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Autore: inkdropsintherain    01/06/2015    0 recensioni
Elizabeth Miller è la proprietaria del Blue Moon, caffetteria di una piccola cittadina del Kent, e oltre a desiderare che finalmente nevichi a Tunbridge Wells, non ha un preciso progetto per il futuro. Abbandonata da sua madre ha imparato in fretta cosa significa crescere e adesso non riesce proprio a legarsi agli altri. Almeno questo è ciò che ha creduto fino adesso ma, un ex fidanzato troppo insistente, può essere la molla che innesca un nuovo processo fino al raggiungimento di un sentimento che Liz credeva di non essere in grado di provare...
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
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Londra mi piace. È frizzante, caotica, grande. Ogni volta è come incontrare una vecchia amica. Londra mi comprende.

Qui non sono la piccola Liz abbandonata da sua madre e nemmeno la ragazza incompleta che non sa mantenere una relazione. Sono una persona. Vera. E posso anche andare a teatro a vedere un musical trascinata da mia sorella e Dominique che ci ha procurato i biglietti.

«Vedi? Puoi fare cose normali come le persone normali» mi dice Jenny mentre facciamo la fila per entrare. Dominique ci guarda perplesso ponendo una domanda col pensiero.

«Mia sorella è convinta di non essere una persona» spiega, senza in realtà aver spiegato un bel niente. Infatti l’espressione del nostro accompagnatore è ancora più incerta.

«Saresti tipo un ibrido?» chiede senza alcuna ombra di derisione.

«Qualcuno una volta l’ha definita un soggetto con deficit di interessamento continuo» riflette mia sorella ricordando le parole di un mio ex. Se ancora ci penso mi vengono i brividi. Proprio non gli era andata giù la nostra rottura. E dire che lo avevo anche invitato a cena per spiegargli la cosa con calma ma adesso sto divagando.

«Non farci caso» lo tranquillizzo. Il mio scopo non è quello di attirare l’attenzione su di me piuttosto far sì che Dominique e mia sorella si avvicinino.

«Come hai fatto ad avere i biglietti?» chiede Jenny quando siamo più o meno all’inizio della fila.

«Un mio amico lavora per questa compagnia teatrale».

«Davvero?» gli occhi di mia sorella iniziano a brillare di interesse. Il ragazzo sta guadagnando punti. Sorrido soddisfatta.

«A proposito, di cosa parla questo musical?» chiedo. Iniziamo a cercare i nostri posti.

«È una storia molto famosa. Parla di un uomo determinato a commettere l’omicidio perfetto» snocciola. Io e mia sorella lo fissiamo a bocca aperta. «È famoso!» si difende.

«Thrill Me» legge Jenny sul biglietto.

«Non poteva essere tutto troppo normale» m’incoraggio, in bilico tra la disperazione e la ridarella.

«Un passo per volta, sorella!» aggiunge Jenny e poi scoppia a ridere con me che le vado dietro. Dominique sembra aver rinunciato a comprenderci e si fa da parte per permetterci di sedere ai nostri posti. Solo allora mi rendo conto di essere seduta proprio tra Jenny e Dominique. Devo inventarmi qualcosa perché questa disposizione di posti va contro tutti i miei piani.

«Devo andare in bagno!» annuncio saltando in piedi come una molla. Troppo tardi mi rendo conto di essere stata esageratamente impetuosa perché qualche testa si è voltata a guardarmi nonostante il vociare delle persone intorno a noi. Dominique spalanca gli occhi per la sorpresa guardandomi dal suo posto.

«Il musical sta per iniziare» mi ricorda Jenny.

«Non ti preoccupare, farò in tempo» la tranquillizzo, poi rivolta a Dominique, «visto che sei seduto a fine fila perché non ti siedi accanto a Jenny? Almeno quando torno non sarai costretto ad alzarti per farmi sedere».

«Ha ragione, siedi vicino a me» appoggia mia sorella e gongolo per la riuscita del mio piano. Dominique annuisce e scala di un posto.

«Fai in fretta» si raccomanda Jenny.

Faccio un cenno con la mano e mi avvio alla ricerca di un bagno nonostante non ne abbia la reale necessita ma non si sa mai. Inoltre mi sento leggermente in colpa nei confronti di Dominique per averlo imbrogliato in quel modo.

Con mia grande irritazione i bagni del piano sono fuori uso così sono costretta a recarmi al piano superiore. Naturalmente uso le scale e non l’ascensore che, oltre a sembrare antiquato, fa riaffiorare brutte esperienze nella mia labile mente. Ogni volta che mi è capitato di salire all’interno di uno di questi abitacoli è capitato un guasto e io soffro di claustrofobia. In genere un solo minuto non mi procura grandi problemi ma se dovesse realmente succedere di restarci chiusa dentro potrei avere un vero e proprio attacco di cuore.

Una volta essermi lavata le mani ripercorro la strada inversa per tornare al mio posto e mi accorgo di essere tremendamente in ritardo. Lo spettacolo è già iniziato e io odio non vedere l’inizio delle cose. Sbuffo e decido di prendere l’ascensore. Non possono mica capitare sempre tutte a me!

Trenta secondi posso reggerli e poi mica si deve bloccare proprio ora sto coso, no?

Quando le porte si aprono noto che c’è già una persona all’interno e mi sento un po’ meglio. Non mi soffermo troppo su di lui scorgendone la figura alta e slanciata di sfuggita a pochi passi dietro di me, poggiata alla parete specchiata.

Nello stesso momento in cui premo il pulsante per selezionare il piano ricevo un messaggio di Jenny che mi rimprovera per non essere ancora tornata. Sorrido e inizio a scriverle per tranquillizzarla di essere sulla via di ritorno ma un improvviso attimo di vuoto mi paralizza. L’abitacolo subisce uno scossone e le luci si spengono per lasciare posto alla lucetta d’emergenza che illumina tutto di rosso.

Il panico inizia a morsicarmi partendo dalle mani sudate per poi appropriarsi indebitamente di tutto il mio corpo. Sento caldo e freddo alternativamente e percepisco tutto il sangue che mi circola in corpo gorgogliare all’interno delle vene. Non c’è abbastanza aria, abbastanza spazio, abbastanza di niente e boccheggio. Stringo forte il cellulare cercando di riuscire a dissipare la nebbia che si è formata davanti ai miei occhi ma è quasi impossibile perché ho iniziato a piangere. Il cuore mi sfonda il petto e provo a fermarne il battito con una mano. So che è inutile ma mi sento priva di qualsiasi alternativa.

Provo a respirare profondamente nella speranza di raggiungere un qualche nirvana temporaneo e così riesco a prendere parzialmente coscienza del mio corpo e di quello della persona accanto a me. Avevo dimenticato di non essere sola il che è una fortuna. Mi sfiora appena mentre si avvicina alla tastiera dell’ascensore e preme il pulsante di emergenza.

«Presto arriverà qualcuno, stai tranquilla» è la voce di un uomo. Parla con un tono di voce pacato, come se stesse parlando con una bambina, cioè io, eppure non mi sento infastidita. Annuisco e guardo il cellulare che ormai non prende più nemmeno di una tacca. Stringo le dita fino a farle diventare bianche. I pensieri più funesti iniziano a farsi strada dentro la mia testa e il ricordo più spaventoso di me dentro un ascensore bloccato si fa vivo come il pagliaccio dentro quelle scatole a scatto odiose. Trasalisco e chiudo gli occhi. Adesso ho paura. Le gambe non mi reggono più e scivolo verso il pavimento.

«Oh!» le sue mani sono pronte ad afferrarmi poco prima che tocchi il pavimento. Sento che qualcosa urta la parete alle mie spalle ma non sono io perché la mia schiena è poggiata al petto dell’uomo. Mi sono completamente lasciata andare.

«So che non è una situazione facile e probabilmente per te tutto questo è estremo ma permettimi di fare qualcosa per aiutarti» la sua bocca è molto vicina al mio orecchio e il suo alito mi riscalda il collo. Rabbrividisco e mi lascio andare ancora di più quasi schiacciandolo. Si lascia scivolare giù completamente e mi stringe più forte abbracciandomi da dietro come fanno gli innamorati. Un mix di emozioni nuove si frappongono a quelle ormai note del panico.

«Vediamo» si schiarisce la gola, «non ci sono molte cose che io sappia fare o possa fare in questa situazione ma ce n’è una che mi viene piuttosto bene. Posso provare?» chiede un po’ incerto. Se non mi sentissi così fuori dal mio corpo sorriderei ma lo faccio con il pensiero. Annuisco ancora.

«Allora io inizio» annuncia con voce spezzata. Sento il suo petto gonfiarsi mentre prende un lungo respiro e poi inizia a cantare. Inizia con un tono delicato come il battito d’ali di una farfalla. Sembra la ninna nanna che si canta ai bambini per farli addormentare ma poi la voce si fa piano piano più intensa tanto che riesco quasi a sentire le sue corde vocali vibrare. Inizio a rilassarmi e lascio cadere all’indietro la testa verso la sua spalla, il suo mento poggiato sull’incavo del collo. Chiudo gli occhi dimenticandomi di essere chiusa dentro un ascensore bloccato. Sono dentro una bolla, in quella fase di dormiveglia in cui non sai se sei sveglio o ancora addormentato. Non importa perché qualunque cosa è meglio del panico. Rilasso le gambe stendendole davanti a me e m’incastro meglio a quel corpo dietro di me che mi avvolge con protezione.

Una volta finita la canzone mi chiede come sto ma non rispondo preferendo restare come sono. Mi sembra di sentirlo sorridere ma non ne sono certa, fatto sta che poco dopo inizia a cantare un’altra canzone ancora più intensa. La sua voce diventa più squillante, come se la paura di spaventarmi fosse svanita e nello stesso tempo sento che anche le mie di paure si sono dissipate.

Gli stringo il braccio e sento che anche lui fa lo stesso ma un rumore improvviso fa trasalire entrambi. Alcune voci provenienti dall’esterno s’intrufolano nell’abitacolo. Provo a rimettermi in piedi ma rischio di scivolare così vengo aiutata. Mi sento così in imbarazzo che non riesco a voltarmi e guardarlo.

«Resistete! Stiamo per aprire le porte» dice una voce rauca. In realtà inizio a sentire un coro di voci piuttosto confuso provenire dall’esterno.

«Liz! Lizzie sei lì dentro vero? Stai tranquilla, ti stiamo tirando fuori. Liz! Liz!» è mia sorella e sembra piuttosto preoccupata.

«Josh! Qui è pieno di giornalisti!» dice un’altra voce.

«Naturalmente!» mormora infastidito il mio compagno. Sospira e si accosta nuovamente al mio orecchio, «Credimi, quello che sto per fare è per il tuo bene» e, prima che io possa replicare mi butta in testa la sua giacca proprio un secondo prima che le porte si spalanchino. Mi sento stretta saldamente contro il suo corpo e trascinata via in mezzo a un vociare confuso e mani che cercano di afferrarmi. Continuiamo a camminare finché le voci si estinguono e riesco a sentire solo l’eco dei nostri passi.

«Josh! Che cosa stai facendo?» mi sembra la stessa voce che prima parlava di giornalisti.

«Prenditi cura di questa ragazza per me per favore, io vado a parlare con i giornalisti. Fai molta attenzione perché è piuttosto spaventata e ha appena attraversato una brutta esperienza» le sue mani mi lasciano andare ma la giacca continua a restare sulla mia testa e io posso solo vedere i suoi piedi che si allontanano. Un senso di abbandono s’impadronisce della mia testa e non so spiegarmene il motivo. Che sia una specie di sindrome di Stoccolma?

Sollevo un po’ la giacca per sbirciare ma posso vedere solo la sua schiena allontanarsi. È alto e ha i capelli castani tagliati corti. Oltre a sapere che ha un bella voce rassicurante sono le uniche due cose che so di lui.

«Signorina?» da sotto la giacca fa capolino un volto rotondo dagli occhi sottili. Ci guardiamo per un po’ esaminandoci a vicenda.

«Liz!» eccola che arriva, la sorella più apprensiva del pianeta che mi si fionda addosso come una di quelle manine appiccicose anni novanta. «Come stai? Ti sei fatta male? Perché hai preso l’ascensore? Oh mamma che spavento che mi sono presa! Mi riconosci?» mi prende il viso tra le mani e mi fissa appiccicando il suo naso al mio.

«Jen, sto bene» sorrido divertita.

«Perché hai una giacca sulla testa?» si allontana e mi studia. In quel momento mi rendo conto di sembrare una suora e mi libero della giacca.

«Perché ho una giacca sulla testa?» chiedo a tutti e a nessuno.

«Signorina è sicura di stare bene?» chiede l’uomo senza nome preoccupato dei giornalisti.

«Sì sto bene, grazie».

«Le chiamo un taxi e la faccio portare a casa» estrae il telefono dalla tasca interna della giacca ma lo fermo subito dicendogli che non ce n’è bisogno. «Josh mi ha chiesto di prendermi cura di lei» obietta.

«Non è necessario che lei faccia altro per me. Sono venuta con mia sorella e un amico e tornerò a casa con loro» spiego.

«Eppure…» sembra combattuto ma poi s’illumina come un albero di Natale ed estrae, sempre dalla tasca interna della giacca, un astuccio con dei biglietti da visita. Me ne porge uno.

«Se avesse bisogno di qualunque cosa mi chiami, ok?».

Sul biglietto c’è scritto il nome di una società, la Glorious Entertainment e il nome del tipo è Choi Han Eul e pare che sia un agente o qualcosa di simile. Il nome è senza dubbio coreano.

«Agente di chi?» lo guardo smarrita.

«Non sa chi era la persona con lei in ascensore?» i suoi occhi sottili si allargano e io ho la sensazione tangibile di essermi persa qualcosa di importante.

«Perché ci sono i giornalisti?» chiede mia sorella. Poco dopo ci raggiunge Dominique.

«Ci sono i giornalisti là fuori» indica un punto imprecisato dietro di lui. Ci voltiamo tutti e tre a guardarlo come una visione mistica sulla via di Damasco. «Dicevo così per dire» aggiunge un po’ intimorito. Jenny lo prende sottobraccio per tranquillizzarlo.

«Beh, ho un po’ di lavoro da sistemare. Mi dispiace che si sia persa lo spettacolo» guarda l’orologio apprensivo e dopo un piccolo cenno del capo si congeda scusandosi.

«Un tipo un po’ strano» commenta Dominique.

«Mi dispiace avervi rovinato lo spettacolo ma dovremmo essere in tempo per vedere il secondo atto» dico mortificata.

«Assolutamente no! Adesso ce ne torniamo a casa e ti rilassi per bene. Se penso all’ultima volta che è successa una cosa del genere mi vengono i brividi! Non ti sei svegliata per un giorno intero a causa dello shock!» Jenny mi abbraccia forte e la tranquillizzo accarezzandola. L’ultima volta cui lei si riferisce non è esattamente l’ultima ma questo non posso rivelarglielo perché dovrei raccontarle qualcosa di ancora più doloroso.

«Questa volta non si tratta della stessa situazione, sto bene, vedi?».

«Andiamo lo stesso a casa» guarda Dominique cercando una conferma che arriva subito. Il ragazzo estrae le chiavi della macchina dalla tasca dei jeans e le fa tintinnare sorridendomi.


   
 
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