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Autore: EffieSamadhi    02/06/2015    3 recensioni
{Su Youtube è disponibile il trailer della storia: https://www.youtube.com/watch?v=RuY_VgECJKc}
Con i suoi colori caldi e rassicuranti, l'autunno ha portato l'amore. Con il suo gelo e la neve, l'inverno lo ha spazzato via. Ma come ogni anno torna la primavera, quella strana e straordinaria stagione in cui ogni cuore spezzato capisce di poter amare ancora.
Daria è cresciuta: ha visto la sua vita cambiare, si è scoperta più grande, più forte, più sicura di sé, e ha finalmente capito che la sola cosa importante è essere sinceri, sempre, anche a costo di finire bruciati. Per questo decide di prendere un aereo e volare a Los Angeles, per dire a Shannon tutto ciò che per mesi, o forse per una vita intera, ha sempre negato a se stessa.
Nella città degli angeli, Shannon è in piedi sull'orlo del baratro, restituisce il truce sguardo dell'abisso ed è sul punto di saltare, quando si rende conto che non può essere tutto qui, che la sua vita non può finire così, non senza combattere. E quando davanti ai suoi occhi stanchi, dopo molti mesi, torna a farsi vivo lo sguardo di Daria...
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio, Shannon Leto, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Direzioni ostinate e contrarie.'
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La lunga strada verso casa - 1
Non so più che fare per chiedervi scusa, ma se ad ogni pubblicazione c'è qualcuno che continua a recensire significa che in fondo questa storia non vi dispiace, e che val la pena aspettare anche due settimane per un capitolo. Vi chiedo scusa, davvero, immensamente, ma sono stati giorni difficili, e come spesso accade è stata la scrittura a farne le spese... ma vi giuro che siete sempre nei miei pensieri, così come Daria, Shannon, Jared, Alice e tutto il teatrino – non potrei mai abbandonare nessuno di quegli adorabili squinternati, e sinceramente spero di suscitare le stesse sensazioni in voi.
Buona lettura,
EffieSamadhi






Per aspera ad astra






Capitolo undicesimo
Io ti guardo negli occhi e vedo lontano
il tempo che ho perso.1


Los Angeles, 13 marzo 2014


    Apro gli occhi, ritrovando su di me lo sguardo di Shannon, che si sostiene la testa con il gomito, puntellandosi al cuscino con il sorriso di un tempo ad illuminare ancora di più il suo volto rilassato. «Perché tutte le volte che mi sveglio ti trovo così? E non dirmi che sono un bello spettacolo da guardare.»
    «Buongiorno anche a te» sussurra, senza smettere di sorridere, abbassandosi per darmi un bacio a fior di labbra. Si trattiene contro la mia bocca per qualche istante, poi si ritrae, facendo salire una mano al mio volto per una carezza. «Anche se mezzogiorno è passato da un pezzo, quindi forse sarebbe più appropriato dire buon pomeriggio. E anche se non ti va di sentirlo sì, sei uno spettacolo stupendo da guardare.»
    «Bugiardo» replico, tirandomi il lenzuolo sopra la faccia.
    «Questo mai» ribatte, tirando via la stoffa. «Non con te. Mai, se si tratta di te.» Restiamo a guardarci in silenzio per quello che credo sia un minuto buono, entrambi consapevoli che questo momento è così perfetto da non aver bisogno di parole. Di sicuro questa parte del nostro rapporto mi è mancata: per una come me, che ama le parole ma teme di non saper mai trovare quelle più adatte, potersene stare zitta e muta in compagnia dell'uomo che ama è la più grande conquista del mondo. Anche se, già lo so, prima o dopo il silenzio inizierà ad irritarmi, e a quel punto dovrò per forza trovare qualcosa da dire. Quel momento arriva prima di quanto mi sarei mai aspettata. «Che cosa succederà adesso?»
    «Dubito che dicendo adesso tu intenda i prossimi cinque minuti.»
    «Mi conosci troppo bene.»
    Sospira, tornando a stendersi accanto a me e cercando la mia mano sotto le lenzuola, per stringerla con quel misto di forza e dolcezza che ha contribuito a farmi innamorare di lui. «Ormai credo sia chiaro che per stare bene abbiamo bisogno di stare insieme» sussurra. «Ma per stare insieme, devi smettere di avere paura. Devi essere disposta a lasciarti andare, altrimenti non impiegheremo molto a tornare al punto di partenza. Con questo non sto dicendo che quello che è successo sia stata tutta colpa tua» aggiunge in fretta, voltandosi verso di me. «Non potrei mai scaricare addosso a te tutta la colpa, perché anche io ho sbagliato.»
    «So che sono passati soltanto quattro mesi da Parigi, ma in questo periodo sono successe tante cose, e... non credo di essere la stessa persona che ero allora. Credo... credo di essere più forte, in un certo senso.»
    «Jared mi ha raccontato di tua madre. Mi ha detto che è tornata nella tua vita.»
    «Sì, e cinque minuti dopo essersi rifatta viva mi ha detto che ho un fratello di quasi dodici anni» aggiungo, chiedendomi per un istante come stia Luca. Non lo sento dal giorno prima della mia partenza, e da quando ho accettato di costruire un rapporto con lui non ho mai lasciato passare un giorno senza chiamarlo o mandargli un sms. «Mi ha chiesto di conoscerlo, perché insieme ad Emanuele e Francesca sono la sola famiglia che gli resti. Lo scorso anno ha perso suo padre.»
    «Non deve essere stata una passeggiata, per lui. Insomma, so cosa significa crescere senza un genitore. E certo, anche tu lo sai.»
    «All'inizio volevo mandarla al diavolo. Mi ci sono voluti anni di analisi per arrivare a capire che l'assenza di mia madre è stata la causa di quasi tutti i miei problemi, e quando l'ho vista tornare così all'improvviso avrei voluto...» Mi fermo, indecisa sui termini da usare, ma subito decido di lasciar perdere la ricerca. «Solo che poi ho incontrato lui, e mi è sembrato così identico ad Emanuele che... non sono proprio riuscita a rifiutarmi di conoscerlo. È un ragazzino straordinario.»
    «Condivide con te metà del proprio DNA. Mi sembra piuttosto ovvio che sia un ragazzino speciale» replica lui, strofinando il naso contro il mio collo come un gatto impegnato a fare le fusa – il che mi fa pensare a Solo, rimasto a casa con mio padre.
    «E poi ho preso un gatto.»
    «Hai preso un gatto?»
    «I miei padroni di casa hanno trovato una cucciolata orfana nel cortile del palazzo, e mi hanno chiesto se ne volessi uno. Non so che cosa mi sia preso, ma ho accettato. L'ho chiamato Solo.»
    «Solo come Han Solo? Non ti facevo una fan di Guerre Stellari
    «No, Solo nel senso di... beh, di qualcuno che non ha nessuno. L'ho chiamato così perché i fratelli lo escludevano dal gruppo. Mi ha fatto pena, mi sembrava un nome perfetto per lui. Fa un sacco di fusa a tutti quelli che entrano in casa. Alice dice che secondo lei è un modo per punirmi perché odia il nome che gli ho dato.»
    Shannon si lascia andare ad una risata, e nonostante per qualche secondo tenti di fingere il broncio, dopo un po' mi è impossibile non lasciarmi andare all'ilarità. «Beh, per tua fortuna Bruce è molto tollerante nei confronti del mondo felino» sorride, passandosi una mano sugli occhi per asciugarli dalle lacrime.
    «Che c'entra Bruce con il mio gatto, scusa?» domando, seriamente confusa dalla sua affermazione.
    Il suo viso torna a farsi serio, mentre si volta di nuovo per guardarmi negli occhi. «Beh, forse dirai che corro troppo, ma non riesco a non pensare sulla lunga distanza. Sai, nel caso che noi due...»
    «Intendi... pensi che un giorno tu ed io potremmo andare a vivere insieme?»
    «Ti sembra un'idea così strana?» mi domanda, posando una mano sul mio fianco.
    «Non lo so» sussurro, abbassando lo sguardo. «Fino a sei mesi non pensavo nemmeno che ti avrei mai visto nudo. Non ho mai pensato che... ma perché siamo finiti a fare questo discorso?»
    «Non lo so» mormora, carezzandomi il fianco con aria indifferente. «Forse... è solo che stavo ripensando a quello che mi hai detto ieri sera, quando eravamo sulle colline.» Capendo immediatamente a che cosa si sta riferendo, non oso nemmeno pensare di alzare gli occhi. «Che cosa avresti fatto se quel dubbio fosse diventato realtà? Mi avresti mai detto di essere incinta?»
    «Devo essere sincera?»
    «Dicono che quando si è ubriachi o nudi si tende sempre ad essere sinceri, perciò... sì, vorrei che fossi sincera. Anche se la verità dovesse essere brutta.»
    «Non credo che te lo avrei detto» sputo fuori, consapevole che qualunque giro di parole non renderebbe la mia affermazione meno repellente. «La mia famiglia è sempre stata piuttosto aperta da quel punto di vista, e credo che per loro non sarebbe stato un problema accettare un bambino senza un padre.»
    «E per te lo sarebbe stato?»
    «Non sarebbe stata una passeggiata, questo è sicuro. Insomma, avrei vissuto per sempre insieme ad un bambino che mi avrebbe ricordato per sempre la storia con te. Un bambino che probabilmente sarebbe stato una copia perfetta di te» aggiungo con un breve sorriso, alzando una mano per accarezzargli i capelli.
    Adesso è lui ad abbassare lo sguardo, in silenzio, e per un momento temo di aver di nuovo rovinato le cose tra di noi. Ma poi lo vedo rialzare gli occhi e puntarli nei miei, e in qualche modo capisco che non è né arrabbiato né deluso da quanto ho appena detto – e subito dopo mi fa una domanda che mi sorprende. «Quindi lo avresti tenuto? Insomma, se fossi stata davvero incinta non...»
    «Non credo di essere troppo giovane per avere un bambino. Mia madre aveva soltanto due anni più di me quando sono nata. E poi non ho mai creduto che esista un'età giusta per avere un bambino. L'istinto materno non ha nulla a che fare con l'età anagrafica. Una donna è pronta quando si sente pronta.»
    «Lo avresti tenuto anche sapendo che ti avrebbe ricordato per sempre la storia con me?»
    Ci penso su per qualche istante, cercando le parole giuste per esprimere quello che penso. «Mi avrebbe ricordato te, e quanto ti avevo amato» sussurro infine. «Non avrei mai potuto non amarlo.»
    Sorride, poi le sue labbra tornano sulle mie, e in pochi istanti mi ritrovo stesa sotto di lui, impegnata a baciarlo come se da ogni breve contatto dipendesse la mia sopravvivenza. Sento le sue mani scivolare sulla mia schiena, cercando la mia pelle sotto le lenzuola calde, e anche attraverso la stoffa sento la sua eccitazione riprendere vigore. «L'ho sognato, sai?» sussurra tra un bacio e l'altro, ricominciando a torturare il mio collo. «Ho sognato che un giorno avresti bussato alla mia porta con un enorme pancione, e che avremmo ricominciato tutto da capo, solo noi tre.»
    «Ti dispiace che siamo solo noi due, invece?» lo stuzzico, mentre le sue attenzioni scendono verso il mio seno.
    «Abbiamo tutto il tempo» mormora, tornando a riprendersi la mia bocca. «Abbiamo tutto il tempo del mondo.»

    «Hai detto che Shannon stava suonando la canzone che hai scritto su di loro?»
    Jared annuisce, continuando a fissare il soffitto. «Per come la vedo io, se sono arrivati a quel punto le cose tra loro si stanno mettendo a posto. Insomma, non dico che le mie canzoni abbiano poteri taumaturgici, però...»
    «Se davvero si rimettono insieme, le cose si faranno complicate. Insomma, se vogliono evitare di finire come l'altra volta dovranno impegnarsi non poco per non rifare gli stessi errori.»
    «Shannon è un uomo forte, quando è con lei.»
    «Anche Daria è una donna forte, quando è accanto a lui.»
    «E allora non credo ci sia molto di cui preoccuparsi. Possono farcela.»
    «Sì, lo credo anch'io.»
    Il silenzio cala di nuovo sulla stanza e sui due corpi stesi immobili sul letto rifatto, ma non dura molto, interrotto all'improvviso da Jared. «Andiamo a fare colazione?»

    Stringo le dita di Daria tra le mie, mentre mi spingo in lei con delicatezza, cercando di non gravare troppo su di lei con il mio peso. Le sue ginocchia stringono i miei fianchi, domandandomi di più, mentre ogni sospiro si perde tra i miei baci. Sta andando tutto alla perfezione, finché Bruce non fa irruzione nella stanza per prendere le lenzuola tra i denti e tirarle via, lasciandoci completamente scoperti. «Bruce, no!» esclamo, smettendo per un istante di muovermi. «Bruce, smettila!» ripeto, sperando che non decida di saltare sul letto. Mi sento piuttosto idiota, e la sensazione non fa che peggiorare quando Daria inizia a ridere. «Non è divertente, sai?»
    «Scusa, ma io mi diverto da morire» ridacchia lei, coprendosi la bocca con la mano libera.
    «Sono felice per te, ma io non mi diverto per niente. Bruce, seduto!»
    «Avrà fame, poverino. Da quanto non mangia?»
    «Questo non lo autorizza a comportarsi da maleducato, non ti sembra?»
    «E dai, vai da lui» mi esorta lei, puntandomi le mani contro il petto per spingermi via.
    «Ma io sto bene qui con te» ribatto, cercando di rubarle un altro bacio.
    «Noi abbiamo tutto il tempo del mondo, no?» sorride, schivando le mie labbra. «Forza, vai da lui.»
    «Se insisti...» sospiro, riuscendo finalmente a vincere le sue resistenze per un bacio e scostandomi con estrema fatica da lei. Scendo dal letto, cercando le mutande, e mentre le infilo esorto Bruce ad uscire, vagamente irritato dal fatto che se ne stia seduto immobile a fissare la mia ragazza. «Forza, mascalzone, in cucina!» Un minuto più tardi Daria ci raggiunge di là, indossando soltanto la biancheria e la mia maglietta. La guardo abbassarsi per carezzare le orecchie di Bruce, mentre io frugo ogni stipetto alla ricerca di un po' di cibo per nutrire il pessimo tempismo del mio cane. «Fantastico, ho finito tutte le scorte» sbuffo, richiudendo di scatto l'ennesima antina. «Mi tocca pure uscire per colpa tua, contento?»
    «E dai, non trattarlo così male» sorride Daria, abbracciandomi alle spalle e posandomi un bacio sulla schiena. «Quanto ci vorrà, una ventina di minuti? Possiamo sopportare la tua assenza per un po'.»
    «Sarai ancora qui quando tornerò?» le domando, voltandomi per poterla guardare negli occhi.
    «Sono senza macchina e non credo di avere abbastanza soldi per un taxi, senza contare che non conosco l'indirizzo di tuo fratello. Mi sembra abbastanza ovvio che sarò ancora qui quando tornerai.»
    «Allora va bene. Mi vesto, vado e torno» sussurro, baciandola ancora.
    «Posso fare una doccia, nel frattempo?»
    «Sei a casa, qui» sussurro ancora, accarezzandole una guancia. «Fruga pure negli armadi, mettiti quello che vuoi. Il bagno è in fondo a sinistra, proprio accanto alla camera da letto. Fai come se fossi a casa tua» ripeto, baciandola di nuovo. È straordinario poter finalmente usare le parole casa e tua nella stessa frase senza aver paura di vederla fuggire – senza troppa paura, almeno. «Ma chiuditi a chiave, non vorrei che questo mascalzone ne approfittasse.»


*



Torino, 13 marzo 2014


    Per quanto gli costi ammetterlo, alla fine dei conti Emanuele sa che Daria aveva ragione quando, poche sere prima di partire per gli Stati Uniti, gli ha consigliato di non perdere tempo e di non guastarsi l'anima con l'odio. All'inizio gli sembrava strano e ipocrita, detto da una che ha passato due terzi della vita ad odiare la madre con ogni fibra del proprio essere, ma ripensandoci, a mente fredda, Emanuele si rende conto che per stabilire un rapporto con Luca non deve per forza far pace anche con Elisa. Gli riesce difficile chiamarla mamma, considerando che non la vede dall'età di quattro anni, e qualcosa gli dice che la chiamerà per nome ancora per molto tempo. Ma Luca... con lui è tutto un altro paio di maniche. Ha passato così tante sere appostato davanti a casa sua e allo studio della madre da aver capito che Daria aveva ragione, dicendo che si somigliano in maniera incredibile. Emanuele non riesce a guardarlo e a non rivedere se stesso a quasi dodici anni, chino sotto il peso di un'anima troppo matura per la sua età e piegato dalle continue prese in giro dei compagni di classe. Perché che lo prendano in giro è sicuro: un paio di volte ha saltato qualche lezione per guardarlo uscire da scuola, e ciò che ha visto non gli è piaciuto per niente – lo ha visto tante volte scendere gli scalini dell'ingresso con un libro stretto al petto o con la custodia del violino issata su una spalla, e troppe volte ha visto capannelli di bulletti in erba guardarlo male, scansandolo, additandolo come quello strambo, il secchione, il cocco della prof. Emanuele sa che è un'età difficile quella delle medie, lo ha provato sulla propria pelle, e sempre per esperienza personale sa che è ancora peggio se ti manca uno dei tuoi genitori.
    È per questo che una sera, vincendo ogni resistenza e istinto di conservazione, suona al campanello di casa Maresca, trovandosi di fronte i tratti di una donna che somiglia disgustosamente alla sua sorella maggiore.



*



Los Angeles, 13 marzo 2014


    Dopo una lunga doccia calda, infilo un paio di boxer e una maglietta pescati dall'armadio di Shannon, e in attesa del suo ritorno vago senza meta per casa sua, infilando il naso in ogni camera e chiedendomi come sarebbe vivere insieme a lui, riempire i suoi cassetti dei miei indumenti e incasinargli l'armadietto del bagno con flaconcini di smalto e confezioni di assorbenti. Presto però smetto di pensarci, perché il mio stomaco, vuoto ormai da quasi ventiquattro ore, inizia a farsi sentire in maniera imbarazzante. Torno in cucina, sempre tallonata da Bruce, e frugo discretamente in alcuni stipetti, trovando una confezione aperta di biscotti al cioccolato. Masticando furiosamente, e con un secondo biscotto stretto tra le dita, riprendo la mia esplorazione, ritrovandomi di nuovo nello studio. Dopo un attimo di indecisione prendo posto sul seggiolino dietro la batteria, rievocando le sensazioni provate prima del concerto di Parigi, quando Shannon mi ha presa per mano e mi ha fatto sedere insieme a lui dietro i grandi tamburi di Christine, confessandomi per la prima volta quanto la mia presenza nella sua vita fosse importante per lui. Per un brevissimo istante mi sento una vera e propria stronza, perché meno di dodici ore dopo quella confessione così importante ho avuto il coraggio di fare i bagagli e lasciarlo, spezzandogli il cuore e rischiando di rovinargli la vita per sempre. Per fortuna, come in un film, arriva il campanello a distrarmi. Mi infilo il biscotto in bocca e do un paio di masticate decise, mentre corro verso l'ingresso, convinta che sia Shannon. Quando apro la porta, però, mi trovo di fronte un uomo adulto che tiene in braccio un bambino di non più di due anni. Nel vedermi, l'uomo fa un passo indietro e si guarda attorno, forse accertandosi di aver suonato alla porta giusta. «Salve» dice poi, guardandomi con aria confusa, mentre io inizio a pentirmi di aver mangiato quel dannato biscotto. «Sto cercando... Shannon dov'è?» conclude dopo un attimo di incertezza, riservandomi uno sguardo a dir poco sospettoso. «Spero che tu non sia una ladra o una di quelle fan schizzate che entrano nelle case delle star per...»
    «Fono Faria» biascico, spargendo briciole tutto intorno nonostante la mano premuta sulla bocca.
    «Bu-u-us!» interviene il bambino, protendendosi in avanti alla vista del cane – il che mi fa capire che si tratta di conoscenti, o più probabilmente di amici.
    Mi batto il pugno sullo sterno per agevolare la discesa del biscotto, pulendomi l'altra mano sui boxer. «Sono Daria» ripeto, recuperando un briciolo di dignità. «Sono la...» Mi blocco, non sapendo come qualificarmi: fidanzata è troppo, ma anche ragazza sembra eccessivo. Dire la stronza che lo ha mandato in clinica sembra troppo brutto? Decido di sviare il discorso da me per riportarlo su Shannon. «Shannon è uscito per una...»
    «Aspetta, sei Daria?» mi interrompe lui, mettendo giù il bambino e lasciandolo finalmente libero di correre incontro a Bruce, che si accuccia a terra per lasciarsi accarezzare. «Sei la Daria di Shannon?»
    «Sì, sono Daria» ripeto, un po' confusa, chiedendomi se sia il mio inglese ad essere pessimo o se sia lui ad avere qualche problema di comprendonio. «Ad ogni modo, Shannon dovrebbe tornare tra...»
    «Io sono Wayne!» esclama lui, interrompendomi di nuovo. Mi porge la mano con fare entusiasta. «Sono un amico di Shannon» spiega, mentre mi arrischio a ricambiare la stretta. «Probabilmente lui non ti ha parlato di me, ma io di te so tutto!»
    Non so se questo sia un bene o un male, ma decido di tentare un sorriso. «Shannon è uscito per una commissione, ma dovrebbe tornare a momenti» riesco finalmente a dire, mentre il bambino continua a rotolarsi sul pavimento insieme al cane, continuando a biascicare «Bu-u-us» con aria felice.
    «Ah, lui è mio figlio, Ryder» aggiunge Wayne, indicando il bambino. «Shannon è il suo padrino» è l'informazione che decide di aggiungere, forse credendo che Shannon mi abbia parlato almeno di lui. «Accidenti, non pensavo che avrei mai avuto l'occasione di conoscerti di persona. Se me lo concedi, sei anche più carina che in fotografia.»
    «Hai visto una mia fotografia?» domando, sempre più confusa da questa strana visita.
    «Sì, quando Shannon mi ha raccontato di te. Insomma, non dico che non fossi carina anche in foto, ma dal vivo... wow!» esclama ancora, allargando le braccia come a voler abbracciare la stanza. «Oh, tranquilla, non è che ci sto provando, o roba del genere. Sono un uomo sposato e amo follemente mia moglie. E poi sei la ragazza di Shannon, quindi non potrei mai provarci con te. Sarebbe un gesto sleale, e...»
    «Non pensavo che ci stessi provando con me, tranquillo» lo fermo, prima che dica altro. Da quel poco che ho capito, questo Wayne è uno che si lascia prendere dall'ansia e inizia a dire tutto quello che gli passa per la testa, e per quanto questo un po' mi imbarazzi, non posso che prenderlo in simpatia, visto che io ho più o meno lo stesso problema. «Volete aspettarlo dentro? Dovrebbe tornare tra pochi minuti.»
    «Oh, non importa. Ero passato per vedere se stava bene, visto che non ci vediamo da un po', ma non abbiamo molto tempo. Devo portare Ryder dal pediatra e poi tornare subito a casa. Sai, stanno per arrivare i miei suoceri da Seattle, e siamo tutti un po'...»
    Una voce profonda e roca che conosco bene si intromette tra di noi, bloccando l'ennesimo attacco di logorrea di Wayne. «Che diavolo sta succedendo qui?»
    «Io! Io!» replica con un gridolino Ryder, sollevando a fatica dal pavimento il sederino avvolto nel pannolino per correre incontro a Shannon, che posa immediatamente a terra i due sacchi di cibo per cani che portava sotto le braccia per sollevare in aria il bambino, evidentemente felice di vederlo. «Io! Io!»
    «Io è la nuova parola della settimana» spiega Wayne, voltandosi verso Shannon. «Starebbe per zio, o almeno così crede Ashley. Ashley è mia moglie» aggiunge, rivolgendosi di nuovo a me. Ma io sono troppo distratta dalla felicità dipinta sul volto di Shannon per prestare attenzione al suo amico: sto iniziando a pensare che se il dubbio di Natale si manifestasse ora, niente mi impedirebbe di correre subito da lui a dargli la notizia, perché i suoi occhi la dicono lunga – per quanto lo conosca ancora poco, per quanto non posso essere certa che tra noi durerà per sempre, so per certo che quando arriverà il momento, se mai arriverà, Shannon saprà essere un padre meraviglioso.
    «Non mi hai detto che saresti passato. Mi sarei fatto trovare in casa.»
    «Oh, nessun problema» replica Wayne con una scrollata di spalle. «Mi ha aperto la tua dolce metà» aggiunge, e io vorrei soltanto che il pavimento mi inghiottisse.
    «Almeno ti sei presentato, razza di troglodita che non sei altro?» lo rimbecca Shannon, rimettendogli tra le braccia un riluttante Ryder. «Scusalo se si è comportato male, ma è un maleducato di prima categoria» aggiunge, guardandomi.
    «Si è comportato benissimo, tranquillo.»
    «Entrate, vi offro qualcosa» riprende Shannon, tirando su i sacchi attorno ai quali Bruce ha iniziato a saltellare con aria famelica.
    «Grazie, ma dobbiamo proprio andare. Devo portare questo pigrone dal pediatra e tornare subito a casa per aiutare Ashley. Domani arrivano i suoi, è completamente fusa. Siamo soltanto passati a fare un saluto, e ora ce ne andiamo. Vero, Ryder? Andiamo dal dottore e poi torniamo a casa a farci sgridare dalla mamma» aggiunge, rivolgendosi al bambino con un tono dolcissimo.
    «Mamma! Mamma!» ripete il piccolo, battendo le mani con gioia.
    «Comunque casomai ci sentiamo più tardi» riprende Wayne, e per quanto provi ad essere discreto, non riesco a non accorgermi dell'occhiata decisamente eloquente lanciata a Shannon. «Scusate ancora per il disturbo. Forza, campione, saluta lo zio Shannon e Bruce. E anche Daria, naturalmente.»
    «Ciao, io! Ciao, Bu-u-us! Ciao... Daia!» aggiunge dopo un momento di incertezza, agitando verso di me la manina paffuta.
    «Ciao, Ryder» rispondo, aspettando che siano a metà del vialetto prima di richiudere la porta. «Hai un amico decisamente...»
    «Fuori di testa? Puoi dirlo tranquillamente, non mi offendo. Tanto normale non è» mi interrompe, aprendo uno dei due sacchi e versando qualche crocchetta nella ciotola di Bruce, che si fionda sul cibo come se non mangiasse da secoli.
    «Stavo per dire particolare» concludo in un sorriso, ripensando al fiume di parole che mi sono vista riversare addosso. «Ha detto che gli hai parlato di me. E che gli hai mostrato una mia fotografia. Spero almeno che fosse una foto decente, altrimenti ti uccido.»
    Lo guardo perdersi in una risata, mentre sistema gli acquisti in un angolo della dispensa. «Gli ho parlato di te perché è uno dei miei migliori amici. Lui è per me quello che Alice è per te. E la foto che gli ho mostrato è quella che ci siamo fatti scattare dai giapponesi la prima volta che sono venuto a trovarti a Torino» aggiunge, avvicinandosi a passo lento.
    «Quella foto è orrenda!» protesto, puntandogli un indice contro il petto prima che sia troppo vicino.
    «Sul serio? Io la trovo meravigliosa» replica, senza lasciarsi intimidire.
    «Beh, allora hai bisogno di un buon oculista.»
    «No, tutto quello di cui ho bisogno è qui» sussurra, riuscendo finalmente ad abbracciarmi per stamparmi un bacio sulle labbra. «Hai mangiato i miei biscotti?» domanda subito dopo, accorgendosi delle briciole sul mio viso e sulla maglietta.
    «Un paio» confesso. «Avevo fame.»
    «Buon per te, perché mentre ero fuori ho pensato anche al tuo stomaco, non soltanto a quello di Bruce» ribatte, lasciandomi andare. «Ho lasciato le buste in macchina, vado e torno.»

    «Allora, la tua tesi come sta andando?» domanda Jared, rigirando due hamburger di soia sulla piastra rovente.
    «Malissimo» replica Alice, affettando i pomodorini da aggiungere alla ricca insalata che è stata incaricata di preparare. «Inizio a credere di aver scelto un argomento troppo vasto. Sono sommersa di informazioni e non riesco a scegliere quelle davvero importanti.»
    «Dev'essere frustrante.»
    «Frustrante è un termine riduttivo. La mia stanza inizia a somigliare alla biblioteca di Alessandria, ci sono fogli e libri ovunque. Ci sono giorni in cui vorrei soltanto dare un calcio a tutto, trasferirmi in Brasile e aprire un bar sulla spiaggia.»
    «In Brasile con una pelle come la tua? Ti scotteresti dopo un giorno soltanto» la prende in giro lui, girando ancora una volta gli hamburger. «Io qui sono quasi pronto. Tu a che punto sei?»
    «Ci sono quasi» risponde lei, rovistando sulle mensole alla ricerca di alcune spezie. «Mi sfugge il motivo per cui tieni i premi che ricevete sulle mensole della cucina. Non esiste un posto più appropriato?»
    «Non lo so, non mi sono mai preoccupato di cercargli un'altra sistemazione, e alla fine mi sono abituato alla loro presenza. Anzi, direi che adesso sono piuttosto affezionato alla mia cucina piena di inutili trofei.»
    «Sono felice per te, ma io dove lo cerco il pepe? In bagno o in garage?»
    «No, quello lo conservo in camera da letto» scherza ancora lui, rivolgendole un sorriso malizioso.
    «Molto divertente, ma dubito stessimo parlando della stessa cosa» replica lei, smontando ogni tentativo di flirt. Se vuole tener fede al proprio proposito di non lasciarsi coinvolgere da Jared, deve evitare ad ogni costo qualsiasi situazione ambigua, per quanto le costi rinunciare talvolta a ridere con lui.

    «Sapevo che doveva esserci una fregatura, da qualche parte» borbotta Daria, agitando la padella per far rosolare al punto giusto la pancetta tagliata a cubetti.
    «Non è colpa mia se sai cucinare meglio di me» rispondo, finendo di apparecchiare. «E poi dobbiamo tener fede allo stereotipo, no? Sei italiana, dunque una chef nata» aggiungo, abbassando la voce e avvicinandomi per abbracciarla da dietro.
    «E dai, non fare così!» esclama con una risatina nell'istante in cui sente le mie labbra sfiorarle il collo.
    «Perché, ti sto forse distraendo?» le domando, senza cedere di un solo millimetro.
    «E non poco» risponde lei, aggiungendo qualche spezia nella padella. «Se continui di questo passo, rischio seriamente di bruciare il pranzo» aggiunge, mentre le mie mani scendono lentamente sul suo ventre, tenendola stretta al mio corpo.
    «Poco male. Potremmo sempre ordinare una pizza e farcela consegnare a casa. Non sarebbe la prima volta, no?»
    «No, ma le altre volte non ero affamata come adesso. Se non mangio subito qualcosa rischio di azzannare Bruce, e non mi sembra il caso» replica, tirando su dalla pentola un maccherone per testarne la cottura. «Va bene, ci siamo!» annuncia con entusiasmo, spegnendo la fiamma. La lascio andare a malincuore, allontanandomi per lasciarla libera di muoversi senza impedimenti. La guardo muoversi con una naturalezza estrema, neanche avesse passato la vita in questa cucina. La guardo e sorrido, sperando che non decida mai più di andarsene, perché mai come in questo momento ho avuto la certezza che Daria sia fatta per vivere accanto a me. «Perché mi guardi così?» mi domanda all'improvviso, accorgendosi di avere addosso il mio sguardo.
    Scuoto appena la testa, senza riuscire a nascondere il sorriso. «Niente, è solo che... sembra che tu abbia vissuto in questa casa per tutta la vita.»
    «E questo è un male?»
    «Secondo te lo è?»
    Abbassa lo sguardo, fingendosi impegnata a far saltare la pasta, ma so che dietro la sua apparente indifferenza si cela un cervello che gira alla velocità della luce, cercando di darsi una risposta. «Non lo so» replica infine, senza preoccuparsi di celare la propria mestizia. «Credo di non aver ancora avuto il tempo di realizzare che cosa stia succedendo. Fino a ieri mattina ero convinta che mi avresti rispedita nel mio Paese a calci nel sedere, e invece sono qui, ventiquattro ore dopo, a prepararti il pranzo. Ammetto di essere un po' confusa.»
    «Essere confusi è naturale. Sarei preoccupato se non lo fossi.»
    «Non mi piace essere confusa. La gente finisce sempre col fare cose idiote, quando è confusa.»
    «Cose idiote tipo... abbandonare l'amore della propria vita in una stanza di hotel con una lettera infilata in un libro?»
    Sul suo volto compare finalmente un sorriso. «Sì, esattamente quel genere di cose idiote. Non voglio più arrivare a quel punto. Non voglio più far soffrire le persone che amo. E nemmeno io voglio soffrire ancora.»
    «Nessuno soffrirà più. Te lo prometto» le sussurro, avvicinandomi di nuovo per darle un bacio sulla guancia. «Però adesso sbrigati, ho una fame che non ci vedo!»


*



Torino, 13 marzo 2014


    «Ciao, Emanuele» si sente apostrofare, e l'istinto più naturale è quello di voltarsi per capire da dove provenga quella voce. Davanti ai suoi occhi compare l'immagine di un ragazzino che gli arriva sì e no al petto, un affarino dall'aria curiosa che gli ricorda molto – forse troppo – l'immagine che lo specchio restituiva all'incirca dieci anni fa.
    «Come sai chi sono?» domanda con aria sospettosa, confuso dalla sicurezza del tono che lo ha spinto a voltarsi. Si è presentato alla porta di Elisa convinto di poter contare sull'effetto sorpresa, ma l'assenza di incertezza nella voce di Luca gli ha fatto capire che ogni sua strategia è destinata a fallire.
    «Daria mi ha fatto vedere una tua foto. Ero curioso di vedere come fossi fatto. Lei continuava a dire che ti somiglio tanto.» E non ha tutti i torti, pensa Emanuele, senza riuscire a staccare gli occhi dagli occhiali dalla forma squadrata, le lunghe dita da violinista, lo sguardo tipico di chi è abituato a cercare sempre il significato di tutto ciò che gli succede intorno. «Aveva ragione?» incalza Luca, tradendo la propria curiosità.
    Emanuele non riesce a smettere di fissare quel fratello appena trovato, scoprendo ad ogni secondo che passa una nuova somiglianza – lo guarda negli occhi, e in quegli occhi rivede se stesso, il proprio passato, il ragazzino solitario e schivo che è stato, e il giovane uomo complicato che spera di riuscire a non essere mai più. Sono anni che cerca di cambiare, Emanuele, che combatte contro se stesso per uccidere i demoni che lo tormentano ed essere l'uomo sereno che ha sempre sperato di diventare, ma trovarsi di fronte Luca lo rimanda indietro nel tempo, indietro fino alla propria adolescenza, e lo rimette davanti ad un riflesso che credeva di aver dimenticato. «Qualche tratto in comune c'è» risponde, cercando di mostrarsi evasivo per evitare di scoprire subito tutte le proprie carte. «Speravo che potessimo fare due chiacchiere. Se ti va, naturalmente.»
    «Certo che mi va» risponde Luca, e nonostante cerchi di trattenere l'emozione Emanuele sa che è felice di quel risvolto – lo sa, perché prova lo stesso strano senso di soddisfazione. «Vieni in camera mia, è da questa parte.» Emanuele china il capo e lo segue, stringendosi addosso la cinghia della borsa e ignorando sua madre: le ha rivolto appena due frasi, e si sente come se avesse detto due frasi di troppo. Segue Luca lungo il corridoio, e chiudendosi la porta alle spalle tira un sospiro di sollievo. Poi si volta, trovando di nuovo gli occhi del fratello fissi nei propri, e la paura torna a conquistare il suo giovane cuore martoriato.



1Io ti guardo negli occhi e vedo lontano il tempo che ho perso. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone La neve se ne frega di Luciano Ligabue, contenuta nell'album Mondovisione (2013).
   
 
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