì, proprio dove dovevi essere; seduta con le gambe snelle rilassate, il busto sollevato dai gomiti e il viso rivolto al cielo piangente.
Sorrisi, forse più per la mia ingenua euforia come quella di un fanciullo incosciente, che per la certezza  di trovarti ad aspettarmi, come ogni volta, da allora.

 

Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t'illuse, che oggi m'illude,
o Ermione.


Mi avvicinai, delicatamente, come avessi paura di disturbare i tuoi sensi di creatura silvana che aspira alla quiete del senno e del sonno.
Notai  che avevi gli occhi chiusi e la bocca umida e arrossata dal freddo di quel pianto inaspettato della natura. Mi accomodai, senza parlare, senza pensare ad altro che alla tua vicinanza.
<< Ti aspettavo. >> sussurrasti piano, liberando appena lo sguardo.
Pareva avessi avvertito che qualcosa nell’aria che respiravi fosse cambiato; probabilmente l’odore, o il calore, o ancora il suono del vento.
La mia presenza ti era familiare, tatuata in ogni lembo di pelle, troppo tormentata per esserti estranea o minacciosa.
Chiunque si sarebbe sentito a disagio nel sentire un’energia sconosciuta, dannatamente vicina, improvvisa… tu, invece, ne ridesti e te ne beasti, come un quotidiano miracolo che ripercorreva i giorni, i mesi, gli anni.
Eppure, a me sembrava fosse passato niente da quando ci perdemmo e il nostro amore cambiò forma.
<< Ed io aspettavo te. >> ti risposi placidamente, guardando lontano.
Sorridesti ancora, quella volta spostandoti i capelli incollati alla faccia. Piegasti le gambe permettendo alla veste nera di ricaderti sul bacino, lenta e fradicia di acqua gelida e voglia di ammalarti nel corpo.

Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitìo che dura
e varia nell'aria
secondo le fronde
più rade, meno rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
nè il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancora, strumenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirito
silvestre,
d'arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.

<< Dovresti coprirti. L'aria é fredda. >> consigliai dolcemente apprensivo.
Ti guardai con pena. Sapevo bene che il disinteresse per te stessa era la mia condanna, la vendetta del contrappasso per averti lasciata sola, in maniera tanto drastica e disinteressata.
Eri più magra, sfibrata, sottile e delicata come i fili d’erba che ti contornavano il corpo.
Poi sospirasti, tremolante, affranta… sapevo cosa avresti voluto dirmi, lo facevi sempre, lo facevi ogni santo giorno.
<< Mi hai lasciata, così, senza preavviso. Non meriteresti neanche che io sia qui a parlare con te. Probabilmente non te lo perdonerò mai. >> soffiasti in tono crescente, prima come un usignolo, poi come una stridente e tediante cicala.
Ah, lo immaginavo, mia bella, che me l’avresti ripetuto ad oltranza, e l’avrei sopportato ancora se questa atavica e femmina insicurezza ti si fosse alleggerita. Avrei condiviso volentieri i tuoi affanni, ma sarebbe avvenuto con la consapevolezza che stavi punendo te stessa, per la tua incapacità di vivere lontana dal mio ricordo.
Lo trovavo fastidioso, oltremodo svilente perché sapevo che non avrei potuto far altro che ascoltare e ri-ascoltare il giorno seguente.
Ero incatenato a te, solo quello.
<< Dovresti lasciarmi. Perché non lo fai? >> chiesi.

Ascolta, ascolta. L'accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall'umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s'allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s'ode voce del mare.
Or s'ode su tutta la fronda
crosciare
l'argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell'aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell'ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.


<< Io… io non posso dimenticare. Non voglio, ho paura di farlo. >> confessasti, incerta.
Non potevo immaginare che avrei alimentato i tuoi strazi per così tanto tempo, altrimenti, prima di lasciarti, ti avrei fatta sentire indispensabile ed avrei suggerito alla tua anima di accettare, impassibile e resistente, quello che il destino ci avrebbe serbato.
Ma io, così come te, non potevo sapere che sarebbe finita, quella volta per sempre.
<< Perché dovresti dimenticarmi? Non ti basterebbe soltanto accettare che io sia altrove? O pronunziare il mio nome con altrettanta tenerezza? >> domandai imperioso, gesticolando appena.
Non ottenni alcuna risposta. Dovevo aspettarmelo.
Così come dovevo aspettarmi le tue lacrime amare che t'ingrassarono quei ventagli neri di ciglia folte.
Ricordai, d’istinto, l’ultima volta che litigammo per la folle gelosia che ti distaccava, spesso e male, dalla reale essenza delle cose. Ti rigasti le guance di trucco e, nello strofinarti gli occhi, ti macchiasti le maniche della camicia e spalmasti il rimmel sugli zigomi.
Da quanto tempo, da allora, non ti truccavi più? Da quando la tua vanità di bella donna era appassita, mio fiore?
Ti torturavi le mani, rinsecchite e nodose,  prima di portarti le ginocchia al petto ed affondarci il viso, ricacciando quel pianto che non si confondeva più con quello degli astri.
<< Maledico il giorno in cui ti ho incontrato. Non conosco più rimedi alle mie sofferente. Vorrei cancellarti. >> ringhiasti, straziandoti la pelle delle braccia con le tue stesse unghie.
Ti amavo proprio perché eri sempre stata sanguigna. Amavi con rabbia e lealtà, la stessa che ti riportava in quella radura, a piedi nudi, con vesti scure per confonderti con le ombre, con le solite deprecazioni che ti avrebbero ammorbidito il sonno e le colpe che non ti appartenevano.

Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le palpebre gli occhi
son come polle tra l'erbe,
i denti negli alvèoli
con come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c'intrica i ginocchi
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m'illuse, che oggi t'illude...


 

Mi sporsi appena nel tentativo di sfiorarti la clavicola fin troppo evidente, ma ti issasti, innervosita dal mio mutismo e dalla solitudine che ne derivava.
E restai lì, fermo, accondiscendente e paziente nell’assurdità del tuo perseverare. Sarei stato l’unico a non giudicarti.
La fine dei tuoi stanchi ed angosciati ritorni mi avrebbe permesso di abbandonare quella terra, ma solo se fossi stata tu a volerlo; in caso contrario, avrei continuato a vagare alla tua ricerca, aspettando che ritrovassi la felicità, a mani giunte.
<< Non so se tornerò… >> sibilasti velenosamente, contraendo il viso in una smorfia di rammarico.
Dicevi spesso così, e al nuovo tramonto tornavi puntualmente, sullo stesso punto, in qualsiasi stagione.
Immaginavi  io fossi lì.
<< Potresti anche fartene una ragione. Non lasciare che io assista al tuo deterioramento. Hai diritto di vivere, se io non esisto. >>  mi lamentai, fissandoti dal basso.
Ma mi desti le spalle e t’incamminasti verso il bosco, col capo chino e i pugni serrati, senza considerare la mia assente presenza.
Scattai, in preda al panico, e compii due passi, finché ti voltasti e ti guardasti alle spalle, senza fissare un punto preciso, facendomi pesare con malagrazia che non potessi vedermi.
<< Ti ho cambiato i fiori, stamane. Ho ripulito i fianchi del marmo dalle erbacce e ti ho messo un nuovo cero. >>  comunicasti, vaga.
<< Smettila di cercarmi nei posti che alimentano i ricordi. Lascia che la mia anima abbandoni  la tua immagine. Fa che il tuo sorriso diventi la mia pace. >>  mormorai addolorato.

 

o Ermione.

Mi lasciasti solo, come un qualunque spettro privo d’origine.
Ritto, inesistente, come per i tuoi sensi  superflui.
<< Possibile sia io che debba lasciarti andare?... >> chiesi a me stesso, in balìa delle uniche emozioni che ancora mi rendevano percepibile: ansietà, timore di staccarmi finalmente da quella realtà corporea della quale non facevo più parte, se non grazie al tuo pianto.
Non mi sentivo che manifestazione in terra dell’unico sentimento capace di protrarsi oltre i dispiaceri e la mancanza.
Avevi ragione, donna mia, sapevi che ero io quello che si aggrappava alle tue ultime energie e tu, imperterrita, mi accudivi da lontano come una donna innamorata e fedele al nostro vissuto.
Anche in quella nuova forma di me stesso mi arrogavo del diritto di essere egoista poiché tu, mia amata, eri l’unica a ricordarmi che fossi stato vivo.
La tua devozione avrebbe commosso anche i più algidi, anche gli spiriti più tormentosi e soli.
Il tuo amore si era evoluto in qualcosa di simile al divino, come la natura, come la pioggia che si addentrava nell’incavo dei tuoi seni con snervante lentezza.
Sei stata capace di farmi sentire in vita, recandoti in quella valle desolata e stanca, ove ti conobbi, ove ci addentravamo insieme per amarci sotto lo sguardo di Dio e nessun altro. Hai protratto le tue angosce affinché mi ricordassi chi sono, chi eri, e non dimenticassi che il tuo amore mi avrebbe accompagnato, così come oltre la vita, anche oltre la morte.
Sei la gioia.
Sei stata l’ultima immagine che ho veduto  prima di liberarti… prima di ricongiungermi dall’altra parte.






p.s. Immagine presa dal Web.

  
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