Respirare annegando
A
Jessica,
che
troppo spesso si guarda,
ma
non si vede.
Il
risveglio è lento, senza fretta: un occhio si apre placidamente, aiutato dal
buio della stanza da letto, seguito dall’altro che inizia a focalizzare i
dettagli di quel luogo.
Se
dovesse utilizzare un aggettivo per descriverlo direbbe subito, senza esitazione,
essenziale: un armadio con le ante
leggermente aperte ai piedi del letto, in fondo alla stanza, un comò a sinistra
con sopra appoggiati un orologio, le chiavi della macchina e una bottiglietta
d’acqua; lo specchio sopra di esso che riflette i tenui raggi solari che
tentano di entrare dalla serranda abbassata, lottando per illuminare ogni
angolo.
Come
presa da un’istintiva paura, si alza. Lo scatto è fulmineo, ma silenzioso: non
sente rumori dall’altro lato del letto.
Si
appropria dei suoi occhiali a tentoni, vedendoli gettati a terra a pochi metri
da lei, fortunatamente intatti, e si dirige verso il bagno, chiudendosi piano
la porta alle spalle. La scarsa presenza di stanze in quella casa – una cucina,
un salottino, un bagno e una stanza da letto – rende difficile il confondersi,
per cui è senza dubbio che gira la maniglia e si inoltra nel bagno scuro.
Appoggia
le mani alla ruvida corda della tapparella e tira piano, alzandola finché non
c’è abbastanza luce.
Che ore saranno?
Chissà…
Apre
il lavandino, osservando l’acqua che scende e domandandosi come debba essere
vivere in quel modo: perennemente trascinati giù, attirati verso un basso che
non finisce mai.
Forse
se lo domanda perché, in quel momento, si sente esattamente in quel modo. Si
sciacqua la faccia e solo dopo osa alzare lo sguardo nello specchio di fronte a
sé.
Si
guarda nel riflesso, ma non si vede. Il
problema di tutta una vita.
Dopo
aver legato i capelli in una coda improvvisata, tenta di lavarsi i denti in
qualche modo, usando il dito come uno spazzolino e cercando di non far cadere
acqua per terra.
Come
la stanza da letto, anche il bagno è essenziale nel suo essere: una
bottiglietta di shampoo e una di bagnoschiuma troneggiano ai piedi del box
doccia, accompagnati da una spugna rettangolare blu, una spazzola è stata evidentemente
buttata con fretta sulla lavatrice, con ancora alcuni capelli corti attaccati
ad essa.
Sul
piano del lavandino è appoggiato un profumo – di una marca un po’ scadente – e
una piccola trousse è appoggiata al muro, con un rimmel aperto e abbandonato
che ha provveduto a sporcare il ripiano con piccole chiazze nere.
Osserva
tutto ciò mentre è seduta sul bagno e la sua mente viaggia a due livelli,
tentando di riempirsi di tutti quei dettagli per rievocare quelli persi della
notte precedenti, che sembrano essersi sfaldati nelle poche ore che sono
passate da quando sono avvenuti.
Non
le mancano le informazioni essenziali – dove si trovi, con chi, quando e come
ci sia finita -, ma solo il motivo che le lega tutte insieme: perché.
Esce
dal bagno e va verso la cucina, meditando di farsi un caffè: aver utilizzato
una stanza della casa come avevano fatto loro la notte prima, rende automatico
l’accesso a tutte le altre, no?
Mentre
osserva la fiamma del gas che fa salire la temperatura della moka che ha
minuziosamente preparato, sente l’istintivo bisogno di fuggire, come se le
pareti si fossero chiuse di colpo intorno a lei e l’odore del caffè avesse
impregnato ogni molecola d’ossigeno, soffocandola.
Respira,
respira, una due tre volte, ma le pareti non si allargano e l’odore non se ne
va – mio Dio, sto respirando caffeina
-, anzi diventa sempre più forte, come i ticchetti dell’orologio appoggiato
alla parete che scandisce i secondi con la forza di un martello che colpisce
l’incudine.
Si
abbassa, acquattandosi sulle ginocchia e continuando a respirare – non sto respirando, boccheggio aria come i
pesci appena pescati – e prova a deglutire, a vuoto ovviamente, perché non
ha saliva da mandare giù.
Respira,
respira, quattro cinque sei volte, forse dell’acqua può aiutarla – niente può aiutarmi, neanche l’illusione di un
possibile aiuto – e apre il frigorifero per prendere quella fresca, che
striderà nella sua gola calda e secca e la beve direttamente dalla bottiglia,
evitando per miracolo di soffocarsi con essa e di sputarla nella delusione di
scoprire che è acqua frizzante.
Quasi
le sfugge dalle mani mentre la riposa nel frigorifero, accorgendosi di quanto
le tremino – state ferme, state ferme,
chissà se si sente così un malato di Parkinson -, ride e si rimprovera di
quel pensiero, non le sembra il momento di fare ironia, ma se solo le mani
smettessero di tremare.
Un
piccolo fischiettio, proveniente dalla moka che sta bollendo il caffè ormai
pronto, le fa velocemente chiudere la manopola del gas, facendole realizzare
improvvisamente che, forse, bere un caffè in quel momento sia l’ultima cosa di
cui ha bisogno per calmarsi.
Respira,
respira, sette otto nove volte, l’aria inizia di nuovo ad avere odore di
ossigeno – come può l’aria odorare di
ossigeno? Sto impazzendo, mio Dio – e le pareti sembrano allargarsi, i
ritmici ticchettii dell’orologio diminuire d’intensità e le mani hanno smesso
di tremare.
Si
tocca la fronte sudata e sente le gambe cederle, rilassate dopo un grande
sforzo. Si siede a terra, tirandosi le ginocchia al mento e pregando che non si
svegli, che non la veda così, analizzando che il desiderio di fuggire non è
scemato come il resto delle sensazioni.
Scacciando
definitivamente la sensazioni di nausea, volge lo sguardo all’orologio che, in
quel momento, segna le 9.34 del mattino: presto, per i suoi standard.
Il
sole illumina tutta la cucina, facendole osservare dettagliatamente ogni
singolo particolare che il suo occhio, agitato e ancora stimolato, percepisce
con eccessiva reattività.
Poi,
d’improvviso, sente un rumore e sobbalzando si gira verso la porta, osservando
la figura che la guarda, con la preoccupazione negli occhi. Si alza di scatto,
così velocemente che ha rischiato di inciampare nei suoi stessi passi, e
rifugge il suo sguardo, creando qualche scusa plausibile nella sua mente.
«Scusa.
Io… mi sentivo poco bene…» le parole inciampano una sull’altra, togliendole
però il dubbio che l’ha attanagliata finché non le ha dette: se fosse ancora
capace di articolare qualche pensiero.
Non
c’è scherno o derisione nello sguardo che vede restituirsi, ma un sorriso di
consapevolezza, come se lo sapesse
già.
«Hai
fatto il caffè?»
Si
muove con poca grazia all’interno della sua cucina e non perché ci vive da poco
– ha comprato quell’appartamento appena due settimane fa, motivo dell’ancora
spartana disposizione degli oggetti nelle varie stanze – ma perché l’eleganza
nel muoversi è qualcosa che non le è mai appartenuta.
«Sì.»
I
capelli biondi le sfiorano leggermente le spalle – li ha tagliati appena un
mese fa e sono già lunghi come prima – e gli occhi azzurri brillano tra le
delicate lentiggini del suo volto, visibili solo se si sa dove guardare.
«Ma
sarà freddo.» l’avverte, osservandola versarsi la bevanda nella tazzina,
riempirla con una zolletta di zucchero e portarsela alle labbra, quelle stesse
che ieri la baciavano, la toccavano, la desideravano come mai niente l’aveva
voluta.
I
ricordi della notte prima riesplodono con violenza nella sua mente – le sue
mani, la sua bocca, i suoi occhi così oscenamente intrisi di desiderio – e si
trattiene dallo stringere le gambe, stupita dall’eccitazione che ha chiaramente
avvertito nel basso ventre.
E
si spaventa, di nuovo sente lo stomaco stringersi e capisce – l’aveva già capito – che era da questo che
voleva fuggire.
Ma
Sara le sorride, mentre sorseggia il caffè, ed è un sorriso dolce e malizioso
che promette cose che, forse, ha sempre ricercato nel sesso sbagliato, che
nessun uomo è mai stato in grado di darle.
«Stai
tremando, Giulia.»
«Lo
so.»
Le
tira una mano tra le sue ed è un contatto che la fa quasi sobbalzare, si
stupisce perché la mano di Sara è fredda, eppure non le intirizzisce la pelle.
Forse
il perché che stava cercando risiede
proprio in quella stretta, illuminata in quella cucina così sobria.
«Vieni
con me.»
Giulia
si fa trascinare, affidandosi a quell’amica conosciuta due mesi prima che,
forse, amica non era stata mai e sicuramente non sarà mai più.
«Ti
voglio.»
C’è
una tale sensualità, una tale comprensione in quelle parole che Giulia si sente
quasi annegare, annientata dalla forza di quello che sente ma, in un attimo, è
come se il sole rischiarasse la nebbia e le aprisse la mente.
Le
risponde, trovando nella consapevolezza di quello che sente il modo per
annegare pur continuando a respirare.
«Anche io.»
Fine.
In
questo periodo mi sento molto ispirata nello scrivere queste storie originali,
dove prediligo un’analisi prevalentemente psicologica dei personaggi e indago
aspetti sensibili del loro essere: Giulia si sveglia calma, apparentemente
tranquilla, dopo una notte con Sara, la sua prima notte con una donna e si
spaventa nel capire quello che ha sentito, nel comprendere nuovi aspetti della
sua sessualità che ribaltano la concezione di tutta una vita, sono
semplicemente frammenti che ho analizzato in un percorso di accettazione molto
più lungo e travagliato.
Volevo
rendere il lettore allo stesso livello di Giulia per cui è intenzionale che
all’inizio non si capisca chi ci sia di fianco a lei, se un uomo o una donna
(anche se purtroppo dovendo mettere nelle note l’avvertimento di Fem-Slash
questa cosa perde un po’ di senso , ma non importa XD).
Che
dire, potrei dire ancora molto, ma non voglio condizionare oltre la vostra
interpretazione di questa lettura: mi farebbe un immenso piacere se mi
scriveste la vostra opinione, per capire cosa ne pensiate.
Grazie.
Un
bacione,
EclipseOfHeart