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Autore: Lovingit    31/05/2015    2 recensioni
"Ho diciotto anni da due settimane, una vita sociale inesistente, sono depressa, vivo la mia vita tra casa e ospedale e il mio fegato è andato. Come se non bastasse il mio dottore mi ha abbandonata, lasciando letteralmente la mia vita nelle sue mani. E Dio solo sa se non preferirei affidarla al diavolo in persona."
Dal primo capitolo: "Cercherò di essere più chiaro: ci sono due tipi di pazienti. Il primo tipo: quelli rassegnati, le vittime quelli che ormai non sentono più nulla. Il secondo tipo è quello degli incazzati- non potevo credere che avesse appena usato una parolaccia -che ti attaccano per ogni cosa- dice per poi sedersi sul mio letto, con mio enorme disgusto -Per quanto mi riguarda non sopporto nessuno dei due tipi ma se possibile sopporto ancora meno quelli incazzati che però non reagiscono"
Questa è la storia di una ragazza rassegnata e di un uomo fin troppo duro. La medicina non è mai stata più amara.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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-Maxwell Cornelia Stone non lo ripeterò un'altra volta: scendi, o la cena si raffredderà!-
Sbuffo rendendomi conto che è effettivamente la milionesima volta che mia madre mi chiama dalla cucina con il suo altisonante tono, per ricordarmi che mi aspetta un altro dei magnifici pasti contemplati dalla mia rigorosissima dieta. 
Io, in realtà, avrei preferito rimanere in camera a leggere: se fosse per me non mi muoverei dal mio comodo letto, non lascerei mai un libro a metà eppure, ho deciso, dopo aver scoperto che la mia vita non sarebbe più stata la stessa, di agire per compromessi; scendere le scale ogni giorno la mattina, a mezzogiorno e la sera per poi sedermi e riunirmi a tavola con i miei genitori era uno dei tanti.
-Stavi forse ascoltando la musica tesoro?- mi chiede mio padre cercando un motivo per cui avessi tardato mentre si sistemava composto sulla sua sedia. Trovare scuse per il mio comportamento sembrava essere diventato il suo lavoro a tempo pieno tanto che delle volte mi chiedevo se non avesse abbandonato la professione di stimato avvocato solo per dedicarvi più tempo. 
-No papà, ero solo concentrata su...un libro: volevo finire il capitolo- gli rispondo sommessamente evitando il suo sguardo come ormai faccio da tempo. Sapevo come avrebbe reagito, come sempre fa: un largo sorriso fino a rendere evidenti due fossette dovute all'età con tanto di occhi lucidi e felici come se avessi appena detto di essermi laureata prima del tempo. Cosa di cui, probabilmente, non potrò mai dargli la gioia. 
-Forza allora, preghiamo- si intromette mia madre, Clair, spezzando quel freddo momento padre figlia. 
Ecco. Il centro di tutto. Dio, la religione e ancora Dio. Da quando tutto era iniziato la fede che i miei provavano si era amplificata facendo si che ogni giorno io fossi costretta ad andare in chiesa, un altro compromesso, e a pregare per lunghi minuti. Non ero certo reticente verso la religione inoltre, sperare che ci sia effettivamente qualcosa dopo la morte, che non si esaurisca tutto con un ultimo respiro poteva rivelarsi molto utile in questo momento. Perciò si, si poteva dire che anche io mi fossi convertita.
Sin da quando ero una bambina tutta la mia famiglia si era fermamente impegnata nel volermi dare una solida educazione nel nome di un'ancor più solida fede: quando lo dicevo in giro tutti quelli che conoscevo sentenziavano contro i miei parole del tipo: ottusi, bigotti e predicatori a me, invece, la cosa non è mai pesata più di tanto. Il tutto finché un giorno non scoprii che nel programma "Educa Max al rigore" era compreso anche il "non uscire con nessuno fino ai diciotto anni" e che mi sarei anche potuta "sognare" le feste cui i miei compagni andavano ogni fine settimana. Perciò a 15 anni iniziò la mia fase di ribellione: passavo giorni senza parlare con i miei genitori, li facevo preoccupare e, se non bastava, iniziavo il mio periodico sciopero della fame finché non mi avessero dato il permesso di uscire la sera. Ripensandoci credo di averli fatti invecchiare di dieci anni in poco più di due. Perlomeno la loro precoce vecchiaia mi aveva fatto guadagnare più o meno un'uscita ogni due settimane grazie alle quali conobbi diversi "amici" cui, dovrei smettere di riferirmi come tali per soffermarmi solo su Molly: la dolce e svampita ragazza che da tre anni è la mia migliore amica. Quando ci siamo conosciute eravamo a casa di Tuck, il pompato della squadra di football, io ero alla mia prima festa e me ne stavo lì in piedi facendo finta di aver tutti sotto controllo; lei mi si era avvicinata sorridendomi sorniona prima di vomitare sulle mie scarpe. Da quel momento siamo inseparabili. Anche se ora lei vive lontano ci sentiamo ogni giorno. Che si sarebbe trasferita me lo ha detto il giorno dopo la grande scoperta, l'avevo chiamata per dirle tutto ma lei mi anticipò lasciandomi senza parole a domandarmi tra me e me se la sfortuna mi avesse eletta suo bersaglio preferito. 
Oggi, alla tenera età di 18 anni, farei di tutto per non dover uscire e suppongo sia dovuto a ciò che la mia psicoterapeuta continua ad affibbiarmi: la depressione.  
Non mi considero triste, mi considero rassegnata.
Dopo aver finito la scuola, la mia camera è diventata la mia vita: i giorni passano...mi volano davanti e io sono immobile nel mio letto. Sapere che probabilmente non potrò finirlo non è certo un incentivo per cercare un buon college ma la versione ufficiale per tutti quelli che mi conosco è che volevo un anno per riposarmi, così nessuno si sarebbe preoccupato opprimendomi ancor di più.
-Amen!- dissero in coro i miei riscuotendomi dai miei pensieri.
-Amen...- conclusi anche io accorgendomi di aver completante dimenticato la preghiera in corso.
-Max, cara domani dobbiamo andare...rimandiamo da troppo tempo: so che hai paura ma è necessario- disse mia madre poggiandomi una calda mano sulla mia. La amo ma, ormai, qualsiasi gesto di compassione mi fa accapponare la pelle.
-Ha ragione tua madre tesoro: rimandare peggiorerà solo le cose- fa mio padre per coadiuvarla.
"Le cose sono già peggiori" penso tra me. 
-Va bene, come volete fatemi sapere l'ora così metto la sveglia- 
Le mie erano risposte sempre pacate e tenui, pronunciate ad occhi bassi. So che molto probabilmente sto assumendo l'atteggiamento da vittima, ma se facessi diversamente, se esprimessi davvero i miei sentimenti non ci sarebbe via di ritorno: me lo immagino già come cadere in un buco nero...un'infinita caduta.    
Il lato negativo di non mostrare i sentimenti è far preoccupare gli altri, mamma e papà sono lì con il boccone a mezz'aria a guardarsi complici per decidere se è meglio insistere o lasciarmi perdere ma, in questo ultimo periodo, optano sempre per la seconda. La loro espressione smarrita però  rimane così, mi sento in obbligo di tranquillizzarli.
-Ehi ragazzi...andrà bene- dico stringendo una mano ad entrambi. La realtà? Andrà da schifo. Lo so io, lo sanno loro. È scritto nel destino eppure so con certezza che passeranno la notte in bianco a pregare per un miracolo. Io ormai non ci perdo più tempo, preferisco affidarmi ai cliché stilando una lista di cose da fare prima che sia troppo tardi...sei i miei lo sapessero comincerebbero a singhiozzare senza tregua.
-Si hai ragione- dice mia madre più per convincere se stessa.
E così sono tutte le mie cene: sguardi d'amore e pena e poi il silenzio finché non mi alzo per mettere il mio piatto nel lavandino...uno dei vantaggi della mia condizione è che adesso non devo più lavarlo. Una fugace buonanotte e così ritorno in camera mia; mi sono ripromessa di passarci ancora più tempo e di memorizzala perfettamente dato che tra poco forse dovrò farne a meno per un po'.  


La mattina mi sveglio di buon ora, è sempre meglio presentarsi lì presto se si vuole evitare la folla. 
Papà parcheggia al solito posto e ci avviamo come se dovessimo andare al patibolo: mamma mi accarezza la schiena e papà mi tiene stretta la mano ed io deglutisco...tanto. Ogni volta che percorro questa stradina da un anno a questa parte provo sempre le stesse sensazioni: le orecchie che mi iniziano a ronzare, la testa leggera, il sudore freddo sulla fronte... 
-Ciao Max!- mi dice Nora, l'infermiera all'accettazione. Ormai ci conosciamo bene, lei è sempre lì a salutare tutti forse perché è carina oppure perché ispira fiducia e con la sua presenza riesce quasi a rendere questo posto sopportabile a quelli che come me scapperebbero a gambe levate.  
-Ciao Nora!- la saluto abbracciandola.
-Quindi...oggi è il grande giorno eh?- mi dice attenta alla mia reazione, qui mi conoscono in molti e sanno che dietro ad una persona apparentemente tranquilla se ne cela una spaventata a morte.
-Si. Infatti- sempre di poche parole. La vedo tornare lentamente seria, ha capito che è meglio lasciar perdere.
-Allora Max,vieni con me ti mostro la camera- ed ecco ancora una volta la grande capacità di Nora, parlare di un asettica camera d'ospedale come se fosse quella di un albergo a cinque stelle.
-Grazie- le dico gentile seguendola assieme ai miei genitori.
-Sarai qui per almeno due giorni- mi dice con un sorriso -signori se volete rimanere ci sono due poltrone là- fece con un gesto elegante -e un armadietto per riporre le vostre cose...per qualsiasi cosa potete rivolgervi alle infermiere del piano- dice congedandosi e facendomi l'occhiolino.
E quindi è giunto il momento. Mentre leggo il messaggio di in bocca al lupo di Molly mi rendo conto che devo affrontare la realtà. Mi alzo e annuisco distrattamente mentre i miei mi dicono che devono sistemare delle carte al piano di sopra. C'è uno specchio nella mia stanza: non mi riconosco più, ho la faccia smunta gli occhi chiari sempre più spenti e le lentiggini evidenti. Le labbra sono secche così come i miei capelli scuri di cui ora non mi preoccupo nemmeno se sono intrecciati. Mi sono lasciata andare ed è evidente: dopo aver fatto pace col fatto che avrei dovuto seguire una dieta specifica le poche forme che avevo se ne sono andate assieme a tutti quegli alimenti che non posso toccare. 
Sono Maxwell Cornelia Stone, ho diciotto anni compiuti due settimane fa, la mia vita sociale è inesistente, sono depressa, vivo la mia vita tra casa e ospedale, ho una grave forma di epatite c e, per finire in bellezza, il mio fegato è andato.


Circa un'oretta dopo la famiglia Stone al completo si è stabilita nella camera; mio padre mi ha portato il computer e alcuni dei miei libri, che in realtà ho già letto e riletto ma, come sempre sorrido e ringrazio.
-Max-fa piano mio padre facendomi accorgere solo ora che la mamma si è addormentata sulla sedia con la testa poggiata da un lato. È sempre così stressante per lei: fa la donna forte, tranquilla ma dentro muore.
-Dimmi papà- lo incito
-Mi hanno detto che la tua biopsia è stata posticipata a stasera, mi dispiace cucciola forse dovremo stare qui un giorno in più per il risultato- mi fa accarezzandomi la testa. Annuisco vigorosamente trattenendo le lacrime. Anche io dentro muoio.
Letteralmente.
-Maximax- continua chiamandomi col soprannome che avevo da bambina -io ti conosco, so che stai cercando di fare ma non può funzionare! Trattenere tutto dentro non ti farà che male...-
Non ho mai contemplato nel mio piano "escludi tutti" che molto probabilmente mio padre mi conoscemeglio di quanto io conosca me stessa.
-Papà io...sono stanca! Questa biopsia, l'ennesima, mi dirà se devo fare un trapianto di fegato il che è quasi certo...e io. Sono. Stanca.- dico lasciandomi andare per la prima volta ad un pianto silenzioso. Lui non si fa pregare e mi abbraccia.
-Lo so amore, lo so- mi fa comprensivo, sull'orlo del pianto anche lui.
-Per favore non dire...insomma alla mamma- 
-Tranquilla: manterrò con lei la tua immagine di leonessa- mi dice sorridendomi
-Lei non ha bisogno di sapere che soffro- concludo quando sciogliamo l'abbraccio.       
Qualcuno bussa alla porta delicatamente. Ecco la parte del ricovero che detesto di più: gli altri familiari, che si vedono si e no una volta all'anno tutti riuniti al mio capezzale. Una processione infinita di cugini, zii e chi più ne ha più ne metta; la stanza si riempie di fiori e io sono costretta a sorridere a tutti. Solo verso il pomeriggio posso definirmi fuori pericolo per quanto riguarda le visite dei parenti. Quando ormai la mia stanza è diventata una serra, un'altra infermiera, di cui mi sfugge il nome, entra.
-Scusate signori Stone ci sarebbe da dare un ultimo consenso- fa ai miei genitori. Ho la sensazione che non mi starà molto simpatica.
-Il dottor Crow sarà presto da te cara- dice poi guardandomi per la prima volta.
Il dottor Crow?! Un momento!
-Ha detto Crow?- le dico con una voce squillante che spaventa anche me -Credo ci sia un errore: il mio medico è il signor Brooke!- le dico quasi alterata. Lei mi guarda comprensiva ma un po' infastidita.
-Non te l'hanno detto?- mi chiede. Evidentemente no! Potrei giurare di sentirla sbuffare.
-Il dottor Brooke si dovrà assentare per un po' per un grave problema familiare- mi dice facendomi crollare il mondo addosso. 
Non ora! È una delle poche persone di cui mi fido. Non può abbandonarmi a questo punto!
-Ma...- faccio flebilmente senza sapere davvero cosa dire.
-Non ti preoccupare, il dottor Crow è giovane ma molto preparato e ha studiato la tua cartella, ora scusami ma devo andare- e se ne va.
-Cara- mi accarezza mamma -non ti preoccupare sarà sicuramente bravo e gentile quanto l'altro dottore-
-Io...- trattieniti Max, trattieniti -non so...vedremo- brava. 
-Noi andiamo a firmare Max così possiamo iniziare se c'è qualcosa sai chi chiamare- mi dice mio padre prima di sparire dietro la porta assieme a mia madre.
Se prima non mi era venuto un attacco di panico ora di certo sarebbe arrivato. L'aria iniziava a mancarmi. Rilassati. Respira. Respira. Mi ripetevo mentalmente.
Respira, respi...
-Allora chi abbiamo Gin?- sento chiedere da una voce nel corridoio. Non so perché ma il suono di quella voce profonda mi destabilizza e mi fa perdere un battito, e non lo sogno: il bip del macchinario è abbastanza chiaro. Gin dovrebbe essere la simpaticissima infermiera di prima. Sono vicini alla mia stanza così riesco a sentirli abbastanza bene.
-Stanza 23- la mia, penso -Epatite c, fegato al collasso, trapianto sicuro- dice fredda lei. 
Una pugnalata al cuore. 
-Dio me ne scampi se mai esiste- sento l'uomo ridere beffardo -un altro coglione che non sa come si fa sesso protetto?- stiletta con crudeltà. 
Chi mai può essere quest'uomo orrendo?
-Questo non lo so Lear- sento ancora lei che gli dice languidamente mentre lui sembra sfogliare qualcosa.
-Maxwell?- chiede sempre con quel tono superiore -Un ragazzino?- 
-No- risponde lei scoppiando a ridere -anzi, forse si- riprende ridendo ancor di più.
Parlavano di me. Ero a due metri da loro e non si preoccupavano di essere sentiti. Lui poteva solo che essere il mio nuovo dottore, quel Crow...la rabbia mi aveva invaso il corpo, ero pronta ad alzarmi e ad andare là per dirgliene quattro. Ciò di cui ero sicura è che avrei chiesto un altro medico al più presto. Sapevo sarebbe entrato. Mi rialzo e sistemo con le dita i capelli, assumo una posa fiera e arrendo.
Quando sento scattare la porta non lo guardo subito e attendo che sia lui a parlare per presentarsi, non sentendo nulla, vinta dalla curiosità mi giro. Quello che mi si presenta davanti in un candido camice bianco è un giovane uomo, capelli scuri, un accenno di barba, slanciato e...inquietante.
Sembra avere 29 massimo 30 anni e, nonostante la sua giovane età cammina nella stanza come se l'ospedale fosse suo, mi guarda a malapena mentre rigira tra le eleganti mani la mia cartella. La esamina mentre è ai piedi del mio letto in una posizione che sembra essere quella di un modello per una rivista. Non mi è più difficile capire perché Gin o come diavolo si chiama lo venerasse tanto. È bello, anzi bellissimo. Fin troppo per essere un medico.    
Stanca del silenzio mi schiarisco la voce e lui scocciato alza la testa mostrandomi i suoi occhi scuri e penetranti. Mi nota per un secondo, distrattamente e torna a leggere. Ad un certo punto, con mia grande sorpresa, rialza lo sguardo per studiarmi più attentamente. Non mi sono mai sentita più a disagio. Mi scruta dalla testa ai piedi per quella che sembra un eternità. Serra un po gli occhi per mettermi a fuoco e incredibilmente fa una smorfia che sembra un mezzo sorriso.
-Proprio un ragazzo- conferma a se stesso trattenendo una risata con un colpo di tosse. 
La conversazione di prima con l'infermiera mi torna in mente colpendomi come un treno in corsa. 
Lui. Lui è lo stronzo.
-Mi scusi?- gli faccio innocente.
Non risponde per un buon minuto poi sposta di colpo il peso da un piede all'altro si ferma e mi inchioda con gli occhi.
-Quindi fai finta di nulla?- mi chiede alzando il mento.
-Non capisco- rispondo io facendolo scoppiare a ridere. Sto iniziando a domandarmi se il tutto non sia un semplice incubo.
-Cercherò di essere più chiaro: ci sono due tipi di pazienti. Il primo tipo: quelli rassegnati, le vittime quelli che ormai non sentono più nulla. Il secondo tipo è quello degli incazzati- non potevo credere che avesse appena usato una parolaccia -che ti attaccano per ogni cosa- dice per poi sedersi sul mio letto con mio enorme disgusto -Per quanto mi riguarda non sopporto nessuno dei due tipi ma se possibile sopporto ancora meno quelli incazzati che però non reagiscono- 
Sono senza parole e lui pensa sia un invito a continuare.
-So che mi hai sentito parlare con l'infermiera prima, eri qui e noi non eravamo distanti-
Quindi si sta prendendo gioco di me. 
-Ecco vedi- inizia come se dovesse spiegare ad un bambino di cinque anni come si scrive -lo stai facendo ancora- dice sprezzante.
-Io...- inizio per poi schiarirmi la voce -Io credo che lei debba uscire da questa stanza e non tornare- gli dico fidandolo suscitando per l'ennesima volta una sua risata.
-Temo non sarà possibile- dice rialzandosi -a quanto pare sono il tuo nuovo medico e abbiamo in programma una biopsia, ti consiglio di abituarti a...me- conclude.
Sento i miei avvicinarsi, ormai riconosco i loro passi sposto lo sguardo da lui ma in fretta mi richiama all'attenzione.
-Allora, visto che mi hai sentito puoi anche rispondere al mio dubbio: come l'hai presa? Tatuaggio fatto da un tuo amico tossico? O la mia preferita: "dottore non sapevo si dovesse usare un preservativo!"- mi chiede. Io sono scioccata.
-Grandissimo pezzo di mer- inizio alzandomi un po' con i gomiti per poi essere interrotta.
-Salve- irrompe mio padre sorridendo -lei deve essere il nuovo medico di mia figlia. 
Il dottore si gira e potrei giurare di vederlo storcere il naso quando nota i due grandi crocifissi al collo dei miei.
-Si, piacere di conoscerla signor Stone- dice lui cambiando completamente tono. 
Sembra un'altra persona.
-Benissimo...quando possiamo procedere?- chiede ansiosa mia madre.
-Ora- risponde lui convinto. Poi si volta verso di me e per l'ennesima volta cerca di intimidirmi.
-E tu, Maxwell sei pronta?- chiede beffardo.
Non si tratta più di una semplice biopsia, questa è un guanto di sfida.
-Si- 

Sfida accettata. 


Autrice: Questa è una storia a cui ho pensato nella mia mente per tanto tempo e che ora vorrei proporre a voi. Spero vi piaccia e che vorrete farmi sapere cosa ne pensate. Conto di aggiornare ogni 2/3 giorni. 
Un saluto affettuoso.

   
 
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