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Autore: Manto    03/06/2015    7 recensioni
"Lui si chinò verso di me, e io indietreggiai.
Le sue mani erano ancora sporche del sangue di mio padre.
Con quelle mani, mi prese il volto, me lo alzò.
Lo fissai, il gigante che chiamavano Aiace, cercando di apparire coraggiosa.
Vidi i suoi occhi cangianti, ne rimasi rapita.
La mia sete di vendetta, i miei impulsi suicidi si sfaldarono, sotto la forza di qualcosa che ancora non potevo capire."
Frigia, al tempo della grande Guerra di Troia.
Da una parte la giovane Tecmessa, principessa di un regno ridotto in cenere, prigioniera di un terribile nemico venuto dal Grande Mare; dall'altra, Aiace Telamonio, campione dell'esercito greco con la sofferenza nel nome, dall'aspetto di un gigante e dal coraggio di un leone.
Un solo sguardo, e una forza più grande della guerra stessa giocherà con i loro destini, portandoli all'immortalità.
Ispirato alla bellissima tragedia "Aiace" di Sofocle, il personale omaggio a una delle coppie più belle, e purtroppo poco conosciute, della mitologia greca.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Immortali'
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III - Destino




Quante volte fissavo l'alba e sorridevo, pensando che sarei stata io l'artefice del mio Destino.
Ora lo so, voi Dee del Fato ridevate, udendo i miei pensieri.
Quanto ridevate.


L'afa del pomeriggio non si dileguò con l'avvento della nera notte, ma strisciò nelle nostre stanze, spingendoci a rigirarci nei nostri letti, incapaci di prendere sonno.
Tormentata dal caldo, uscii dal palazzo. La luce lunare rischiarava con dolcezza il paesaggio, e le acque del lago ad ogni movimento brillavano come argento liquido. Un lato di esso rimaneva però nell'oscurità: e in queste tenebre si celava lui. E non era solo.
Qualcuno lo accompagnava, ma non era re Odisseo.
Il buio sembrava splendere mentre Lei si muoveva. Ho imparato ben presto a riconoscere la presenza di un Dio.
Girai lo sguardo e feci per andarmene, quando sentii i suoi occhi su di me. “Principessa”, mi chiamò il re di Argo, e la luce stessa tremò al suono della sua voce.
Mi fermai, attesi che mi raggiungesse. Quando sentii il suo respiro sulla mia nuca, parlai. “Eri con un Dio. Non mi era permesso assistere.”
“Spesso gli Dèi si rivelano agli uomini.”
“Ma i tuoi sono diversi dai miei. Temo la loro presenza nella mia dimora.”
“Dovresti temere anche chi essi proteggono.”
Mi girai e lo fissai negli occhi color zaffiro. “La crudeltà, l'arroganza, la sete di vendetta e di potere sono comuni a tutti gli uomini. Perché dovrei temere te, re acheo, più di un licio o un frigio? Siamo tutti mortali, tutti abbiamo le nostre ombre e le nostre luci, miste insieme e celate nel cuore.
Cosa ti rende superiore e più pericoloso di altri, mio re? Più pericoloso di me?”
Il suo sguardo scintillò per l'ira. “Barbari, ecco cosa siete. Credete che il vostro regno possa durare per sempre, protetti dal vostro oro e dalla vostra superiorità. Non riuscite a vedere la grande rovina che vi sovrasta, e sta per abbattersi su di voi senza pietà.
Siete colpevoli di un crimine orrendo, ma non volete pagarne il fio. Lo farete comunque, con il vostro sangue e le vostre lacrime.”
“Bada, re di Argo”, sibilai, “non osare oltraggiare il mio nome. Io non sono come quelle che dimorano tra voi, fantocci privi di carattere che chiamate, in modo indegno, donne. Io non temo le vostre violenze, né la mia morte. Né le conseguenze della tua.
La mia non è superbia: ogni cosa che prometto, mantengo.”
Non riuscii ad evitare il colpo, e mi ritrovai a terra, tramortita. Quell'animale mi prese sotto le ascelle, mi alzò e mi spinse contro un albero; mi afferrò i capelli, mi costrinse ad alzare il volto.
Rantolai, e lui sorrise. Un sorriso pieno di oscenità. “Godrò nel vederti resa schiava. Godrò nel vedere il tuo palazzo bruciare, tutto ciò che hai di più caro oltraggiato.
Godrò quando ti vedrò chinare il capo e chiedere pietà e perdono.
Bada a te: non osare sfidarmi. Sarebbe un peccato, se i tuoi stupendi occhi si prosciugassero per l'interminabile pianto.”
Gli afferrai i capelli dorati, con forza, e lui strinse i denti. Ancora qualche istante, e mi avrebbe ucciso. Prima che lo facesse, gli sputai in pieno volto. I suoi occhi si incendiarono, e mi diede un altro schiaffo.
La sua ombra si ingrandì, sotto i miei occhi atterriti e sotto la pallida Luna. Un Dio lo stava sostenendo, chiedeva il mio sangue.
Non abbassai il capo. Non gli avrei dato quella soddisfazione.
Un altro colpo, violentissimo. Men, Signore della Morte, iniziò ad avvicinarsi.[1]
“Diomede, fermati. Lei non vale la tua ira. È solo una donna.”
Il re di Argo mi lasciò cadere, indietreggiò. “Insubordinata, selvaggia come tutte le orientali”, sibilò, quindi Odisseo l'allontanò; attese che se ne andasse e quindi venne da me, che giacevo al suolo. Si chinò, e mi prese il volto tra le mani, delicatamente. “Diomede non è proprio la persona adatta con cui litigare, principessa. Perdonalo.”
Mi sfiorò il labbro, e io lo guardai con odio. “Non osare toccarmi.”
Odisseo scoppiò a ridere. Mi prese tra le braccia e mi portò nel palazzo, nei bagni reali; dopo avermi spogliato e immerso nell'acqua, senza dire una parola iniziò a lavarmi il corpo pieno di graffi. Intanto che lo faceva, intonò una canzone, in una lingua che mai avevo udito prima; forse quella più antica della sua isola, che solo lui conosceva. Quante cose avrebbe conosciuto lui, lui solo.
Io mi strinsi le ginocchia al petto, chiusi gli occhi. Il suo tocco era delicato, ma sulla mia pelle lo sentivo come una frustata. Temevo quello che sarebbe successo dopo. Perché sapevo che non avrei vinto, contro di lui.
Qualche lacrima cadde dai miei occhi. Sempre cantando, lui l'asciugò. Alla fine si tolse il mantello, e mi avvolse in esso. Mi prese di nuovo tra le braccia, mi portò nelle mie stanze.
Io mi divincolai dalla sua presa e corsi a rifugiarmi nel letto, tremando. Non avrei avuto abbastanza forza. Avrebbe vinto lui.
Lui non si mosse, ma rimase sulla porta a fissarmi, per un tempo che mi parve interminabile.
Ingannevole, multiforme Odisseo. In quel momento non hai voluto farmi del male, per pietà, forse per rispetto a mio padre; ma avrei preferito che tu mi avessi violato lì, sotto il mio stesso tetto, piuttosto che subire quello che ci avresti fatto dopo.
Non chiusi occhio per tutta la notte, per il terrore. Quando sentii forti e continui rumori, scesi dal letto. Mi affacciai alla finestra, e vidi i due re che sui loro carri andavano incontro all'alba.
Rimasi a guardare la polvere che le ruote sollevavano, e mi accorsi che un'altra figura si stava dirigendo verso la mia casa. Quando vidi il purosangue che cavalcava, completamente nero tranne che per una macchia bianca in fronte, come una stella che fende le tenebre, sobbalzai e corsi fuori dal palazzo.
“Otreo!”, urlai, andando incontro al nipote della regina Ecuba, e lui fermò il cavallo e smontò. Mi prese tra le braccia, mi fece volteggiare.
“Tecmessa, mia adorata!”, disse, regalandomi uno dei suoi splendidi sorrisi.
Arrossii sotto il suo sguardo, e con le dita gli strinsi le spalle, assaporando l'odore deciso della sua pelle. Poteva essere il mio sposo. Lo avrei accettato con gioia.
Furono soltanto gli Dèi a volere diversamente, o anche io, in fondo al mio cuore, sapevo che ero destinata ad un altro?

L'affascinante Otreo dai lunghissimi capelli neri mi prese il volto tra le mani. “Ho un dono per te, mia amata principessa. Spero che tu ne abbia uno uguale”, disse, sfiorandomi il ventre.
Io ridacchiai, gli morsi con malizia il collo. Lui mi baciò sulle labbra, quindi guardò dietro di me e aprì le braccia.
Mi girai, e vidi che mio padre ci guardava sorridendo, a poca distanza. “Amato figliolo, il tempo non ha avuto pietà di me, ma della tua persona si è dimenticato. Il Sole deve provare forte invidia per la tua grande bellezza, e per la tua velocità. Ma la risposta a quest'ultima domanda, forse, è sotto i nostri occhi.”
Disse questo, il re mio padre, e mi guardò. Sapevi che lo avrei accettato con gioia, padre.
Sapevi che con lui sarei stata felice, e non avevi paura di lasciarmi andare... nonostante fossi l'immagine, l'unica rimasta, della tua perduta regina.

“Ti ringrazio, re Teleuta, per il tuo invito. Non negherò che la causa della mia celerità sia il desiderio di vedere tua figlia.
Ma non ti chiederò oltre, se non ospitalità.”
Mio padre sorrise, annuì. “E allora, che il palazzo risuoni delle tue risate, re di Otrea.”
Sì, quel giorno il palazzo risuonò delle sue risate, e i miei occhi si persero spesso nei suoi. Le stanze erano state riempito di fiori selvatici, i preferiti di Otreo, e il loro profumo intenso e aspro mi rendeva la testa leggera, mi solleticava i pensieri più segreti.
Più guardavo il re di Otrea più lo desideravo. Non mi importava che lui non fosse più giovane, che quarantacinque inverni pesassero sulle sue ampie spalle: lui doveva essere mio, e io dovevo essere sua.
Quando calò la notte, infine, scese il silenzio. Mio padre si congedò presto, e lo stesso feci io.
Mi voltai verso Otreo, gli lanciai uno sguardo penetrante che gli fece interrompere il noioso discorso che stava tenendo con gli altri nobili; quindi me ne andai.
Non mi spogliai quando entrai nel letto, perché doveva essere lui a farlo; non dovetti attendere molto il suo arrivo, perché non avevo nemmeno fatto in tempo a sdraiarmi, quando sentii i suoi passi. Sorrisi, quando lui apparve sulla soglia. Mi alzai, sciolsi la cintura che sosteneva la tunica e la feci scivolare lentamente ai miei piedi. Mentre lo facevo lui entrò, si avvicinò al talamo.
Io mi chinai verso di lui, presi una ciocca di capelli e l'arrotolai intorno alle dita. “Gli uomini dicono che il tuo ardore in battaglia travolge ogni cosa, toglie il respiro. Questa notte perché non combatti con me?”, sussurrai, penetrando con l'altra mano sotto la sua tunica, facendo scorrere le dita sul suo petto.
Otreo sorrise, mi accarezzò le gambe; quindi salì sul letto e mi intrappolò sotto di sé, con un gesto fluido mi liberò della veste. “Sarà una lunga lotta. Non mi arrenderò facilmente.”
Appoggiai la fronte contro la sua. “Fai del tuo meglio, guerriero”, sussurrai.
Lo amai più volte quella notte, stringendo i suoi lunghi capelli con la bocca, godendo delle sue forti prese e dei suoi baci audaci che mi strappavano gemiti e tremiti. Sotto le sue dita esperte le parole di Odisseo, le ingiurie di Diomede si dispersero come cenere nell'aria, e dopo tante notti quando mi addormentai, esausta, non sognai.
Invece quando mi svegliai, il mattino seguente, il mio dolce Otreo non era più lì, ma il sentore della sua pelle permeava tutto il letto. Su di esso, nel punto in cui aveva dormito, era appoggiato un meraviglioso bracciale d'oro. Lo infilai al polso e mi rotolai a lungo, ricordando ogni istante della notte passata insieme; quindi scesi, con l'intenzione di rapirlo per una cavalcata.
Lo trovai nella sala del trono, intento ad ascoltare mio padre parlare.
Mi bloccai. Re Teleuta portava la sua armatura da guerra, e dal portale fissava tristemente il lago dove i bambini e le serve stavano giocando. “La loro bellezza spaventa la stessa Frigia. La gente mormora di cedere entrambe al nemico, per poter salvare la nostra terra.
Otreo, io mi fido di te: conosco i sentimenti di mia figlia e i tuoi, e so che saprai proteggerla. Porta lei e Tealissa più lontano che puoi, dove la guerra non possa trovarle. Se le dovessero prendere, gli Achei non avrebbero alcuna pietà di loro.”
Lasciai la sala del trono di corsa, senza ascoltare una parola di più, e ritornai nella mia stanza. Mi presi la testa tra le mani, e attesi che mio padre mi raggiungesse. Arrivarono entrambi, mio padre e Otreo, e io li guardai. “State andando in guerra, vero, padre?”
“Tecmessa...”
“Perché? I guerrieri sono già partiti tempo fa. Il vostro posto è qui.”
“Non più.”
Mio padre fece un cenno e Otreo se ne andò. Quindi entrò nella camera, si sedette sul letto. Con le mani in grembo, lo sguardo assente, sembrava ancora più vecchio.
“Per questo i due re Achei sono giunti qui? A dichiararci guerra perché stiamo aiutando i Troiani?”
Un'ombra passò sul suo viso. La Rovina lo stava marchiando, lo stava già strappando alle mie braccia.
Indietreggiai. Urlai, e caddi in ginocchio. “Non andate, padre! Vi scongiuro! Non lasciatemi!”
Mio padre si riscosse. Si alzò, mi prese tra le braccia. “Otreo ha ricevuto precisi ordini: tu e Tealissa avrete una nuova vita, lontano dalle urla dei soldati e dal terrore del sangue. Quando tutto sarà finito farete ritorno, e io sarò qui ad attendervi.
Bambina mia, non piangere, non piangere. Io devo salvarvi tutti.”
Fuori dal palazzo risuonò un corno. Morte, diceva.
“Padre... ti prego, rimani con me.”
“Addio, Tecmessa.”
“Padre...”
“Addio.”
Se ne andò, e io lo seguii, reggendomi a malapena sulle gambe.
Il suo cavallo era già pronto; le sue guardie attendevano.
Si girò per l'ultima volta verso di me, mi salutò. Non ebbi il coraggio di rispondere.
Montò a cavallo; attese qualche istante, infine partì. Sparì in fretta, e quando la polvere svanì, lui non c'era più.
Sbarrai gli occhi; premetti una mano sul petto, e urlai. Un urlo atroce, acuto, continuo.
Otreo fu l'unico ad avere il coraggio di avvicinarsi a me. Mi prese tra le braccia, mi strinse fino a togliermi il fiato. “Io sono qui. Non sarai sola.”
Con furia mi graffiai una guancia; il sangue colò, gli imbrattò la veste candida. “Lo vedi questo sangue, Kubile? Lo dono a te, affinché mio padre possa tornare.
Mi senti, Grande Madre? Dove sei?”, urlai.
Ora so che non potevi nulla.

Scese la notte, che fu spesso mia amica.
Nell'armeria reale, passai le dita sopra l'armatura di mio padre, sul suo arco e sul lungo pugnale dalla lama ricurva, che da piccola bramavo avere.
Chiusi gli occhi. A qualche camera di distanza, sul letto di mio padre, stava dormendo Otreo; e io, poche ore prima, su quello stesso letto ero stata amata da lui, come suole esserlo una moglie.
Morte o Vita, Sangue o Amore? Cosa scegli, Tecmessa? diceva una voce, nel mio cuore.
E io scelsi.
Scelsi.
Scelsi, e iniziai ad armarmi.



NOTE DELL'AUTRICE


[1] Men era il dio della Morte per i Frigi. Veniva raffigurato a cavallo, accompagnato dal Sole e dalla Luna, con in mano patere (coppe sacrificali) o uno scettro.
Era anche il custode dei mesi.
   
 
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