Londra
mi piace. È frizzante, caotica,
grande. Ogni volta è come incontrare una vecchia amica.
Londra mi comprende.
Qui
non sono la piccola Liz abbandonata
da sua madre e nemmeno la ragazza incompleta che non sa mantenere una
relazione. Sono una persona. Vera. E posso anche andare a teatro a
vedere un
musical trascinata da mia sorella e Dominique che ci ha procurato i
biglietti.
«Vedi?
Puoi fare cose normali come le
persone normali» mi dice Jenny mentre facciamo la fila per
entrare. Dominique
ci guarda perplesso ponendo una domanda col pensiero.
«Mia
sorella è convinta di non essere
una persona» spiega, senza in realtà aver spiegato
un bel niente. Infatti
l’espressione del nostro accompagnatore è ancora
più incerta.
«Saresti
tipo un ibrido?» chiede senza
alcuna ombra di derisione.
«Qualcuno
una volta l’ha definita un
soggetto con deficit di interessamento continuo» riflette mia
sorella ricordando
le parole di un mio ex. Se ancora ci penso mi vengono i brividi.
Proprio non
gli era andata giù la nostra rottura. E dire che lo avevo
anche invitato a cena
per spiegargli la cosa con calma ma adesso sto divagando.
«Non
farci caso» lo tranquillizzo. Il
mio scopo non è quello di attirare l’attenzione su
di me piuttosto far sì che
Dominique e mia sorella si avvicinino.
«Come
hai fatto ad avere i biglietti?»
chiede Jenny quando siamo più o meno all’inizio
della fila.
«Un
mio amico lavora per questa
compagnia teatrale».
«Davvero?»
gli occhi di mia sorella
iniziano a brillare di interesse. Il ragazzo sta guadagnando punti.
Sorrido
soddisfatta.
«A
proposito, di cosa parla questo
musical?» chiedo. Iniziamo a cercare i nostri posti.
«È
una storia molto famosa. Parla di un
uomo determinato a commettere l’omicidio perfetto»
snocciola. Io e mia sorella
lo fissiamo a bocca aperta. «È famoso!»
si difende.
«Thrill
Me» legge Jenny sul biglietto.
«Non
poteva essere tutto troppo
normale» m’incoraggio, in bilico tra la
disperazione e la ridarella.
«Un
passo per volta, sorella!» aggiunge
Jenny e poi scoppia a ridere con me che le vado dietro. Dominique
sembra aver
rinunciato a comprenderci e si fa da parte per permetterci di sedere ai
nostri
posti. Solo allora mi rendo conto di essere seduta proprio tra Jenny e
Dominique. Devo inventarmi qualcosa perché questa
disposizione di posti va
contro tutti i miei piani.
«Devo
andare in bagno!» annuncio
saltando in piedi come una molla. Troppo tardi mi rendo conto di essere
stata esageratamente
impetuosa perché qualche testa si è voltata a
guardarmi nonostante il vociare
delle persone intorno a noi. Dominique spalanca gli occhi per la
sorpresa
guardandomi dal suo posto.
«Il
musical sta per iniziare» mi
ricorda Jenny.
«Non
ti preoccupare, farò in tempo» la
tranquillizzo, poi rivolta a Dominique, «visto che sei seduto
a fine fila
perché non ti siedi accanto a Jenny? Almeno quando torno non
sarai costretto ad
alzarti per farmi sedere».
«Ha
ragione, siedi vicino a me»
appoggia mia sorella e gongolo per la riuscita del mio piano. Dominique
annuisce e scala di un posto.
«Fai
in fretta» si raccomanda Jenny.
Faccio
un cenno con la mano e mi avvio
alla ricerca di un bagno nonostante non ne abbia la reale necessita ma
non si
sa mai. Inoltre mi sento leggermente in colpa nei confronti di
Dominique per
averlo imbrogliato in quel modo.
Con
mia grande irritazione i bagni del
piano sono fuori uso così sono costretta a recarmi al piano
superiore.
Naturalmente uso le scale e non l’ascensore che, oltre a
sembrare antiquato, fa
riaffiorare brutte esperienze nella mia labile mente. Ogni volta che mi
è capitato
di salire all’interno di uno di questi abitacoli è
capitato un guasto e io
soffro di claustrofobia. In genere un solo minuto non mi procura grandi
problemi ma se dovesse realmente succedere di restarci chiusa dentro
potrei
avere un vero e proprio attacco di cuore.
Una
volta essermi lavata le mani
ripercorro la strada inversa per tornare al mio posto e mi accorgo di
essere
tremendamente in ritardo. Lo spettacolo è già
iniziato e io odio non vedere
l’inizio delle cose. Sbuffo e decido di prendere
l’ascensore. Non possono mica
capitare sempre tutte a me!
Trenta
secondi posso reggerli e poi
mica si deve bloccare proprio ora sto coso, no?
Quando
le porte si aprono noto che c’è
già una persona all’interno e mi sento un
po’ meglio. Non mi soffermo troppo su
di lui scorgendone la figura alta e slanciata di sfuggita a pochi passi
dietro
di me, poggiata alla parete specchiata.
Nello
stesso momento in cui premo il
pulsante per selezionare il piano ricevo un messaggio di Jenny che mi
rimprovera per non essere ancora tornata. Sorrido e inizio a scriverle
per
tranquillizzarla di essere sulla via di ritorno ma un improvviso attimo
di
vuoto mi paralizza. L’abitacolo subisce uno scossone e le
luci si spengono per
lasciare posto alla lucetta d’emergenza che illumina tutto di
rosso.
Il
panico inizia a morsicarmi partendo
dalle mani sudate per poi appropriarsi indebitamente di tutto il mio
corpo.
Sento caldo e freddo alternativamente e percepisco tutto il sangue che
mi
circola in corpo gorgogliare all’interno delle vene. Non
c’è abbastanza aria,
abbastanza spazio, abbastanza di niente e boccheggio. Stringo forte il
cellulare cercando di riuscire a dissipare la nebbia che si
è formata davanti
ai miei occhi ma è quasi impossibile perché ho
iniziato a piangere. Il cuore mi
sfonda il petto e provo a fermarne il battito con una mano. So che
è inutile ma
mi sento priva di qualsiasi alternativa.
Provo
a respirare profondamente nella
speranza di raggiungere un qualche nirvana temporaneo e così
riesco a prendere
parzialmente coscienza del mio corpo e di quello della persona accanto
a me.
Avevo dimenticato di non essere sola il che è una fortuna.
Mi sfiora appena
mentre si avvicina alla tastiera dell’ascensore e preme il
pulsante di
emergenza.
«Presto
arriverà qualcuno, stai
tranquilla» è la voce di un uomo. Parla con un
tono di voce pacato, come se stesse
parlando con una bambina, cioè io, eppure non mi sento
infastidita. Annuisco e
guardo il cellulare che ormai non prende più nemmeno di una
tacca. Stringo le
dita fino a farle diventare bianche. I pensieri più funesti
iniziano a farsi
strada dentro la mia testa e il ricordo più spaventoso di me
dentro un
ascensore bloccato si fa vivo come il pagliaccio dentro quelle scatole
a scatto
odiose. Trasalisco e chiudo gli occhi. Adesso ho paura. Le gambe non mi
reggono
più e scivolo verso il pavimento.
«Oh!»
le sue mani sono pronte ad
afferrarmi poco prima che tocchi il pavimento. Sento che qualcosa urta
la
parete alle mie spalle ma non sono io perché la mia schiena
è poggiata al petto
dell’uomo. Mi sono completamente lasciata andare.
«So
che non è una situazione facile e
probabilmente per te tutto questo è estremo ma permettimi di
fare qualcosa per
aiutarti» la sua bocca è molto vicina al mio
orecchio e il suo alito mi
riscalda il collo. Rabbrividisco e mi lascio andare ancora di
più quasi
schiacciandolo. Si lascia scivolare giù completamente e mi
stringe più forte
abbracciandomi da dietro come fanno gli innamorati. Un mix di emozioni
nuove si
frappongono a quelle ormai note del panico.
«Vediamo»
si schiarisce la gola, «non
ci sono molte cose che io sappia fare o possa fare in questa situazione
ma ce
n’è una che mi viene piuttosto bene. Posso
provare?» chiede un po’ incerto. Se
non mi sentissi così fuori dal mio corpo sorriderei ma lo
faccio con il
pensiero. Annuisco ancora.
«Allora
io inizio» annuncia con voce
spezzata. Sento il suo petto gonfiarsi mentre prende un lungo respiro e
poi
inizia a cantare. Inizia con un tono delicato come il battito
d’ali di una
farfalla. Sembra la ninna nanna che si canta ai bambini per farli
addormentare
ma poi la voce si fa piano piano più intensa tanto che
riesco quasi a sentire
le sue corde vocali vibrare. Inizio a rilassarmi e lascio cadere
all’indietro
la testa verso la sua spalla, il suo mento poggiato
sull’incavo del collo.
Chiudo gli occhi dimenticandomi di essere chiusa dentro un ascensore
bloccato.
Sono dentro una bolla, in quella fase di dormiveglia in cui non sai se
sei
sveglio o ancora addormentato. Non importa perché qualunque
cosa è meglio del
panico. Rilasso le gambe stendendole davanti a me e
m’incastro meglio a quel
corpo dietro di me che mi avvolge con protezione.
Una
volta finita la canzone mi chiede
come sto ma non rispondo preferendo restare come sono. Mi sembra di
sentirlo
sorridere ma non ne sono certa, fatto sta che poco dopo inizia a
cantare
un’altra canzone ancora più intensa. La sua voce
diventa più squillante, come
se la paura di spaventarmi fosse svanita e nello stesso tempo sento che
anche
le mie di paure si sono dissipate.
Gli
stringo il braccio e sento che
anche lui fa lo stesso ma un rumore improvviso fa trasalire entrambi.
Alcune
voci provenienti dall’esterno s’intrufolano
nell’abitacolo. Provo a rimettermi
in piedi ma rischio di scivolare così vengo aiutata. Mi
sento così in imbarazzo
che non riesco a voltarmi e guardarlo.
«Resistete!
Stiamo per aprire le porte»
dice una voce rauca. In realtà inizio a sentire un coro di
voci piuttosto
confuso provenire dall’esterno.
«Liz!
Lizzie sei lì dentro vero? Stai
tranquilla, ti stiamo tirando fuori. Liz! Liz!» è
mia sorella e sembra
piuttosto preoccupata.
«Josh!
Qui è pieno di giornalisti!»
dice un’altra voce.
«Naturalmente!»
mormora infastidito il
mio compagno. Sospira e si accosta nuovamente al mio orecchio,
«Credimi, quello
che sto per fare è per il tuo bene» e, prima che
io possa replicare mi butta in
testa la sua giacca proprio un secondo prima che le porte si
spalanchino. Mi
sento stretta saldamente contro il suo corpo e trascinata via in mezzo
a un
vociare confuso e mani che cercano di afferrarmi. Continuiamo a
camminare finché
le voci si estinguono e riesco a sentire solo l’eco dei
nostri passi.
«Josh!
Che cosa stai facendo?» mi
sembra la stessa voce che prima parlava di giornalisti.
«Prenditi
cura di questa ragazza per me
per favore, io vado a parlare con i giornalisti. Fai molta attenzione
perché è piuttosto
spaventata e ha appena attraversato una brutta esperienza» le
sue mani mi
lasciano andare ma la giacca continua a restare sulla mia testa e io
posso solo
vedere i suoi piedi che si allontanano. Un senso di abbandono
s’impadronisce
della mia testa e non so spiegarmene il motivo. Che sia una specie di
sindrome di
Stoccolma?
Sollevo
un po’ la giacca per sbirciare
ma posso vedere solo la sua schiena allontanarsi. È alto e
ha i capelli castani
tagliati corti. Oltre a sapere che ha un bella voce rassicurante sono
le uniche
due cose che so di lui.
«Signorina?»
da sotto la giacca fa
capolino un volto rotondo dagli occhi sottili. Ci guardiamo per un
po’
esaminandoci a vicenda.
«Liz!»
eccola che arriva, la sorella
più apprensiva del pianeta che mi si fionda addosso come una
di quelle manine
appiccicose anni novanta. «Come stai? Ti sei fatta male?
Perché hai preso
l’ascensore? Oh mamma che spavento che mi sono presa! Mi
riconosci?» mi prende
il viso tra le mani e mi fissa appiccicando il suo naso al mio.
«Jen,
sto bene» sorrido divertita.
«Perché
hai una giacca sulla testa?» si
allontana e mi studia. In quel momento mi rendo conto di sembrare una
suora e
mi libero della giacca.
«Perché
ho una giacca sulla testa?» chiedo
a tutti e a nessuno.
«Signorina
è sicura di stare bene?»
chiede l’uomo senza nome preoccupato dei giornalisti.
«Sì
sto bene, grazie».
«Le
chiamo un taxi e la faccio portare
a casa» estrae il telefono dalla tasca interna della giacca
ma lo fermo subito
dicendogli che non ce n’è bisogno. «Josh
mi ha chiesto di prendermi cura di
lei» obietta.
«Non
è necessario che lei faccia altro
per me. Sono venuta con mia sorella e un amico e tornerò a
casa con loro»
spiego.
«Eppure…»
sembra combattuto ma poi
s’illumina come un albero di Natale ed estrae, sempre dalla
tasca interna della
giacca, un astuccio con dei biglietti da visita. Me ne porge uno.
«Se
avesse bisogno di qualunque cosa mi
chiami, ok?».
Sul
biglietto c’è scritto il nome di
una società, la Glorious Entertainment e il nome del tipo
è Choi Han Eul e pare
che sia un agente o qualcosa di simile. Il nome è senza
dubbio coreano.
«Agente
di chi?» lo guardo smarrita.
«Non
sa chi era la persona con lei in
ascensore?» i suoi occhi sottili si allargano e io ho la
sensazione tangibile
di essermi persa qualcosa di importante.
«Perché
ci sono i giornalisti?» chiede
mia sorella. Poco dopo ci raggiunge Dominique.
«Ci
sono i giornalisti là fuori» indica
un punto imprecisato dietro di lui. Ci voltiamo tutti e tre a guardarlo
come
una visione mistica sulla via di Damasco. «Dicevo
così per dire» aggiunge un
po’ intimorito. Jenny lo prende sottobraccio per
tranquillizzarlo.
«Beh,
ho un po’ di lavoro da sistemare.
Mi dispiace che si sia persa lo spettacolo» guarda
l’orologio apprensivo e dopo
un piccolo cenno del capo si congeda scusandosi.
«Un
tipo un po’ strano» commenta
Dominique.
«Mi
dispiace avervi rovinato lo
spettacolo ma dovremmo essere in tempo per vedere il secondo
atto» dico
mortificata.
«Assolutamente
no! Adesso ce ne
torniamo a casa e ti rilassi per bene. Se penso all’ultima
volta che è successa
una cosa del genere mi vengono i brividi! Non ti sei svegliata per un
giorno
intero a causa dello shock!» Jenny mi abbraccia forte e la
tranquillizzo
accarezzandola. L’ultima volta cui lei si riferisce non
è esattamente l’ultima
ma questo non posso rivelarglielo perché dovrei raccontarle
qualcosa di ancora
più doloroso.
«Questa
volta non si tratta della
stessa situazione, sto bene, vedi?».
«Andiamo
lo stesso a casa» guarda
Dominique cercando una conferma che arriva subito. Il ragazzo estrae le
chiavi
della macchina dalla tasca dei jeans e le fa tintinnare sorridendomi.