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Autore: _sonder    11/06/2015    1 recensioni
Conviviamo con le menzogne e la paura di ferire o di essere feriti a nostra volta. Un'unica bugia a fin di bene può costringere ad altre falsità: si accumulano vergogna, timore di essere scoperti e insicurezza.
Izumi Kōshirō è ormai adulto e porta quotidianamente, come bagagli, le conseguenze delle fandonie costruite nel tempo.
| Prima classificata al Digimon Adventure 15th Anniversary Contest! indetto da En~Dark~Ciel sul forum di EFP. |
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Koushirou Izumi/Izzy, Nuovo personaggio, Taichi Yagami/Tai Kamiya
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia partecipa al Digimon Adventure 15th Anniversary Contest! indetto da En~Dark~Ciel sul forum di EFP.
Questi personaggi - tranne la presenza segnalata di OC - non mi appartengono, ma sono proprietà di Akiyoshi Hongo; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
Glossario: Alcuni termini sono da riferirsi alla cultura giapponese.
Higan: è una ricorrenza della durata di una settimana, dedicata alle visite al tempio, per serbare la me-moria degli antenati e per la pulizia delle tombe. Cade durante gli equinozi di primavera e d'inverno.
Ohagi: sono i dolci di riso che vengono offerti ai defunti o mangiati durante l'Higan.
Jugyō sankan: è un particolare giorno didattico che permette ai genitori di partecipare alle lezioni dei figli per valutare l'insegnamento dei docenti e l'andamento scolastico della prole. Il genitore prende parte ai corsi per una giornata e assiste in piedi, in fondo all'aula.
Dorayaki: pancake ripieni di marmellata azuki. Possono essere farciti anche con nutella, ecc.
Hikarigaoka: ho preferito optare per il nome originale della locazione, nonostante in sub eng/dub eng venga riportato con un nome fittizio. Si tratta di una zona del quartiere di Nerima.
Odaiba Mansion: nome fittizio di un complesso della Toei. In questo caso ho mantenuto quest'opzione perché il luogo è fittizio e non corrisponde all'edificio attuale.
Otōsan: padre.
Obāsan: nonna.
Kotatsu: telaio in legno di un tavolino – generalmente basso - su cui è applicato il futon o una coperta pesante.
Controversia Kae/Yoshie Izumi: Il kanji della madre di Izumi può essere letto sia come Kae – omaggio al nome di battesimo della sua doppiatrice – sia come Yoshie. Ho deciso di utilizzare quest’ultimo, perché pur facendo ricerche su google e varie wiki non ho ben capito quale sia il nome canon ufficiale.
Questione urne - tombe in Giappone: Una volta cremato, il corpo viene posto in una o più urne. Queste possono essere conservate in una tomba di famiglia, in casa o in un tempio. Se esistono più urne per uno stesso defunto è a discrezione della famiglia disporle in luoghi diversi.
Rimando all'angolo di Son per una precisazione un po' "spoiler".
2. Un passo alla volta

Anni addietro non abitava a Odaiba.

A Hikarigaoka i palazzi erano piantati nel terreno. Avevano spalle larghe e alte. Si specchiavano in complessi simmetrici. Pochi tocchi di colore e nella notte tante tremule lampadine a illuminare a giorno gli spazi comuni. Sulla strada, gli alberi impallidivano con le chiome cotonate e le macchine inferocite spingevano il muso verso la lunghezza della carreggiata.

A Hikarigaoka Kōshirō non sapeva ancora nulla. Ogni tanto guardava le fotografie di famiglia e cercava di capire da chi avesse preso il colore dei capelli. La mamma li aveva mossi e ondulati. Quelli del papà erano disciplinati. Guardava curioso il gesto lento del braccio e i denti del pettine che sistemavano i ciuffi da un lato. Masami si accorgeva di Kōshirō dall’angolo dello specchio e arrivava di fronte a lui con il ruggito di un dinosauro.
Yoshie lo rimbrottava debolmente dalla cucina. L’odore dei dorayaki alla nutella si era attaccato alle pareti, dolciastro e pesante.

A Hikarigaoka Kōshirō ignorava tanti aspetti della sua vita. C’erano i mostri sotto il letto e i pupazzi da appendere come talismani contro la pioggia. C’erano le braccia della mamma e nessuna presa in giro per il suo bisogno di coccole.
Poi aveva compreso. Perdere un po’ d’infanzia a ogni nuova verità, a ciascuna menzogna voleva dire conoscere. Crescere. Imparare con le ginocchia sbucciate il graffio dell’esperienza, guardare negli occhi e intuire le negazioni e i contrattempi delle paure. Ed era impossibile tornare ad accucciarsi nel grembo della mamma.

Quando Kōshirō rincasò, trovò sua madre al telefono. La cornetta le carezzava l’acconciatura vaporosa. La teneva con cura.
Le sfilò accanto come se non fosse degno di toccarla. Gli occhi bassi e una ruga d’apprensione sul volto.
Salutò senza guardarla in viso, stretto nelle spalle, e chiuse immediatamente la porta della camera. Tolto lo zaino, sistemò il PiBook all’alimentatore e lo accese. Lo schermo brillò di una luce azzurra. Lo inghiottì. Attirò la sua attenzione e divenne un mondo nuovo. Non servivano bugie né maschere lì dentro.

Yoshie fissò il tavolo. Da qualche minuto non prestava attenzione alla parlantina sciolta della comare. Le notizie su questo o quel vicino divennero un rumore di fondo stabile. Kōshirō pigiava già i tasti del computer nella sua stanza. Alla rassicurazione di saperlo in casa le montò addosso un senso di sconfitta.
Avrebbe preferito imparare a imboccarlo con parole che aprissero il suo cuore.
Spazzolò il kotatsu e il suo sguardo si alzò sulla porta della camera di Kōshirō. Nell’altra mano aveva ancora il cordless, da cui fluivano parole vivaci.
Odiava le porte.
Se avesse potuto, le avrebbe scardinate tutte.
Se avesse potuto, avrebbe accolto suo figlio nel proprio grembo. Lo avrebbe partorito lei stessa; ma dal suo grembo vuoto era nato un bambino cagionevole. Un figlio che le era stato tolto. Nel ventre non aveva un rifugio sicuro per Kōshirō.
Ci sono dei confini, pensò.
Confini che muoiono nello spazio di un dubbio. Si sospetta del proprio sangue. È naturale. Primitivo.
Si teme a ogni passo di non carpire l’anima dei propri cari. Di viaggiare su lunghezze d’onda diverse. E il silenzio è un nemico spesso. Il silenzio crea attese che non finiscono nell’arco di un giorno. Si va a dormire convinti di poterlo vincere. E quando arriva una nuova mattina è lì, fra le palpebre ancora appiccicate e gli sbadigli e il torcicollo. Ogni giorno più forte, mentre il corpo è debole e la mente smette di sperare. Si finisce col diventare sordi.

“Com’è andata a scuola, oggi?”
La voce dall’altro capo del filo parlava ancora.
Oggi, disse di nuovo Yoshie, come domandandoselo per la prima volta. Sul calendario c’era una data cerchiata in rosso.
Lesse a chiare lettere: Jugyō sankan.
Abbandonò il ricevitore sul tavolo. Le sopracciglia calcarono le palpebre.
Bussò alla porta di Kōshirō. Il legno tremò per la prima volta sotto il colpo del pugno. La pelle si arrossò, ma Yoshie continuò a chiamare e infine aprì senza attendere oltre.

Kōshirō era ormai vicino alla soglia, le pantofole ai piedi e la mano protesa verso la maniglia. I capelli, un po’ arruffati, si aprivano come un fungo sulla testa. Guardò attonito sua madre, diviso fra la verità da confessare e il desiderio di riposarsi, di scrollarsi di dosso le parole degli adulti. Fingere di non sapere gli era diventato difficile.
Restò a frugare negli occhi di lei per comprendere cosa fosse accaduto. La osservò con attenzione, finché non sbarrò le palpebre. Yoshie si inginocchiò e gli cinse le spalle. Nel cuore le gravava il fallimento. Non aveva saputo tenere in vita il bambino, il primo e ultimo figlio; gli aveva dato la luce, ma un forno crematorio lo aveva mutato in cenere. Un vaso era tutto quello che le restava. E anche i cocci potevano rompersi e toglierle l’ultima immagine dei sorrisi per un verso sciocco o un vola vola.

“Perdonami”.

Kōshirō sollevò le braccia. Strinse i denti e una fitta di sofferenza gli sconvolse il viso. Si ritirò nel suo guscio, dove ordinare le scartoffie della tristezza, i ricordi spiacevoli e le parole che avrebbe desiderato dimenticare. Nel distacco c’era la soluzione per sopravvivere. Anche i pianti della mamma sarebbero giunti soffocati. Avrebbe distolto lo sguardo perché non era possibile cancellare il passato. Per un po’ si sarebbe sforzato di aggrapparsi al distacco.

“Mamma”, esitò, “avevi detto di essere occupata”.

Piuttosto che confermarle di aver accettato in casa un rifiuto, le avrebbe tolto ogni colpa. Lui era sbagliato.

“Non hai dimenticato la visita”.

Kōshirō sorrise, ma Yoshie non si calmò. La sua agitazione ferì Kōshirō.
Pensava di essere riuscito a trovare un modo per non intaccare l’onore e l’orgoglio degli Izumi. Il tepore delle braccia di Yoshie lo imbarazzò. Divenne rosso sulle guance. Stretto a lei, che gli pungeva una spalla con il mento, provò di nuovo la sensazione confortante di essere parte di una famiglia. No, era una bugia. Provò invidia per il bambino morto, che era davvero figlio della mamma. Provò rabbia perché era solo. Avrebbe conosciuto i genitori dai racconti di quanti li avevano incontrati in vita e dai quotidiani archiviati.
Sentì di nuovo freddo.


***

“Meiko, non correre”.

La voce di Kōshirō scoccò il rimprovero in una nenia debole e posata. Meiko balzò sui gradini e saltellò fino a suonare più volte il citofono.
Dall’interno la nonna rispose con una risata, tolse il chiavistello e girò la chiave nella toppa. Li aveva già adocchiati dalla finestra.

Yoshie era invecchiata. A Kōshirō lo comunicò la chioma canuta e lo ribadì il passo strascicato. Le pantofole grattavano il pavimento ligneo.
Reggeva il fianco di una gamba e incedeva con una smorfia sul viso. Ai lati della bocca si agganciavano un paio di rughe, sino a scavare nella pelle due solchi.
La osservò con tenerezza. “Mamma”, e le fu accanto, il braccio attorno alla vita. Si annunciò nella penombra dell'ingresso, fra lunghe piante e quadretti storti.

Nel salotto c'era odore di muffa. Aveva attecchito il soffitto ed era scesa a formare una lacrima. Meiko gattonò con Motimon sulla schiena, fino a raggiungere la camera di suo padre.

“Meiko, fai piano! Ho preparato il tè, vieni a prenderlo”.
L’infuso di foglie aveva un odore forte. Kōshirō sedette accanto a Yoshie, massaggiandole la coscia. La sciatica le doleva a giudicare dal modo in cui tentava di sopprimere i propri lamenti.
“Ho trovato questo in farmacia”.
Yoshie trattenne un risolino. “Trovato? Non sarai mica andato appositamente lì, Kōshirō?”
Meiko sbucò dal bracciolo e saltò al collo della nonna. “Come hai indovinato, obāsan?”
Kōshirō si allentò il nodo alla cravatta e sospirò. Con una mano sollevata dichiarò la resa. Sviò subito il discorso, per non restare intrappolato nel fuoco incrociato delle due.
“Papà è ancora a lavoro?”
“Sai com'è fatto. Va matto per gli straordinari”. Yoshie si carezzò una guancia e inclinò la testa di lato. C’era un grande affetto nelle sue parole.
Instancabile, pensò Kōshirō. Adesso vedeva una forza cocciuta nell’amore di sua madre.
“Come suo figlio, del resto”, continuò Yoshie. Sghignazzò con la mano accanto alla bocca. “Immagino sia un vizio di famiglia”.
Kōshirō arrossì. Forse, rifletté, avrebbe dovuto prendere dei giorni di ferie da trascorrere con la madre e il padre, assieme a Meiko e alla moglie. Ne avrebbe fatto parola ai suoi superiori.
“Mamma”, iniziò girando i pollici, “durante i giorni dell'Higan, mi piacerebbe andare al tempio con te”.
Il suo sguardo gravò nella stanza. Aggrottò le ciglia e fissò un punto indefinito, per trovare riparo dagli occhi di Yoshie. Temeva che i suoi tentativi si rivelassero un fallimento. Tirò la pelle delle mani e vide il grasso accumularsi in tante piccole pieghe.
Yoshie sollevò il busto. Le palpebre erano velate di lacrime. Kōshirō si avvicinò verso di lei, in attesa di una parola. Una qualsiasi.
“Meiko, la nonna ti ha mai raccontato del fantasmino delle tombe?” Con una mano, Yoshie aveva intercettato un braccio della bambina e l’aveva tirata a sedere accanto a lei. Kōshirō si adombrò, un po’ deluso dalla brusca virata della conversazione.
“Perché non ne ho mai sentito parlare?” domandò. La curiosità ebbe il sopravvento su di lui.
Yoshie non rispose. Accomodò la nipote sulla gamba sana e spostò il cerchietto, fino a passare le mani sui capelli.
“C’era una volta un bambino dai capelli rossi. Sparati in aria e aperti come un ombrello.”
A Kōshirō sembrò un ritratto vagamente familiare.
“Devi sapere che questo bambino si divertiva a pulire le tombe e portare gli ohagi ai defunti”.
Col naso all’insù la bambina esclamò: “Che spreco! Io li avrei mangiati tutti!” E di colpo avvampò per la vergogna e congiunse le mani.
Kōshirō, invece, sbiancò. Alzò un dito, come per interrompere il racconto, ma venne ignorato, complici l’interesse negli occhi di sua figlia e la foga della narratrice.
“Non è finita qui! Il fantasma si metteva a guardia di una tomba in particolare”.
“Della sua mamma?”
“No, no, piccola mia”.
“Della ragazza?”
“Era troppo piccolo e imbranato per averne una”.
“Allora di chi, obāsan?”
Il sorriso di Yoshie divenne largo. Si chinò sulla fronte della nipote e le lasciò un bacio umido.
“Di suo fratello. Anche se non l’aveva mai conosciuto”.
Kōshirō abbassò il capo e si tenne la testa. Dei passi si spinsero dalla cucina alla sala, uniti al frinire delle ali. Alzò gli occhi e vide Tentomon abbuffarsi di dolci.
Puntò il dito verso di lui: “Eureka! Glielo hai detto tu!” Scattò in piedi e lo rincorse.
“Ah, se ti prendo!”
“Kōshirō-han, l’ho fatto per il tuo bene!”
Tentomon batté in ritirata verso le camere da letto. Meiko si agganciò alla gamba del padre e urlò: “Non si corre, otōsan!”

Quando si abbandonò sulla poltrona, Kōshirō pensò che non aveva mai sostenuto una giornata tanto impegnativa negli ultimi tempi. Yoshie lo guardava allegra.
Kōshirō sentì schiudersi una porta. “Recuperiamo il tempo perduto”.
Asciugò la tempia con un fazzoletto e sistemò la camicia. Yoshie passò una mano sulla guancia del figlio e la mantenne salda, come per dargli conforto.
“Abbiamo tante cose da raccontare loro, non trovi?”
L’idea di recarsi al tempio con la sua famiglia gli bruciava nel petto. Da ragazzo aveva evitato di far parola delle visite alla tomba del figlio di Yoshie e di Masami. Il bambino che non aveva mai visto e il peso della sua eredità. Si sentì sciocco per aver realizzato, a distanza di anni, come la loro non fosse stata una gara di sopravvivenza.
Aveva molte cose di cui parlare di fronte alle lapidi… ma una l’avrebbe tenuta per sé.

***

Pigiava i tasti del PiBook con lo sguardo concentrato sullo schermo. Conosceva a memoria la posizione dei caratteri. Sul lavoro era un grande risparmio di tempo, come a casa. Sistemò i dati delle ultime ricerche in una cartella. L’indomani li avrebbe catalogati grazie a un software.
Assieme al lieve clicchettio del mouse nella stanza si sentivano le ali di Tentomon. Battevano il tempo secondo lancette impazzite. Kōshirō rilassò le spalle. Avvertire la presenza dell'amico gli era di conforto.
Anche senza guardarlo sapeva di non essere in balia di se stesso.
Meiko si era addormentata nel letto di Masami e Yoshie, abbracciata a Motimon.
Yoshie gli fece cenno di avvicinarsi.
“Mamma, da quanto lo sapevi?”
Lei strizzò le palpebre e unì le mani sul grembo. “Dalla prima volta. La tomba di Noboru non era mai stata toccata da altri, oltre me e tuo padre”.

***

Kōshirō sgranchì le gambe e decise di uscire per una passeggiata. L’ora era tarda, ma voleva porre fine al suo stato d’insicurezza.
Compose il numero di Taichi. La notte gli arpionava la pelle. Era l’aria della baia. L’isola era aperta e flagellata dal vento. Le acque mugghiavano e l’eco rincorreva le onde. Si scagliavano contro i pilastri del Rainbow Bridge.
La risposta non tardò ad arrivare, puntuale ma imbarazzata.
“Vecchio mio! Mi hai fatto prendere un colpo”.
“Taichi-san”.
Sentire la sua voce non quietò il suo animo. Il vento lo prese per mano e lo costrinse ad abbassare lo sguardo. Vide le colonne di acciaio percosse dalla forza della marea.
Kōshirō chiuse gli occhi. Il tempo si dilatò nel suo petto. Il tono di Taichi era spietato nella sua imprevedibilità. Nell’effetto che sortiva su di lui.
Nella mente di Kōshirō quella voce dava vita alle memorie e formava di nuovo il campo di calcio, la primavera della sua adolescenza.
“Oh, mi spiace disturbarti a quest’ora”. Kōshirō rimuginò sulla loro età e soggiunse: “Non siamo poi così in là con gli anni”. Udì una risata piena investirlo.
“Dimmi tutto”, lo incoraggiò Taichi, “Sarò sincero. Non ho capito a cosa ti riferivi nel messaggio”.
Per te, ho sempre provato…
Aveva giurato a se stesso di confessarlo. Aveva sperato di riuscire ad ammettere i sentimenti che riaffioravano alla vista del più piccolo dettaglio. Si era ripromesso di vincere la sfida con il proprio pudore.
C'erano cose che non poteva dire. La furia dell’acqua disgregava i suoi propositi. Si sentiva immobile, come il pilastro, e aspettava il colpo di grazia.
C’erano verità che non andavano pronunciate. Un insegnamento che aveva ricevuto da Jō.
“Quel giorno ti ho mentito”.

Tornò al Natale. Tornò con la memoria al giorno in cui le coppie rinnovavano il loro amore. La neve sbuffava e spolverava la città.
Mozzava il fiato. Kōshirō era di pessimo umore.

“Di che parli?”
La voce di Taichi era agitata.
“Il giorno in cui Sora-san ti ha respinto”.

Il giorno di Natale il freddo gli era entrato nel cappotto. Si era conficcato nella carne e aveva bruciato.
“Vado da lei”, aveva detto Taichi.
Nei suoi occhi aveva scorto una convinzione crescente. Le intenzioni palpabili, impresse nelle iridi, avevano assalito Kōshirō.
Il freddo era penetrato più a fondo. Kōshirō aveva spinto il viso nella sciarpa. Gli occhi di Taichi ardevano, nonostante fossero la neve e il gelo a dominare i quartieri. Socchiuse le palpebre per non essere abbagliato dalla luce. Scostò il volto. Si sentì invisibile. E volle detestarlo, perché Taichi non sembrava aver visto nel suo cuore. Non aveva considerato come trasaliva al suo passaggio e il formicolio fitto sulle braccia, che lo pervadeva al minimo contatto. La parola amico aveva suscitato rancore e pena in misura uguale.
“In bocca al lupo, allora”.
Kōshirō si costrinse a dirlo. Conosceva i sentimenti di Sora e aveva evitato di confidarli a Taichi, perché nei suoi occhi c’era ancora la speranza, la voglia di combattere e di trasmettere le proprie emozioni.
Un coraggio così cristallino che ebbe paura di svelarsi, di esserne inondato.
“Grazie”.
Lo aveva seguito, spalancando le palpebre. Fermo, come il pilastro in balia della corrente, che l’acqua avrebbe voluto abbattere. Lo aveva visto allontanarsi. Taichi era diventato un puntino in corsa.
Irraggiungibile. E Kōshirō continuava ad attendere la risacca. Allora come adesso, Kōshirō annegava nel desiderio di sfuggire all’agonia. Il timore che il loro rapporto potesse finire lo avvilì.
“Il giorno in cui Sora-san ti ha respinto…”, deglutì, “io sapevo della sua relazione con Yamato-san. Ti ho incoraggiato in un’impresa che non avresti potuto vincere”.
No, quel giorno non lo aveva odiato. Amava Taichi proprio perché non aveva scoperto il suo lato sporco. Quella parte del suo animo che correva dietro agli altri e non aveva la forza di affermarsi. Quella parte del suo carattere che temeva il confronto dei sentimenti, le ferite e l’abbandono. Ancora, come quando era soltanto un bambino.
Aveva stretto gli occhi perché pungevano dal pianto. Tentomon lo aveva raggiunto e gli aveva consigliato di non nascondersi. Kōshirō, stizzito, aveva proseguito sul marciapiede. I lampioni che illuminavano la strada non avevano nulla a che fare con la luce emanata da Taichi.
Lungo la strada aveva incontrato Yamato. Kōshirō, intirizzito dal rigore delle temperature, esitò, prima di rivolgergli la parola. Scese con gli occhi sull’orologio. Guardò l’ora. Taichi doveva aver raggiunto Sora.
Forse la stava scaldando con la forza delle sue emozioni. Naturali al punto che era un peccato non ricambiarle. Si abbracciò e smise di immaginarli assieme.
“Non vai da Sora-san?”
“No, mi fido”.
Yamato ostentò una ferrea sicurezza. Kōshirō tacque.

“Quel giorno ti ho mentito. Scusami”.
Il silenzio scricchiolò fra loro.
“Senza di te non avrei raccolto il coraggio”.
Si sentì libero. Anche se aveva deciso di tacergli il suo amore. E il vento lo abbracciò. Si sentì libero e non ebbe più paura.

***

Kōshirō sbirciò il led del cellulare e poi lanciò un'occhiata a Tentomon. Indossava una mascherina antismog simile alla sua, ma esageratamente grande.
“Non si è mai troppo sicuri”, aveva detto, fiero e saggio.
Gli angoli della bocca di Kōshirō si erano sollevati. I suoi occhi sorridevano. Affiancò l’amico e andò con lo sguardo alla viuzza di chioschi che indirizzava verso la Odaiba Mansion.
“Tentomon?”
“Sì, Kōshirō-han?”
“Avevi ragione. Mi sono nascosto abbastanza”.
Le parole furono inghiottite dal viavai dei mezzi di trasporto.
“Che hai detto?”

Kōshirō si era voltato. Scrutava la distesa d'acqua, come sondandone il fondo intessuto nella notte. C'era una gran corrente a sparpagliare le onde e la brezza avanzava verso la baia. Una mano stringeva la balaustra bianca.
“Mi spiace. Vorrei essere più… spontaneo”, mormorò, “È una battaglia continua… e non la vincerò in un giorno”.
“Kōshirō-han...”
Tentomon frenò le sue ali, poggiandosi sulla recinzione. La frase che intendeva pronunciare non uscì per la commozione.
Entrambi indugiarono a osservare il blu rincorrere la spuma dei flutti.

***

La camera da letto era attraversata dal ronzio del portatile.
Kōshirō si sdraiò sul materasso. Le vecchie molle cigolarono, sbuffando per il peso. Abbracciò Tentomon. Nonostante russasse di già e prendesse sempre troppo spazio nel letto, il suo chiasso decorava il silenzio. Lo portava alla vita. Di quegli schiamazzi Kōshirō aveva serbato il ricordo.
Aveva costruito radici e rituali in base alla sua vicinanza. Nella stessa misura, Tentomon riusciva a comprendere i silenzi di Kōshirō.
Erano quei silenzi che si fermavano sul cuore delle labbra, dove le parole morivano.
Erano trascorsi i giorni in cui Kōshirō considerava grande il suo letto. Era stato costretto a rannicchiarsi per entrarvi. La paura di non crescere in altezza gli sembrò sciocca, come molti altri dei suoi timori. Ne aveva fatto dei problemi insormontabili.
Le bugie lo avevano accompagnato lungo il suo cammino. Reggevano fra le mani il bene che taceva; il bene che non riusciva a trasmettere, imprigionato nel suo corpo.
“Non oggi”, ordinò a se stesso, mentre pensava a come risolvere i nodi del suo matrimonio, a come dire a Meiko che sua madre non sarebbe tornata a vivere con loro. A come avvicinarsi a Taichi. Forse non avrebbe avuto il tempo per gestire i propri desideri. Meiko era la sua priorità.
Strinse il cellulare al petto.

“Non oggi. Un passo per volta”.







L'angolo di Son:
Nella fanfiction Izumi e sua moglie stanno per divorziare. In Giappone, è possibile che il marito "riaccolga" in casa o "perdoni" la donna che lo sta lasciando - nei casi più positivi -, anche se lei non intende tornare nel nido coniugale. Spesso si tratta di una scelta atta a non creare scandalo e a non macchiare il nome della famiglia; quindi un'azione che intende scoraggiare i pettegolezzi. Non è il caso di Kōshirō, soprattutto se si pensa a quanto lui stesso abbia sofferto per la visione "chiusa" in merito alla propria adozione. Perciò è possibile ipotizzare che - anche conoscendo il carattere e il passato di Kōshirō - egli sia propenso a tenere la moglie nella vita di sua figlia (considerato quanto Kōshirō si senta responsabile per tutto, poi, non è difficile immaginarlo), anche per risparmiarle dolore.
Quanto ai motivi e alla risoluzione, penso di tornare a scrivere degli spin-off della storia per spiegare determinate situazioni e allargare i retroscena, dando spazio alla sua vita sentimentale (e alla relazione con Taichi).
In questo frangente, infatti, ho preferito centrare la trama sui pacchetti ricevuti e sul concetto di famiglia.
  
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