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Autore: cartoonkeeper8    06/06/2015    5 recensioni
Una "favola" sull'amore.
Come? Già sentita? Oh, ma questa non è come le altre fiabe...
- Humanized -
Genere: Angst, Malinconico, Poesia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: April O'Neil, Donatello Hamato
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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*Angolo autrice*

Prima di tutto, un grazie sentito a quanti stanno seguendo, leggendo e recensendo questa fanfiction... Grazie davvero! Purtroppo oggi non ho avuto tempo per rispondervi, ma rimedierò immediatamente! ;) Che dire, ecco, il secondo capitolo... Buona lettura! :*

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Trattenendo un risolino tra i denti, la ragazza lo guardava, i suoi occhioni azzurri che lo osservavano da sotto in su, mentre lui se la mangiava con lo sguardo, dall’alto del suo metro e ottantacinque.

-          Posso entrare, D?

-          Sss… ma perché non stiamo qui, a parlare? – propose lui, appoggiandosi allo stipite per simulare una sfrontatezza che non aveva e al contempo per mascherare il disagio. Ogni volta che lei bussava alla sua porta era la stessa storia.

Non voleva che lei vedesse in che stato vivesse, non voleva parlarle perché non percepisse il digiuno che lo affliggeva da giorni, non voleva starle vicino per non contaminare quella Venere di Botticelli, quella Psiche di Canova, quella Danae di Klimt… eppure a stento reprimeva il suo istinto prepotente, avrebbe voluto annientare ogni distanza, fisica, temporale, distruggere lo spazio-tempo tra loro e stringerla a sé, avrebbe voluto assaggiare le sue labbra e gustare la vita, avrebbe voluto portarla in braccio nella sua reggia e fare di lei la sua principessa.

Un leggero colpo di tosse lo riportò alla realtà.

-          Donnie! – ridacchiò lei - mi stai ascoltando?

-          Perdonami, mi ero incantato. Dicevi?

-          Voi artisti, sempre con la testa fra le nuvole! Ti stavo dicendo di non fare lo stupido e di spostarti, anche perché mi si stanno stancando le braccia.

Donatello sgranò gli occhi: non aveva notato il vassoio tra le mani della giovane. Una fetta di pane e un bicchiere di latte: il paradiso tra le mani di un angelo.

-          Lo so, non è molto, ma purtroppo non ho potuto… lo sai com’è il cuoco, ho dovuto prend…

-          Ma scherzi? – la interruppe lui – Non dovevi! Davvero!  - e così dicendo si fece comunque da parte per permetterle di passare – Ti prego, non far caso al disordine.

April entrò subito, posò il vassoio sul letto e ci si sedette accanto, mentre Donatello chiudeva la porta, sospirando.

-          Ti ho disturbato?

-          No no, assolutamente! – disse lui agitando le braccia, precipitandosi a confortare il suo tono colpevole sedendosi a terra a gambe incrociate di fronte al letto, a due passi da lei. Si perdeva sempre nei suoi occhi: due zaffiri lucenti…

Smettila di sorridere come un ebete, smettila! Autocontrollo!

-          Lo sai che è proprio carino quello spazietto che hai tra i denti? – fece lei, mascherando poi l’imbarazzo torturando una ciocca di capelli. – Posso farti una domanda?

-          Certo!

-          … Perché sei senza camicia?

Ah. Giusto.

-          Ho caldo.

-          Ogni volta che ti vengo a trovare hai sempre caldo, non sarà mica una tattica di seduzione la tua, eh?

Risero insieme, mentre l’imbarazzo saliva alle stelle.

I suoi occhi azzurri saettavano sul petto scoperto del giovane. Era magro, molto, ma la attirava in maniera incredibile. Forse perché non le importava ciò che quelle costole significavano, ma al contrario comprendeva cosa volesse dire patire la fame, e perciò superava le apparenze… April si riscosse, chiudendo gli occhi. Lui era un’artista, era acculturato, non avrebbe mai voluto una locandiera insignificante e ignorante che veniva dalla campagna. Eppure non poteva farne a meno… adorava quella chioma scomposta come una notte di tempesta, quegli occhi intelligenti e dolci… e quel tenerissimo sorriso.

April si guardava attorno curiosa, e quando i suoi occhi si soffermarono al centro della stanza, Donatello sussultò impercettibilmente. L’aveva vista.

-          Ancora niente?

Ebbene sì. Stessa tela bianca. Da giorni ormai.

-          Purtroppo no. Sono… a corto di idee.

-          Non ti scoraggiare – lo consolò lei, sporgendosi dal letto per scompigliargli i capelli scuri – vedrai che a… te li sei strappati di nuovo?!? – gridò, diteggiando piano la cute arrossata.

-          Sì, ehm… - si scusò Donatello – Ero senza pennelli, quindi…

-          Da quanto tempo non vendi un quadro? – inquisì lei, sedendosi di nuovo composta – Mangi abbastanza? La notte senti freddo? Se vuoi posso portarti…

-          April! – la fermò, prendendole le mani che agitava nell’aria nella foga del discorso – Non devi preoccuparti per me, sto bene. Grazie per la colazione, davvero… ma non ho bisogno di aiuto. Mi spiace, so che sono indietro con l’affitto, ma appena venderò questo quadro ti darò tutti i soldi che ti devo, promesso.

April lo guardò, l’irritazione che faceva capolino dai suoi occhi. Offesa, ritrasse le mani e si alzò dal letto, sbuffando.

-          Il tuo orgoglio è esemplare, Donatello. Ma accettare l’aiuto che viene offerto nel momento del bisogno è un atto di maturità, non di debolezza.

E uscì, sbattendo la porta. Il moro sospirò, rialzandosi da terra, mentre le ginocchia e le altre giunture imploravano pietà.

Neanche trent’anni e sei un relitto… non hai un soldo, mangi a stento e vivi di elemosina, sei un pittore senza gli strumenti, ti fai i pennelli con i capelli e non hai nemmeno una ragazza. Sei…

Si tappò le orecchie, inutilmente, per non ascoltare quella maledetta vocina. Non aveva bisogno dell’aiuto di nessuno. E soprattutto, non voleva la compassione di April. Voleva essere amato, non suscitare pena. Era quasi un anno che abitava in quella soffitta, da quando una giovane donna dai rossi capelli che aveva apprezzato un suo quadro appena venduto gli aveva offerto un alloggio a un prezzo irrisorio, che comunque non aveva mai potuto pagare, e ancora non era riuscito a dichiararsi. Di cosa si vergognava?  In fondo, aveva scelto lui quella vita. Era stato lui a decidere di andarsene di casa, lasciare l’ambiente agiato dal quale proveniva, abbandonare gli studi per cercare fortuna nel mondo, in libertà, inseguendo il suo sogno di pittore.

Non mi pento di ciò che ho fatto, l’ho fatto e non mi pento.

Eppure… si passò una mano sulla faccia. Aveva mentito ad April. Non stava bene. A proposito…

Si avventò sul pane e sul latte, liberando la furia animale che aveva trattenuto in presenza della ragazza. Mangiava saltuariamente e solo quando lei gli portava qualcosa. I suoi quadri piacevano, riusciva sempre a venderli nell’arco di un giorno, ma la gente non era più disposta a spendere più di tanto per “qualcosa da appendere a un muro”. Non per niente aveva lasciato Parigi per trasferirsi in quel buco di culo di paesino, pieno di gente ignorante che ancora credeva ai fantasmi e al demonio… e che non apprezzava l’arte. In più, la sua faccia da morto di fame non aiutava di certo nelle trattative. Aveva dovuto arrendersi ai prezzi più stracciati.

Inoltre, era tanto che non dipingeva… e non perché non avesse ispirazione. Altra piccola bugia. Non aveva più i colori. Aveva finito le sue amate tempere, centellinate ai limiti del possibile, e le botteghe da cui si riforniva non gli facevano più credito. Disperato, aveva cercato le soluzioni più strane: aveva provato a chiedere a un profumiere una sola scaglia di sapone, purché blu, per il più soffice dei cieli…

-          Vai via, artista dei miei stivali! Poveraccio, vuole una delle mie pregiatissime saponette… per dipingere!?! Non farti più vedere qui, o te ne farò pentire amaramente!

Aveva chiesto al fruttivendolo del mercato se gli regalava un limone, per coglierne il giallo poetico della scorza e farne un fiore luminoso come il sole…

-          Trovati un lavoro vero, e poi potrai COMPRARE uno dei miei profumati limoni! Vattene, che mi fai perdere tempo, e non venire più a dar fastidio! E guai a te se provi anche a rubare la frutta marcia, giuro che chiamo gli sbirri e ti faccio arrestare!

Aveva chiesto a uno speziale della salvia per il verde, e addirittura era andato da un pasticciere per un pizzico di cacao per farne del marrone! Niente. L’avevano tutti ricoperto di insulti e cacciato via a pedate.

Si prese il volto tra le mani, dopo aver posato il vassoio col bicchiere vuoto per terra. Gli occhi scuri e stanchi si spostarono sulla tela. Dondolando i piedi che sporgevano dal letto, li strusciava sul pavimento, essendo quel letto sfondato che gli stava distruggendo il collo troppo basso per la sua altezza da spilungone sfigato.

Pensava al dipinto. Lui l’aveva già in mente da tempo, lo vedeva ovunque posasse gli occhi, stampato nella retina in ogni minimo dettaglio, lo sognava perfino la notte! Sentiva fin dentro le viscere vuote che quello sarebbe stato “Il dipinto”, la sua acme, l’apogeo della sua breve carriera da artista, la sua opera d’arte... Così come Pigmalione, la sua Galatea avrebbe preso vita, tanto divina e perfetta sarebbe stata la sua bellezza. Ma finché non avesse trovato  con che dipingere, la sua “creatura” sarebbe rimasta imprigionata nel suo cervello. Si sentiva inutile. Avrebbe decisamente fatto meglio a…

Distratto dai suoi pensieri colmi di rabbia, caricò un calcio ben assestato che raggiunse il bicchiere e lo spedì dritto contro il muro. Le ultime gocce di latte macchiarono il pavimento, mentre le schegge di vetro colpite dai raggi del sole, rilucevano iridescenti disegnando arcobaleni cangianti sui muri scrostati della stanza.

Perfetto. Genio.

Esasperato, si lasciò sfuggire un mugolio lamentoso nell’alzarsi per controllare i danni. Con una scopa spampanata e una paletta rotta provenienti dal bagno, adornate da eterei veli aracnidi, raccolse pazientemente i pezzi più piccoli – considerato che lui stava sempre a piedi scalzi, avrebbe fatto meglio a pulire per bene – per poi buttarli fuori dalla finestra. Aveva controllato che non stesse passando nessuno sotto quella pioggia di vetro? … Sì. Diciamo di sì. Posati gli attrezzi, prese con cautela la scheggia più grande, guardandola in controluce. Era una sezione trasversale del bicchiere, dai lati all’apparenza molto affilati e dalle punte aguzze. Usandola come una lente, osservò tutta la stanza, come un bambino che gioca con un caleidoscopio. Il suo sguardo vetroso si posò infine sulla tela bianca. Anche tramite quello strumento di alterazione della realtà, quello spazio vuoto bianco come il nulla trasmetteva ugualmente un senso di acuta depressione. Percepiva il bisogno vitale di trovare un colore, almeno uno solo, o sarebbe impazzito! Guardò di nuovo la scheggia. E un pensiero folle attraversò come una cometa la sua mente di artista: un’epifania gli si era manifestata.

-          Eureka! Ce l’ho!

E detto fatto, si punse un dito con uno degli spigoli del frammento di vetro, trattenendo un sussulto. Subito una perla di sangue impreziosì il suo indice sinistro. E il suo luccichio si rifletté negli occhi nocciola del ragazzo.

-          Finalmente… ce l’ho! Il rosso ce l’ho!

  
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