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Autore: Lost In Donbass    08/06/2015    1 recensioni
Amore tra una ragazza dei bassifondi, e una della alta borghesia in semplici pillole malinconiche.
Genere: Generale, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I CALLED YOU ... 

Ti chiamavo “sigaretta”, quando, sedute sulla scalinata della scuola, io fumavo in silenzio e tu mi guardavi sorridendo. Un sorriso che non aveva eguali in tutto il mondo, e non credo mai li avrà. Soffiavo tristi volute di fumo nell’aria, e tu ci giocavi, soffiandoci sopra.
Ti chiamavo “matita”, quando, durante le rumorose ricreazioni, disegnavo grossi teschi e cuori infranti sul quaderno di storia, in mezzo agli appunti su Epaminonda e Meneclide. E poi tu li correggevi ridendo (la tua risata risuona ancora nelle mie orecchie), disegnando le nostre iniziali intrecciate dentro quei cuori infranti.
Ti chiamavo “stiletto”, quando, ogni volta che riuscivamo a uscire di venerdì sera, tu su quei vertiginosi tacchi su cui non sapevi camminare, io con i vecchi anfibi ai piedi,  ti tenevo stretta per la vita, per non farti cadere, per non farti spezzare in mille pezzi.
Ti chiamavo “gonna a righe”, quando, in ogni intervallo o cambio d’ora, ci incontravamo nel corridoio, e io ti accarezzavo i fianchi e tu arrossivi. Avevi la pelle pallida, e vederti arrossire era una meraviglia senza pari. E poi roteavi nella tua lunga gonna a righe, o nella corta gonnellina bianca.
Ti chiamavo “lacrima”, quando, sedute in riva al mare, tu piangevi silenziosamente per un amore sbagliato, tossico, vietato. E io, lo sbaglio, la tossica, il divieto, ti asciugavo le lacrime e mi bagnavo la pelle con il tuo pianto di cristallo. Ti ho fatto soffrire anche troppo, bambola, non so ancora come tu abbia potuto sacrificare i tuoi sedici anni per me.
Ti chiamavo “melodia”, quando, sedute sul letto di camera mia (la ricordi, la camera piccola e buia, di quella dannata casa vuota?) ascoltavamo il disco con la banana, come lo chiamavi tu. Ascoltavano i Velvet Underground, e tu muovevi quei fili di seta biondi che hai al posto dei capelli al ritmo di una New York persa per sempre.
Ti chiamavo “batteria”, quando ti suonavo “Whole Lotta Rosie” con la vecchia batteria e tu tenevi il ritmo battendo quelle mani delicate, nascoste in un garage nei vicoli più sporchi, a provare un suono che non si sente più.
Ti chiamavo “oceano mare”, quando sfarfallavi i tuoi pallidi occhi blu, guardandomi con curiosità, scrutando attentamente ogni mio movimento, occhi ridenti e occhi malinconici, un mare di emozioni in cui affogavo in continuazione. Occhi salati di lacrime trattenute, soffocati da gente ambiziosa, con un luccichio in fondo che era la libertà di stare con me.
Ti chiamavo “libro aperto”, quando leggevamo i libri in biblioteca, tenendoci la mano per seguire le vicende di eroi senza gloria, di mostri mutilati, di ragazzi senza onore e di mondi paralleli. Tu sognavi ad occhi aperti e a volte mi dicevi di volertene andare, di lasciare questo mondo maledetto e di trovarne un altro dove vivere, morire, dove sentire che c’era qualcosa per tirare avanti. E io ti davo ragione, e ti facevo evadere dalla tua prigione di convenzione.
Ti chiamavo “contraddizione” quando avevi paura, a scuola, di tenermi la mano, e invece, quando eravamo da sole in qualche anfratto e allora cercavi la mia bocca con violenza sconsiderata. Sapevi si stare disubbidendo, di stare andando contro le regole morali che ti erano state imposte, di star dando confidenza al demonio, ma ci provavi. Provavi a evadere dalla tua gabbia d’oro e seguire la quindicenne che amavi in un mondo di droga, fumo, musica e bugie. Volevi l’ebbrezza della libertà, e solo io potevo dartela.
Ti chiamavo “matrioska”, quando mi mostravi tutti i tuoi lati più assurdi, come quando ridevi come una scema, o quando scoppiavi a piangere per la verifica che secondo te era andata male. Quando tacevi per ore, e mi guardavi con una dolcezza che ancora adesso mi uccide, e quando cominciavi a parlare, e allora non la smettevi proprio più. E io ascoltavo, ogni tanto ridevo, ogni tanto commentavo. Spesso tacevo, per fissarmi nella mente la tua voce cristallina.
Ti chiamavo “settembre”, quando mi facevi stare male dentro. Quando diventavi malinconica e ti rattristavi. Ti rattristavi per noi, per il nostro futuro. Dicevi che se ti avessero scoperto sarebbe morto tutto, e io cercavo di rassicurarti come potevo. Cercavo di calmare il tuo cuore agitato, di non vedere più la tempesta nei tuoi occhi. Eri la malinconia di un’estate ormai finita.
Ti chiamavo “Mary Jane”, quando per la prima volta ti ho convinta a fumare una canna nel parcheggio della scuola. Eri sballata, barcollavi. Ma eri felice, così beata, così libera. Io ero la tossica che continuava a tenerti accesa dentro, che ti liberava dai pesi della vita. Quando ti cannavi impazzivi del tutto, e diventavi rosea. Invece che pallida.
Ti chiamavo “gabbiano”, quando, sul tetto di casa mia, osservavi l’orizzonte e i gabbiani che sorvolavano il cielo. Quando ti dicevo che sarei volata via, e tu mi dicevi che saresti volata via con me. Non capivi, non capisci, e non penso capirai mai, cosa intendevo per volare. E forse era meglio così, innocenza beata, appesa a un sogno migratore che va e poi ritorna, cullato dal sole al tramonto.
Ti chiamavo “ciclamino”, quando, un giorno di sole, ti avevo aspettato sotto casa con un mazzo di rose nere, e tu ci avevi affondato il viso dentro, e poi mi avevi baciata nonostante la vicina di casa ti avesse lanciato un’occhiataccia schifata. Una volta all’anno ti compravo dei fiori, e la scena si ripeteva, romantica, come piaceva a te. Un cliché, ma a te piacevano tanto i cliché.
Ti chiamavo “luna piena”,  quando, a scuola, mi venivi a consolare. Ero triste per la mia vita, per quello che mi succedeva a casa e da tutte le parti. E tu venivi a illuminarmi la giornata, a sederti vicino a me e a tenermi la mano ben oltre lo squillo della fine. Mi facevi qualche disegno sul quaderno, mi davi dei leggeri baci, aspettavi che io mi schiudessi per te e tornassi a essere la solita attaccabrighe che ero solitamente, con il mio brutto carattere, con la mia faccia tosta, con il viso che tu ti ostinavi a dirmi che era bello. Ma ero solo uno sfregio.
Ti chiamavo “tatuaggio”, quando, in un impeto di follia, mi ero fatta tatuare il tuo nome sul braccio. Avevo insistito perché lo facessi anche tu, ma non hai voluto. Quello sarebbe stato evidentemente la tua condanna. Ti piaceva guardarlo, e poi te ne facevi uno uguale con il mio nome a penna. Poi lo lavavi via, e il giorno dopo di nuovo, come un eterno rituale. Anche la notte, quando mi rigiravo insonne tra le coperte, guardavo il tatuaggio e la tua foto sul comodino e mi addormentavo felice.
Ti chiamavo “prezzo da pagare”, quando, a scuola, dovevo fare a botte con i maschi per te. Una volta io e un tizio c’eravamo picchiati per averti, e tu ti eri messa in mezzo urlando. Ti eri rotta il labbro, ma ci avevi separato. Tu eri mia, e solo mia, lui se ne era andato via con la coda tra le gambe. Quando venivi a casa mia, penso ricorderai le occhiate della gente. E anche io con il coltello tra le dita. Lo sapevano, lì dentro, che tu eri roba mia, intoccabile e nessuno aveva mai osato nemmeno sfiorarti. Eri un prezzo, appunto, come la vincita a un casinò.
Ti chiamavo “cioccolato”, quando mi venivi incontro con una tavoletta in bocca, lo sguardo un po’ colpevole, le guance gonfie. Ne mangiavamo un po’ a testa; tu amavi il cioccolato perché era dolce, dolce come te. Ne mangiavi un sacco, anche se non avresti dovuto per la dieta che ti era stata imposta da tua madre. Ma eri già un figurino così, cosa pretendeva quella donna? Con me potevi mangiarne in quantità senza che qualcuno ti dicesse “smettila”. Io non ti ho mai dato limiti, e tu amavi anche questo. A volte mi chiedevo se stavi con me solo per avere libertà, ma poi penso che non è vero. Stavi con me perché mi amavi veramente. Per la libertà non si rischia l’amore di una ragazza senza morale come ero io.
Ti chiamavo semplicemente “Matilde”, quando non eravamo altro che noi stesse, con i nostri errori, la nostra gloria, il nostro onore, il nostro orgoglio. Quando eravamo solo noi due, amanti, amiche, sorelle, principessa e cavaliere. Quando nessuno ci diceva nulla, e potevamo vivere la nostra vita come meglio credevamo, tenendoci strette per non cadere, legate a doppio filo con lo sbaglio e la vergogna. Quando sapevamo di appartenerci da secoli, e che niente ci avrebbe spezzato. Quando dormivamo insieme nella mia soffitta, sotto la luce delle stelle che filtrava dall’abbaino. Quando seguivi i ritmi della mia batteria, di un mood sconosciuto e di un punk mai morto.
Quando mi dicevi, semplicemente, “Ti amo”.


***
Scusate questo schifo, ma dovevo assolutamente scriverlo. Il caldo mi da dannatamente alla testa, e mi fa diventare di cattivo umore, e da ciò ne escono questi pensieri tormentati da due soldi. Grazie a chi ha letto, davvero, siete d'aiuto a leggere i miei sfoghi deficienti.
Matilde, anche se non mi conosci,  sappi che questo è per te. Per te, splendore

 
  
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