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Autore: _sonder    06/06/2015    1 recensioni
Conviviamo con le menzogne e la paura di ferire o di essere feriti a nostra volta. Un'unica bugia a fin di bene può costringere ad altre falsità: si accumulano vergogna, timore di essere scoperti e insicurezza.
Izumi Kōshirō è ormai adulto e porta quotidianamente, come bagagli, le conseguenze delle fandonie costruite nel tempo.
| Prima classificata al Digimon Adventure 15th Anniversary Contest! indetto da En~Dark~Ciel sul forum di EFP. |
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Koushirou Izumi/Izzy, Nuovo personaggio, Taichi Yagami/Tai Kamiya
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia partecipa al Digimon Adventure 15th Anniversary Contest! indetto da En~Dark~Ciel sul forum di EFP.
Questi personaggi - tranne la presenza segnalata di OC - non mi appartengono, ma sono proprietà di Akiyoshi Hongo; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
Nick autore: _Sonder sul forum di EFP / _sonder su efp
Titolo: Bad Communication
Pacchetti: Kōshirō Izumi - Tentomon - Sincerità
Personaggi: Kōshirō Izumi, Taichi Yagami, Tentomon, Yoshie Izumi, Masami Izumi, OC (figlia di Kōshirō; in questa sede chiamata Meiko), OC (moglie di Kōshirō). L'ultima è stata soltanto menzionata e non ha ruolo attivo nelle vicende. La figlia serve invece da collegamento e rapporto fra il presente e il passato del protagonista. Inoltre, è menzionato il figlio deceduto di Yoshie e Masami, con un nome non ufficiale (Noboru).
Rating: Verde
Tipologia: Two-shot
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of Life
Note: What If?
Avvertimenti: Nessuno
Tipo di coppia:Shōnen-ai (accenni)
Pairing: Kōshirō (onesided) x Taichi
Introduzione: Conviviamo con le menzogne e la paura di ferire o di essere feriti a nostra volta. Un'unica bugia a fin di bene può costringere ad altre falsità: si accumulano vergogna, timore di essere scoperti e insicurezza.
Izumi Kōshirō è ormai adulto e porta quotidianamente, come bagagli, le conseguenze delle fandonie costruite nel tempo.
Glossario: Alcuni termini sono da riferirsi alla cultura giapponese.
Jugyō sankan: è un particolare giorno didattico che permette ai genitori di partecipare alle lezioni dei figli per valutare l'insegnamento dei docenti e l'andamento scolastico della prole. Il genitore prende parte ai corsi per una giornata e assiste in piedi, in fondo all'aula.
Daifuku: sono dolci preparati con la pasta di riso e ripieni di salsa azuki.
People Mover: sistema automatico di trasporto su tracciato definito. In questo caso della linea Yurikamome di Odaiba.
Kansai: regione giapponese, entro la quale si parla comunemente il Kansai ben, uno dei dialetti non ufficiali più diffusi in Giappone. Ha la caratteristica di contrarre le parole.
Controversia Kae/Yoshie Izumi: Il kanji della madre di Izumi può essere letto sia come Kae – omaggio al nome di battesimo della sua doppiatrice – sia come Yoshie. Ho deciso di utilizzare quest’ultimo, perché pur facendo ricerche su google e varie wiki non ho ben capito quale sia il nome canon ufficiale.



BAD
COMMUNICATION
1. Scheletri nell'armadio

Fu il suono isterico della sveglia a spezzare il sonno. C’era un velo di polvere nell’aria: sembrava una leggera nebbia, che rientrava nel fascio di luce del soggiorno; il sole batteva sulla finestra con una carezza rovente.
Le braccia di Kōshirō erano allacciate dietro la nuca. Fissava il soffitto: lo sguardo spinse la superficie più in alto; la pennellò con gli occhi scuri.
Abbandonò un piede fuori dalle coperte e l’aria lo colse, fredda, come un sussurro sottile di vento sull’uscio aperto di casa.
Nel silenzio avvertì Meiko muoversi. Poteva sentire i piedi strusciarsi sul futon e sua figlia girarsi su un fianco per riprendere sonno. Sulle labbra abbozzò un sorriso.

Per il resto, le stanze erano mute. C’era soltanto l’acqua in sottofondo, che bagnava il vetro smerigliato della doccia e investiva le forme di sua moglie.
Venti minuti dopo era uscita e la porta si era chiusa con un unico scatto. Quel colpo che tornava, quel colpo sordo come un tonfo, inequivocabile. Secco, come i bonsai che aveva tentato di curare sino a ottenere l’effetto opposto.
Kōshirō sgusciò dal letto e si diresse in cucina. Sfiorò con le dita la composizione ikebana nel soggiorno. Come torri due piante grasse si ergevano senza toccare i bordi del vaso. I vuoti si congiungevano nell’armonia della ceramica arrotondata.
La padella sfrigolò. L’olio tentava di zittire le fiamme. Accarezzava il ventre nero della conca bassa e zampillava, tornando poi a mescolarsi nella pozza dorata in tumulto. Lasciava una traccia unta e sinuosa.
Kōshirō restò a mani giunte, la schiena contro i fornelli. Si beava del calore emanato dalla cucina. Una notifica trillò e illuminò il display del cellulare. Si voltò e lo sguardo scivolò sull’avvenuto invio dell’email.



“Ti ho mentito”.

A: Yagami Taichi, "yagamitaichi@yahoo.co.jp".

***

Guidò fino alla scuola elementare di Odaiba. L’utilitaria rossa si allungava pigramente sulla strada. Dai marciapiedi arrivava il lamento delle saracinesche che schiudevano gli occhi, strisciando sino all’imbocco del ponte. Vide il people mover sgattaiolare nella corsia e prendere uno sprint per distaccare la processione di viaggiatori in auto. Lo chiamavano testa di gabbiano. Di ali non v’era traccia, ma il suo tragitto era breve e veloce.
La ruota panoramica si stagliava all’orizzonte. Con gli anni era rimasta una costante. Aveva perso il suo primato in altezza, ma proseguiva a muoversi come gli pneumatici dello sciame di vetture. Un occhio aperto sui passanti, dritto nell’inquietudine di Kōshirō.
Meiko si agitava sui sedili posteriori. Un ciuffo di capelli era tirato indietro, trattenuto da una molletta. Doveva prenotare dal parrucchiere, pensò Kōshirō, le dita premute sul volante. La frangia si era già allungata. Nell’insieme, la chioma corta non riusciva a nascondere il viso tondo e la bocca dolce, come quella di sua moglie.
Dallo specchietto retrovisore, Kōshirō incontrò il broncio della figlia.

“La mamma doveva venire”, si lamentò.
“La mamma verrà”, la corresse Kōshirō. Condivise l’espressione vispa negli occhi di Meiko. Aveva mutato umore in un baleno. Si era avvicinata al suo schienale e lo aveva abbracciato.
“Davvero?”
“Oh-oh. Abbiamo una piccola esploratrice molto curiosa”, scimmiottò lui. “Prima di confidarle quest’informazione, signorina, devo chiederle di allacciare le cinture e sistemare il frontino”.
“Roger, comandante!”

Obbedì. Per la fretta il cerchietto scivolò e cadde nello spazio fra i due sedili. Meiko gonfiò le guance e inserì le dita paffute nell’interstizio delle sedute. La stoffa vellutata la tirava in una morsa. Le formiche passeggiarono sul braccio teso, in tanti brividi, finché Meiko non chiuse le dita sull’accessorio di plastica. Blu, come il cielo di notte, ma più spento.

“Allora me lo dici, otōsan?”
***

Ricordava le classi più grandi e affollate. La sezione E del primo anno non era come l’aveva lasciata. Sui muri le mappe geografiche erano state sostituite da lavagne nere e quadretti coi kanji dei giorni della settimana. Dalla cattedra un mappamondo compiva un giro, spinto dalle dita di un uomo. Un bambino lo tirava per la manica e batteva il piede a terra. I compagni sghignazzavano e scommettevano fra loro. Sarebbe riuscito a piantare le punte delle scarpe e a tirare il padre via di lì?
Kōshirō guardò gli infissi. Le tapparelle avevano una sfumatura giallognola, intrappolata fra una striscia e l’altra. Gli oggetti ingiallivano, i ricordi erano compressi e i luoghi sembravano gli stessi, ma non lo erano. L’immobilità dei banchi lo avvolse con la pia illusione di aver spalancato la porta del passato.
Meiko lo trascinò al suo banco, ansiosa di mostrargli il modo ordinato in cui organizzava astuccio, quaderni e libri di testo. Sembrava allegra. Immerse le dita nei capelli. Del suo stesso colore. Li sollevò e il polpastrello ne piegò il gambo. Cangiarono come ciuffi d’erba al soffio del vento.

“La mamma oggi ha compiuto una magia”, le sussurrò.
La maestra Noruki entrò a passi piccoli, ingabbiata da un tailleur grigio. La gonna era di una taglia più piccola.
“Vedi, ha preso il posto della signorina Noruki”, continuò, “non sembra anche a te?”
Meiko allargò le palpebre e sorrise. Mandò la testa indietro. Il palmo del padre si aprì sulla sua fronte, mentre lei esclamava uno: “Ssst! È un segreto! Se no Ema-chan vorrà sapere il trucco!”
Kōshirō annuì. Da qualche parte si annidò in lui un nuovo senso di colpa. Quel giorno come allora.

Viaggiò, ad anni di distanza, mentre i bambini si inchinavano a salutare la signorina Noruki.
Viaggiò allo schiocco di lingua delle tapparelle, mosse dispettosamente dall’aria e lo spiazzo del campo di calcio si rivelò, nudo e verde, come nei suoi giorni da scolaro. Un verde insistente che scavava nelle sue colpe e assumeva la forma di un’estate prossima. Un’estate che Kōshirō avrebbe trascorso nella propria camera da letto.

***

La professoressa puntò gli occhi sul foglio. Le orbite compirono una lenta ascesa sino a posarsi sulle pupille di Kōshirō. Stiracchiò la delega firmata in calce; recava le generalità di Izumi Yoshie.
Le labbra si piegarono verso il basso e studiarono il da farsi. Con una matita l’insegnante le picchiettò e le dita ossute parvero spogliarsi della carne. “Cielo, eppure mi ero raccomandata” sospirò. “Visto che i tuoi voti sono ottimi, chiuderò un occhio, Izumi-kun”.
Nonostante gli occhi di lei lo avessero già abbandonato per salutare i primi genitori arrivati, Kōshirō incrociò e disfece più volte la posizione assunta dalle caviglie. Sulle spine, col timore di essere preso in fallo. Tirò le labbra e inspirò lentamente. Pensava a sua madre, ignara del suo piccolo raggiro; una voce nella coscienza tentò di scrollare la farsa cui aveva preso parte.

Che vergogna!

Si voltò e dietro di sé vide un gruppo di adulti. Chi di loro aveva pronunciato quella frase? Il brusio delle voci giungeva basso, come il volo di un insetto. Riempì ugualmente l’ambiente quadrato.
Kōshirō guardò spaventato la signorina Oshihara. Per un attimo gli mancò l’aria. Le parole di lei giungevano storpiate dall'idea che si era costruito di se stesso. Continuava a discorrere e poteva indovinare lo stato d’animo nei suoi gesti. Eppure, non comprendeva il senso dei suoni che saltavano dalla sua bocca.

Tipico di un figlio ingrato”.

Le palpebre di Kōshirō si spalancarono e diedero posto alle lacrime. Si girò per trovare il proprio nemico e mettere a tacere l’insicurezza. I genitori dei bambini stavano scambiando qualche chiacchiera di circostanza. Un nutrito gruppo di casalinghe e di uomini si era radunato in un angolo dell’aula, di fronte agli scaffali per gli effetti personali.
Quando spostò gli occhi sul vetro, Kōshirō studiò la propria immagine. Cercava una presenza ostile; l’aveva trovata.

“Izumi-kun, ti senti bene?” L'insegnante lo scrutò. Come allievo non le aveva mai dato particolari problemi, ma interagiva poco con i coetanei e ancor meno prendeva la parola durante le lezioni. Emise un sospiro e arricciò la punta dei capelli fra le dita. Portava un caschetto nero e piatto. “Cerca di stare più attento quando un adulto ti parla. Puoi tornare al tuo posto”.
“Sì, mi scusi”.

Il suono della campanella condusse gli alunni all'ordine. I genitori presenti allo Jugyō sankan si disposero alle spalle delle ultime file.

La mattina era fresca. Fuori dalla finestra, il cielo si insinuava fra gli edifici, spalmando di un azzurro immacolato le vie, svuotate della vita. I residenti si erano abbarbicati sui treni o nei veicoli di loro proprietà; altri dormivano ancora, ai margini di una società frenetica.
All'interno dell'aula, la lezione di aritmetica si svolse come di consueto. La voce della professoressa Oshihara toccava il fondo della stanza. Pungeva l'udito; diversi genitori raccolsero gli sguardi sulla bocca piccola, che calcava le parole nello sgraziato ed energico accento del Kansai. Metteva a nudo gli incisivi sporgenti, ingialliti dal fumo.

Kōshirō aveva il volto fisso sul quaderno; le ciglia aggrottate come se non comprendesse i caratteri vergati sulla carta. Dalle spalle spioveva il peso di essere uno dei pochi scolari coi genitori assenti. La schiena si curvò, implorando una tregua. Pure, gli occhi continuarono a dissotterrare una per una le sue paure. Era nudo. I sussurri dei compagni, gli starnuti di uno dei padri più anziani e persino la voce della signorina Oshihara suonarono come condanne. Anche loro dovevano sapere la verità; dalle loro espressioni rovesciavano giudizi carichi di disprezzo. Lo avvicinavano per osservare da vicino lo spettacolo della diversità. Poteva anche avere tratti comuni, camminare e sedere composto, ma aveva rubato un ruolo non suo. E dal portafoto nello studio di suo padre c’era un vagito di neonato, un fischio che accoltellava le camere, sempre presente. Forte e straziante. Quel fratello che non aveva conosciuto. Quel bambino che era tornato polvere in un’urna, mentre Kōshirō cresceva al suo posto, dormiva nella camera che un tempo avrebbe dovuto essere dell’altro…

Il sudore grondò sulla tempia. Pulsava, pulsava e pulsava. La traccia gli rigò una guancia. La sua gratitudine non sarebbe bastata a compensare gli sforzi della famiglia, degli insegnanti, degli amici. Né a ottenere il perdono di chi lo circondava. Doveva spogliarsi di tutto per diminuire il debito col mondo. Allontanare a poco a poco le persone e costruirsi un deserto dove nascondere l’anima.

Per questo aveva deciso di risparmiare a Yoshie l’obbligo di stargli accanto. Quando aveva firmato il foglio, imitando la calligrafia, il petto si era espanso. Forse uno spasmo. Forse l’improvvisa liberazione. Il torace era leggero e aveva ripreso a respirare.

Ora, non più al sicuro nella sua camera, davanti ai volti delle persone, sentì cedere ogni decisione. Non più solo, percepì il peso delle occhiate, il fastidio dato dalla presenza dei giudizi. Le bugie si accasciavano sui timori. Non dovevano rovistare così a fondo nei suoi pensieri, si disse, irritato.

La campanella suonò. Suonò e Kōshirō corse per abbandonare le aspettative degli adulti e le indiscrezioni dei compagni. Boccheggiò sul Rainbow Bridge, in direzione contraria all’appartamento in cui abitava. Si arrampicò sulla salita. I pugni stretti che avanzavano e indietreggiavano rispetto ai fianchi. E il rischio di essere fermato e visto nella sua piccola fuga.
All’inizio della passerella batté le mani sulle ginocchia e inspirò l’aria satura di smog.

Si domandò cosa significasse essere morti, nell'inconsapevolezza dei suoi anni.
Le auto sfrecciavano sull'asfalto inseguite dal vento. Consumavano attimi e metri; belve di ferraglia a masticare il presente e digerirlo come passato. Andavano avanti, inesorabili; e non c'era semaforo che arrestasse definitivamente la loro corsa.
Izumi provò poco o nulla di concreto. Seguiva con gli occhi le automobili. I suoi genitori erano morti a bordo di una vettura, lasciandolo dietro. Come le moto e i camion sulla corsia centrale e i treni della linea Yurikamome che sfilavano incuranti e si facevano lontani, fasci di colori tremolanti nel miraggio del ponte.
I loro volti si erano sfaldati nella dimenticanza della sua tenera età; sbiaditi, fatti di sole abbagliante, senza forme. Più volte tentò di portarli alla memoria, di definirli; persino accostando una loro fotografia agli occhi, non riscontrò un senso di appartenenza. Estranei di cui non aveva ricordo. Le sue radici natie erano avvizzite. Si sentì solo, slegato da ogni essere vivente. Incapace di parlare e di condividere la vergogna, si limitò a stringere i pugni e a cacciare un urlo. Nessuno lo udì e ciò lo confortò per un breve arco di minuti, finché la desolazione non lo assalì con un'ondata più forte.
Tentò di paragonare la morte a un appuntamento mancato.
Provò e lo accolse il vuoto della finzione. Cercò di sgomberare la mente dalla presenza dei vicini di casa e degli ospiti abituali che si recavano a trovarli. Una sensazione di disagio fiorì dentro di lui.

I visitatori gli erano sgraditi. Dovevano conoscere la macchia sul suo corpo, la genetica che lo divideva dai genitori attuali; portava soltanto il loro nome e un grado remoto di parentela. Kōshirō interpretò i sorrisi amichevoli come scherno nei confronti di un avanzo. Era immeritevole di occupare il posto di figlio all'interno della famiglia. Lo atterrì l'idea di aver subito il disprezzo degli altri e di averlo confuso con l’amore. Le risate che lo avevano circondato si ripresentarono sotto la forma della calunnia. Una serie di lunghi fallimenti. Gli amici della famiglia adottiva sapevano e avevano taciuto. Le loro labbra erano ami agganciati sul viso. Lui vi aveva penzolato. Aveva abboccato ai doni dell'affetto. Non aveva considerato che l'amore sapesse ferire.


Scrollò il capo. Non poteva definire la morte. Il web gli forniva risposte sulla fisica di un incidente, sulla logica del cedimento umano, sullo sfacelo dei corpi nelle fiamme. Sarebbe persino riuscito a calcolare la forza di un attrito, seguendo una lezione online o ponendo le giuste domande su una community di appassionati. Il senso intimo della mancanza gli sfuggiva. Finora aveva provato la completezza. Yoshie era una mamma presente. Spuntava al mattino nella sua camera e lo incoraggiava a svegliarsi. Percepiva il suo sguardo sulle spalle, come una spinta ad affrontare la giornata.
Masami era più discreto. Finalmente Kōshirō aveva compreso la ragione della lontananza paterna, delle esitazioni che deludevano le sue aspettative.

La nausea gli chiuse lo stomaco. Strinse il trafiletto di giornale nel palmo. Descriveva il vero padre come un uomo di genio, un professore universitario di matematica. Nei solchi della carta c'era la sostanza del suo animo, l'inconsistenza della sua identità. Tra quei caratteri era descritta la natura che gli apparteneva, ormai deformata dalla realtà. Calpestata dall’ingiustizia.

Kōshirō guardò la strada. Dominata dai graffi delle gomme e dalle urla selvagge dei motori. Addentavano lo spazio, ma i loro morsi non duravano che pochi istanti. Le scatole di alluminio e carbonio si chiudevano sui passeggeri e promettevano un benessere fittizio, la garanzia di una scorta fino ai caseggiati, ai discount e ai luoghi di lavoro. Bugie. Perché senza di esse nessuno poteva vivere sereno. Senza ignorare i pericoli della strada, nessuno vi avrebbe messo piede, con i bambini dietro.
Si accantonavano tante cose, fingendo di non vedere.

Con una curiosità che gli straziava l'animo, Kōshirō immaginò le portiere deformarsi, fondersi con le carni umane e annullarsi nel fumo. Ciò che aveva guardato con pigro distacco nella scatola piatta di un telegiornale era divenuto improvvisamente familiare. Si era fatto vivo nel suo manto di morte. Più vicino di chiunque altro.
Solo scorrendo i palmi con gli occhi si accorse di tremare. I guanti erano umidi.
Il pensiero di Kōshirō corse ai genitori adottivi. Si era ingannato. Sapeva cosa fosse la morte.

Mancare un battito ed entrare in casa con la paura di essere stato abbandonato. Precipitarsi nel soggiorno e non trovarli a parlare sul divano. Incontrare il volto di suo padre, con la solita espressione docile cucita sulle guance, quasi colpevole. E le parole che non uscivano fluide come dalle altre bocche. Adesso conosceva la ragione dei suoi tentennamenti. La quieta rassegnazione dietro i suoi occhiali. Identificava come una scusa il gesto di strizzare gli occhi e portare un fazzoletto a grattare le lenti, per nascondergli le lacrime al pensiero dei defunti. Perché somigliava a loro, in un calco impresso e lasciato asciugare fino a ritrarre gli stessi lineamenti.
Sapeva cosa fosse la morte.
Il sorriso accorato di sua madre, sempre pensieroso, dietro il velo di difficoltà. La prospettiva di non crescere accanto a loro gli mozzò il respiro. Si accovacciò contro la recinzione. Non poteva più fingere di essere sangue del loro sangue. Tornò il senso di colpa. Tornarono le bugie e il cuscino premuto per seccare la pelle umida e i denti stretti.
Riprese a camminare per le vie di Odaiba e si disse che avrebbe sistemato tutto.

***

La campanella annunciò la fine della lezione. Kōshirō avanzò fra i banchi e raggiunse Meiko, prima che inseguisse la maestra Noruki. La tenne a sé. Si inginocchiò e poggiò il labbro sul profilo dell’orecchio.

“Ricordi? Non puoi permettere che la maga venga scoperta”.
Meiko si ribellò, delusa. La bocca le cadde in basso e sporse le labbra. “E va bene. Però non è giusto!”, bisbigliò, “Volevo le caramelle. Le aveva promesse!”
“Guarda. Cos’ho qui?” Una bustina colorata sventolava nella mano del papà.
“Sono quelle che la mamma mi ha promesso!”
“E indovina chi me le ha passate?”
“La mamma è un mito!”

Kōshirō fermò gli occhi su quelli della figlia. Carezzò la pelle, liscia come il primo giorno in cui l’aveva sollevata fra le braccia e stretta al petto. Mia, aveva detto nell’intimità dei pensieri. Staccarsi da lei e lasciarla nella culla lo spaventava. Così piccola e fragile, che adagiarla da sola sul materasso di gommapiuma sembrava un crimine.

Ogni giorno s’imponeva di vivere al suo fianco, di esserci. Lottava contro il tempo, contro la paura di essere solo una fotografia nei pensieri di Meiko, di divenire un paragrafo di giornale e morire, una seconda volta, nei pensieri dei parenti. E finire come i suoi genitori.

“Oggi ho una sorpresa per te”, annunciò, “andiamo dalla nonna”.
“Andiamo dalla nonna”, ripeté Meiko. Significava svuotare i cassetti alla ricerca di tesori perduti, trovare un dolce preparato con le uova delle galline, non quelle del supermercato, perché alla nonna le consegnava una brava signora in sella alla bicicletta e quando scampanellava, Meiko correva giù nel cortile condominiale, con gli yen giusti nel borsellino, proprio come un’adulta. Andare dalla nonna voleva dire aprire la porta delle fiabe e voltarsi a parlare in un codice antico. C’erano i vecchi modelli di portatili del papà, le ceramiche che suonavano sul piattino e i daifuku dal cuore di fagioli azuki.

Kōshirō portò il pugno sulla bocca. Strusciò le labbra sull’indice e la seguì. Meiko era già corsa all’automobile. Da un piede saltellava sull’altro, come giocando a campana, senza il tracciato di gessetti.
Il cellulare vibrò dentro le sue tasche. Sbloccò il display. Le dita strinsero nervosamente i capelli e li spettinarono. Morse un labbro. Il viso si stravolse per la paura.

Tre chiamate perse.
Tutte di Yagami Taichi.






L'angolo di Son: La storia prende in considerazione l'effetto sociale dell'adozione. Il Giappone è uno dei Paesi esteri con il tasso minore di adozione. Una questione familiare dovuta innanzitutto alla purezza del sangue e della discendenza, che è sempre stata un tabù per la nazione.
Ho deciso di collocare in questo frangente tutto il peso psicologico sopportato intimamente da Kōshirō. I what if si riferiscono più a varianti di alcuni episodi della sua vita: se avesse saputo prima dell'esistenza del "fratellastro" e se fosse stato il confidente di Taichi nel fantomatico episodio di Natale, cosa sarebbe cambiato per lui? In uno dei drama-cd il ragazzo chiede effettivamente a Yamato di raggiungere Sora.

Le bugie di Izumi-kun si riferiscono ai rapporti cruciali: alla madre, alla figlia e a Taichi. Vorrebbe il meglio per loro, malgrado le sue menzogne possano anche essere lette come un tentativo di proteggere se stesso o un modo per non affrontare il problema.
Inoltre, la prima bugia - quella detta alla figlia - innesca tutta una serie di azioni. Izumi-kun si reca in vece della moglie al Parents Day a scuola. E questo scatena una serie di reazioni a catena. Il ricordo di se stesso al posto della figlia, il ritorno a casa con relativa confessione alla madre e telefonata chiarificatrice con Taichi.
  
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