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Autore: SpaceCross    05/06/2015    0 recensioni
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Genere: Introspettivo, Poesia, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Era la prima visita della settimana, un piovoso lunedì di fine Gennaio, una di quelle giornate in cui il mondo cerca di comunicarti la sua riluttanza ad essere vissuto da chiunque e invita tutti a rimanere chiusi in casa, come a dire “ non ne vale la pena oggi”. Valeva invece la pena per me pagare l’affitto a fine mese e quindi dovevo lavorare. Camminavo lungo via dei Platani nel quartiere di Roma Centocelle mentre mangiavo il mio solito tramezzino delle 13 e 15 e davo un’occhiata al caso che mi aspettava; Chiara Maresi, figlia di Luca Maresi chiede una visita psichiatrica per il padre : “ ha una ossessione per cui si ostina a conservare ogni cosa… Sono 4 anni che non esce di casa. Mi faccia sapere come andrà a finire” questa comunicazione mi era arrivata per SMS e lì per lì ero decisa ad ignorarla, insomma non mi aveva detto nulla, neanche l’indirizzo! Ma era pur sempre lavoro perciò chiamai e mi feci dare le altre informazioni utili. “la villa è in cima a via dei Platani” mi disse Chiara al telefono e io cominciai a camminare mentre finivo il pranzo. Arrivata davanti alla villa rimasi impressionata per la grandezza e per lo stile così spiccatamente barocco, pieno, sembrava fatta di pietra serena ed aveva una struttura simmetrica, al centro della quale campeggiava il grande portone di legno e ferro lavorato. Più mi avvicinavo e più notavo incisioni varie nella pietra là dove i rampicanti non le affogavano nel loro verde.
Davanti al portone mi accorsi che era aperto e attaccato al chiavistello massiccio pendeva un bigliettino, lo presi per leggerlo, pensavo che fosse per me, magari per avvertirmi che avevo fatto un viaggio a vuoto, invece lessi:  13 Maggio 1768 ore 15:12 34”. Non era per me, spinsi il portone ed entrai. Ebbi la sensazione di entrare nel labirinto del Torneo Tre Maghi, ma non avevo nessuna bacchetta con me, dunque usai le gambe e cominciai a camminare avanti in attesa di incontrare qualcuno. << Signor Maresi, posso entrare ? Sono Elisa Lorenzi, aveva appuntamento con me per quest’ora…>> mi resi conto solo dopo che stavo urlando perché  l’eco mi investì facendomi sussultare. Nessuna risposta. Continuai a camminare e per la prima volta misi a fuoco l’ambiente che avevo intorno. Distribuiti a raggiera intorno a me si aprivano tre corridoi tagliati ad intervalli regolari dai fasci di luce delle finestrelle poste in alto, non si riusciva vedere la fine di nessuno dei tre dunque imboccai quello centrale. Alla fine scorsi una porta di legno pesante e la aprii, di nuovo tre corridoi mi si presentarono davanti e ancora una volta la scelta fu lasciata al caso. L’ambiente intorno a me però cambiava, le pareti cominciavano a riempirsi di scaffali scuri con dentro oggetti di ogni tipo a cui erano legati bigliettini colorati della stessa forma di quello trovato sul chiavistello. Più procedevo verso il centro e più gli scaffali aumentavano fino a rendere invisibili le pareti. Il Soffitto così alto era avvolto dall’oscurità, il pavimento era di pietre nere. Sembrava di camminare in un corridoio sospeso nello spazio, fuori dalla coscienza, niente sopra di esso e niente per sostenerlo. Un senso di inquietudine cominciò a stringermi la mente. È così che giovani donne vengono uccise e il loro cadavere mai più ritrovato, pensai. Decisi di tornare indietro, non valeva la pensa rischiare così tanto, perché era quello che stavo facendo. Mi voltai e ripercorsi i corridoi mentre valutavo l’idea di associarmi a qualche studio così da smettere di andare in giro per le case dei matti. Dopo dieci minuti realizzai la cosa peggiore che potesse succedere, ovviamente mi ero persa <> mi sentii sussurrare mentre mi passavo un mano nei capelli sudati. Cominciai a correre. Non tenevo più conto di quante porte aprivo e dove finissi o cosa vedessi, il paesaggio era cominciato a diventare uguale e filtrava sempre meno luce.
Aprii l’ennesima porta di legno e mi trovai in un ambiente circolare che non collegava con nessun altro ; al centro del salone in ombra, sprofondato in una poltrona di velluto ormai logoro c’era un uomo, così magro da fondersi quasi con l’oggetto che lo sosteneva, così assorto da non sembrare dotato di vita. Intorno a lui invece una babele di esistenze si materializzava nelle cose, nei minuscoli oggettini, persino nelle spille adagiate sulle mensole dei soliti scaffali. Tutto dentro quella stanza era etichettato, rigorosamente, ogni singola superficie materiale lì aveva un suo perché, una sua definita identità ritagliata nello spazio tempo. E poi c’era lui, come il direttore al centro dell’orchestra e guardava cupo tutto quel silenzio apparentemente sterile.
<< Signor, Maresi sono…>>
<< Ho sentito chi siete, e visto che sapete chi sono io possiamo saltare questi convenevoli>> Rimasi in silenzio ferma al centro della stanza davanti a lui, avevo ancora il fiato corto per lo spavento, a pensarci bene ero ancora spaventata.
<< Stia serena, non ho intenzione di ucciderla o di stuprarla o di usarla come altare per sacrifici umani. Spero che lei voglia concedermi la stessa educazione>> . Mi salì una risata isterica non sapevo bene se per il sollievo o per la situazione tanto assurda da farmi sembrare rassicuranti anche le parole di un matto. Mi accomodai su una poltrona posta davanti a quella del Signor Maresi.
<< Da quanto dura la sua ossessione? >> gli chiesi , mentre cominciavo a prendere confidenza con l’ambiente di quella  villa ingombra di tutto il mondo.
<< Da sempre >> rispose laconico, assorto. Sentivo che  la sua mente  continuava a rimanere indietro, persa, come questa casa agli occhi del mondo e il mondo stesso agli occhi del signor Maresi.
<< Perché mette un’etichetta a tutto? Per rivendicarne la proprietà? >> gli chiesi con voce calma, gli occhi attenti ma asettici .
<< Per vigliaccheria>>rispose lui , stanco, come se avesse detto quello frase milioni di volte e ora era costretto a ripetersela una volta di più, una volta di troppo.
<> insistetti io e intanto il mio sguardo si perdeva sulle etichette colorate che penzolavano dagli scaffali, sembravano l’istantanea di tanti coriandoli qualche secondo dopo che un bambino li avesse tirati fuori dalla busta per lanciarli in aria. Poteva sembrare una magia, la possibilità di fermare il tempo dentro il tempo stesso, una piccola bolla di immobilità dentro un universo eracliteo dominato dalla incerta sentenza :panta rei. E nessuno può farci niente.
<< Oh si che lo sono, e non può pretendere di venire qui lei a dettare leggi su cosa sono io e cosa invece no. >> Aveva ragione, io ero lì per lavorare, per  guarirlo ma avevo cominciato con le intenzioni sbagliate e solo ora a distanza di molti anni comincio a capire a pieno il senso di quello che mi accadde; io entrai a casa sua con la sola idea che lui fosse malato e che io ero pagata per guarirlo e che un successo avrebbe giovato al mio curriculum. Era vero, io non sapevo niente di lui ma sapevo che c’era qualcosa di incredibilmente sbagliato nel suo approccio alla vita e questo sembrava darmi il diritto per intervenire.
<< E va bene, allora mi spieghi perché sarebbe un vigliacco, se alla fine mi avrà convinto, io, come nei copioni dei migliori film con pretese psicologiche, me ne andrò senza importunarla più con le mie domande>>  ci fu un lungo silenzio, il signor Maresi abbassò lo sguardo pensieroso. I miei occhi invece continuarono a guardare in alto, la sala era tetra , le pareti completamente tappezzate di mensole, sopra di esse minuscoli frammenti di storia; osservai attentamente una mensola a caso sulla mia destra;ciò che vidi fu una foglia, un coccio di non si sa quale oggetto, una provetta, un portachiavi, un foglio di carta accartocciato. Mi ricordo che trovai il tutto estremamente ridicolo e opprimente al tempo stesso. Quella villa di estensione sicuramente notevole era stata trasformata in una cantina con il solo scopo di imprigionarci dentro il proprietario. Più il mio sguardo indugiava su quelle pareti e più esse parevano comprimersi , diventare sempre più strette sempre più intricate. Abbassai lo sguardo e sussultai nell’accorgermi che il signor Maresi mi stava fissando con curiosità e insieme timore, come se lo psichiatra fosse lui e io il paziente.
<< Si guarda intorno come se stesse in una casa degli orrori e questo mi incuriosisce, forse mi fa anche un po’ di tenerezza. Le vede tutte le etichette legate a degli oggetti senza ormai più senso?  Perché non hanno più senso? >> La domanda ero sicura che contenesse un trabocchetto ma non riuscivo a metterlo a fuoco .
<< Cosa le fa credere che le ritenga senza senso ?>>
<< Perché lei è qui precisamente per convincersi che tutto quello che faccio è senza senso >>
<<  Questi oggetti hanno esaurito la loro funzione … Cosa se ne fa di un coccio rotto? >>
<< Cosa intende per funzione ?>> mi chiese lui che intanto si era alzato dalla poltrona con grande fatica e si era avvicinato lentamente ad uno scaffale prendendo in mano esattamente il pezzo di terracotta a cui mi riferivo. Era di una magrezza assoluta e se ne stava lì con quel ridicolo coccettino in mano!
<< Come sarebbe a dire cosa intendo? La funzione è il ruolo, il motivo per cui quell’oggetto è stato preso; quando la sua funzione è finita lo si butta, specialmente nel caso di un vaso rotto>>ribattei decisa
<>.
Sul fatto che fosse uno dei tanti psicopatici che popolavano il pianeta per dare di che vivere ad uno dei tanti strati della società era fuori discussione, ma non era quello che cercavo.
<< Io sono un vigliacco, signorina Lorenzi, perché non sono un illuso come lei. Mia figlia le avrà detto che non esco da queste stanza da anni ormai, che non vedo nessuno, che non parlo con nessuno. Se lei mi dice che è sbagliato io le rispondo che è questione di priorità>>
<< E qual è la sua priorità?>>
<< Vincere il tempo. Rinunciare ad essere mangiato da esso. Lui mi vuole ingabbiare e io invece ingabbio lui. Qui. Ogni oggetto è una parte del tempo che ho vissuto e che dopo avermi attraversato portandosi dietro un pezzo della mia vita voleva scappare, come un ladro, e invece io l’ho inchiodato con la sua etichetta e non può più sfuggirmi. >> La sua voce emergeva dalle viscere di una meditazione così profonda che per un attimo dubitai della sua follia. Era un uomo che aveva pensato .
<< Perché ha paura che il tempo le rubi qualcosa?>>
<< Perché lo fa! Lui pretende di disporre come vuole di ciò che è mio. La mia casa, il mio corpo, il mio lavoro. Il tempo mi ha rubato ogni cosa e merita di patire quello che è toccato a me senza che lo scegliessi. >>  Una vena gli pulsava ritmicamente sulla tempia, la fronte era contratta in una espressione cupa che moltiplicava le sue rughe. Impossibile decifrare l’età di quel volto che per primo aveva vinto la sua battaglia, si collocava così fuori dal tempo che poteva dimostrare 40 anni come 60.
<< Il tempo si appropria di noi, signorina, ci consuma, si porta via tutto fino a che di noi non rimane che uno scheletro senza vita e non pago finisce di consumare anche quello riducendoci a polvere. Ci pensi. Mentre noi sembriamo così padroni della nostra vita in realtà non siamo altro che piccoli geni dallo sconfinato potenziale confinati nel minuscolo spazio vitale della lampada. E la lampada si fa sempre più stretta. Io sono un vigliacco dunque, perché scappo da questo fardello così pesante da schiacciarmi contro il pavimento ma voi, signorina, voi e tutti gli altri là fuori siete degli illusi e anche dei beati, voi avete quel sano grado di incoscienza e di cecità che vi consente di vivere ignorando la vita stessa, passandogli accanto parallelamente fino alla fine e morire così, credendo di aver vissuto da liberi. È un sogno il vostro e guai a chi si sveglia, ingoiate tutti i sonniferi che la società vi propina: la bella casa, il lusso, la fama , persino l’amore. E il tempo ride di voi. Piccoli pesciolini che nuotano nell’acquario ma quanto pensate di vivere se qualcuno non si premura di buttarvi giù un po’ di cibo ogni tanto? E il tempo è magnanimo, nutre le sue marionette fino a che la recita non è finita. >>.
L’ultima parola fu pronunciata con un soffio e il coccio fu rimesso al suo posto con la targhetta penzolante color indaco, segnata dalla grafia di un uomo che voleva fermare il tempo con il suo inchiostro : “  28 Gennaio 2015 , ore 13:12 24” . Un minuscolo taglio nelle pieghe dell’eternità, chi lo avrebbe mai notato? Come si sarebbe potuto salvare ?
Un senso di  smarrimento mi oscurò lo sguardo.
<< Strano vero? Nessuno ci pensa mai. Quando dissi queste parole a mia figlia lei mi disse che ero matto; sa cosa le ho risposto? Che era intellettualmente disonesta: io non penso cose non che non esistono, ma cose che nessun altro pensa e poi scappo da queste stesse cose,e allora divento vigliacco>>
Non sapevo cosa rispondere.
<< Allora nella vita o si è vigliacchi o si è bugiardi?>> chiesi io.
<< Io ho scelto di essere vigliacco, ho scelto di infilare la testa nell’abisso e guardare cosa c’è dentro. Non c’è niente, non c’è assolutamente niente e questo è terribile>>.
Chi era il matto adesso? Pensai.
 
Mi alzai dalla sedia su cui mi ero seduta un’ora e mezza prima, quando ancora credevo di poter trovare delle falle nel pensiero di quell’uomo. Rimasi ferma qualche secondo mentre lui continuava a guardarmi con aria implorante dalla sua poltrona consunta, il tempo si stava portando via anche quella, pensai, poi vidi un’etichetta color porpora dondolare dal bracciolo destro della poltrona. Sorrisi.
Mi voltai e cominciai a camminare per i corridoi, il mio passo sempre più rapido. Lo spostamento d’aria che provocavo faceva muore le etichette, percepivo il rumore della carta che si appropriava delle cose a cui era legata. Comincia a correre, un corridoio dopo l’altro, uno dopo l’altro, non sapevo dove stessi andando sapevo solo di dover trovare l’uscita. Fino a qualche istante prima pensavo di poter competere con quello che avevo visto negli occhi del signor Maresi, ma adesso che ero sola doveva solo uscirne fuori.
Non sentivo il rumore dei miei passi, non percepivo il mio movimento , sentivo solo quell’assordante rumore di carta. Dio mio dovevo uscirne. Girai a destra di nuovo in un corridoio e andai a sbattere contro qualcosa di cedevole. Indietreggiai  di riflesso. Quella nicchia nella parete era uno dei punti più bui, illuminato appena da un minuscola finestrella. Un unico fascio di luce colpiva in diagonale la tela.
L’orrore mi colpi come un’alabarda. A poco a poco che il mio sguardo si adeguava all’oscurità  dalla tela cominciò ad emergere un uomo, orrendamente ritratto con il mano un bambino di cui divorava le carni. Quel dipinto erano 15 anni che non me lo trovavo davanti << Cosa ti comunica questo dipinto? >> la voce della professoressa Milano mentre indicava l’ultima opera di Goya, due mesi dopo l’inizio del mio ultimo anno di Liceo segò i miei pensieri.  << Tristezza>> le risposi.  Gli occhi di quell’uomo bestiale ritagliato dai colori sulla tela mi perseguitarono per giorni fino a che mi decisi a parlarne con il professor Corduano, nonostante non avessi mai avuto fede in Dio o in qualunque altra cosa, ma d’altronde neanche lui aveva mai insegnato davvero religione, nelle sue lezioni si parlava di vita.
<< Davvero ti meravigli di un tema del genere per un dipinto? >> mi chiese dopo aver riso molto, io ero rimasta in silenzio << Ti meravigli perché Crono mangia i suoi figli ? Ma il tempo cosa fa? Ci mangia!” >> poi la campanella suonò e uscì dall’aula sempre ridendo. 
   
 
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