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Autore: Sam Vega    31/05/2015    2 recensioni
Storia a quattro mani con SidRevo.
“No Excuses”. Nessuna scusa.
Scritto a caratteri cubitali e netti sopra lo stipite della porta. Un monito bianco su sfondo blu, a ricordare che, oltre quella soglia, nessun tipo di giustificazione è accettata. Non per una partita persa, un goal mancato, un passaggio sbagliato.
“No Excuses”. Un mantra che ogni giocatore deve ripetere nella propria testa, da seguire ciecamente ogni secondo trascorso a graffiare la lastra fredda sotto i propri pattini, e per cui abbassare la testa nell’assumersi le proprie responsabilità, senza sconti, come singolo e come squadra, per poi rialzarla e affrontare con orgoglio la successiva sfida.
Due semplici parole e una storia centenaria su cui cementano, fatta di vittorie e sconfitte, imprese al limite dell’impossibile, ed eroi che sfrecciano sul ghiaccio: esempi intoccabili, da ammirare e imitare; da ricordare con una nota nostalgica in bocca e il desiderio bruciante di raggiungerli, lassù sull’Olimpo degli sportivi.
“No Excuses”. Un significato che ti entra sotto la pelle e ti plasma da dentro e lega a filo doppio con chi condivide quel tuo stesso credo, in una squadra dove il logo sulla maglia è più importante del nome scritto sulla schiena.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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6th Period. “Challenges”
 


 
«Andiamo Jayden, non mollare! Forza bello, ancora un ultimo sforzo!»

Jayden si aggrappò con più forza al manubrio, le mani che bruciavano, così come i polmoni, e le nocche che sbiancavano per lo sforzo.

«Ultimi dieci secondi!» urlò Larry, uno degli allenatori, e lui accontentò le sue richieste supplicando le sue gambe per una pedalata in più. «Dai! Dai! Cinque e… stop!»

Stop. La parolina magica per porre finalmente fine a quella tortura che odiava con tutto se stesso. Dannate cyclette, dannati allenamenti prestagione e dannati test fisici. Doveva restare nel suo paesino in British Columbia dimenticato da Dio, Zeus, Vishnu, e tutta l’allegra combriccola di divinità, a fare il contadino e passare le sue giornate a guidare un trattore, con tanto di cappello di paglia e filo d’erba in bocca.
Altro che portiere di hockey e NHL. Balle di fieno, la fattoria e i campi da coltivare! Una versione canadese del Clark Kent di “Smallville”, ma senza superpoteri.

«Respira e continua a pedalare piano. Respira, Jayden.»

«Lo farei» annaspò, «se solo avessi ancora i polmoni.»

Una pacca non propriamente gentile gli arrivò sulla schiena, a togliergli quel poco fiato che gli era rimasto. «Piantala di fare il melodrammatico.»

«Fossi in te non avrei molto da ridere, considerando che sei il prossimo, Dryden.»

Cole gli rivolse un sorrisetto compiaciuto e si appoggiò con le spalle al muro. «Si da’ il caso che il sottoscritto non abbia trascorso l’estate a vagabondare per le praterie di Narnia come te, Heidi

«Non ci sono le praterie intorno a casa mia, deficiente. Le tue concezioni geografiche lasciano un tantino a desiderare, e lo sapresti se fossi venuto a trovarmi almeno una volta in tutti questi anni.»

«No, grazie» replicò prontamente l’altro, appropriandosi del suo Gatorade, confermando nuovamente la sua naturale inclinazione all’essere uno scroccone di professione, e scolandosene almeno metà. «Preferisco frequentare posti con tracce di vita umana.»

«E per ‘tracce di vita umana’ intende ‘vita umana che possa servirgli da bere’» intervenne Sean, avvicinandosi ai due, con il suo classico sorriso smagliante che, inspiegabilmente, riusciva a mantenere anche dopo ore di massacro in palestra. Quel dannato sembrava essere sempre fresco come una rosa. «Non è colpa tua, Jay, se questo animale cittadino non viene a trovarti. È che le tue mucche non hanno ancora imparato a produrre tequila.»

«Ah, ah. Sempre più divertente, principino» lo rimbeccò Cole passandogli un braccio sulle spalle, in un malcelato tentativo di strozzarlo. Diedero così inizio a un’improbabile sfida di wrestling, prima che Wayne, puntuale come sempre, tornasse a ricordargli che quella era una palestra e non un circo.

«Com’è che, come mi volto, voi tre state facendo di tutto tranne allenarvi?»

«Io sono sulla cyclette!» si scusò prontamente Jayden, guadagnandosi un’occhiataccia dai suoi due compagni di nullafacenza.

«Esatto Jayden, cyclette. Il che presuppone che tu debba muovere quelle gambe per ottenere qualcosa. Non è una moto» gli rispose secco, facendo scoppiare Sean e Cole in una risata immediatamente soffocata. «Invece che dilettarvi in inutili chiacchiere da bar, dovreste prendere esempio da Jan o da Sergej, e lavorare

A quella raccomandazione, gli occhi di Jayden si spostarono di riflesso sui due nominati: il primo era seriamente impegnato con uno dei tanti attrezzi della palestra per potenziare le braccia. Non che ne avesse davvero bisogno, ma il loro capitano era conosciuto per la sua quasi ossessione al voler essere sempre al cento per cento.
Jan era sempre il primo ad arrivare agli allenamenti e l’ultimo ad abbandonare la pista di ghiaccio, anche durante i riscaldamenti che precedevano la partita; quello che s’impegnava sempre più duramente e che manteneva un’invidiabile costanza nel suo gioco. Era un modello da seguire per tanti e incarnava ciò che Jayden aveva, fin da bambino, immaginato dovesse essere il capitano adatto a guidare una squadra. La sua squadra.
Non avrebbe forse neanche accettato un capitano meno carismatico, responsabile, capace o… capitano, appunto, di Jan.
Se da una parte della palestra poteva però assistere al disciplinato comportamento di “Sua Capitanosità” Ørjan Bäckström, dall’altra poteva osservare un individuo il cui senso di responsabilità veniva costantemente messo in dubbio da chiunque, mentre quello di appartenenza alla squadra, surclassato dalla sua sete di fama personale.
Era un rinomato e ostinato individualismo quello di Sergej, che però non gli impediva di allenarsi come un pazzo, in perfetto silenzio. Un po’ come se Terminator e Ivan Drago si fossero dati alla procreazione: definirlo inquietante, era poco.

«Svegliati, Jay» lo richiamò all’attenzione Sean, strizzandogli il naso tra il pollice e l’indice per strapazzarlo un po’. «Abbandona la desolazione delle Terre di Mordor che è la tua testa e torna con noi.»

Jayden finse un’espressione scocciata, rivolgendo una smorfia al compagno di squadra, e si decise ad abbandonare la cyclette, pur mantenendo una certa attenzione rivolta al taciturno russo e al fatto che, nella sua foga, sembrasse seriamente intenzionato a prendere il volo con il vogatore.
Dal suo arrivo, pochi giorni prima, non aveva avuto molte occasioni per parlargli e conoscerlo meglio. Sergej aveva l’innato talento di far cadere in un imbarazzante e ridicolo silenzio qualsiasi tipo di conversazione, come se ogni argomento esistente al mondo non suscitasse in lui il più vago interesse. Inoltre doveva anche ammettere che, per spirito di autoconservazione – probabilmente ereditato dal suo essere per metà Nativo, ergo, una “specie a rischio estinzione” – non si era sforzato minimamente di comunicare.
Non che Jayden non fosse curioso di conoscerlo e sapere qualcosa in più sul suo conto, anzi. Quando lo avevano informato del suo imminente arrivo ai Canadiens, il drink che stava bevendo gli era andato di traverso – e se lo ricordava bene, perché far passare la tequila dal naso era sempre una pessima idea. Si immaginava già sul campo, con quel mostro di talento finalmente dalla sua parte, anziché contro, a farlo sudare in modo indecente sotto le protezioni da portiere perché, nonostante il suo di talento, quel dannato russo aveva sempre reso un vero inferno i sessanta minuti di gioco dei loro scontri.
Tuttavia, a dispetto del fatto che non fosse riuscito a trattenersi dal fantasticare su come le sue performance potessero migliorare grazie a un tipo come Sergej Nevskij a bersagliarlo di tiri durante gli allenamenti, aveva preferito restare in disparte rispetto ai suoi compagni e lasciarlo in pace, a respirare. A volte gli sembrava che quello strambo individuo gli fosse quasi grato per la sua “indifferenza”. Non gli aveva mai detto niente, in realtà, ma almeno gli risparmiava quelle occhiate taglienti chiaramente scocciate e insofferenti di norma riservate agli altri, che sembravano promettere una morte cruenta tipica dei film sul KGB e sulla mafia russa.
In fondo lo capiva.
Capiva che non dovesse essere una passeggiata ritrovarsi improvvisamente in un posto diverso, con persone pressoché sconosciute, se non per gli articoli di cui erano protagonisti sui giornali o le trasmissioni sportive, o perché si erano trovati faccia a faccia in alcune occasioni, sotto maglie di diversi colori. Capiva la difficoltà dell’essere sommerso di domande da chiunque e quella del trascinarsi dietro anche tante invidie per quel suo bagaglio tecnico fuori dal comune, soprattutto se affiancato da un caratterino tutt’altro che facile da gestire.
Sergej Nevskij non era la persona più accomodante con cui aver a che fare, ma non si sentiva di biasimarlo in tutto e per tutto, soprattutto per l’insofferenza che dimostrava nell’essere bersagliato dai giornalisti. Lui che, per proprio conto, non poteva vantare certo un buon rapporto con loro.
Impegnato com’era a rimuginare sulle odiose interviste a cui presto sarebbe stato costretto, non si era neanche reso conto che Sergej aveva smesso di vogare per ricambiare il suo sguardo fisso, con uno piuttosto stranito.
Si riscosse quindi dai suoi pensieri e decise che il modo migliore di ignorare la cosa fosse dilettarsi in una delle sue attività preferite lì a Brossard. Qualcosa che Cole sembrava aver già intrapreso: torturare Sean.

«Sempre così precisino, barba rasata, capello in ordine e sorriso smagliante!» lo sentì canzonare, mentre gli strizzava di proposito una delle guance, neanche fosse stato un bambino dell’asilo.

«Sono assolutamente certo che in qualche parte del mondo esiste un’associazione di arzille cinquantenni il cui scopo principale è quello di averti come genero!» aggiunse lui ridendo, dandogli manforte, mentre il povero malcapitato, sottoposto quotidianamente a quel supplizio, si limitò a roteare gli occhi al cielo e a scacciare la mano di Cole schiaffeggiandola.

«E io sono assolutamente certo che qui a Montréal c’è invece un club di baristi che ideano strategie per accalappiarvi come clienti fissi. Un paio di serate con voi e non avrebbero problemi a pagare il college dei loro figli e qualcosa potrebbe restare anche per i nipoti» rispose poi a tono, ridendo.

«Fatemi capire» arrivò improvvisa la voce di Wayne, in una sfumatura che non prometteva assolutamente niente di buono. «Quale parte del ‘non perdete tempo in inutili chiacchiere da bar e lavorate’ non vi è chiara?»

Colti di nuovo in contropiede dall'ennesimo rimprovero e alquanto preoccupati per le conseguenze che ne sarebbero potute derivare, presero la comune e muta decisione di rimandare a più tardi i loro battibecchi e tornare alle loro sevizie fisiche.
Jayden si distese sulla panca e osservò la barra già carica di pesi, a cui uno dei trainer si premurò di aggiungerne altri. L’afferrò con entrambe le mani in una salda presa e, mentre tentava un primo sollevamento pregando di non finirne schiacciato, si ritrovò a pensare che sì, la versione di un Clark Kent canadese ma senza super poteri gli calzava a pennello, e gli sembrava anche molto meno faticosa della realtà che stava vivendo e sudando.
 
 
******
 
 
Gli ultimi vocalizzi di Brandon Flowers gli stavano ancora rimbombando nelle orecchie, quando Sean raggiunse il portone del suo palazzo dopo essersi concesso l’abituale corsa mattutina.
Si fermò un attimo per riprendere fiato e per godersi quei luminosi raggi di sole che preannunciavano una giornata ancora decisamente calda per la sua Montréal. Si schermò gli occhi nel tentativo di rivolgere un’altra occhiata alle sagome del quel tranquillo quartiere e, nel riconoscere il passo rilassato di uno dei suoi mattinieri vicini, accennò un saluto.
Cominciò a rovistare in tasca cercando le chiavi di casa, quando la sua ricerca venne interrotta dalla vibrazione del suo cellulare.

«Pronto, Wayne?»

«Quanto vorrei che anche mio fratello potesse rispondermi con la tua stessa velocità e lucidità a quest’ora del mattino.»

«Se ti sei perso Cole, mi dispiace deluderti, ma non è da queste parti.»

Sentì uno sbuffò ironico dall’altra parte del ricevitore. «No, figurati. So esattamente dove si trova in questo momento: nel mondo dei sogni senza alcuna intenzione di svegliarsi. In realtà cercavo te.»

Sean aggrottò la fronte stranito. «Me?»

«Già. Alle undici in punto c’è una conferenza a Brossard, per Kyle e per Sergej. Avrei bisogno di te.»

«Per cosa?»

«Montréal ti ama, i giornalisti anche. Non si può dire la stessa cosa di Sergej, quindi ho bisogno di te come cuscinetto di salvataggio.» rispose senza esitazioni, confermando così la sua tanto rinomata schiettezza. Wayne non aveva mai avuto bisogno di giri di parole, non era uno che conosceva vergogna, e probabilmente doveva essersi perso anche il tatto da qualche parte.

«In pratica, mi stai dicendo che vuoi che presenzi alla conferenza per mandarmi al macello, nel caso in cui il russo scateni una crisi diplomatica con la sua famosa socievolezza?»

Wayne si lasciò sfuggire una risata. «Non ti piace per niente, eh?»

«Dovrebbe?» commentò caustico. Era ovvio, dal tono, che la sua fosse una domanda retorica a cui entrambi conoscevano a priori la risposta.

«Lo so, lo so. Ma dovresti comunque farmi questo piccolo favore.»
Sean sospirò. «D’accordo, ma lo faccio solo per Kyle. È la sua prima conferenza e non vorrei che si tramutasse in un’esperienza traumatica.»

«Sapevo di poter contare su di te!» gongolò l’allenatore, prima di riattaccare, e a Sean, quella frase, suonò tanto come l’essersi appena scavato la fossa da solo ed esserci balzato dentro con entrambi i piedi.
 

Quando giunse al parcheggio del centro sportivo a Brossard, trovò la Maserati fiammante di Sergej già lì, senza però il suo proprietario, mentre un altro SUV marcato Jaguar si sistemava tra le strisce di fianco al suo posto.

«Ehi, Boris» salutò Sean, mentre questo scendeva dall’imponente auto. «Che ci fai qui?»

«Accompagno il mio bambino» scherzò, indicando Kyle che, letteralmente bianco in faccia, si separava dal comodo sedile in pelle con movimenti a scatti, quasi fosse diventato un tronco di legno. «Sembra che qualcuno sia un tantino nervoso per la sua prima conferenza.»

«Fottiti, Boris» grugnì il ragazzino, rivolgendo poi un’occhiata disperata a Sean, con quei suoi occhioni grandi e limpidi, che lo facevano sembrare anche più giovane di quanto già non fosse.

«Stai tranquillo» tentò di rassicurarlo Sean. «Non ti mangiano. E poi, non offenderti, ma la maggior parte delle attenzioni saranno dirette verso tutt’altra parte. E quel tipo di attenzioni, non le augurerei a nessuno.»

Boris gli scompigliò i capelli e gli circondò le spalle con fare protettivo. «Proprio così, nano. Saranno tutti troppo impegnati a provocare Sergej, per metterti sotto pressione. Vedrai che andrà bene.»

Kyle si sforzò di accennare un sorriso e l’imponente difensore russo gli diede una seconda amichevole scrollata, come per volerlo aiutare a scuotersi via di dosso ogni traccia di timore.
Boris si era davvero preso a cuore quel ragazzino, così come Sean e tutto il resto della squadra e della società. Lo aveva accolto in casa, offrendosi subito per non lasciarlo da solo in una città totalmente sconosciuta, dalla parte opposta dell’immenso territorio canadese rispetto a quella natia, e per mantenere poi la promessa fatta alle due genitrici di Kyle, di tenere d’occhio il loro bambino.
Sean sapeva che, per Boris e per la fidanzata, nel periodo in cui Kyle aveva fatto avanti e indietro tra la prima squadra di Montréal e le giovanili a Hamilton, era diventato una sorta di figlioccio adottivo, tanto che si era quasi ritrovato a trascinarlo con sé in Russia durante le vacanze, per arrivare addirittura a sentirne la mancanza nei giorni in cui non gli era più “tra i piedi”.
Per quanto non volesse ammetterlo e si lamentasse continuamente del fatto che fosse innegabilmente disordinato, pigro e un vero uragano, il piccolo canadese aveva conquistato il cuore di quella montagna russa, e ciò veniva costantemente dimostrato da piccoli gesti come quello, e dalla mania di Boris di volerlo sempre difendere e proteggere per quanto possibile.
Sean riuscì a trattenersi a stento dal sorridere intenerito nel vedere come, neanche in quel momento, i due compagni riuscissero a evitare di punzecchiarsi per tutto il tragitto. Una volta arrivati a destinazione però, quell’attimo di spensieratezza venne interrotto da una semplice occhiata alla sala incredibilmente gremita di giornalisti, e dalla presenza di Sergej che, chiaramente, non era affatto di buonumore e non s’impegnava minimamente per nasconderlo.
Se ne stava accoccolato su una delle sedie di plastica, le braccia conserte e la fronte aggrottata mentre fissava il vuoto, ascoltando chissà quale canzone dall’iPod. Non sembrava neanche essersi accorto del loro arrivo, tanto era concentrato. A Sean venne spontaneo chiedersi che razza di musica potesse piacergli, ma le sue supposizioni ebbero vita breve: giusto un paio di secondi, prima che Wayne li raggiungesse.

«Ottimo» esordì sorridendo, e solo in quel momento, Sergej sembrò risvegliarsi dal suo trance. «Vedo che ci siamo già tutti. Direi che intanto possiamo sistemarci dentro.»

A quelle parole, Kyle lanciò un’occhiata terrorizzata all’imponente coinquilino, quasi si aspettasse di vederlo sacrificarsi in pasto a microfoni e telecamere al posto suo. L’altro russo invece, mantenne la sua perfetta faccia di bronzo e si limitò ad alzarsi e a seguire Wayne, concedendo loro giusto uno sterile cenno vagamente simile a un saluto.

«Secondo voi, se piazzo un cartonato sulla sedia al mio posto, si accorgeranno della differenza?» mugugnò Kyle, sbirciando oltre la soglia, ben aggrappato allo stipite della porta.

«Avanti, nano. Vai» lo incitò Boris. «Piantala con questa lagna e cerca di non balbettare. Non farmi fare figuracce.»

«Ehi, chi sei? Mia madre?»

«Neghi l’evidenza?» replicò immediatamente, inarcando le sopracciglia. «Anche se preferirei essere ‘tuo padre’. Di madri ne hai già due, non ti bastano?»

«Già, peccato che siano esattamente noiose e bacchettone come te!»

«Coraggio, sarà veloce e indolore. Se fai il bravo, più tardi ti compro un gelato.»

«Non sei divertente!»

«La volete piantare voi due?» intervenne a quel punto Sean, sedando una conversazione che si sarebbe certamente trasformata in un’altra di quelle battaglie che allietavano le giornate trascorse a Brossard. «E tu, staccati da quella porta ed entra dentro.»

«Posso fingere di non capire le domande?»

«Considerando che sei canadese, per di più per metà del Québec? No» rispose secco, pur non riuscendo a trattenersi dal ridacchiare per il modo in cui Kyle lo stava fissando: di nuovo con quello sguardo sperso, lo stesso con cui sicuramente, fin da bambino, doveva esser riuscito a ingannare e ottenere parecchi sconti o regali. Quando sfoderava quell’espressione era davvero difficile negargli qualcosa, ma Sean, per sua sfortuna, da anni aveva a che fare con soggetti ben peggiori – come quei due gemelli pestiferi che gli infestavano casa – e pertanto non si lasciò imbambolare. Gli circondò le spalle con un braccio, per poi spingerlo a entrare nell’ampia sala.
Quando fece il suo ingresso, alcuni occhi, che prima erano costantemente puntati su Sergej, gli prestarono attenzione. Riconobbe alcuni dei giornalisti veterani che gli sorrisero, altri invece, sorpresi forse dalla sua presenza, si affrettarono ad appuntarsi qualcosa sui taccuini o sui cellulari.

«Rilassati» sussurrò poi all’orecchio di Kyle, quando lo sentì irrigidire le spalle. «Non sono poi così tanti come sembrano.»

«Stai scherzando? Vuoi che mi metta a contarli?»

«Fissa un punto a caso e rispondi. Puoi anche non guardarli in faccia, se ti aiuta.»

Il ragazzino sospirò e prese posto su una delle cinque sedie messe a disposizione, lasciandone una libera per lui, al fianco di Sergej. Con un po’ di riluttanza – e la convinzione che, in un modo o nell’altro, avrebbe dovuto farsela passare per il bene della squadra – si lasciò ricadere sulla seduta di plastica e sistemò il microfono. Solo in quel momento, si rese conto che il suo nuovo e taciturno compagno lo stava fissando in tralice, con quei suoi particolari occhi taglienti.
L’incrociarsi dei loro sguardi non durò che una manciata di secondi, prima che Sergej tornasse a fissare il proprio altrove, ma quell’irrisorio attimo bastò a Sean per convincerlo a soffermarsi di più a osservare quello strano individuo che gli sedeva accanto. Doveva ammettere con se stesso di esserne incuriosito, perché si dimostrava così diverso da lui, e altrettanto da quella bestia che sembrava prendere il sopravvento sulla sua solita apatia e si manifestava mentre graffiava la superficie di ghiaccio con i pattini.
Sergej sul campo era completamente diverso, talvolta era quasi inquietante la rabbiosa determinazione con cui pareva esplodere con quel suo gioco semplicemente geniale. Non era veloce come Kyle, né poteva vantare la potenza spesso distruttiva di Cole; forse non era così preciso nei tiri come Sean stesso aveva dimostrato di essere, e che gli erano valsi quel buffo nome di “Revolver”, eppure aveva qualcosa di diverso da chiunque. Aveva una visione di gioco completamente sua; un fantasista ineguagliabile con un’abilità nel controllo del dischetto invidiabile, tanto che, spesso, i commentatori, si divertivano a disquisire e avanzare ipotesi sul fatto che potesse esserci della colla o almeno una calamita a tenere attaccato quel dannato puck al bastone di Sergej.
Giravano innumerevoli leggende attorno a quel russo apparentemente inavvicinabile, alcune delle quali avevano preceduto perfino il suo approdo in America, mesi prima della cerimonia dei Draft[1] a cui avevano partecipato entrambi. Il nome di Sergej rimbalzava da un club all’altro come la pallina di un caleidoscopico flipper. Tutti avevano un commento per quel diciottenne spaventosamente promettente. Sean riusciva ancora a ricostruire i dettagli di quell’emozionante giornata; poteva ripercorrere il momento in cui il manager dei Washington Capitals aveva preso la parola e scandito con sicurezza quel “Sergej Nevskij” come la prima e assoluta scelta tra gli innumerevoli ragazzi che attendevano di udire il loro nome, per essere accolti in una delle trenta squadre della NHL; poteva richiamare l’immagine dello sprezzante sorriso disegnatosi sulla quella faccia che ancora conservava qualche traccia dell’adolescenza, nel momento in cui si era alzato in piedi per mostrarsi agli occhi dell’intero stadio, pieno di orgoglio per sé stesso e con una spavalderia che solo un ragazzino appena maggiorenne, con un mostruoso talento come il suo, poteva avere.
Il primo ricordo che Sean aveva di Sergej era quello: di un ragazzo che pareva brillare di luce propria, sul tetto di quel loro mondo che era l’hockey. Ricordava di come l’aveva guardato e ammirato per la sicurezza che riusciva a trasmettere anche solo da un semplice sguardo, di come era salito sul palco e si era lasciato abbagliare dai flash quasi non avesse fatto altro nella vita che ergersi sul piedistallo più alto senza paura alcuna o un minimo senso di vertigine; quasi fosse semplicemente nato per essere il migliore.
Il giovane Sean dell’epoca si era lasciato colpire da quella sua aura particolare. Aveva seguito l’ascesa di quel suo tanto acclamato coetaneo con le gambe che tremavano per il desiderio di materializzarsi all’istante su un campo da hockey, e la folle impazienza di poterlo finalmente sfidare apertamente. Era stata una botta d’adrenalina quella, che aveva raggiunto il suo apice nel momento in cui anche il suo nome era stato pronunciato. Il terzo a guadagnarsi la possibilità di accedere all’Olimpo dell’hockey e, per di più, nell’unica squadra che avesse sempre desiderato: i Montréal Canadiens.
Più di sei lunghi anni erano trascorsi da quel giorno, assieme ad altrettante stagioni ed emozioni. Molte cose erano rimaste immutate – e il talento di Sergej era certamente una di quelle costanti – eppure, nell’osservarlo con attenzione, Sean non riusciva a scorgere che una flebile traccia di quel ragazzetto dall’ego spropositato ed esplosivo che aveva incrociato per la prima volta la propria strada con la sua.
Nel guardarlo in quel momento, seduto al suo fianco e chiaramente annoiato, Sergej sembrava più il riflesso scolorito e consumato di quello che si era dimostrato sei anni addietro. Pareva più composto di colori sbiaditi, tonalità tenui che si alternavano sulla sua figura: opache, spente, come quelle di un’uggiosa giornata d’inverno, grigia e sommersa tra la nebbia.
Quegli occhi non troppo grandi, affilati sui lati, come disegnati da una distratta linea che li sfumava appena verso le tempie in quella tipica conformazione dei nativi della sua terra, avevano ciglia scure e iridi di un grigio azzurro polveroso; acciaio opaco stretto in una fine corona color ardesia. La luce che un tempo vi fiammeggiava dentro, completamente affievolita.
Il naso proporzionato e dritto come un fuso scendeva giù fino a quelle morbide labbra: l’unica cosa di lui apparentemente non spigolosa. Erano di un tenue e delicato rosa, come quelle di un bambino, pressoché simmetriche, se non fosse stato per quella lieve sporgenza centrale sulla parte superiore, che gli conferiva ancora più pienezza e un’espressione perennemente imbronciata o stufa.
Il Sergej ventiquattrenne conservava ancora quell’aria altezzosa, ma andava a circondarsi e ornarsi di noia e non più di quella luminosa e determinata ambizione che il giorno dei Draft sembrava essere quasi palpabile, e, allo stesso modo, pareva non trovarsi più così tanto a suo agio con la stampa o nello stare al centro dell’attenzione.
La parte curiosa di Sean avrebbe quasi preferito restare a fare supposizioni e scovare risposte – e perdersi in quel viso che, una volta superato il fastidio per la personalità a cui era associato, era maledettamente bello da osservare – ma Wayne pensò bene di ricordargli i loro doveri e il motivo per cui li aveva trascinati lì, posando le mani sulle loro spalle per conquistare l’attenzione di entrambi.

«Pronti per il teatrino?» chiese, con un sorriso d’incoraggiamento, che andò a rivolgere soprattutto a Kyle.

«Odio i giornalisti» fu la replica scocciata di Sergej; la voce scura e profonda a malapena udibile in quel suo sussurro.

«Anch’io, ma è anche grazie alla loro poco gradita attenzione che abbiamo uno stipendio a sei cifre. Per qualche minuto potresti anche fingere, no?»

«Sì.»

Wayne strinse la presa sulla sua spalla, poi si azzardò a rifilargli una lieve pacca sulla nuca, prima di sedersi al suo posto. «Cerca di non essere troppo stronzo.»

A quel buffo monito, gli occhi di Sergej guizzarono con un po’ di sorpresa verso l’allenatore. Probabilmente, il nuovo arrivato non aveva ancora fatto l’abitudine a quei suoi modi spicci e forse, per uno così avvezzo a essere trattato quasi con una sorta di timore reverenziale come lui, non sarebbe mai stato troppo facile interagire con un allenatore del genere.
Il loro singolare coach però, non sembrò neanche far caso alla reazione del novello acquisto, e si limitò a sistemare il proprio microfono, a scambiare qualche parola con Marc, il manager della squadra, e infine rivolgersi ai trepidanti giornalisti accomodati dinnanzi a loro: «Buonasera signori. Non credo ci sia molto da spiegare sul motivo per cui siamo qui, dato che i vostri giornali non parlano d’altro da settimane. Quindi direi di iniziare col presentarvi ufficialmente innanzi tutto Kyle Jacques Delon» e indicò il suo giovane compagno, irrigiditosi d’improvviso sulla sedia, col chiaro intento di sviare per quanto possibile, l’attenzione dal succulento boccone principale di quella conferenza, «la nostra nuova, promettente matricola.»

Il povero Kyle – come del resto Sean si era aspettato – stirò le labbra in un sorriso nervoso e lanciò un’immediata occhiata verso la porta d’uscita dove Boris, nascosto dal resto della sala, gli fece un cenno d’incoraggiamento.
Intanto, le prime mani avevano iniziato a sollevarsi da parte dei giornalisti, e Marc prese a indicare chi per primo poteva rivolgere le sue domande a quel ragazzino terrorizzato. Dopo i primi minuti in evidente imbarazzo però, Kyle riuscì a conquistare i favori e le simpatie di tutti, con i suoi grandi sorrisi disarmanti e quell’inclinazione più che naturale a rendersi un perfetto pagliaccio in ogni situazione. Raccontò episodi divertenti della sua permanenza a Hamilton e ripercorse il suo lungo e faticoso tragitto dai Draft al momento in cui, finalmente, Wayne e Marc gli avevano ufficialmente comunicato che poteva trasferire interamente tutte le sue cose a casa di Boris, a Montréal.
Quando era arrivato il suo turno di parlare poi, Sean aveva sentito quella placida atmosfera incrinarsi un po’ sotto il peso delle critiche avanzate da alcuni. Ad ogni modo, sia lui che Wayne, erano riusciti a dribblare ogni intoppo senza troppi problemi, mantenendo il tutto su toni perfettamente rilassati.
Nonostante la loro piccola vittoria però, nulla potevano fare sul momento peggiore di quella mattinata che stava per giungere, e ne erano ben consapevoli. Con una breve occhiata a Sergej difatti, Marc si prese un momento per schiarirsi la voce, poi avvicinò le labbra al microfono e disse: «Bene, passando all’altro motivo per cui siete qui. Come ormai tutti sapete, il qui presente Sergej Nevskij è entrato ufficialmente a far parte dei Montréal Canadiens, con un contratto che, almeno per adesso, si protrarrà per tutta la prossima stagione» si soffermò per un istante, poi si decise a terminare: «Qualcuno ha delle domande da fargli?»

Wayne gli lanciò un’occhiata scettica, come per voler sottolineare l’inutilità di quella richiesta, mentre le mani della maggior parte dei presenti si allungavano con foga per potersi assicurare la possibilità di parlare.
Marc, quasi impallidito all’idea di quel che si sarebbe scatenato di lì a poco, indicò a caso tra il gruppo di giornalisti e più di uno di questi iniziò a mitragliare di domande Sergej, tanto che, per la prima volta, Sean provò un po’ di pena per lui.

«Uno alla volta, per favore. Non è un mercato, Cristo» intervenne Wayne, con poca grazia e senza nascondere il proprio fastidio. A dispetto dei suoi metodi poco diplomatici però, riuscì a ottenere il suo scopo.

Il primo degli intervistatori autorizzato a parlare proseguì diretto al nocciolo: «Sergej, questo tuo arrivo ai Canadiens ci ha sorpreso tutti. Che tirava brutta aria tra te e i Capitals era risaputo già da qualche tempo, ma cosa puoi dirci di più a riguardo?»

Sean fece guizzare lo sguardo verso il suo nuovo compagno di squadra per sondarne le reazioni. Aveva immaginato di scorgere del fastidio nelle sue espressioni, ma non trovò che l’ormai familiare sguardo disinteressato; gli occhi pressoché vacui, mentre biascicava a fatica una sorta di replica: «L’ha appena detto lei, tutto quello che c’è da dire.»

«In che senso? Può darci qualche dettaglio in più?»

« Non c’erano più le condizioni per tenermi in squadra.»

«Sì, certo. Ma esattamente cosa le è stato detto? Che spiegazione le hanno dato?»
Sergej, a quell’insistenza, roteò gli occhi. «Devo davvero ripetere le stesse, identiche cose con cui state riempendo i giornali da un anno a questa parte, sul mio conto?»

Quel primo intervistatore restò interdetto dalla sua risposta chiaramente evasiva e scocciata, ma un secondo arrivò immediatamente a rimpiazzare il suo collega: «Com’è stato il cambiamento di squadra? Hai giocato solo per i Capitals negli ultimi anni, da quando sei arrivato nella NHL, quindi come ti sei sentito?»

«Non è la prima volta che cambio squadra e l’hockey è sempre lo stesso» mormorò allora Sergej con una scrollata di spalle, senza neanche guardare in faccia il suo interlocutore. «Suppongo solo di dovermi adattare al nuovo ritmo.»

«Tu e Ivchenko eravate ottimi compagni di squadra e credo anche amici. Vi sentite ancora?»

«Sì, mi ha inviato un messaggio questa mattina per augurarmi buona fortuna.»

«Per cosa?»

L’accenno di un sorriso ironico nacque sulle sue labbra, lasciando piegare appena uno degli angoli della bocca. «Sapeva di questa intervista.»

«Come ti trovi con i tuoi nuovi compagni? I ragazzi dei Canadiens sono conosciuti e rinomati per il loro affiatamento. Pensi sarà difficile per te integrarti?»

«Sono arrivato da un paio di settimane» rispose a un terzo giornalista, anche stavolta con l’attenzione rivolta a chissà cosa. «Sono stato presentato a tutta la squadra e mi sono allenato con loro. Il resto si vedrà poi.»

«Hai letto o sentito ciò che Travis Grouwer ha dichiarato nella sua ultima intervista, dopo la tua partenza?»

Per la prima volta, da quando le domande avevano iniziato a travolgerlo, Sean vide Sergej sollevare lo sguardo alla ricerca della persona che aveva formulato l’ultima. Inchiodò i suoi occhi gelidi su di lui e quasi lo fece sobbalzare, prima di pronunciare in modo secco: «No.»

«Be’, è un po’ strano questo. È stata riportata da ogni giornale sportivo e...»

«Non leggo i giornali. Se posso li evito» tentò di liquidarlo velocemente, ma questo non parve darsi per vinto.

«Ha detto che qualche volta non sapeva neanche se poterti considerare un compagno di squadra. Che era impossibile instaurare un rapporto con te, che eri considerato alla stregua di un cancro nello spogliatoio perché mettevi a disagio tutti col tuo modo di fare e...»

«Basta così. Vi prego di non continuare l’intervista su questi toni e su questi argomenti» s’intromise a quel punto il General Manager, sforzandosi di risultare il più garbato possibile. Qualcun altro però, dal fondo della sala, non era del suo stesso avviso e decise di ritentare sullo stesso argomento.

«Sergej cosa pensi delle accuse di Grouwer?»

«Sinceramente, non penso niente. Non dobbiamo più condividere lo spogliatoio, quindi non mi riguarda.»

«Che tipo di rapporto avevi con Grouwer?»

«Giocavamo nella stessa squadra.»

«Questo che significa? Ci sono mai stati screzi tra di voi o...»

A quelle insistenze, Marc si sollevò dalla sedia e rinnovò il suo monito. Stavolta con meno cortesia: «Ho detto basta così, per favore. Non costringetemi a chiudere qui l’intervista.»

Nella sala dilagò un silenzio imbarazzato, ma quella parvenza di tregua non durò che pochi secondi: «Hai ricevuto dure critiche negli ultimi tempi. C’è chi ha addirittura pronosticato il declino della tua carriera. Come intendi rispondere a queste accuse?»

«In realtà, io non intendo rispondere a nessuna accusa.»

«Davvero non vuoi commentare? Non vuoi rispondere o difenderti?»

«Hanno solo espresso la loro opinione» mormorò Sergej con l’ennesima scrollata di spalle, ma era evidente a tutti, oltre che agli occhi di Sean, che quella domanda l’aveva infastidito molto più di tutte quelle richieste a riguardo dell’infelice intervista di Grouwer o sulla definitiva fine della sua collaborazione con i Capitals.

«Mi permetto di rispondere io al suo posto» prese la parola Wayne con fermezza, sorprendendo i presenti e mettendo tutti a tacere. In genere non era quel tipo di persona e allenatore che difendeva a spada tratta i propri giocatori, ma più quello che li obbligava a prendersi le proprie responsabilità e fronteggiare per proprio conto i problemi con la stampa e con i fan. In quell’occasione però, parve voler fare un’eccezione alla sua regola, per sottrarre il suo nuovo pupillo a un raffronto che, forse, non riteneva giusto. «La carriera di Sergej è ben lontana dall’essere in declino. Siamo molto onorati di averlo nella nostra squadra e siamo fiduciosi per un suo importante contributo durante la prossima stagione. Confidiamo nel suo talento e nella possibilità di creare un ottimo affiatamento con il resto dei suoi compagni. Adesso, se volete scusarci, dovremmo andare a lavorare proprio su questo.»

Terminato il suo discorso, scuro in volto, fece cenno ai tecnici di staccare immediatamente l’alimentazione ai microfoni, poi, invitò tutti e tre i giocatori a uscire sbrigativamente dalla sala, come se non volesse arrischiarsi a sentire altri spiacevoli commenti.
Raggiunto nuovamente il corridoio, Kyle si affrettò a sgattaiolare da Boris per pavoneggiarsi un po’. Sean invece, decise di rallentare il passo per affiancare il proprio allenatore e Sergej, notando come nessuno dei due sembrava esser intenzionato ad avanzare considerazioni sulla conferenza.

«Molto bene» sospirò Wayne, con un’aria piuttosto contrita, «e anche questa è andata, più o meno. Ci vediamo qui domani mattina. Per oggi vi lascio giornata libera.»

«E vai!» esclamò Kyle, trattenendosi a stento dal mettersi a saltellare, prima di rivolgersi al suo russo coinquilino: «Ehi, tu sei in debito di un’immensa coppa gelato.»

«Non ricordo di aver pronunciato la parola ‘coppa’, né tantomeno ‘immensa’.»

«Piantala di fare il tirchio e andiamo!» lo mise a tacere, afferrandolo con entrambe le mani per uno dei possenti avambracci e sforzandosi di trascinarlo fuori. Peccato che Boris fosse almeno il doppio del piccolo canadese e decisamente molto più forte.
Sean scoppiò a ridere, nel notare la faccia dell’imponente difensore che squadrava con un’espressione perplessa i vani tentativi di Kyle di spostarlo, dopo di che, si decise a salutare Wayne e avviarsi verso l’uscita, in una scena agli antipodi tra il gelido silenzio di Sergej e il continuo battibeccare degli altri due suoi compagni.

Durante quel tragitto si concesse di spiare il suo taciturno compagno di squadra: gli lanciò un’occhiata di sottecchi, stando attento a non farsi sorprendere. Osservò la sua espressione completamente indifferente alle buffe scenette che gli altri due presenti stavano offrendo pochi passi davanti a lui, scorgendo su quel volto il solito e distaccato niente.
Non sembrava dispiaciuto, né arrabbiato o ferito. Per quel che ne sapeva di lui, quella era la sua abituale espressione ma, senza sapersene spiegare il perché, Sean decise di cogliere quell’occasione e di provare a intavolare una conversazione con Sergej che potesse portarli da qualche parte. O, almeno, a ciò che di più simile a un rapporto esisteva, per una sana convivenza nella medesima squadra:

«Ehi, non prendertela» iniziò, con un po’ d’incertezza. «Quelli blaterano, spesso a sproposito, ma è il loro lavoro. A volte lo fanno anche apposta per farti innervosire» fermò il suo straparlare per un momento – la vicinanza di Cole gli faceva davvero male – e attese una replica o almeno un cenno da parte dell’altro che, però, non arrivò. Si schiarì quindi la voce, non certo di volersi dare già per vinto, e riprese: «Vedrai che tra poco l’intervista di Grouwer finirà nel dimenticatoio come tutto il resto e...»

«Senti...» sospirò Sergej interrompendolo. Si voltò per guardarlo in faccia per la prima volta, come se solo in quel momento si fosse reso conto della sua presenza. Si fermarono a metà del corridoio, lasciando proseguire Boris e Kyle. «Risparmiami queste stronzate. Nessuno ti ha chiesto niente» continuò, con voce piatta e fastidiosamente annoiata, prima di lasciarsi andare a uno sbuffo sprezzante, quasi cattivo «E poi, che vuoi saperne tu, che sei il principino amato da tutti?»

Sean restò in silenzio. Non trovò parole per replicare a quella domanda a cui, chiaramente, Sergej non cercava affatto risposta.
Si limitò a fissarlo in quella sua aria arrogante, quasi di biasimo, finché non fu proprio lui a mettere fine a quell’imbarazzante situazione, semplicemente riprendendo il suo percorso e allontanandosi verso l’uscita.
Sean seguì con lo sguardo i suoi passi flemmatici e la figura slanciata che avanzava con le mani affondate nelle tasche dei jeans. Si concesse poi un profondo respiro per calmarsi e svuotare la mente, pur rendendosi conto che non avrebbe saputo neanche quantificare la sua improvvisa voglia di prenderlo a pugni.
 
 
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Kyle poggiò la fronte sulla superficie fredda del finestrino, nel tentativo di scorgere quanto più gli era possibile della capitale canadese che si estendeva sotto di loro. Nel giro di qualche minuto sarebbero finalmente atterrati a Ottawa.
Non che quella fosse la prima volta in cui vi metteva piede o che partecipava a una trasferta con la squadra. Già dalle giovanili si era abituato a esser sballottato qua e là per il Nord America.
Quella volta però, era diverso. Era solo la prima partita del Preseason[2], certo, ma era anche la sua prima partita da membro ufficiale della rosa dei Canadiens. Non esattamente una cosa da tutti i giorni.
Colto dai uno dei suoi attacchi d’ansia in piena regola, prese a tamburellare contro il seggiolino davanti e, come c’era da aspettarsi, scatenò l’immediata ira di Jayden: «Nano, giuro che te le stacco quelle gambette graciline.»

«Non posso. Sto per avere un infarto.»

«E io ti assicuro che avrai una morte ben più lunga e dolorosa, se non la pianti all’istante.»

Con uno sbuffo esasperato si arrese a sedersi in modo più composto e frugò nelle tasche dei pantaloni eleganti per trovare il cellulare.
Non che potesse farci granché. Se Cole lo avesse visto anche solo fissare lo schermo, probabilmente si sarebbe strappato la cintura di dosso in barba a tutti i protocolli di sicurezza e lo avrebbe aggredito, con gli occhi iniettati di sangue per le sue paranoie e la sua ridicola paura degli aerei. Era talmente terrorizzato di volare, che aveva impedito a chiunque in squadra di anche solo toccare il proprio cellulare, convinto che le onde potessero interferire con il velivolo.
Sospirò profondamente, rigirandosi il telefono tra le mani, per il semplice bisogno di fare qualcosa, finché non decise che ammazzare il tempo che lo separava dall’arrivo al Canadian Tire Center[3], valeva il rischio di incorrere anche nell’ira di Cole.
Sbloccò la tastiera, con l’idea di immortalare la stupida espressione di Boris, addormentato di fianco a lui, quando si accorse di un promemoria sul calendario: un minuscolo pallino rosso gli ricordava che l’indomani, il loro capitano avrebbe compiuto trent’anni, e di certo non potevano farsi sfuggire quell’occasione per far baldoria.

«Kyle, giuro che ti ammazzo» grugnì Jayden, quando prese a scuotere il suo poggiatesta come un forsennato.

«E girati idiota, invece di lamentarti! Non posso staccare il seggiolino.»

«Cosa diavolo vuoi?»

«Jan.»

Jayden gli rivolse un’occhiata perplessa, poi si voltò verso il loro capitano bellamente rilassato qualche fila più avanti. «È là, chiamalo se vuoi.»

«No!» esclamò, facendogli poi segno di abbassare la voce, per poi indicare lo schermo del suo telefono e mimargli, con scarsi risultati, il motivo per il quale l’aveva fatto voltare.

Jay per contro gli rimandò solo un’espressione decisamente perplessa, al limite col preoccupato. «Nano, ma ti sei preso qualcosa?»

«Dio, quanto sei ottuso! Jan. Compleanno. Domani.»

«Oh…» mormorò, prendendo lentamente coscienza delle sue intenzioni, «e noi non vogliamo che il nostro capitano affronti la sua progressiva decadenza verso la vecchiaia senza il nostro sostegno» si voltò poi a tirare un pugno sull’avambraccio di Cole e sorrise beffardo: «Ehi Mister Paranoia, penserai dopo a come non vomitare. Abbiamo una cosa più importante da organizzare.»
 
 
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Sean socchiuse gli occhi, incerto se voler scoprire o meno l’esito di quel tiro avversario. Serrò i denti e tirò un sospiro di sollievo, quando sentì lo schiocco secco del puck che andava a colpire uno dei pali della porta. Quella contro gli Ottawa Senators non era una partita ufficiale ma, amichevole o meno che fosse, essere letteralmente asfaltati dagli avversari non era mai piacevole.
La maggior parte della rosa ufficiale[4] dei Canadiens aveva trascorso gran parte dei primi due tempi di gioco in panchina; Sean stesso aveva a malapena messo piede in campo, ed era più che ovvio che Wayne avesse preso quella giornata senza un minimo di spirito competitivo, col solo scopo di lasciare un po’ di spazio ad alcune matricole.
Eppure, leggere quel “quattro a uno” ben impresso sullo schermo sopra le loro teste, nonostante tutte le attenuanti del caso, era comunque troppo imbarazzante. Suo padre l’aveva spesso rimproverato per questo: non sapeva perdere. Non aveva mai saputo farlo, neanche da bambino. E, a giudicare dalle facce dei presenti su quella panchina, non era l’unico. Jayden, ad esempio, seduto accanto a lui e vestito di tutto punto nella sua uniforme, si era appena lasciato sfuggire una smorfia inorridita per il modo in cui il portiere presente in campo, e suo secondo, era stato spiazzato da un attaccante avversario. Sarebbe stato un altro goal, se non fosse stato per l’intervento tempestivo di Boris.

«Andiamo ragazzi. Datevi una svegliata!» urlò pertanto, lanciando un’altra occhiata allo schermo in alto e al tempo che scorreva inesorabile, segnando ormai la fine anche di quel disastroso secondo periodo.

«Non penso che una svegliata possa bastare a questo punto» sentì mormorare tra i denti; probabilmente Sergej non si era neanche accorto di aver dato voce ai suoi pensieri.

Si focalizzò nuovamente sul gioco, fissando i giocatori in campo cercare di guadagnare terreno e avvicinarsi alla porta avversaria. Eppure, nonostante i tentativi, sembravano non riuscire a oltrepassare la linea blu della difesa avversaria. Facendosi prendere dalla foga della partita e dello svantaggio accumulato, i ragazzi in campo stavano cedendo alla loro inesperienza, prediligendo passaggi affrettati, anziché rallentare il gioco per permettere a qualche compagno di liberarsi.
Per quanto frustrante fosse per lui presenziare come spettatore, Sean era ben consapevole della differenza che correva tra la NHL e le leghe in cui giocavano i prospect[5], e proprio per questo capiva la logica di Wayne e la sua scelta di mandare quei ragazzini in pasto ai leoni per fargli fare le ossa durante le partite del preseason, piuttosto che durante il campionato, senza la pressione delle conseguenze dei loro errori ingenui.
L’arbitrò fischiò per fermare il gioco a causa dell’ennesimo icing[6], e Wayne gridò ai giocatori in campo di tornare verso la panchina, battendo allo stesso tempo sulle spalle di altri cinque per farli scendere in campo. Come si aspettava, Sean non si sentì chiamare, avendo l’allenatore privilegiato altri veterani più avvezzi alla difesa. Si limitò quindi a osservarli mentre saltavano oltre la barriera, per poi prendere posizione attorno e al centro del cerchio di ingaggio[7], attendendo che l’arbitro lasciasse cadere il puck, e spintonando gli avversari cercando di guadagnare anche un singolo millimetro di vantaggio. Prima ancora che il dischetto toccasse il ghiaccio, schizzarono in avanti, i bastoni che sbattevano l’uno contro l’altro cercando di guadagnarne il possesso. Il centrale riuscì ad appropriarsi del puck, passandolo all’indietro a una delle ali, che rapido cominciò a pattinare verso la zona opposta del campo. Gli altri lo seguirono a ruota, cercando di ostacolare gli attaccanti avversari e guadagnare spazio. L’ala, un ragazzino draftato quell’anno e con una gestione del puck davvero invidiabile per la sua età, sapendo di essere da solo in zona avversaria, provò a schivare uno dei difensori dei Senators e a sviarlo con una mossa che Sean sapeva aver sfruttato più di una volta, con successo, nella lega Junior. La NHL era però qualcosa di ben diverso, e il difensore di Ottawa riuscì a leggere facilmente la giocata, costringendolo a rimanere all’esterno della porta, sul perimetro del campo, obbligandolo quindi a lanciare da un angolo da cui era pressoché impossibile segnare. Il portiere avversario afferrò col guanto il puck senza un’esitazione, bloccando così il gioco e facendo sfumare anche quell’opportunità di recupero. Nonostante tutto, però, quella piccola astuzia aveva permesso loro di ottenere un face off [8] in zona offensiva, e il gioco sarebbe dunque ripreso a pochi metri dalla porta avversaria.
Istintivamente, Sergej fece per alzarsi, probabilmente sicuro che sarebbe arrivato il suo turno. Dopotutto, Sean stesso riconosceva che un attaccante puro come lui era perfetto per una situazione simile, dove il suo istinto e la fantasia nel gioco avrebbero portato a un goal quasi certo. Eppure il ragazzo non fece nemmeno in tempo ad afferrare il suo bastone che la voce di Wayne lo fermò, chiamando invece al suo posto, il nome di altri cinque giocatori. Sean lo vide voltarsi verso il coach con aria sorpresa, come sconvolto dall’essere stato fermato. Alzò la mano con un gesto di stizza, quasi volesse chiederne il perché, ma ottenne solo uno sguardo duro e una scrollata di capo come risposta da parte di Wayne. Si riaccasciò perciò sulla panca, lo sguardo gelido e fisso sulla barriera che lo separava dal campo su cui non aveva messo piede per tutto il secondo periodo. Sean fermò a osservarlo, curioso di vedere la sua reazione a quello che lui avrebbe considerato un affronto. Il profilo dritto e già duro per natura, certamente non era addolcito dalla mascella contratta e dallo sguardo affilato che rivolgeva al vuoto. La sua concentrazione, tuttavia, non gli impedì comunque di notare come i Canadiens fossero riusciti a farsi fregare nuovamente il puck. Sean lo vide alzare lo sguardo quando davanti a loro saettarono gli attaccanti dei Senators, che, essendo riusciti a impostare un attacco “due contro uno[9]”, si avvicinavano alla porta scambiandosi continuamente il puck. Questo confuse il portiere degli Habs, che aspettandosi un tiro dal giocatore alla sua destra, si fece trovare fuori posizione, lasciando la porta aperta al secondo attaccante, che riuscì facilmente a segnare. La lampada rossa sopra alla traversa si illuminò, mentre la sirena informava gli spettatori del goal appena subito, il quinto, per l’esattezza. Fu in quell’esatto momento che Sean, per la prima volta, vide il gelo sparire dagli occhi del compagno di squadra, sostituito da rabbia mista al senso d’impotenza per essere bloccato su quella panchina. Quell’ammasso di emozioni non sarebbe potuto essere contenuto a lungo, e difatti, ne fece le spese una delle borracce abbandonate lungo la barriera. Sergej l’afferrò e la lanciò per terra, sibilando insulti nella sua lingua madre.

«Ehi, imbecille!» lo apostrofò Sean, afferrando poi uno degli asciugamani per pulire dalla visiera gli schizzi di Gatorade che erano arrivati fino a lui.

«Imbecilli sono quelli che stanno giocando ora» gli rispose con tono di sfida l’altro. «E loro non sono i soli con scelte discutibili» rincarò la dose, girandosi poi nuovamente verso il campo, e facendo dunque capire che per lui il discorso era finito.

Sean era sempre andato fiero del suo sangue freddo e di come generalmente fosse il paciere della situazione, ma aveva raggiunto da un pezzo il suo limite di sopportazione a causa del comportamento scontroso, egoista e menefreghista del russo che gli sedeva accanto.
Lo afferrò per una spalla, e lo costrinse a girarsi per fronteggiarlo. «Non penso di aver capito bene…» sibilò tra i denti, cercando di trattenere tutti gli insulti che aveva celato in quei giorni e che rischiavano di uscire in quel momento.

«Hai capito benissimo» fu l’ennesima risposta di Sergej con tono glaciale. «Se ti accontenti di fare da reggibastone per quei quattro bambocci buon per te, ma io sono qui per giocare.»
Non contento però della reazione, lo fissò con quel suo sguardo felino, le sottili labbra sollevate in un angolo, cercando un punto debole, un nervo scoperto a cui colpirlo. «O forse, ti accontenti perché sai di non essere in grado di raggiungere livelli più alti…»

Sean non fece in tempo a rispondere che una voce evitò che la situazione sfuggisse di mano a entrambi.

«Pensavo di allenare una squadra di professionisti, non di fare il maestro di asilo» tuonò Wayne. «Ora, non m’interessa chi ha rubato il pennarello a chi, ma piantatela di blaterare e concentratevi sul gioco.»

Sergej tornò a rivolgere la propria attenzione al campo, la sua espressione ormai nuovamente quella di sempre, come se nulla fosse accaduto, e questo non fece altro che far andare ancora più fuori di testa Sean. Altro che reggere i bastoni, li avrebbe volentieri spaccati sul groppone di quell’idiota.
Un fischio acuto li informò di come anche il secondo periodo fosse ormai finito, e Sean, senza attendere un secondo di troppo, si avviò a passi decisi verso lo spogliatoio, sforzandosi di lasciarsi indietro quel russo e il suo ego spropositato.
 
 
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«Jay, no

Il monito di Xavier cadde nel vuoto, sovrastato dal botto del tappo della bottiglia che andava a schiantarsi sul basso soffitto dell’aereo e rimbalzava come impazzito. Lo champagne prese a fuoriuscire in quella tipica schiuma biancastra, agitato dallo sciabordare di Jayden e dalla sua fenomenale idea.

«Che ti avevo detto?» lo riprese di nuovo Xavier, mentre l’altro si fissava i pantaloni e le scarpe, completamente fradici. «Sei il solito cretino.»

«Da’ qua» intervenne poi Cole, strappando l’ormai innocua – e pressoché vuota – bottiglia dalle mani dell’amico per riempire il suo bicchiere. «Quanta roba sprecata.»

Jan scosse la testa e sorrise dei suoi compagni di squadra che, come sempre, dimostravano la loro naturale indole di pagliacci. Avevano piantato su tutto quel casino solo per festeggiare il suo compleanno e, in qualità di capitano, avrebbe dovuto riprenderli per mancanza di serietà ed etica e per non essere rimasti concentrati solo sulla partita, benché fosse solo un’amichevole. Vedere quelle espressioni rilassate e sorridenti però, era un toccasana per lui; godersi quei momenti senza alcuna pressione addosso era una fortuna e un privilegio a cui avrebbero dovuto rinunciare per un po’, motivo per cui non si sentì affatto in dovere di recitare la parte di capitano coscienzioso e dire ‘no’ a quello che era almeno il quinto – o era già al sesto? – brindisi.

«Molto bene, signori» lo distrasse Sean dai suoi pensieri, pronunciando quelle parole con un sorrisetto alcolico stampato sulla faccia e gli occhi illuminati da una patina di, appunto, ubriachezza. «Allora, chi è il miglior capitano del mondo?»

«Steven Croose!» esclamò Kyle, le cui condizioni erano anche più precarie, guadagnandosi una poco gentile pacca sulla nuca da quello che era stato ormai eletto a suo “padre adottivo”.

«Va’ a dormire, nano» gli intimò poi Boris. «Non lo reggi l’alcool. Sei troppo piccolo per queste cose.»

«Almeno io, bevo!»

«E infatti, non dovresti farlo» gli rispose a tono, cercando di imitare la sua voce un po’ impastata.

«Un russo che non beve. Certo che non ci sono più certezze nella vita!» intervenne con fare sconsolato Jay, prima di versarsi l’ennesimo bicchiere per consolarsi.

«Non ci sono più nemmeno le mezze stagioni, se è per questo» rispose a tono Boris, prima di tornare a rivolgersi alla matricola.
«Oltretutto, ce l’hai l’età per bere?»

Il piccolo della squadra mise su un buffo grugno e si piazzò, facendo valere la sua – poca – imponenza, sotto il naso di Boris. «Ho vent’anni, scellerato di un padre. Mi sorprendo e mi offendo che tu non lo sappia!»

«Sicuro di non aver truccato i documenti? Me lo aspetterei da una zecca petulante come te.»

«Avanti, voi due. Tregua» li riprese Sean, incapace però di frenarsi dal ridere per quella scenetta. Erano un bel po’ di giorni che Jan non lo vedeva così spensierato. Scorgere nuovamente quell’espressione gioviale sulla faccia del loro principino fu un vero sollievo, anche se temeva che le apprensioni sarebbero presto tornate a far loro compagnia. Una di queste per altro, era già lì con loro, su quell’aereo.

A quel pensiero fu istintivo per lui voltarsi a muovere lo sguardo verso il fondo del corridoio dove, accomodato su uno degli ultimi e morbidi sedili e appena illuminato da uno dei piccoli faretti gialli, stava proprio il loro cruccio più imminente. Sergej, auricolari alle orecchie e occhi chiusi per un apparente sonnellino, trascorreva quel loro breve viaggio ignorando chiunque nella sua usuale solitudine.
Jan si lasciò sfuggire un sospiro quasi rassegnato, ripensando allo scatto d’ira che aveva colto quell’enigmatico ragazzo poche ore prima, quando Wayne per l’ennesima volta gli aveva precluso la partecipazione sul campo preferendogli qualche matricola.
Era stata quella, la prima e vera occasione in cui tutti loro avevano fatto la conoscenza di un Sergej diverso da quello apatico e indifferente che si mostrava di solito. Avevano visto la rabbia e la frustrazione che più di un commentatore sportivo aveva affibbiato al loro compagno durante le varie trasmissioni televisive, condannandolo al paragone di una “mina inesplosa in campo” per quel suo carattere irascibile che esplodeva così, d’improvviso, e sembrava poter promettere molti più danni di quelli che sarebbero mai stati capaci di gestire.
Ma dietro ai commenti dei giornalisti, dei suoi ex allenatori ed ex compagni; dietro alle dicerie e le leggende che giravano sul suo conto e le immagini che avevano costruito i fan e gliele avevano modellate addosso, Jan si chiedeva con sempre più insistenza che persona ci si potesse nascondere.
In fondo chi era Sergej? Solo un altro di quei ragazzini cresciuti troppo in fretta che, ancora sul limite dell’adolescenza, erano stati comunque gettati in pasto ai flash e alla stampa, con aspettative troppo grandi da dover soddisfare, pressioni soffocanti e troppi soldi che non sapevano neanche come gestire.
A volte Jan dimenticava che quel serioso ragazzo, che lo guardava un po’ storto con l’altezzosa aria di chi crede di poter beffare il mondo, non aveva che ventiquattro anni. Finiva col confondere la realtà sul campo con quella fuori e col compiere lo stesso madornale errore di quei commentatori sportivi, di vedere solo il giocatore, solo il talentuoso campione che sfrecciava sul ghiaccio e non più il ragazzo che respirava sotto la divisa da hockey e le protezioni, che non sorrideva mai e sembrava voler sparire dietro a quel numero stampato sulla sua schiena.
Non che Sergej fosse mai stato famoso per essere un tipo facile da avvicinare e conoscere, ma Jan poteva chiaramente intuire come la maggior parte delle persone avvicendatesi al suo fianco non avessero visto in lui più di uno strumento per il successo, una macchina perfetta per la corsa alla vittoria. Attirava invidie e odio, un po’ perché quasi sembrava chiederle e cercale, e un po’ perché forse era destinato a riceverle, per pagare il pegno di essere nato sotto una particolare stella; e a Jan, in fondo, faceva una gran pena. Doveva sentirsi molto solo, nello starsene lassù, su quel piedistallo d’inarrivabile talento.
Si attardò ancora un poco a osservarlo da lontano, poi si decise ad avvicinarlo. Non sapeva bene cosa aspettarsi, a parte l’abituale silenzio, ma si convinse a fare almeno un tentativo.

«Ehi, Jan. Dove scappi?» chiese Sean, quando mosse i primi passi lungo il corridoio.

«Abbiamo un brindisi al ‘miglior capitano del mondo’ da fare» lo chiamò anche Jay, prima di rivolgersi a Kyle: «e non è Steven Croose.»

«Torno subito» si scusò con loro, per poi proseguire dritto in quello spazio per lui ristretto, dove zone di luce fioca e ombra si alternavano.

Quando raggiunse il suo obiettivo, si rese conto che parte della sua agguerrita determinazione doveva essersi persa in quel breve tragitto. Non sapeva bene cosa dirgli o chiedergli; sapeva solo di doverlo fare. Poi, segno del destino o meno che fosse, le sue titubanze vennero poste a termine da una piccola turbolenza che gli fece perdere per un attimo l’equilibrio e lo mandò a sbattere contro il sedile.

«Ehi, scusa. Non volevo svegliarti» mentì in parte, quando gli occhi di Sergej si spalancarono e si sollevarono su di lui. La solita scrollata di spalle poi arrivò ad accoglierlo, mentre questo si liberava degli auricolari. Almeno però, si dimostrava più disponibile di quel che aveva anche solo sperato.

«Non stavo dormendo.»

«È che volevo chiederti se ti andava un bicchiere in compagnia» spiegò di getto, ma quando si rese conto che l’altro lo stava fissando un po’ stranito, quasi non riuscisse a registrare il perché di quella situazione, si affrettò ad aggiungere: «Non so però se sei astemio...»

«No, bevo» mormorò in risposta, prima di correggersi, rivelando qualcosa di molto simile a una punta d’imbarazzo nel tono scuro della sua voce. «Cioè, non bevo abitualmente, ma...»

«Sì, sì. Ho capito» lo rassicurò, trattenendosi dal ridere. «I ragazzi hanno avuto l’idea di farmi sentire vecchio e festeggiare il mio compleanno. Vieni a fare un brindisi?»

Sergej deviò lo sguardo sul finestrino, a quel panorama di completa oscurità che non avrebbe potuto dargli nessuna via di fuga. «Ehm, io...»

«Un po’ di distrazioni ogni tanto non sono male» ritentò allora Jan, appoggiandosi al bracciolo del sedile, per fargli intendere che non aveva alcuna intenzione di arrendersi così facilmente. Si prese qualche secondo, poi assunse a pieno titolo la sua veste di capitano – quel compito che ogni giorno svolgeva con amore e devozione – per arrivare diretto al nocciolo della questione e tendere una mano a quello scontroso ragazzino: «Lo so che sei arrabbiato e ti capisco» gli disse e, per la prima volta, Sergej si voltò a guardarlo davvero.
«È frustrante restare a guardare e non poter far niente, quando in realtà vorresti solo scendere in campo. Ma le partite prestagionali sono così, non contano niente. A Wayne piace usarle per testare i bimbi delle giovanili per fargli capire come funzionano le cose nella NHL, senza la pressione delle classifiche. Non mi pare che tu ne abbia bisogno.»

Sergej restò per un po’ in silenzio, arricciò le labbra in una strana smorfia di disappunto e riprese a fissare il buio oltre il vetro. Per un attimo Jan pensò di aver fatto l’ennesimo e svilente buco nell’acqua, poi però, lo sentì mormorare: «Non sa neanche come potrei giocare.»

«Credimi, lo sa. Tutti lo sanno» sorrise, per poi fare un cenno con la testa, diretto a indicare una parte della squadra poco distante da loro. «Prova a chiederlo a Kyle. Saprebbe descriverti ogni tuo goal delle passate stagioni. Probabilmente ti direbbe cose che neanche tu hai mai notato.»

«Kyle» gli fece eco, mormorando quel nome come se non fosse che un piccolo pensiero sfuggito alla sua mente. L’ombra di un sorriso parve piegargli le labbra solo per un attimo; uno così breve che Jan non fu neanche poi così certo di aver visto bene. «Quel ragazzino sa il fatto suo.»

Da parte sua avrebbe voluto approfondire quell’argomento, forzare un po’ la conversazione per vedere se l’avrebbe portato da qualche parte. Alla fine dei conti però, decise di accontentarsi di quel poco e fingere di non aver sentito quel commento che, forse, Sergej non si era reso neanche conto di aver pronunciato. Non era ancora quello il momento di fargli pressione. Ne aveva già fin troppe da gestire e un’incazzatura da manuale contro Wayne da farsi passare, e alla svelta.

«Allora?» riprese il discorso, riconquistando la sua attenzione. «Ti va quel bicchiere?»

Sergej lo squadrò ancora con quei suoi occhi affilati, come se stesse prendendo tempo per varare la proposta e considerarne i pro e i contro,come se immaginasse che ci fosse qualcosa sotto. Quel ragazzino non si fidava proprio di nessuno, probabilmente neanche di se stesso.
Poi, con suo enorme sollievo, sembrò addolcire un po’ quella sua faccia di bronzo per concedergli una piccola vittoria. Annuì con la testa, pur senza guardarlo negli occhi e con poca convinzione, e si alzò per seguirlo da tutti gli altri.
Se Jan avesse avuto una macchina fotografica, l’avrebbe certamente usata per immortalare le espressioni incredule e decisamente stupide di quelli che erano i suoi più cari compagni di squadra. Boris e Kyle avevano improvvisamente cessato i loro battibecchi, Xavier, invece, lo fissava corrucciato, quasi cercasse di rivolgergli col pensiero una domanda che doveva più o meno comporsi come un: “che diavolo gli hai detto?”. Sean, dal canto suo, era letteralmente sbigottito e alternava il suo sguardo tra lui e Sergej. Quei fanali verdi che aveva al posto degli occhi erano colmi di una sorpresa che non gli aveva mai visto prima. Non da meno erano le facce allucinate di Cole e Jayden che, impegnati com’erano a fissarli, si stavano dimenticando dell’ennesima bottiglia aperta e del fatto che ne stessero versando il contenuto in un bicchiere che, nel giro di qualche secondo, sarebbe straboccato.
Come da previsione difatti, lo champagne raggiunse e superò l’orlo, versandosi nuovamente sulle preziose scarpe di Cole.

«Cazzo, Jayden!» esclamò di fatti questo, osservando con orrore il suo ultimo acquisto. Quel ragazzo aveva un serio problema con lo shopping. «Le mie scarpe! Allora, o lo fai apposta oppure sei deficiente sul serio!»

«Be’ dai. Almeno adesso sono pulite» gli rispose l’artefice di quel disastro, guadagnandosi un’occhiata poco rassicurante da parte del compagno.

«Ringrazia che sta per iniziare la stagione, altrimenti le avrei usate per pestarti!»

Al cominciare di quell’ennesima diatriba che sembrava promettere di protrarsi per un bel po’, Jan si abbandonò a un altro dei suoi esasperati sospiri e rivolse una smorfia ironicamente costernata a Sergej, quasi volesse rassicurarlo ancora una volta che, prima o poi, c’avrebbe davvero fatto l’abitudine a tutta quella confusione. Dopo di che, prese uno dei bicchieri e glielo porse con un sorriso sincero, augurandosi con tutto il cuore che da quel momento potesse nascere anche qualcos’altro, oltre le solite e sciocche discussioni.
Qualcosa di buono.
 
 
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Vabbé, penso che a questo punto l'avete capito che la puntualità non è esattamente il nostro cavallo di battaglia.
Siamo a dir poco un caso disperato, ma tra impegni vari, virus misteriosi beccati in compagnia e diverse stupidaggini, siamo finalmente riuscite a pubblicare, con l'aiuto della nostra beta ufficiale che, oltre a bacchettarci a dovere, fa pure azione di pressing!
Altre stupidaggini a parte, almeno possiamo dire che il prossimo capitolo è quasi completo. Non vorremmo gufarcela, ma FORSE, al prossimo giro pubblicheremo in tempi socialmente accettabili!
Detto questo vogliamo ringraziare come sempre tutte le persone che hanno avuto la pazienza di leggere fin qui questo branco di disagiati e chi ha avuto il coraggio di approdare nel nostro gruppo (QUI) e farci compagnia in quella landa di disagio.
Le cose cominciano (?) finalmente a muoversi in questo capitolo (più o meno), e non manca davvero piú molto all'azione.
Non c'è granché da aggiungere a questo capitolo, se non che per i reclami contro Sergej potete contattare la nostra beta, Lyra, o il torturatore ufficiale di corte Relena (storia lunga, non fate domande. Annuite e sorridete. Ci farete molto felici!)
Per il resto, se ci sono domande noi siamo qui apposta per chiarire dubbi hockeistici o meno che siano!
Speriamo sia stato un capitolo di vostro gradimento e, per chiunque voglia scambiare anche solo due chiacchiere, qui i nostri profili FB!
Grazie ancora a chiunque abbia letto, inserito la storia nelle preferite, seguite, ricordate, nei cassetti, nel cesto dei panni sporchi, insomma dove vi pare, e ovviamente a chi ha recensito!
Un bacione e alla prossima,
Sam e Sid.
 
 
 
 
[1] Cerimonia durante la quale le trenta squadre della NHL a turno selezionano i giocatori delle leghe minori e universitarie tra i 18 e i 20 anni. Una volta scelti, i diritti dei giocatori passano in mano alle squadre, che possono decidere se farli giocare per loro, per la loro squadra minore o rimandarli nelle leghe junior e universitarie.
[2] Prima dell’inizio della stagione vera e propria, le squadre giocano un paio di partite tra di loro, che non influiscono sulla classifica. Una specie di amichevoli, insomma.
[3] Stadio degli Ottawa Senators.
[4] Lista ufficiale dei giocatori di una squadra.
[5] Giocatori che sono stati draftati da una squadra della NHL ma ancora giocano nelle leghe minori.
[6] Infrazione per cui viene fischiato il fermo gioco. Viene segnalato quando la squadra in difesa lancia il puck da dietro la linea rossa di metà campo fin oltre la linea della porta avversaria avversaria. In questo caso il gioco viene fermato e si ricomincia da accanto alla porta della squadra che era in difesa. In realtà poi esistono varie varianti e casi in cui viene annullato.
[7] Per coloro che non hanno mai visto un campo da hockey, questa è la struttura http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/d/dd/HockeyRink-Zones.png . I cinque cerchi sono chiamati “cerchi d’ingaggio”, o “face off circles” in inglese. È da qui che viene iniziato o riprende il gioco. Al centro del cerchio si posizionano un giocatore per squadra (generalmente un centrale), pronti a contendersi il puck lasciato cadere dall’arbitro. Intorno al cerchio si posizionano gli altri giocatori, pronti a prendere il puck passato dai giocatori al centro.
[8] Il Face off (qui troverete tutte le immagini del caso o le info che volete: https://www.google.it/search?q=face+off+hockey&es_sm=91&biw=1088&bih=617&source=lnms&sa=X&ei=9C1qVZqfFqv9ywPm6YLgDA&ved=0CAUQ_AUoAA&dpr=2) è appunto l’atto di far ripartire il gioco dopo che è stato interrotto per qualche motivo (generalmente un goal, un icing, un fuorigioco, o qualche altra infrazione). A seconda del motivo e dalla posizione del gioco nel momento in cui la partita è stata interrotta, si ricomincia da un cerchio diverso. In questo caso, essendo il gioco stato fermato per un tiro in porta, si ricomincia da vicino alla porta verso cui il tiro era diretto, dal lato da cui proveniva il tiro. Nel caso di prima dell’icing, si ricomincia da uno dei due cerchi vicini alla porta della squadra che ha commesso l’infrazione, mettendo quindi questa squadra in una posizione di svantaggio.
[9] Schema dove due giocatori avversari avanzano verso la porta e tra loro e il portiere resta solo un difensore che deve cercare di coprire entrambi.
 
 
   
 
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