*Angolo autrice*
Prima di tutto, un grazie sentito a quanti stanno seguendo, leggendo e recensendo questa fanfiction... Grazie davvero! Purtroppo oggi non ho avuto tempo per rispondervi, ma rimedierò immediatamente! ;) Che dire, ecco, il secondo capitolo... Buona lettura! :*
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Trattenendo un risolino tra i denti,
la ragazza lo guardava,
i suoi occhioni azzurri che lo osservavano da sotto in su, mentre lui
se la
mangiava con lo sguardo, dall’alto del suo metro e
ottantacinque.
-
Posso
entrare, D?
-
Sss…
ma perché non stiamo qui, a parlare? –
propose lui, appoggiandosi allo stipite per simulare una sfrontatezza
che non
aveva e al contempo per mascherare il disagio. Ogni volta che lei
bussava alla
sua porta era la stessa storia.
Non voleva che lei vedesse in che
stato vivesse, non voleva
parlarle perché non percepisse il digiuno che lo affliggeva
da giorni, non
voleva starle vicino per non contaminare quella Venere di Botticelli,
quella
Psiche di Canova, quella Danae di Klimt… eppure a stento
reprimeva il suo
istinto prepotente, avrebbe voluto annientare ogni distanza, fisica,
temporale,
distruggere lo spazio-tempo tra loro e stringerla a sé,
avrebbe voluto
assaggiare le sue labbra e gustare la vita, avrebbe voluto portarla in
braccio
nella sua reggia e fare di lei la sua principessa.
Un leggero colpo di tosse lo
riportò alla realtà.
-
Donnie!
– ridacchiò lei - mi stai ascoltando?
-
Perdonami,
mi ero incantato. Dicevi?
-
Voi
artisti, sempre con la testa fra le nuvole!
Ti stavo dicendo di non fare lo stupido e di spostarti, anche
perché mi si
stanno stancando le braccia.
Donatello sgranò gli
occhi: non aveva notato il vassoio tra
le mani della giovane. Una fetta di pane e un bicchiere di latte: il
paradiso
tra le mani di un angelo.
-
Lo
so, non è molto, ma purtroppo non ho potuto…
lo sai com’è il cuoco, ho dovuto prend…
-
Ma
scherzi? – la interruppe lui – Non dovevi!
Davvero! - e
così dicendo si fece
comunque da parte per permetterle di passare – Ti prego, non
far caso al
disordine.
April entrò subito,
posò il vassoio sul letto e ci si
sedette accanto, mentre Donatello chiudeva la porta, sospirando.
-
Ti ho
disturbato?
-
No
no, assolutamente! – disse lui agitando le
braccia, precipitandosi a confortare il suo tono colpevole sedendosi a
terra a
gambe incrociate di fronte al letto, a due passi da lei. Si perdeva
sempre nei
suoi occhi: due zaffiri lucenti…
“Smettila
di sorridere come un ebete,
smettila! Autocontrollo!”
-
Lo
sai che è proprio carino quello spazietto che
hai tra i denti? – fece lei, mascherando poi
l’imbarazzo torturando una ciocca
di capelli. – Posso farti una domanda?
-
Certo!
-
…
Perché sei senza camicia?
“Ah.
Giusto.”
-
Ho
caldo.
-
Ogni
volta che ti vengo a trovare hai sempre
caldo, non sarà mica una tattica di seduzione la tua, eh?
Risero insieme, mentre
l’imbarazzo saliva alle stelle.
I suoi occhi azzurri saettavano sul
petto scoperto del
giovane. Era magro, molto, ma la attirava in maniera incredibile. Forse
perché
non le importava ciò che quelle costole significavano, ma al
contrario comprendeva
cosa volesse dire patire la fame, e perciò superava le
apparenze… April si
riscosse, chiudendo gli occhi. Lui era un’artista, era
acculturato, non avrebbe
mai voluto una locandiera insignificante e ignorante che veniva dalla
campagna.
Eppure non poteva farne a meno… adorava quella chioma
scomposta come una notte
di tempesta, quegli occhi intelligenti e dolci… e quel
tenerissimo sorriso.
April si guardava attorno curiosa, e
quando i suoi occhi si
soffermarono al centro della stanza, Donatello sussultò
impercettibilmente.
L’aveva vista.
-
Ancora
niente?
Ebbene sì. Stessa tela
bianca. Da giorni ormai.
-
Purtroppo
no. Sono… a corto di idee.
-
Non
ti scoraggiare – lo consolò lei, sporgendosi
dal letto per scompigliargli i capelli scuri – vedrai che
a… te li sei
strappati di nuovo?!? – gridò, diteggiando piano
la cute arrossata.
-
Sì,
ehm… - si scusò Donatello – Ero senza
pennelli, quindi…
-
Da
quanto tempo non vendi un quadro? – inquisì
lei, sedendosi di nuovo composta – Mangi abbastanza? La notte
senti freddo? Se
vuoi posso portarti…
-
April!
– la fermò, prendendole le mani che
agitava nell’aria nella foga del discorso – Non
devi preoccuparti per me, sto
bene. Grazie per la colazione, davvero… ma non ho bisogno di
aiuto. Mi
spiace, so che sono indietro con l’affitto, ma appena
venderò questo quadro ti
darò tutti i soldi che ti devo, promesso.
April lo guardò,
l’irritazione che faceva capolino dai suoi
occhi. Offesa, ritrasse le mani e si alzò dal letto,
sbuffando.
-
Il
tuo orgoglio è esemplare, Donatello. Ma
accettare l’aiuto che viene offerto nel momento del bisogno
è un atto di
maturità, non di debolezza.
E uscì, sbattendo la
porta. Il moro sospirò, rialzandosi da
terra, mentre le ginocchia e le altre giunture imploravano
pietà.
“Neanche
trent’anni e sei un relitto…
non hai un soldo, mangi a stento e vivi di elemosina, sei un pittore
senza gli
strumenti, ti fai i pennelli con i capelli e non hai nemmeno una ragazza. Sei…”
Si tappò le orecchie,
inutilmente, per non ascoltare quella
maledetta vocina. Non aveva bisogno dell’aiuto di nessuno. E
soprattutto, non
voleva la compassione di April. Voleva essere amato, non suscitare
pena. Era
quasi un anno che abitava in quella soffitta, da quando una giovane
donna dai
rossi capelli che aveva apprezzato un suo quadro appena venduto gli
aveva
offerto un alloggio a un prezzo irrisorio, che comunque non aveva mai
potuto
pagare, e ancora non era riuscito a dichiararsi. Di cosa si vergognava? In fondo, aveva scelto lui
quella vita. Era
stato lui a decidere di andarsene di casa, lasciare
l’ambiente agiato dal quale
proveniva, abbandonare gli studi per cercare fortuna nel mondo, in
libertà,
inseguendo il suo sogno di pittore.
“Non
mi pento di ciò che ho fatto,
l’ho fatto e non mi pento.”
Eppure… si
passò una mano sulla faccia. Aveva mentito ad
April. Non stava bene. A proposito…
Si avventò sul pane e sul
latte, liberando la furia animale
che aveva trattenuto in presenza della ragazza. Mangiava saltuariamente
e solo
quando lei gli portava qualcosa. I suoi quadri piacevano, riusciva
sempre a
venderli nell’arco di un giorno, ma la gente non era
più disposta a spendere
più di tanto per “qualcosa da appendere a un
muro”. Non per niente aveva
lasciato Parigi per trasferirsi in quel buco di culo di paesino, pieno
di gente
ignorante che ancora credeva ai fantasmi e al demonio… e che
non apprezzava
l’arte. In più, la sua faccia da morto di fame non
aiutava di certo nelle
trattative. Aveva dovuto arrendersi ai prezzi più
stracciati.
Inoltre, era tanto che non
dipingeva… e non perché non
avesse ispirazione. Altra piccola bugia. Non aveva più i
colori. Aveva finito
le sue amate tempere, centellinate ai limiti del possibile, e le
botteghe da
cui si riforniva non gli facevano più credito. Disperato,
aveva cercato le
soluzioni più strane: aveva provato a chiedere a un
profumiere una sola scaglia
di sapone, purché blu, per il più soffice dei
cieli…
-
Vai
via, artista dei miei stivali! Poveraccio,
vuole una delle mie pregiatissime saponette… per dipingere!?!
Non farti più
vedere qui, o te ne farò pentire amaramente!
Aveva chiesto al fruttivendolo del
mercato se gli regalava
un limone, per coglierne il giallo poetico della scorza e farne un
fiore
luminoso come il sole…
-
Trovati
un lavoro vero, e poi potrai COMPRARE
uno dei miei profumati limoni! Vattene, che mi fai perdere tempo, e non
venire
più a dar fastidio! E guai a te se provi anche a rubare la
frutta marcia, giuro
che chiamo gli sbirri e ti faccio arrestare!
Aveva chiesto a uno speziale della
salvia per il verde, e
addirittura era andato da un pasticciere per un pizzico di cacao per
farne del
marrone! Niente. L’avevano tutti ricoperto di insulti e
cacciato via a pedate.
Si prese il volto tra le mani, dopo
aver posato il vassoio
col bicchiere vuoto per terra. Gli occhi scuri e stanchi si spostarono
sulla
tela. Dondolando i piedi che sporgevano dal letto, li strusciava sul
pavimento,
essendo quel letto sfondato che gli stava distruggendo il collo
troppo
basso per la sua altezza da spilungone sfigato.
Pensava al dipinto. Lui
l’aveva già in mente da tempo, lo
vedeva ovunque posasse gli occhi, stampato nella retina in ogni minimo
dettaglio,
lo sognava perfino la notte! Sentiva fin dentro le viscere vuote che
quello
sarebbe stato “Il dipinto”, la sua acme,
l’apogeo della sua breve carriera da
artista, la sua opera d’arte... Così come
Pigmalione, la sua Galatea avrebbe
preso vita, tanto divina e perfetta sarebbe stata la sua bellezza. Ma
finché
non avesse trovato con
che dipingere, la
sua “creatura” sarebbe rimasta imprigionata nel suo
cervello. Si sentiva
inutile. Avrebbe decisamente fatto meglio a…
Distratto dai suoi pensieri colmi di
rabbia, caricò un
calcio ben assestato che raggiunse il bicchiere e lo spedì
dritto contro il
muro. Le ultime gocce di latte macchiarono il pavimento, mentre le
schegge di
vetro colpite dai raggi del sole, rilucevano iridescenti disegnando
arcobaleni
cangianti sui muri scrostati della stanza.
“Perfetto.
Genio.”
Esasperato, si lasciò
sfuggire un mugolio lamentoso
nell’alzarsi per controllare i danni. Con una scopa
spampanata e una paletta
rotta provenienti dal bagno, adornate da eterei veli aracnidi, raccolse
pazientemente i pezzi più piccoli – considerato
che lui stava sempre a piedi
scalzi, avrebbe fatto meglio a pulire per bene – per poi
buttarli fuori dalla
finestra. Aveva controllato che non stesse passando nessuno sotto
quella
pioggia di vetro? … Sì. Diciamo di sì.
Posati gli attrezzi, prese con cautela
la scheggia più grande, guardandola in controluce. Era una
sezione trasversale
del bicchiere, dai lati all’apparenza molto affilati e dalle
punte aguzze.
Usandola come una lente, osservò tutta la stanza, come un
bambino che gioca con
un caleidoscopio. Il suo sguardo vetroso si posò infine
sulla tela bianca.
Anche tramite quello strumento di alterazione della realtà,
quello spazio vuoto
bianco come il nulla trasmetteva ugualmente un senso di acuta
depressione.
Percepiva il bisogno vitale di trovare un colore, almeno uno solo, o
sarebbe
impazzito! Guardò di nuovo la scheggia. E un pensiero folle
attraversò come una
cometa la sua mente di artista: un’epifania gli si era
manifestata.
-
Eureka!
Ce l’ho!
E detto fatto, si punse un dito con
uno degli spigoli del
frammento di vetro, trattenendo un sussulto. Subito una perla di sangue
impreziosì il suo indice sinistro. E il suo luccichio si
rifletté negli occhi
nocciola del ragazzo.
-
Finalmente…
ce l’ho! Il rosso ce l’ho!