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Autore: Rei_    04/06/2015    6 recensioni
(!) Attenzione! Questa storia parla di bullismo, saranno presenti alcune scene di violenza! (!)
Michele, 27 anni, è appena entrato in un mondo a lui ancora sconosciuto: palazzo Montecitorio.
Lui, giovane insicuro, nasconde un lato fragile causato da un passato buio che vuole dimenticare. A differenza di Nicolò, che invece non ha mai perso nella sua vita e anche nel mondo politico a breve acquisterà una crescente leadership causata dal suo forte carisma naturale.
Due persone di partiti diversi, che inevitabilmente finiranno per scontrarsi, ma se è vero che l'odio è una forma d'amore allora il loro rapporto è destinato presto a cambiare...

Spalancò le braccia nella neve e allargò le gambe. Sarebbe dovuta uscire disegnata la figura di un angelo, ma mentre Michele chiudeva lentamente gli occhi, vinto da quell'insolita stanchezza, pensò che era impossibile che uno come lui potesse essere capace anche lontanamente di assomigliarci.
Perchè gli angeli non finiscono nudi nella neve.
Non vengono chiusi negli sgabuzzini.
Gli angeli sono luminosi, e lui invece era fatto di buio.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lemon, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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Quando si decise ad aprire quella dannata porta, ebbe l'impressione di aver lasciato dentro quel bagno un pezzo della sua anima.
Sciacquò il viso, guardandosi allo specchio. Aveva gli occhi spenti e rassegnati di una persona che è stata costretta a fare ciò che non voleva.
Tornò in aula. Non sapeva quanto tempo esattamente fosse passato, ma la seduta era chiusa. Non c'era più nessuno dentro l'emiciclo e pochi ancora nel corridoio. Prese l’agenda aveva abbandonato sul banco e uscì nel Transatlantico, il corridoio principale, con lo sguardo basso e le mani in tasca. Era un metodo che funzionava quando non si volevano incrociare i giornalisti, che nei momenti difficili come quello assomigliavano più a degli avvoltoi. Peccato che chi si trovò davanti era molto peggio di un giornalista.
Arturo.
«Michele» iniziò, «so quello che stai pensando, ma lascia che ti dica due parole».
Il giovane annuì passivamente.
«Non starò qui a farti il sermone da vecchio su cose che entrambi sappiamo. Ci sono due modi per fare politica. In uno porti avanti solo i tuoi valori, le cose che ritieni giuste, e quando queste cose non sono giuste come vuoi tu, le rifiuti. Nell’altro modo… cerchi di fare ciò che è giusto, ma ciò che non puoi cambiare lo accetti anche se non ti piace, perché solo accettandolo puoi portare avanti i tuoi ideali.
Questo è fare compromessi».
Di nuovo, Michele annuì. Sapeva anche questo. Non era il fatto di saperlo che però avrebbe placato la sua amarezza.
«So bene che non è facile, anche io ci ho messo il mio tempo ad accettarlo, sai,» mormorò, «ma non ti servirà a niente continuare a far combattere i tuoi ideali contro la realtà. Prima la accetti, meglio starai. Capisci?»
Michele annuì e abbozzò un sorriso finto. Voleva bene ad Arturo, ma
 
in quel momento ciò di cui aveva meno bisogno era un rimprovero velato da consiglio paternale.
Salutò Arturo, con la scusa di dover recarsi nel suo ufficio. Una volta girato l’angolo, iniziò a correre freneticamente sulle scale, con l'intenzione di andarsene il più in fretta possibile da quel palazzo.
Voleva stare lontano da tutti, in particolare dal segretario del suo partito, che così subdolamente gli aveva impedito di esercitare il suo diritto democratico di emendare una legge.
Sentì i passi di qualcuno che stava salendo le scale nel senso opposto. Si bloccò, vedendolo. L'altro lo riconobbe in un istante e i suoi occhi verdi si tramutarono in una maschera di odio.
«Mi sono fatto prendere per il culo da te come un idiota!» rise Andreani in un eccesso di sarcasmo, dopo che ebbe superato Michele, fermandosi tre gradini più in su.
Il deputato più giovane non rispose. Avrebbe voluto negare, ma a che sarebbe servito? Non gli avrebbe creduto in nessun caso.
«E dire che c'ero anche cascato! Che stupido sono stato, vero? Tu e il tuo segretario eravate già d’accordo. Volevate fare il giochino per sondare il terreno dalla nostra parte, e intanto fare gli interessi dei vostri alleati di governo. Di fare leggi giuste a voi non importa un accidente!»
Michele strinse i pugni. Non poteva lasciarsi parlare in quel modo. Che ne sapeva lui di quello che aveva fatto? Della sua esitazione nel votare, della sua amarezza?
Fece un respiro, cercando di calmarsi. Non doveva darvi peso. Quell'uomo non era nessuno.
Continuò a scendere le scale a lunghi passi, ma l'altro lo rincorse giù e gli si piazzò davanti, in un gesto di sfida.
«Ah, nemmeno provi a negarlo? Allora è proprio vero! Sei un falso doppiogiochista del cazzo, un burattino di merda che è pronto a sputtanarsi solo per fare carriera!» gridò con rabbia.
Michele evitò il contatto visivo mentre incassava e cercava delle parole per reagire. Non era facile, non con lui davanti, a pochi centimetri dal viso. Ma una punta di dignità spingeva dentro di lui, imponendogli di non lasciarsi umiliare in quel modo.
 
«Tu non sai niente di me. Io non sono quel tipo di persona, chiaro? Quando abbiamo fatto l’accordo siamo stati sinceri. Marchesi ha presentato quell’emendamento senza che lo sapessimo».
Il capogruppo del Fronte restò con la bocca aperta a metà per qualche secondo, spiazzato dalla risposta. Poi, la rabbia riprese il sopravvento.
«Ah, non lo sapevate, eh? E chissà perché alla votazione dell’articolo eravate tutti a favore!» urlò Andreani.
Michele sperò che quelle urla fossero arrivate in qualche corridoio, in modo che qualcuno passasse, salvandolo da quella situazione.
Cosa poteva fare in quel momento, se non rispondere con la verità?
«Lo so, ma non volevo, cazzo! Ho dovuto farlo e basta! Non sarebbe cambiato nulla votando contro!» urlò in risposta.
La frase riecheggiò un po' sulle scale semibuie. Poi accadde tutto molto in fretta. Il viso di Nicolò si indurì in una smorfia severa, la sua mano destra si alzò, il dorso colpì la sua faccia in pieno, gli occhi di Michele si girarono insieme al resto del viso e un rumore sordo riempì il silenzio.
Il giovane chiuse gli occhi, aspettandosi di svegliarsi da un momento all'altro. Non poteva essere reale ciò che era appena successo.
«Tu non vali proprio niente».
Quella sola frase gelida uscì dalla bocca di Nicolò e congelò l'aria intorno a loro. Michele premette forte una mano sulla guancia.
Bruciava insieme all'occhio colpito, mentre l'orecchio aveva iniziato a fischiare in modo fastidioso. Tolse la mano, e si accorse che dal labbro stava uscendo un liquido caldo.
Sangue. Il suo sangue.
Lo sguardo di Nicolò indugiò un po' sul suo labbro rotto. Ma i suoi occhi tradivano ancora tutto il disprezzo che aveva dentro. Michele abbassò gli occhi d'istinto, aspettandosi di essere colpito di nuovo, ma Andreani stava già andando via, riprendendo a salire le gradinate. Aspettò di non sentire più il rumore dei passi, poi si sedette sugli scalini. Estrasse un fazzoletto dalla borsa, portandoselo al labbro per fermare il sangue. Lo premette forte fin quasi a farsi male.
 
Era surreale tutto ciò. Non era possibile che lì, nel tempio della democrazia, un deputato lo avesse schiaffeggiato. Chiuse gli occhi, ma le immagini che stavano facendo capolino nella sua testa non erano quelle della sua camera da letto, l'unico luogo che gli compariva davanti quando gli accadeva di risvegliarsi da incubi in cui era costretto a rivivere il suo passato.
No, le immagini erano quelle di un corridoio di scuola.
 
 
«Tieni Michele, il tuo compito è eccellente! Scommetto che non vedi l'ora di farlo vedere ai tuoi genitori».
«Grazie, maestra!»
Era al settimo cielo. Il suo primo compito delle medie era andato bene, e da quell'anno aveva deciso che si sarebbe impegnato al massimo. Aveva solo undici anni, ma sapeva di essere molto più sveglio degli altri bambini. In matematica riusciva a fare calcoli che gli altri non erano capaci di fare. Chissà, forse in futuro sarebbe diventato uno di quegli scienziati che mandano missili nello spazio, quelli che vedeva sempre nelle riviste con i camici bianchi. Ogni volta che li guardava gli sembrava che avessero nella testa migliaia e migliaia di pensieri che le persone comuni non potevano capire.
«Vieni qui, Michè!»
Un gruppo di bambini sostava appena dietro il cancello della scuola, e sembravano aspettare proprio lui.
«Ti avevo chiesto di darmi una mano durante il compito, e tu non ti sei girato!»
Michele non capì il senso di quella frase. Era naturale che non ci si potesse aiutare durante un compito in classe! Cercò di passare oltre, ma venne prontamente spinto per terra. Cadde con un tonfo. Cercò di tirarsi su facendo forza sulle piccole braccia, ma nel frattempo gli altri lo avevano circondato.
«Ho preso un’insufficienza per colpa tua, e adesso la devi pagare».
Il ragazzo gli tirò un pugno dritto in faccia. Lui indietreggiò di qualche passo, sconvolto. Prima che potesse cercare una via di fuga o una persona qualsiasi a cui chiedere aiuto, un secondo pugno gli atterrò dritto nello stomaco. Michele sentì la testa girare vorticosamente e i polmoni annaspare per la mancanza d'aria. Una stretta lancinante e dolorosa lo costrinse a piegarsi a metà, cadendo sulle ginocchia. I ragazzi intorno risero, visibilmente divertiti.
«Ti serva da lezione!»
Lo abbandonarono lì, piegato in due e dolorante. Gli occhi gli bruciavano, al di fuori del suo controllo.
Era entrato in un incubo, e ancora non sapeva che non ne sarebbe più uscito.
 
 
Riaprì gli occhi. Era ancora lì, sulle scale di Montecitorio, che tremava leggermente. Le sue mani erano diventate umide di sudore, la sua bocca era secca e il sangue sul suo labbro rotto si era rappreso. Si alzò, controllando che intorno non ci fosse nessuno. Corse in bagno e si gettò l'acqua fredda sul viso. La guancia gli bruciò come se vi stesse gettando fuoco e si era tinta di un insolito colorito violaceo.
“Maledizione!”
Camminò a passi svelti verso l’uscita, facendo slalom tra i pochi onorevoli, finché non si trovò al sicuro nel retro di un auto blu. Una volta arrivato a casa, si spogliò completamente. Si fece una doccia lunga e, senza rivestirsi, si buttò sul letto.
La camera sembrava sempre troppo buia, anche con la luce dei lampioni. Il battito del suo cuore non voleva saperne di calmarsi. Il respiro era affannoso, il sudore gli usciva copiosamente da ogni parte del corpo, mentre i pensieri si rincorrevano nella sua mente.
Sapeva come far cessare tutto. Aveva calmanti e sonniferi dentro l’ultimo cassetto, ma aveva giurato a se stesso, anni prima, che non li avrebbe più toccati, anche se per sicurezza li aveva conservati. Si portò le mani ai capelli, tirandoseli dal nervoso. No, non poteva cedere così.
Prese il cellulare. Non poteva combattere questa guerra da solo.
 
Sarebbe stato capace di chiedere aiuto? Compose un numero. Squillò una volta sola.
«Miché?»
«Thomas?» iniziò.
Si bloccò subito. E ora che gli avrebbe detto?
Tacque per un periodo troppo lungo per avere la possibilità di far credere all’amico che si trattava solo di una chiamata di cortesia.
«Tutto bene? Stai pensando ancora al voto?»
Michele si distese sul letto. Non rispose, desiderando ardentemente che Thomas potesse leggergli nel pensiero, risparmiandosi di dovergli raccontare l’accaduto.
«Miché, guarda che ti capisco, anche a me è successo tante volte. Ma quando penso al nostro partito e a tutta la lotta che abbiamo fatto, so che è qualcosa che va oltre le nostre convinzioni ideologiche su una legge del cazzo. Anni fa non eravamo niente, Miché, niente! Ma è grazie a noi che è rinata la politica, l’abbiamo portata per le strade prima di essere in Parlamento, mentre rischiavamo la pelle. Io combatto per le mie idee nel partito, ma non posso metterle prima del partito stesso».
Michele restò disteso sul letto ad ascoltare. Era raro sentir parlare Thomas in modo così serio.
«Ho capito…»
«Daje, Miché. Non ci pensare più! Noi continueremo a lavorare piano piano, e vedrai che i risultati li porteremo a casa».
«Hai ragione. Grazie Thomas».
Si salutarono, e Michele spense il cellulare, buttandolo sul comodino. Per il resto del weekend non sentì né vide nessuno.
 
 
*
 
 
Erano quasi le nove di sera, e Nicolò era ancora nel suo ufficio. Avrebbe tanto voluto lavorare in pace, ma il pensiero di ciò che era appena successo continuava a tormentarlo con incessanti colpi di martello nella testa. Se prima aveva immaginato e desiderato molte volte di fare ciò che aveva fatto, sia in trasmissione sia al loro inutile colloquio nell'ufficio di Greco, adesso dei pensieri angoscianti si erano sostituiti in fretta alla soddisfazione di averlo fatto sul serio. “E se mi denuncia ai questori? Sarebbe la mia parola contro la sua, potrei anche cavarmela. Però perdeva sangue, se gli è rimasto il segno sono bello che fregato! Cazzo, qui succederà un casino!”
Il vicecapogruppo lo guardava dall'altra scrivania. Restavano quasi sempre a lavorare insieme e di solito chiacchieravano per alleggerirsi il carico a vicenda, ma quella sera Nicolò era più silenzioso che mai.
«Nico, la Moni non ti stacca gli occhi di dosso. Fossi in te me la farei».
«Mh»
«Oh, mi hai sentito?»
«Sì, Chià, ti sento».
«Non sarà sta gran figa, ma un culo così io non l’ho mai visto!» Nicolò non rispose. Stava valutando cosa dire nel suo film mentale in cui compariva davanti ai questori della Camera. Forse fare finta di niente sarebbe stata la cosa migliore. Tanto non potevano avere delle prove contro di lui.
«Oggi sei strano», Chiarelli arrivò davanti alla sua scrivania, «che c’è, ti sei innamorato?»
Fece un sorriso alquanto stupido, e Nicolò sentì l’istinto di schiaffeggiare pure lui per i suoi modi odiosi.
«Sono solo stanco. Me ne torno a casa».
Lo salutò in fretta e uscì dal palazzo, montando sulla moto blu. Raggiunse i cento all'ora nel tragitto verso San Giovanni ma non se ne accorse neppure, distratto da altri pensieri.
Entrato in casa trovò Giorgio in salotto, davanti alla tv.
«Ci stanno birre?» urlò Nicolò dall'ingresso.
«Ho appena finito l’ultima!»
«Fanculo».
L'amico fece capolino dal salotto.
«Ma che ti è successo? Hai una faccia...»
«Lascia perdere, è meglio».
 
Sciolse il codino, lasciando i capelli scompigliati liberi di coprirgli una parte del volto, prima di versarsi dell’inutile succo d’arancia analcolico.
«Hai discusso con Chiarelli?»
«No, macché».
Sospirò. A qualcuno doveva pur dirlo. Se non altro perché gli sarebbe servita una mano per uscire dai futuri probabili guai.
«Ascolta, ho fatto una stronzata».
«Nulla di nuovo allora» rise l’altro.
«No, una cazzata vera» rispose serio Nicolò, «c’entra Martino».
«Il raccomandato di SD?»
«Eh,» sospirò Nico, cercando mentalmente le parole giuste per spiegarsi, «non so che cazzo mi è preso, ero incazzato per la storia del voto. L’ho incrociato per le scale e l’ho preso a parole. E lui si è giustificato dicendomi che non voleva votare a favore, ma che tanto non sarebbe cambiato nulla. E lì mi sono incazzato veramente».
«In che senso?» chiese Giorgio, temendo già dove stava andando a parare il discorso.
«Gli ho tirato una sberla».
Nicolò osservò tutte le sfumature del viso dell’amico mentre lentamente passava da uno stupore incredulo ad una smorfia severa.
«Ma sei impazzito? Come cazzo ti è saltato in mente?»
Non rispose, lasciando che un silenzio imbarazzante calasse nella stanza. Non si era mai vergognato così tanto in vita sua. Ora che
l’aveva detto a qualcuno poteva rendersi finalmente conto di quanto avesse fatto un’idiozia.
«Non è che mi è saltato in mente. Non ci ho proprio pensato in quel momento, mi sono fatto prendere dalla rabbia».
«Cazzo!» imprecò Giorgio, «quando ho proposto la tua candidatura pensavo che un po’ di testa ce l’avessi. Tu sei il capogruppo, Nicolò, ti rendi conto? Non solo sei responsabile verso il partito, ogni tua azione influisce su tutti noi! E ciò nonostante alzi le mani così, senza pensarci? Per giunta all’interno della Camera!»
«Basta così, ok?» mormorò a denti stretti Nicolò, rosso per la rabbia e l’umiliazione di essere rimproverato come un adolescente, «le so tutte queste cose, non mi servono prediche. Ho fatto una cazzata e ci penso io a risolverla. Non verrà fuori niente che possa danneggiare il partito».
Giorgio gli rivolse un’ultima occhiataccia prima di tornare in salotto, in silenzio. Nicolò si buttò su una sedia, mettendosi le mani nei capelli. Tirò fuori una sigaretta dal taschino e se la accese.
“Guarda te se mi devo far mettere nei guai da quell’idiota di un raccomandato. E adesso dovrò pure umiliarmi e scusarmi per evitare il finimondo!”
Quella sera i due coinquilini cenarono in silenzio, poi ciascuno si ritirò nella propria camera. Nicolò odiava quello stato di tensione, ma sapeva che sarebbe bastato risolvere la situazione, o almeno provarci, perché l’amico smettesse di portargli rancore. Lo conosceva abbastanza bene. Restò davanti alla TV a guardare qualche talk show, poi passò ad un film d’azione e verso le due decise di andare a dormire, cosa che non fu per niente facile.
Per un’ora intera restò a fissare il soffitto. Ripensò a tutte le volte che si era ritrovato dentro delle risse. Da adolescente aveva frequentato per molto tempo i centri sociali, e molto spesso la sua ira era scattata, soprattutto quando qualcuno sfiorava anche di poco il suo orgoglio, complice lo stato di sballo causato qualche sostanza. Pretendere rispetto dagli altri era sempre stata la regola primaria della sua vita.
Era anche grazie a quella regola che era diventato l’uomo che era: una persona tutto sommato di successo.
Ma ciò che aveva fatto quel giorno, a differenza di tutti gli altri episodi, riusciva a impedirgli di prendere sonno. Rivide più volte la scena nella sua mente, provando addirittura disgusto verso se stesso. E più cercava di ripetersi che in fondo Martino se l’era meritato,
meno quell’argomentazione suonava convincente.
Forse il problema era che Martino era più basso e più esile rispetto a lui, se fosse stato uno della sua stazza non si sarebbe sentito così male. Era riuscito a fargli perdere sangue con un solo schiaffo. Cercò di ricordare quanta forza ci avesse messo, ma non ci riuscì, e il dubbio di aver veramente perso il controllo in quel momento andava e veniva nella sua mente.

Forse, però, non era nemmeno quello il problema. No, il problema principale era che Martino non aveva risposto al suo schiaffo. Non aveva provato a reagire, nemmeno a parole. Era questo che non gli tornava, che riusciva a far sembrare quello scatto d’ira una cosa terribilmente indegna.
Non si poteva definire rissa, quella. Una rissa è quando qualcuno ad un pugno ti risponde con un calcio o con una spinta, e non resta lì a fissarti con quello sguardo che sembra riflettere l'ingiustizia che hai compiuto e te la sbatte in faccia, mettendoti da solo davanti alle tue evidenti colpe.
C’era solo una cosa che poteva fare per non finire nei guai. Una cosa che aveva fatto poche volte nella sua vita: chiedere scusa. Gli sarebbe costato molto, ma era un uomo maturo e lo avrebbe dimostrato. Era il capogruppo del Fronte per l'Indipendenza, e sarebbe stato all'altezza del suo ruolo.
Anche a costo di mortificare, per una volta, il suo orgoglio.
   
 
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