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Autore: sof_chan    07/06/2015    1 recensioni
Tratto dalla storia:
"Ci passiamo accanto senza parlarci, c'è solo un leggero sfiorarsi delle dita.
-Nami-, dico io. -Mi chiamo Nami-
Lui si volta, ha le guance stranamente arrossate, -Zoro, Roronoa Zoro!- risponde semplicemente..."
**Fanfiction partecipante alla ZoNami Week indetta dal Midori Mikan**
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nami, Roronoa Zoro | Coppie: Nami/Zoro
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Notte.
Mezza luna ombrata di nero da una nuvola grigia che corre nel cielo.
Un’ombra cammina bassa, radente al muro di mattoni di un logoro e vecchio edificio, nascondendo il viso dietro il bavero alzato dell’impermeabile bagnato e nero.
Trattenendo il fiato entra nel edificio, attorno a cui ha camminato per ore, incerto se entrarvi o meno.
Prende coraggio, entra socchiudendo appena la porta, scivolando fin sulla sedia libera ferma ad aspettarlo, unendosi al gruppetto fremente e stretto nei ranghi che borbotta al suo arrivo.
Un colpo di tosse, e il nostro eroe prende la parola.
-Eh, salve sono Fragolina00 e sono…- silenzio e panico tra i presenti per quella parola che può cambiare ogni cosa.
L’impermeabile si gonfia un po’, lasciando respirare il nuovo arrivato, che infine pronuncia la tanto sospirata frase -… e sono Zonamista!!!-
Un applauso esplode dal gruppo anonimo riunito, e gli impermeabili vengono lanciati nell’aria bagnata di lacrime di allegria, palloncini a forma di quarta spada e mandarini piovono giù dal soffitto, ballonzolando al suono della canzone della “Quarta Spada for ever in the Mikan” mentre le anonime zonamiste brindano con tequila al mandarino e adorando la statua del Rating Rosso Zonam…
E tu? Che aspetti a toglierti l’impermeabile e venire a presentarti?
Il Midori Mikan aspetta anche te!

 

 

 

Rassegnata me ne sto, con le gambe stese e  poggiate sul balcone del mio appartamento al quinto piano, il corpo accomodato scomodamente sulla sdraio, a guardare il panorama notturno di questa tranquilla cittadina.

 Quel che sale, un giorno dovrà scendere, quel che ha forma un giorno la perderà…

Proprio questa è la sensazione ovattata che percepiscono i miei occhi mentre scrutano avidi ogni singolo artefatto della fotografia vivente di fronte a me.

Il sonno non arriva e il caldo opprimente di un’estate giunta forse troppo presto conciliano al meglio la mia strana abitudine.

Insieme al rumore di alcune bottiglie rotte il mio orecchio sinistro viene catturato da un fischiettio. Più che un fischio, si sarebbe detto un filo dentario che a tratti raschia una linea tesa dell’aria silente. Mi sporgo meglio alla ricerca del proprietario, e la mia mente intanto vaga…

Mi immagino un adolescente in un sabato sera. Amici, risate, baccano. Il suo passo nella mia testa è pesante e trascinato, forse per colpa dell’alcool che ha probabilmente ingerito. E mentre cammina fischietta, un sorriso è stampato sul suo volto. La melodia stenta ad emergere, praticamente non c’è. Il filo dentario sale e scende senza coerenza lungo la linea. Roba da scorticare i nervi!

 Faccio ruotare la testa verso la direzione di partenza e rilasso i muscoli del collo, poi mando giù per la gola un sorso di liquore al mandarino.

Chiudo gli occhi e inspiro, riempiendo lo stomaco del dolce profumo degli alberi di pino che circondano la strada principale. Apro gli occhi, li osservo immersi nella profondità del silenzio, il rumore delle macchine giunge in lontananza. Si vedono solo le luci dei lunotti, sicuri nel darmi le spalle, veloci; gente al volante che corre verso casa. Gente felice? Triste? Annoiata?

Un cane rincorre un gatto.

Il gatto cerca la fuga, nascondendosi su un albero di gomma che è affianco alla cassetta delle lettere. Il suo vaso è pieno di carte e sporcizia. Al pari di me anche quell’albero mi sembra stanco. Chiunque può andare e riempirlo di mozziconi, strappargli le foglie. Non ricordo da quanto sia lì, parecchio a giudicare dal suo stato di sporcizia. Gli sono passata accanto ogni giorno ma non mi sono mai accorta della sua esistenza fino a stasera.

Eppure la maggior parte delle notti le passo qua, a sorseggiare la mia bevanda preferita e a perdermi nel silenzio, cercando di afferrare saldamente ciò che era mio, o di ritrovare i miei desideri nelle vite altrui. Nella vita ci sono cose che si realizzano e cose che non si realizzano. Le prime le dimentichiamo subito, le seconde le coltiviamo, gelosi, per sempre dentro di noi. I sogni o le aspirazioni non sono altro che questo. In un certo senso la bellezza stessa della vita risiede proprio nell’amore verso ciò che non è stato. Così non rimane invano qualcosa di non realizzato, perché in realtà risplende in bellezza di notte.

Una distesa di palazzi intorno a me, dimensioni varie e stucchevoli, colori monotoni e tipici.

Silenzio.

Odio il silenzio della notte. Nei confronti del rumore, di tutti i rumori, possiamo assumere un atteggiamento. Ma il silenzio è zero, è nulla. Ci circonda eppure non esiste. Sento un vago rumore ai timpani. Sorrido alzandomi dalla sdraio e avanzo lungo il balcone per riuscire a scorgere due innamorati stretti in un abbraccio che si parlano amorevolmente.

Nessuna invidia, alcun risentimento.

Io amo le immagini che la notte mi regala, perché sono queste che mi riscaldano dalla solitudine.

Le cerco, le desidero queste immagini, queste istantanee di vita nascoste alla moltitudine del caos giornaliero. Le scruto, le rubo avida, le faccio mie.

Ma solo di notte… perché ho deciso che non avrei più cercato di ottenere altro se non quella pace. Mi basta abbandonare al vento nero il mio cuore, come gli uccelli. Non voglio buttarlo completamente via. A volte è pesante e cupo, soprattutto quando i ricordi felici lo tormentano e scalfiscono, ma succede anche che portato in volo dai sussurri segreti della notte possa riuscire a vedere attraverso il tempo e lo spazio. Posso perfino metterlo nel suono dolce di quel ti amo appena sussurrato da quei due innamorati.

Riesco a sentirlo scalpitare il mio cuore, a fremere pacifico, dietro una finestra che nasconde furtiva una giovane madre stanca ma felice.

Eccola, posso percepire la sua immagine riflessa da una flebile fiammella cantare dolcemente una nenia alla sua piccola.

Proprio come faceva con me la mia Bellemere…

Involontariamente alzo più volte gli occhi al cielo. Per la gente è naturale, quando si trova nell’oscurità, cercare la luce delle stelle e della luna. Sopra la mia testa però non trovo ciò che io cerco. Solo il buio, strato su strato, incombe su di me. Non soffia un alito di vento, l’aria è stagnante e greve. Ciò che mi avvolge, qualunque cosa sia, sembra essersi fatto molto più denso. Ho come l’impressione di essere diventata io stessa molto più pesante.

Mi guardo con urgenza intorno, rincorrendo la mia tranquillità dietro ogni finestrella illuminata.

Ed ogni finestrella nasconde una storia, la storia che cucio con maestria ad ogni piccolo abitante di quella stanza illuminata. Universitari che festeggiano un esame, padri che afferrano insaziabili le ultime ore di sonno, bimbi nascosti sotto le coperte, spaventati da chissà quale mostro. Riesco a percepire una lacrima silenziosa cadere della signora Tomoya, mentre stringe al petto la foto del suo povero marito, perso da poco… Lo so ormai, le storie in cui il mondo della vita e quello della morte, in virtù di qualche energia a un certo punto vengono a contatto.

 

La notte ormai è fonda, manca qualche ora all’alba.

Il sonno non arriva.

Il sussurro del vento si è fatto fresco, copro le mie spalle nude con una leggera giacca di cotone.

Ritorno sul balcone cercando tra i palazzi qualche luce ancora accesa che mi faccia compagnia.

Mi accoccolo sul muro alla mia destra e guardo senza accorgermene il mio punto preferito, quel davanzale buio che solo di notte si colora.

Ritardo strano il suo stanotte.

Lo cerco, lo aspetto disperata.

Ho come l’impressione di passare la vita ad aspettarlo sotto la luna. E anche oggi non ne perdo l’occasione.

Apre la porta con fare serio il mio ragazzo misterioso. Si avvicina all’inferriata di ferro arrugginita e si siede in terra. Dona un caro sguardo al panorama dinanzi a lui e comincia ad armeggiare con quelle che, presumo, debbano essere delle Katane.

Non so altro, non mostra altro.

Resta indecifrabile al mio sguardo.

Le donne hanno il talento di immaginare mille mondi, mille congetture o fantasticherie, mi dico con sgomento, ma con lui… Non riesco a percepire nulla. Chi sia, cosa faccia, cosa possa passare nella sua testa. Lui è fuori, al di là delle finestre che io osservo. Non riesco a vedere dentro il suo mondo. Abbasso lo sguardo, sul muso ho lo sconforto di un compositore che ha perso il suo talento. Procedo spedita con la mia mente, perdendomi tra le movenze della mia preda, ma senza pensare a nulla. Non esiste più né distanza né tempo. Poco a poco viene meno anche la sensazione di avanzare. Eppure avanzo, sì, avanzo, risucchiata involontariamente nel suo mondo. E senza accorgermene lo chiamo, chiamo un nome che non conosco. Un grido acuto il mio, desideroso di scorgere oltre quel solo profilo squadrato che ogni notte il ragazzo mi fa scorgere, voglio colmare quel vuoto insidioso dentro me accarezzando con gli occhi l’intero volto di quel sconosciuto, ora illuminato dai raggi della nostra compagna luna.

E finalmente si volta verso me, finalmente mi ha trovata. Intorno a noi, occhi negli occhi, un silenzio che suggerisce che siamo diventati una cosa sola.

Noi estranei del mondo nella notte.

Nonostante la sussistente distanza la luce della luna esalta l’espressione dell'uomo, il suo viso ha quella tipica espressione che le persone assumono quando non riescono ad esprimersi bene, ma gli dona come se gli fosse abituale.

Guardandolo quella sensazione di mancanza, di incompletezza se ne va via così, svanisce improvvisamente senza complicazione o sofferenza. Come se qualcuno abbia spento un qualsiasi interruttore senza far alcun rumore.

Mi sento bene, anche se mi imbarazzo sotto la forza e la robustezza di uno sguardo del color della pece.

Smarrisco l’ago della bilancia delle mie emozioni; il senso dell’orientamento, del tempo, persino la percezione della mia persona. Non so come questo sia iniziato, né quando sarebbe finito. Mi accorgo che sono imprigionata, sola e in balia di questo sguardo di ghiaccio rovente sulla mia pelle chiara. Indietreggio nella mia stessa ombra, lui muove il passo nella mia direzione d’aria appoggiandosi alla parte finale dell’inferriata. Mi scruta, avido.

Scivolo seduta sul pavimento. Nella testa un vuoto pieno di lui, non riesco a pensare ad altro. Accasciata al suolo guardo soltanto quel punto di fronte a me, è come rubare la parte migliore dei frutti che ci offre il mondo. Non so nemmeno io quanto tempo siamo rimasti a studiarci, scoprirci silenziosamente. Le nostre lunghe ombre man mano cominciano a schiarirsi. In lontananza, davanti a noi, il confine tra cielo e terra si confonde in una foschia bianca e la linea dell’orizzonte compare: lo sguardo potrebbe correre in tutte le direzioni ma non ci accorgeremmo che il paesaggio sta cambiando. Nel cielo soffuso non ci sono nuvole, è una distesa compatta della stessa sottile sfumatura di blu, fra l’oltremare e l’azzurro acqua.

 

Alba.

Il ragazzo si volta verso il timido sole, poi ritorna su di me. Riesco a scovare un ghigno disteso sul suo volto, poi muove la testa dolcemente in cenno di saluto. Un breve raggio di luce si frappone tra i tre pendenti alle orecchie che tintinnano al suo movimento. Quel che resta sono le sue possenti spalle , si allontanano pian piano dal luogo del nostro incontro.

Rimango immobile e succube del tempo.

Chiudo la porta vetrata desiderando ansiosa la nuova notte.

Sono agitata, nervosa. Come se fossi stata privata di qualcosa di troppo importante, la paura mi assale.

Con la mano sul vetro ritaglio attimi ormai perduti, disegno i contorni finalmente chiari di quel volto già lontano, annullo il mio riflesso.

 

Scendo le scale velocemente, corro alla ricerca di quella meta. Non so perché ma qualcosa mi spinge ad accelerare, camminare spedita verso di lui. Nessuna certezza, nessuna valida scusa.

Intorno a me la piccola cittadina inizia a svegliarsi, il rumore denso di caffè e benzina mi pizzica le narici. Svolto l’angolo a destra, dovrebbe essere qua casa sua.

Mi fermo affannata nel respiro, non per la corsa ma per l’assurda azione insensata.

Di fronte a me non c’è nessuno.

Mi volto dandomi della stupida ragazzina, e torno indietro.

Cerco le chiavi del portone principale nella mia borsa fin troppo grande, alzo lo sguardo ma questo viene subito catturato da due occhi conosciuti.

Il mio strambo vicino e compagno di notti insonni è di fronte a me, bello proprio come me lo aspettavo. E’ un tipo strano, non di quelle classiche bellezze, e non ha nemmeno un’eleganza strepitosa. Noto solo ora una cicatrice sull'occhio sinistro. Chissà cosa o chi ha solo provato a sfigurare questo volto perfetto! Mi accorgo di non conoscere assolutamene nulla di lui. I capelli di una strano verde sono spettinati come se avesse dormito, e dovrebbe essere vicino ai venticinque, ventisei anni. Eppure già a 50 metri di distanza ho capito che era il tipo giusto per me.

Il cuore prende a battermi all’impazzata e l’interno della bocca mi diventa secco come sabbia nel deserto

Ci fissiamo per una manciata di secondi, senza dire nulla. Del resto cosa si può dire in certi momenti?

La luce dei ricordi è vivida, così come le sensazioni provate poche ore prima, ma le parole… Quelle non lo sono.

Ci passiamo accanto senza parlarci, c’è solo un leggero sfiorarsi delle dita.

-Nami,- dico mentre mi volto. -Mi chiamo Nami-

Lui si volta di rimando, le sue guance arrossiscono, -Zoro, Roronoa Zoro!- risponde semplicemente, mi sorride con quello che deve essere il suo solito ghigno.

 

 

E’ notte, me ne sto con le gambe stese, poggiate sul balcone del mio appartamento al quinto piano, il corpo accomodato scomodamente sulla sdraio, a guardare il panorama notturno di questa tranquilla cittadina.

Mi perdo tra i suoi colori e i suoi profumi, ormai così famigliari.

Un brivido di freddo viene fermato da un improvviso calore. Due mani callose e ruvide appoggiano dolcemente una giacca di cotone sulle mie spalle nude.

-Mocciosa, muoviti! Ormai è tardi, andiamo a dormire-

Zoro mi accarezza col suo sguardo nero come la pece.

-Mi sto semplicemente rilassando, Buzzurro!- lo cantono facendoli una linguaccia.

Lui rientra nella stanza e mi fa cenno di seguirlo.

Poso un ultimo sguardo alla città racchiusa nella notte.

Chiudo la porta vetrata lasciando fuori i rumori, gli odori, le vite altrui.

Perché ho trovato finalmente il mio mondo, ed è al di qua di questo balcone!

 

 

 

Note dell’autrice: Assolutamente buttata così di getto, quindi non ne sono completamente soddisfatta! Ma mi premeva comunque dare un mio piccolissimo contributo a questa ZoNami week. Ringrazio Zomi per l’invito promettendo di fare di meglio le prossime volte.

   
 
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