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Autore: Kiaretta_chan_94    08/01/2009    1 recensioni
[...] È la massima profondità del ventunesimo secolo, trovarsi a cavallo tra un “Roby sei la mia vita” e un “Cris Vaffanculo” con tanto di medio accanto. Crocevia, incrocio, che scegli, l’amore o il vaffanculo? Il vaffanculo, ovvio. Perché è più sincero.
Precisazione: non è una storia d'amore.
[Rating Giallo per presenza di linguaggio "forte"]
Genere: Generale, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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È il 23 dicembre, e fa un freddo cane.
In questo momento sono seduta su una panchina verde verniciata male, con una dichiarazione d’amore disegnata a destra e un disegno osceno sulla sinistra. È la massima profondità del ventunesimo secolo, trovarsi a cavallo tra un “Roby sei la mia vita” e un “Cris Vaffanculo” con tanto di medio accanto. Crocevia, incrocio, che scegli, l’amore o il vaffanculo? Il vaffanculo, ovvio. Perché è più sincero.
Sono seduta su una panchina il 23 dicembre, ho freddo e i jeans si stanno congelando. Non sono ancora entrata in un bar solo perché nel negozio accanto c’è mia madre, che è entrata con gli occhi che le brillavano davanti ai saldi 30%. Mi ha dato in mano l’ombrello, si è aggiustata il giubbotto e ha dato un’occhiata all’acconciatura tramite la vetrina di una gelateria. Un uomo in completo gessato da dentro se n’è accorto, ha creduto che guardasse lui. Le ha lanciato un sorrisetto lascivo, mia madre è una bella donna, ma lei non se n’è accorta. Mia madre non si accorge mai di niente. Comunque si è ripresa l’ombrello e mi ha sorriso anche lei. Io però fissavo l’uomo: rideva ancora, ma sembrava deluso. Al suo braccio, una donna sulla mezza età lo ha tirato per una manica, le labbra che sillabavano un “Cosa c’è?”. Lui si è riscosso, e le ha rivolto lo stesso sorriso che aveva rivolto a mia madre.
Resta fuori, che ti faccio una sorpresa, mi dice lei.
Io stavo ancora fissando l’uomo in completo gessato, e non le ho risposto.
È entrata da venti minuti.
Mi annoio, volto lo sguardo a destra, sulla strada piena di gente. Il Vomero* è sempre affollato la sera, poi manca poco a Natale, c’è sempre chi si è dimenticato la suocera e corre a comprarle una boccetta d’acqua di colonia con un fazzoletto, dieci euro in tutto, “con tanto amore”.
Al mio fianco è arrivato un ragazzo.
È di colore, sulle spalle ha un sacco di plastica azzurra. Si posiziona alla mia destra, guardandosi intorno; poi posa il sacco a terra, prende a frugarci dentro.
Lo guardo poco interessata. Il solito immigrato.
Lui sta estraendo qualcosa dalla borsa. Stranamente, non sono i soliti cagnolini che abbaiano a intervalli regolari, con la loro vocina che quasi grida “made in china”. Sono cavalli di plastica.
Ne sceglie un paio, li mette a terra. Traffica ancora dentro il sacco.
È giovane. Non ha la testa rasata, come la maggior parte delle persone di colore che si trovano in giro per il Vomero: i capelli sono neri, riccioluti. I tratti quasi ancora infantili, ma ancora non troppo provati. Probabilmente è uno nuovo, arrivato da poco su una nave dopo un viaggio al sapore di merda e sudore, nella speranza di una vita migliore. Mi fa quasi pena. Lo schifo resta schifo, da qualunque parte del mondo vai. Non saranno un paio di cavalli di plastica che non comprerà nessuno a cambiare la situazione.
Ha trovato quello che cercava: una pacchetto di pile. Uno di quelle economici, che massimo costano un euro e non durano nemmeno un’ora, ma lui ovviamente non lo sa. Ci mette un po’ per azionare i due giocattoli. Prendono vita all’improvviso, cominciano a muovere le gambe e a emettere suoni. Soddisfatto, li mette davanti a sé. Quelli cominciano a camminare, nitrendo male, come se starnutissero. Dopo i primi tre passi uno già cade, inciampa in una piega del lastricato. Ha una gamba più corta delle altre, grumi di plastica sciolta sono attaccati agli zoccoli neri.
Il ragazzo comincia a guardarsi intorno. La gente continua a camminare, nessuno nota i cavalli, nessuno nota lui, nessuno nota niente, esattamente come al solito. Intanto l’altro giocattolo continua a camminare e a dire “Avanti!” con la sua stupida voce metallica e inudibile. Ormai è arrivato quasi fino in strada, dove camminano i passanti. Il ragazzo va in avanti, lo risposta un po’ più indietro, rialza anche l’altro cavallo, li lascia andare di nuovo.
Va avanti così per un paio di minuti. Deve sempre correre a riprenderli e a rimetterli indietro, per impedire che i passanti li schiaccino. La sciarpa troppo leggera penzola quando si china. Cade, non cade, sì che cade, no. Non cade mai, stranamente.
È davvero ovvio che è nuovo, che non ha imparato ancora nulla, che non sa un trucco, uno stratagemma. Perfino io so quale dovrebbe usare, lo usano tutti: i cavalli vanno messi nel coperchio di una scatola di cartone, trovato nella spazzatura. Azionati, camminerebbero ma urterebbero contro il bordo, continuando a sgambettare a vuoto finché la pila non si scarica. Non gliene fregherebbe lo stesso a nessuno, di quegli stupidi cavalli, ma eviterebbe di spaccarsi la schiena, correndo e riprendendoli sempre cocciutamente, come un deficiente.
Sono quasi arrabbiata con lui, con la sua incapacità di curarsi, di usare l’ingegno, di osservare. Quasi vorrei urlagli che è un idiota, che nessuno li compra più da secoli, quei cosi di plastica inutili e difettosi, coi grumi di plastica sul fondo degli zoccoli. Sto zitta, continuo ad osservarlo.
Sono passati dieci minuti.
Ancora non si arrende. Continua a farli camminare in tutte le direzioni, e a riprenderli sempre. E continua a guardarsi intorno, come a sperare che guardando la gente quella si degni a guardare te.
Da un angolo spunta una donna con due bambini. È affaccendata, ansima, con due buste in una mano e la bimba più piccola nell’altra. Il figlio più grande le cammina dietro, guardandosi attorno. Ha una maglietta firmata Benetton, l’ho vista questa settimana, costava cinquanta euro e faceva pure schifo, blu con due righe gialle.** Però costava cinquanta euro, e questo la rendeva molto più bella e appetibile. Anche una merda di cane andrebbe a ruba, se costasse cinquanta euro e ti dicessero che ultimamente va di moda tenerla sul caminetto a profumare l’ambiente. Scommetto che questa donna, questa donna col cappello pesante e il rossetto e il bambino con una maglietta da cinquanta euro la comprerebbe, tanto per illudersi di essere un tipo interessante e alla moda, anche se questo comprende avere la casa che puzza e i figli che si lamentano perché loro, anime innocenti, ancora non capiscono.
La donna sta camminando strattonando la bambina, ed è arrivata quasi al ragazzo e ai suoi cavalli. Il bambino più grande li nota, si ferma a guardarli. Il giovane subito si rizza su, gli sorride, gliene mostra un altro. Il bambino non lo guarda nemmeno, pensa al cavallo, è più importante il cavallo di lui.
Mamma, lo posso avere? chiede alla donna. Lei si blocca, getta un occhiata distratta al quel misero angolino di esposizione. Il ragazzo di colore sorride anche a lei. La donna non ci bada.
No, dice. E tira avanti, senza fermarsi.
Mamma, ti prego! insiste il bambino, capriccioso. È lì fermo, non se ne va. Il ragazzo getta un’occhiata quasi disperata, da cucciolo di cane sbavante, alla bionda con due borse e il rossetto troppo forte.
No! Stavolta è seccata, torna indietro, afferra il figlio per la maglietta. Poi sembra ripensarci, ripiega sulla mano. La maglia costa cinquanta euro, in fondo.
Il ragazzo li guarda andare via, mordendosi un labbro. Poi sembra improvvisamente ricordarsi qualcosa. Si volta di scatto, ma è troppo tardi: uno dei giocattoli, continuando a camminare, è finito in strada. Un uomo con la ventiquattro ore, gli occhiali neri e il cellulare in mano lo urta camminando. Il piede coperto dalla scarpa costosa lo prende in pieno. Se ne accorge, si ferma, getta un’occhiata a cosa lo stia ostacolando. Sembra sorpreso. Poi, con noncuranza, da un calcio all’oggetto e torna per la sua strada.
Il cavallo bianco torna davanti a noi, mutilato a morte. La gamba destra anteriore è spezzata a metà, la plastica ancora regge, malleabile, cosicché sembra quasi che quella zampa sia diventata un’elegante curva bianca, sull’asfalto scuro.
Il giovane lo guarda con un’espressione indecifrabile. Poi lo raccoglie, agguanta anche l’altro, li mette nel sacco di plastica azzurra. Ci fa un nodo, lo solleva.
Ho cinquanta euro in tasca. E improvvisamente questo ragazzo mi fa pena, una pena immensa, mi viene da piangere. Infilo la mano in tasca, stringo la banconota così forte che sento la filigrana fondersi con le dita.
Non gliela do.
Il ragazzo si mette il sacco in spalla, mi da le spalle, comincia a camminare.
Non ho fatto in tempo.
Per un attimo sono sul punto di rincorrerlo, di mettergli la banconota in mano e di dirgli di lasciar perdere quegli stupidi cavalli, di cambiare prodotto, di vivere, di prendersi un gelato al cioccolato e una pizza e mangiarli insieme, di mandare una pizza a sua madre, ché la facciamo così buona a Napoli, di non arrendersi, di farlo, di tornare indietro, di andare via.
-Chiara!-
Mi volto di scatto. È mia madre, con in mano un giubbino viola, aderente in vita, alla moda. Raggiante.
-Guarda cosa ti ho preso!
Torno con lo sguardo a cercare la strada, freneticamente, quasi in preda al panico.
Non c’è più.
Ha svoltato l’angolo e non c’è più.
-Chiara?-
Mi giro e vedo mia madre, con un’espressione interrogativa in viso. Guardo lei, la sua sciarpa calda e morbida, in mano un giubbino costoso con la targhetta che spunta, 135 euro.
Scoppio a piangere.
-Chiara!-
Mia madre si fionda su di me, preoccupata. Mi prende il viso tra le mani.
-Cosa c’è. Per l’amor del cielo? Cosa c’è?
Ormai singhiozzo, le spalle mi tremano, singhiozzo e penso al ragazzo e a quei cinquanta euro che ho in tasca, li vorrei ridurre in mille pezzettini e bruciarli.
Sono agnostica da due anni. Lo sono per un sacco di motivi futili, perché mi annoio, perché sono scettica, e un sacco di idiozie simili. Eppure lancio una preghiera disperata e furiosa, una preghiera di nemmeno un secondo.
Ti prego, fammi tornare indietro. Ti prego, aiutalo. Ti prego, aiutami. Ti  prego, fa che qualcuno li compri, quegli stupidissimi cavalli.
Poi mi ricordo che lui è straniero, che non è cristiano, che non può pregare Dio, che nemmeno io posso farlo, che sono stata al crocevia tra l’amore e il vaffanculo e di nuovo ho scelto il vaffanculo.
Avevo cinquanta euro in tasca e al ragazzo non glieli ho dati.
Me ne rendo conto.
-Schifo. Il mondo fa schifo, mamma.-
E anche io.
 N/A
Questa è in assoluto la storia che io abbia "sentito" di più tra quelle che ho scritto, non a caso la protagonista ha il mio nome.
È basata in parte su un avvenimento realmente accaduto. Il ragazzo infatti esiste, ed è ancora lassù al Vomero. L'ho incontrato una sola volta. Spero davvero che stia bene.

Tutti gli altri, come la madre, l'uomo al bar, la donna con il bambino e l'uomo in ventiquattr'ore non esistono.
Vi lascio alle note finali. Sembra scontato, lo so, ma... commentate. Conta molto per me, specie trattandosi di questa storia.

Chiara


*Per chi non lo sapesse, il Vomero è un quartiere di Napoli,
**Naturalmente, la maglietta citata non esiste, e la descrizione negativa non vuole assolutamente denigrare i prodotti della Benetton.
  
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