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Autore: Francine    08/06/2015    7 recensioni
Trema di Yggdrasill,
il frassino eretto,
geme l'antico albero,
lo jǫtunn è libero.
Tutti temono
sulla strada degli inferi,
che la stirpe di Surtr
li inghiotta.

(LJÓÐA EDDA - VǪLUSPÁ, La Profezia della Veggente, v 47)
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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20.




«La prima posizione è quella dell’oplita. Sai chi erano gli opliti?»
«No.»
Un sospiro trattenuto, uno sguardo penetrante e l’espressione di chi pensa
Ok, devo cominciare proprio dall’ABC. Camus sbatte le palpebre – lui che non le sbatte quasi mai, e questo inquieta non poco il piccoletto appena arrivato dal Giappone – poi si rivolge a lui. E gli chiede – e gli ordina: «Spiegaglielo.».
Così Isaac, il mento sollevato e le mani sui fianchi, sciorina la lezione al compagno. Quella stessa che Camus gli ha fatto entrare in testa a suon di pazienza e legnate.
«Gli opliti erano la fanteria pesante nell’Antica Grecia. Avevano uno scudo di metallo, grande, con cui proteggevano il corpo. Si dice che le nostre armature derivino dalle loro.»
«No. Non
si dice.» La voce di Camus fende in due il vento. «È così.»
«Giusto, Maestro.» Isaac ha chinato la testa. Un gesto istintivo, quasi si aspettasse uno scappellotto o una tirata d’orecchie.
«Mostragli la prima posizione.»
Isaac annuisce. Poi divarica le gambe e si sposta di tre quarti. Allarga le braccia –
come fossero ali – e le raccoglie al petto. La sinistra resta ferma, a proteggere cuore e milza. La destra si stende all’indietro, pronta a scattare per colpire l’avversario.
«Questo è lo scudo», dice Camus. Facendo scorrere le dita sull’avambraccio sinistro di Isaac. «Con questo, pari i colpi. Con questo, difendi gli organi vitali. Piega di più la schiena, Isaac.»
«Sissignore!»
«Questa», prosegue Camus, girando attorno all’allievo in posizione e toccandogli il braccio destro, «è la lancia. Con questa attacchi. Colpisci. Hai capito?»
Il piccoletto annuisce.
«Adesso guarda i piedi», gli dice Camus e gli occhi azzurri di Hyoga scendono sulle caviglie di Isaac. «Cosa vedi?»
«I piedi», vorrebbe rispondere Hyoga, ma l’istinto gli dice di non fermarsi alle apparenze. Perché Camus non è uno che va tanto per il sottile. Ed è capace di afferrarlo per la collottola, come si fa coi gatti, e di avvicinargli la faccia ai piedi di Isaac. Perché veda meglio.
«I piedi», dice Hyoga. Poi aggrotta le sopracciglia e aggiunge: «Il peso del corpo. È sbilanciato sulla punta di piedi.».
«
Bravo!» Camus annuisce. Quasi stupito dallo spirito di osservazione del nuovo arrivato. «Sai perché dovete combattere in punta di piedi?»
La testa di Hyoga va da destra a sinistra un paio di volte.
«Isaac?»
«Perché lo stile di combattimento dei Santi deriva da quello degli opliti. E gli opliti in battaglia avanzavano ordinati al suono dei flauti.»
«Flauti?», domanda Hyoga. Perplesso. «Ma non è una cosa
da femmine
Il viso di Isaac perde colore. Non può perdere la posizione – Camus non gliel’ha ancora concesso – né può scuotere la testa. Così sgrana gli occhi. Come ad avvisare Hyoga di non avventurarsi in quel discorso. Mai. Per nessuna ragione al mondo. E di tornare indietro, finché è ancora in tempo.
«
Femmine?» La voce di Camus testimonia che è troppo tardi. Ma Hyoga non deve essersene accorto, perché ignora il tono glaciale con cui il Maestro gli si è rivolto – e la vena che si sta gonfiando sulla tempia di Camus – e prosegue: «Sì. È come se stesse facendo un balletto. E il balletto non è una cosa da femmine?».
«Esistono anche ballerini. Maschi.»
«Per modo di dire», ribatte Hyoga, le braccia lungo i fianchi e l’espressione più innocente di questa terra.
L’agnello che controlla se nella bocca del lupo c’è una carie, pensa Isaac. Che già s’immagina Camus afferrarlo per il collo ed incassarlo nel ghiaccio in tre, due, uno…
«Isaac», e Isaac obbedisce. E colpisce Hyoga con la punta del piede destro. Una spazzata laterale che lo prende al fianco e lo fa cadere – lo fa ruzzolare – qualche passo più in là.
 «Ti sei trattenuto.» È un rimprovero, quello di Camus. Che avanza verso Hyoga, gli si inginocchia di fronte, e gli dice: «Non conta essere maschi o essere femmine. In battaglia conta essere più forti del tuo avversario. E a volte si è più forti con l’agilità, che con i pugni. Chi è massiccio è anche lento. E nel tempo che lui impiega per sferrare un solo calcio, tu puoi mitragliarlo di colpi. Fanno più male dieci calci consecutivi di uno ben piazzato. Perché non sempre spezzi le ossa al primo tentativo. Anzi…».
Quindi Camus si rialza e torna da Isaac.
«Lasciando da parte l’origine storica, spiegagli
perché vi faccio combattere sulla punta dei piedi. Come foste delle ballerine
Isaac sa che Camus l’ha fatto apposta. Per prendersi una rivincita su quell’allievo che gli ha dato, nemmeno poi tanto implicitamente, della femminuccia.
«Perché siamo più leggeri, così.»
«E?»
«E perché se dobbiamo essere imbattibili sul ghiaccio, dobbiamo sapere combattere in posizione svantaggiata su neve e ghiaccio. In punta di piedi.»
«Come se?»
«Come se avessimo il suono dei flauti nelle orecchie.»



«Corri! Non fermarti per nessuna ragione al mondo!»
«No. Dobbiamo combattere!»
«No. È quello che vuole il nemico!»
Il vento attorno a loro fischiava come se piovessero pallottole. Non erano Ichi e Nachi. Non stavano facendo un po’ di teatro, come aveva pensato all’inizio. Era qualcun altro, armato delle peggiori intenzioni possibili. Li stavano inseguendo. E avevano iniziato a mitragliarli con colpi sempre più ravvicinati. Non avevano intenzione di ucciderli, non subito, almeno. Giocavano, come un gatto che si trastulla con un topolino di pezza. Rimpallandoselo tra le zampe per poi lasciarlo a terra. Aspettando un suo movimento, uno qualsiasi, per ricominciare a divertirsi con lui.
Hyoga non si sentiva un topolino. Hyoga era il Cigno. Ed un cigno avrebbe avuto ragione del più grassoccio dei gatti con una bella beccata data come si deve. Un colpo sulla testa, per far prendere aria alla segatura, come avrebbe detto Camus.
Eppure correva. Obbediva. Era quello il piano, no? Stare agli ordini per vedere come si sarebbe evoluta la faccenda. Per scoprire quali carte avesse in mano quest’invasata caduta dal cielo come una tegola verniciata d’oro. I ragazzi dovevano trovarsi a poca distanza. Se si fossero fermati, avrebbero preso il nemico tra due fuochi. Una bella manovra a tenaglia. Avrebbero solo dovuto resistere. E allora perché correre via?
«Io dico che dobbiamo combattere. Potrebbe essere l’occasione per…»
«Chiedere lumi?»
«Sì.»
«E tu ti fideresti del nemico?»
Un colpo sollevò un metro di neve fresca vicino ai loro piedi. Troppo vicino. Per i gusti di entrambi. Hyoga si pose davanti a lei. «Non credo potremo scappare in eterno.»
«Io no. Tu sì.»
«Non esiste. Non lascio sola una donna…»
«Una donna?» Gli afferrò una ciocca di capelli e tirò. Verso di sé. Hyoga reclinò la testa all’indietro, esponendo il collo al soffio del vento. Lei avvicinò la bocca al suo orecchio quindi sussurrò: «Non sono una donna. Sono un Santo di Athena. Come te. Non ti conviene fare due volte quest’errore, bel faccino.»
Tirò ancora, e Hyoga sentì il cuoio capelluto protestare con scariche di dolore. Come di aghi piantati sottopelle. Quindi lo lasciò andare e si pose davanti a lui.
«Corri.»
«Scordatelo! Resto a darti una mano!»
Lei stese il braccio destro per impedirgli di superarla. «Corri, ho detto. Vai a nord e non voltarti indietro.»
«A nord? Ma l’aereo…»
«Sono dei civili. Non possiamo rischiare che catturino anche loro», replicò lei. «Se colpissero l’aereo? Ci hai pensato?»
«Quindi che facciamo?»
«Continua a correre. Io me ne porto dietro il più possibile. Poi ti raggiungo.» Hyoga esitò. «Tranquillo. Avviso io gli altri.»
«Gli altri?»
«Come giocatore di poker fai schifo. Lasciatelo dire.» Indietreggiò, e un altro colpo si conficcò a poca distanza da loro, sollevando un altro sbuffo di neve. «So che ci stanno seguendo. Sareste stati dei cretini a non farlo.»
Piegò il busto in avanti, il braccio sinistro a coprire il cuore e la milza, ed il destro pronto a colpire. La prima posizione. Quella dell’oplita.
«Vai. Non fermarti per nessuna ragione al mondo. E cerca di non farti ammazzare!», gridò lei, prima di scattare in avanti, lanciandosi contro il nemico come un masso scagliato da una catapulta. Hyoga la vide sparire tra cumuli di neve fresca sollevata da terra. Poi iniziarono le grida.


«Balder… pardon, il Sommo Dolvar non è un problema. Ma non fidarti di Midgard, mio signore.»
Ullr guarda dritto davanti a sé, come se gli stesse mostrando solo i camminamenti di pietra di Asgard e non i nemici della loro causa. Il vento soffia gelido sulle loro teste, incanalandosi nelle gole rocciose. Lukas segue il piccoletto cercando di ignorare quel suono spettrale che sta chiamando il suo nome. Con la voce di suo padre. Con la voce di Torsten.

«Perché?»
È una domanda logica e lecita. Se non ci si può fidare di qualcuno, deve esserci un motivo. Uno serio, o Ullr non gliel’avrebbe additato. Avrebbe sottinteso, insinuato, omesso. Indicandoglielo, è come se avesse tracciato una riga sulla fronte di Midgard. Con un evidenziatore giallo sole.

«Non è dei nostri», e se Ullr intenda l’appartenenza ad Asgard o alla causa, non è chiaro. Non ancora.
«Non è dei nostri?»
Ullr si ferma al limite estremo dei camminamenti. Il vento soffia sulla vallata e sui loro colli di pelliccia, ma c’è uno sprazzo di sole e di calore su quelle pietre grigie. Un posto ideale per fermarsi e mostrare al nuovo venuto – Loki, come l’ha battezzato il Sommo Dolvar –i confini settentrionali del regno con ampi gesti. E fare quattro chiacchiere, al riparo da orecchie indiscrete.

«Sai perché Midgard indossa sempre la maschera?»
«Una ferita di guerra?»
Ullr ride sotto i baffi. Poi scuote la testa e fissa uno sperone di roccia simile ad un dente aguzzo. Come quello di un lupo.
«Niente di tutto ciò. Non è né menomato, né incredibilmente brutto. » Pausa. «Midgard indossa la maschera per un voto.»
«Un voto?»
Esiste ancora gente che pronuncia i voti?, si chiede, affascinato dallo sperone di roccia che si staglia verso l’altro. Come a voler azzannare le nuvole. «Come si chiama quella roccia? Ha un nome?»
«Non proprio. Noi lo chiamiamo Dente del Lupo.»
«Dente del Lupo» Lukas si lascia scivolare quelle parole sulla punta della lingua. Le assapora. Sanno di terra e sangue. Gli piacciono. Annuisce. «Parlavi di un voto, giusto?»
«Qualcosa del genere.»


Ullr ama la teatralità. I discorsi sibillini. Il detto ed il non detto che si annidano nelle ombre delle parole stesse. Il problema è il suo pubblico. Lukas non è un rozzo montanaro che puoi abbagliare con un paio di paroloni altisonanti, o due frasi gettate via con distrazione ed il peso della rivelazione incredibile che si nasconde dietro la prossima virgola. Frasi fatte. Sospensioni sceniche. Trucchetti che con lui non attaccano. Che non possono attaccare, perché Lukas ha visto l’originale all’opera. E per quanto Ullr sia bravo a tenere viva l’attenzione su di sé, e possa vantare una presenza scenica impressionante a dispetto della bassa statura, non è che un pallido riflesso. E nessuno potrebbe mai paragonare il freddo bagliore della Luna con l’abbagliante splendore del Sole, giusto?

«Raccontami tutto.» Possibilmente senza troppi giri di parole, ché qui si gela.
«È arrivato all’alba di una mattina di primavera. Ha bussato alle porte di Asgard e noi l’abbiamo accolto. È stato Balder. Suo padre era sul letto di morte, o quello straniero non sarebbe mai entrato qui. Non avrebbe mai corrotto la nostra città.»
Lukas tace. Tace perché c’è una solenne beffa nella sua situazione. Non c’è nessuno più asgardiano di lui – sua padre non è forse un dio? Sua madre non era forse una principessa di sangue reale? – eppure agli occhi di quella gente è lui, lo straniero. Quello accolto –
sottratto – da Vanheim come bottino di guerra. Un cavallo di Troia.
«E?»
Ullr prende una pausa ad effetto. Poi continua a raccontare: «Devi sapere, mio signore, che siamo un popolo pacifico.»
«Pacifico?»
«Sulla carta, s’intende», ed il sorriso di Ullr scintilla come una tagliola nell’erba. «Accogliamo chiunque decida di lasciarsi alle spalle la sua vecchia vita, ma siamo nemici giurati degli assassini e dei ladri. Vedi quello?» Gli indica una sorta di pendio scosceso, qualche metro più in basso del Dente del Lupo. È irto di sassi aguzzi e pietre taglienti. Dev’essere scivolosissimo. Il luogo ideale da cui far cadere bambini malformati o vecchi malandati.
«È il sentiero di sangue», continua Ullr. «Lì è dove eseguiamo le condanne. A chi ruba, viene tagliata una mano nella pubblica piazza. A chi uccide, spetta quello», ed indica il sentiero con un gesto distratto della spalla.
«Quindi?», domanda Lukas, che si sta perdendo dietro tutte quelle ellissi e quei salti logici.
«Quando è arrivato, Midgard era impiastricciato di sangue e fango fin sopra alle orecchie. Ha detto che non era suo. Che si era difeso. Che i parenti della sua donna si erano messi in mezzo. E che l’avrebbero ucciso, se non si fosse difeso.»
«E Balder gli ha creduto?»
«E Balder gli ha creduto», replica Ullr, incrociando le braccia sul parapetto di pietra. «Così lo abbiamo accolto e lui si è buttato alle spalle la sua vecchia vita.»
«Come siamo magnanimi», commenta Lukas, lo sguardo incollato al Dente del Lupo.
«Non proprio.» Ullr sorride. Come un bravo attore che regge uno spettacolo intero sulle proprie spalle. «Abbiamo inviato qualcuno a controllare che vi fosse una corrispondenza tra le parole di Midgard e la realtà. Abbiamo trovato la ragazza e lei ha confermato le sue parole.»
«E che sarebbe successo nel caso in cui…»
«Quello.» E Ullr gli indica il Sentiero.
Lukas annuisce. «Hai ancora l’indirizzo della ragazza?»
Ullr lo guarda come se lo vedesse per la prima volta. «Mio signore?»
«Hai ancora l’indirizzo della ragazza?», ripete. Simulando una calma che non prova.
«Sì. Ha sposato un altro, ma vive ancora nello stesso villaggio. Credo.»
«
Credo non è abbastanza», e Lukas tamburella le dita sulla pietra grigia. «Manda qualcuno di fidato a controllare. Che la tengano d’occhio. Intesi?»
«Intesi, mio signore. Ma posso chiederti perché tanto accanimento? Abbiamo tante bellissime donne pronte a…»
Lukas alza una mano, come a chiedere silenzio. Lo sa. Ci sono bellissime ragazze dalla pelle di neve e i capelli color dell’oro zecchino tra quelle vecchie mura di pietra. Alcune, le puttane di corte, le ha già conosciute. Altre, le seguaci del culto, aspettano solo di poterglisi avvicinare. Ma è la piccola, tenera e fresca Freya, quella che lui vorrebbe trovare tra le lenzuola. È lei la principessa reale. Quella che gli sarebbe spettata di diritto se solo Torsten non fosse accidentalmente morto.
«Lo so. Ci sono moltissimi frutti in questo giardino. Ma sai come si dice?
Servo d'altri si fa, chi dice il suo segreto a chi nol sa.»


«E questo è quanto.»
Milo osservava il proprio alluce sinistro sgocciolare sul pavimento. Non entrava nella tinozza. Si era dovuto sedere nell’acqua calda fino alla vita, le ginocchia piegate e le caviglie incrociate, e adesso non ne poteva più. Aveva allungato le gambe sul bordo ed era scivolato dentro l’acqua fino al petto, le mani che sfioravano il pavimento. Non si era sentito così bene da giorni.
Di spalle, Kanon affettava pomodori ascoltando il suo racconto. Non poteva vedere l’espressione del viso del suo ospite, ma la rigidità delle spalle gli suggeriva che quello che aveva sentito non gli era piaciuto. Nemmeno un po’. Il corpo non mente, diceva Aristoteles, ma Milo si chiedeva se per caso Kanon non costituisse l’eccezione alla regola.
Attese qualche minuto, osservando con aria distratta la trina che il sapone aveva formato sulla superficie dell’acqua, poi gli chiese: «Commenti?».
Kanon posò il coltello. Azionò la pompa un paio di volte e si sciacquò le mani.
«Vuoi il parere del mastermind o del», Santo, «guerriero?»

Kanon sapeva di non potersi considerare un Santo a tutti gli effetti. Non era stato ordinato, lui. Non aveva giurato sulla statua di Athena. Era solo stato perdonato dalla dea, ma Milo – e forse anche gli altri – avrebbero voluto qualcosa di più solenne di una pacca sulla spalla ed un cazziatone amichevole. L’Espiazione. Un percorso che l’avrebbe ricondotto allo status di Santo con lentezza. E difficoltà. Molte difficoltà. E Kanon non sapeva ancora se desiderava essere un Santo. Da ragazzino, voleva l’armatura dei Gemelli, ma per toglierla a Vasilios. Per essere lui a primeggiare sul fratello. Almeno per una volta nella vita. Ma adesso che Vasilios non c’era più, adesso che non era più un ragazzino dispettoso dal cervello sempre in movimento, la faccenda assumeva tutt’altro aspetto. Tutt’altro sapore. Quello della saccarina, quando il dolce è passato e sale a galla l’amaro. E il possesso dell’armatura era qualcosa di più del poter sfoggiare un gagliardetto sulla giacca e sfilare tra la folla per attirarsi gli sguardi delle belle ragazze. L’aveva fatto, da ragazzino. Approfittando di un momento di distrazione di suo fratello. Non se n’era accorto nessuno. E l’armatura si era lasciata indossare da lui. Forse stavolta potrebbe avere qualcosa da ridire, pensò Kanon, asciugandosi le mani su uno strofinaccio liso.

«Entrambe. Quella del manipolatore e quella del guerriero», ribatté Milo. Come da copione.
Kanon prese il pane e lo strizzò. Lo spezzettò nella ciotola che conteneva i pomodori, quindi prese delle olive e le face sgocciolare dalla salamoia.
«C’è una cosa che non mi torna. Come un meccanismo che gira a vuoto.»
«Quale?»
«Il sicario. Perché diamine l’hanno uccisa?»
«Perché sapeva troppo», ribatté Milo.
«Giusto. E se stessimo parlando di un malvivente qualsiasi, anche io la chiuderei qui. Il sicario è bruciato. Meglio toglierlo di mezzo. Ma non abbiamo a che fare con un’organizzazione criminale, di quelle saltate fuori dai romanzi o dagli sceneggiati televisivi.»
«Per la cameriera, vero?»
«Per la cameriera e per l’hostess. Qui abbiamo a che fare con un dio.»
«Quale?»
«Non lo so. Ed è questo che non mi torna. L’ingranaggio che gira a vuoto.»
«Spiegati meglio.»
Kanon versò l’olio d’oliva sui pomodori e aggiunse una presa generosa di sale. Spezzettò un paio di foglie di basilico e coprì l’insalatiera.
«Agli dei piace farsi riconoscere.»

La semplicità con cui Kanon diede corpo a quella frase lasciò Milo spiazzato. È vero, pensò lo Scorpione, stornando lo sguardo dalla schiena dell’altro e portandolo sull’acqua saponata che nascondeva il suo corpo. E lo lasciava tuttavia esposto. Agli dei piace farsi riconoscere. Piace sentire il proprio nome rimbalzare nell’aria. E vedere l’effetto che produce sui visi del proprio pubblico. Ma stavolta nessuno si era preoccupato di fare le relative presentazioni. Anzi. Si giocava a nascondino dietro cortine di fumo sempre più spesso e denso. Per non farsi riconoscere. Come una seppia che tenta la fuga, lasciando dietro di sé solo una nuvola nera.

«Quindi, mi stai dicendo che se non abbiamo a che fare con una divinità, cosa della quale dubito profondamente…»
«Abbiamo a che fare con qualcuno che non gradisce rivelare il proprio nome. O le proprie intenzioni. E che non vuole passare come un dio. Altrimenti avrebbe inviato un suo sottoposto e fine della questione. Invece no. Invece si prende la briga di assoldare un sicario e il disturbo di farlo fuori quando non gli serve più. Questa è la stranezza. È come se non ce ne fosse bisogno, capisci? Come se fosse tutto esplicito. Chiaro. Lampante. E fossimo noi a non rendercene conto.»
«Mi sembra di girare a vuoto in un labirinto.» Milo reclinò la testa all’indietro e si portò le mani a coprirsi gli occhi.
«Perché agli occhi degli dei siamo topi nel labirinto», disse Kanon, avvicinandosi all’uscio. Lo aprì e si appoggiò allo stipite per osservare il cielo e le nuvole rapide che si andavano tingendo di rosa.
«Anche agli occhi di Athena?», si sentì chiedere. Non si voltò. Infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e tacque. Sì, anche agli occhi di Athena, pensò. Con la differenza che abbiamo deciso di entrare nel suo labirinto di nostra sponte.
«Esci dalla vasca», disse invece. «E asciugati. Si cena tra poco.»
«Non hai risposto alla mia domanda», gli fece notare Milo. Immobile nell’acqua, un’espressione di sfida a colorargli lo sguardo.
«C’è tempo. Non c’è molto da fare, quaggiù, se non conversare. O leggere, ma dubito che ti piaccia quello che piace a me. Non dirmi che hai intenzione di passare la serata in silenzio?»
«Potrebbe essere un’idea.»
«Un’idea cretina», ribatté Kanon. «Dobbiamo parlare. Ed analizzare tutte le sfumature possibili dell’altra faccenda. E dobbiamo farlo stasera. Lontano da occhi ed orecchie indiscreti. Stavros è un povero diavolo. Ma meno sa e meglio sarà per tutti quanti.»


«Tua sorella mi ha detto che dovevi parlarmi.»

Lo chiamano il Guardiano perché osserva il mondo coi suoi occhi. Nulla sfugge al suo sguardo di stella che si posa su valli, monti, pianure e sulle strade percorse dagli uomini e dalle balene, o al suo orecchio, che sente l’erba crescere a leghe di distanza. E vede. Dalla marachella del bambino ai danni della maestra – e della povera rana grassoccia che si ritroverà a breve chiusa nel cassetto – ai peccati più seri degli adulti, che ammazzano, mentono e rubano come se bevessero idromele da ampi corni orlati di schiuma.
E ascolta. Le promesse sussurrate al chiaro di luna ed il piano derelitto dei banditi. Nessun male sfugge alla sua ronda. È un parte di un giuramento che ha sentito qualche tempo fa – giorni? Ore? Minuti? Cosa cambia, quando davanti a te hai l’eternità?! – e gli è piaciuto. Era il gioco di due bambini ed un anello trovato nelle patatine, ma quelle parole hanno risuonato di solennità e fede alle sue orecchie e al Guardiano sono piaciute. Così come gli è piaciuto qualcos’altro.


«Ti ho mandato a chiamare perché il Viandante è in viaggio per le Terre degli Uomini.»

Il Viandante non gli ha chiesto di tenere d’occhio il Fuoco. Non ce n’è stato bisogno. «Vado», ha detto, prima di incamminarsi sul Ponte, e il Guardiano in quell’unica parola ha visto e sentito quanto c’era da vedere e sentire. E anche se il Viandante non avesse fiatato, lui avrebbe controllato lo stesso le azioni di quello scellerato del Fuoco. Che crede di non essere visto. Dimenticandosi di quel sottile filo di fumo che si alza leggero leggero, a segnalare che qualcosa non va, prima che divampi l’incendio.

Al Guardiano non piace il Fuoco. Perché quello che ha sulla lingua non corrisponde a quanto ha nel cuore. Perché è cattivo, meschino ed invidioso. Perché il Guardiano
sa. Sua sorella, l’Acqua, gli ha confermato le sue visioni. Lui ucciderà il Fuoco ed il Fuoco ucciderà lui, quando calerà il Crepuscolo. E il Guardiano non poteva chiedere di meglio. Fosse stato per lui, il Fuoco non avrebbe mai e poi mai messo piede nel Recinto. Ma il Viandante pensa che è bene tenersi stretti gli amici ed ancor più stretti i nemici. Ed un male necessario può rivelarsi un vantaggio da tenere ben saldo tra le mani per sottrarlo al nemico, almeno fin quando non cambia il vento.
Ma il Guardiano ha visto. Qualcosa non va. Stavolta il Fuoco s’è spinto troppo oltre, anche per i gusti del Viandante – o non gli avrebbe mai chiesto di controllare le mosse dello
jǫtunn – ed è bene che qualcuno lo fermi. Prima che sia troppo tardi. E quel qualcuno non può che essere lui. Il Tuono. Il figlio prediletto del Viandante.

«È cosa grave?»
«Nulla per cui suonare
Gjallarhorn. Ma sappi, o principe, che sta accadendo qualcosa, su Midgard. Qualcosa di cui è bene che tu sia informato.»

Il Tuono aggrotta le sopracciglia. Un’espressione arcigna e burbera simile a quella di suo padre, ma più pericolosa. Perché il Tuono ancora non conosce il senso della misura. Ancora non sa limitare le sue emozioni, come il cuore di un bambino che passa in un battito di ciglia dall’odio più feroce all’amore più incondizionato. Se il Guardiano conosce il Viandante come crede – e lo conosce bene – è tutto organizzato. Serve qualcosa di serio. Una minaccia che sia percepita come tale e che induca il Tuono a comportarsi come un uomo e non come un ragazzo con un accenno di peluria sul volto. E c’è lo zampino del Fuoco. Su richiesta del Viandante, ché è a lui che il Tuono deve dimostrare di essere cresciuto. Ma il Fuoco ha la brutta abitudine di strafare, nella migliore delle ipotesi. Come in questo caso. Il Guardiano dubita che il Viandante gli abbia concesso un sì ampio spazio di manovra. Sarebbe da irresponsabili. Da incoscienti. Da folli. Stanno per soffiare venti di guerra su Midgard. Uno scontro tra divinità. Una variabile imprevista che potrebbe assottigliare entrambi gli schieramenti. Sangue divino a ruscellare su Midgard. Sangue di Asi. Sangue di Olimpi.
Il Guardiano sospira, ché a volte il Viandante non riesce ad imbrigliare la sua natura. A volte si annoia, nelle alte sale del suo palazzo. A volte vuole sentire il sangue scorrergli ruggente nelle vene, un pallido riflesso della sua gioventù, quando il mondo era ancora ingenuo e puro.


«È lui?»
«Sì, mio principe. Si tratta del Fuoco.»

 
«Il registro anagrafico?»
Lois sbatté le palpebre. In piedi, come una scolaretta davanti alla commissione d’esame, si sentì d’un tratto molto stupida. Aveva preparato il caffè. Lo aveva versato nelle tazzine di porcellana bianca, ognuna accomodata sul suo piattino, e aveva sistemato tutto su un piccolo vassoio coi manici in argento. Mancava solo la zuccheriera, ma quella l’aspettava sul tavolo. Non c’entrava. Chissà perché non c’è mai posto per una zuccheriera sui vassoio dei tête-à-tête, si domandò prima di sbattere le ciglia un’altra volta.
«Ho capito bene?»
«Hai capito benissimo.»

Marin dell’Aquila l’osservava seduta sulla sedia della sua cucina come se si fosse accomodata su una poltrona di velluto rosso. Aveva le gambe accavallate e la sua maschera d’argento aveva la stessa espressione indecifrabile che la mandava in bestia. Potrebbe anche togliersela. In fondo, siamo tra donne!, pensò Lois, posando il vassoio sul tavolo e distribuendo le tazzine.
Lois non conosceva la sua ospite se non per sentito dire. Il suo nome era rimbalzato tra i corridoi del Santuario non appena il suo allievo, Seiya, aveva conquistato la corazza di Pegaso. Un giapponese aveva vinto un’armatura greca. «Inconcepibile! Avrà usato qualche trucco!», mormoravano scandalizzati. Lois non vedeva cosa ci fosse di strano. Il Santo dei Pesci non veniva forse dalla Svezia? E quello del Cancro non era italiano? Per non parlare del Toro, che arrivava da una fazenda di caffè e della Vergine, anche se nel caso di Shaka lei stessa aveva faticato a credere che un ragazzo alto, biondo e chiaro come la luna arrivasse dall’India misteriosa. Era rimasta delusa, quando gliel’avevano additato. Lei s’immaginava tutt’altro. Un bel principe dalla pelle scura che profumava di sandalo e gli occhi messi in evidenza da una sottile linea di kajal, ad esempio.

«Grazie», disse Marin, accettando la tazzina e riportando l’attenzione di Lois su di sé. Si raccontavano molte storie sul Santo dell’Aquila, ma lei non aveva mai avuto modo di osservarla da vicino. Era una persona normale, a dispetto delle voci che la ritraevano come brutta, sgraziata e deforme. Coi capelli di stoppa e le gambe storte, come ridacchiavano tra loro i soldati che facevano la guardia alla Biblioteca.
Nella sua ingenuità, Lois si chiedeva come avesse fatto un simile mostriciattolo ad accaparrarsi un fusto come il Santo del Leone, motivo delle chiacchiere delle Attendenti e del resto delle ancelle del Santuario circa la guerriera dai capelli rossi. Un patto col diavolo, sicuramente, avevano concordato prima di tornare ognuna ai propri compiti, ma a vedersela adesso, seduta al tavolo della sua cucina mentre si rigirava una tazzina di caffè rovente tra le dita, Lois suppose che sotto quella maschera si celasse il viso di uno schianto di ragazza.
Certa gente ha tutte le fortune, pensò. Il Leone era vivo. Il Leone ricambiava i sentimenti di questa Marin, a detta delle voci, e si sa, vox populi, vox Dei. Non sempre, ovvio; ma spesso e volentieri, sì.

Lois si accomodò e porse la zuccheriera alla sua ospite. «Quanto zucchero? Uno?»
Marin sembrò guardarla dubbiosa. Poi annuì, e le versò un cucchiaino raso.
«Perché vuoi sapere del registro anagrafico?», chiese Lois. Fissando lo sguardo inespressivo della maschera di Marin.
«Per una missione che mi ha affidato la dea Athena.»
«Ma il cosmo della dea non è svanito?», chiese Lois.
«E tu cosa ne sai?»
«Non si fa che parlare d’altro. Le notizie volano e anche chi è agli arresti domiciliari come me viene a sapere certe cose…»
«Capisco.» Pausa. «Ho bisogno di sapere se c’è un registro anagrafico. Qualcosa. Athena mi ha chiesto di cercarle una persona e…»
«E suppongo non c’entri nulla con i diari spariti, vero? Quelli che mi accusate di avere trafugato, dico…»

Sotto la maschera, Marin si morse le labbra. Lois non era stupida. Era stata ingenua, forse, e viveva nel suo mondo a tinte rosa acceso, ma il suo cervello lavorava nel modo giusto. La domanda era: quanto poteva fidarsi di lei? Marin decise di provare il tutto per tutto.
«Perché stiamo provando a mettere assieme i pezzi del puzzle», rispose l’Aquila, con semplicità. Lois non le era sembrata sulla difensiva. Timida, forse, ché non capita tutti i giorni di ricevere un Santo d’Argento a casa tua. Ma la sua reticenza era da imputare a questo, più che all’accusa che le pendeva sulla testa. Accusa di cui sembrava prontissima a parlare. Per dare la sua versione dei fatti. Per cercare qualcuno che l’ascoltasse. E che le credesse. Era una ragazza gentile in un mondo che mangia e fotte, tutto qui.
Forse la riteneva meno pericolosa di Shaina. Meno autoritaria. Sotto la maschera, Marin sorrise. Shaina passava per quella che urlava e strillava, pronta ad ottenere a suon di ceffoni quello che voleva. Chi mena per primo, mena due volte, ma Marin era di tutt’altro avviso. Chi grida, chi alza la voce è come una rana che si gonfia per sembrare più grossa agli occhi del bue che rumina placido lì accanto. Peccato che alla fine della storia la rana scoppi, si disse l’Aquila, che sarebbe ben presto rimasta senza voce se avesse gridato ogni qual volta che Seiya ne combinava una delle sue.

«Quindi, la storia della persona scomparsa era una frottola?»
«Assolutamente no.»
Lois non parve crederle. Marin sospirò e si tolse la maschera.
«Scusami. Ma quest’affare è scomodissimo. E non vorrei che il caffè si freddi…»
«Figurati. Siamo tra donne», disse Lois. E sì, quella Marin era davvero uno schianto di ragazza. Il Leone aveva scelto bene. E chi la dipingeva come un mostro con il viso messo insieme con la sparachiodi, parlava per invidia. Pura e semplice.
«Grazie», e Marin diede una prima sorsata al suo caffè.
Squisito.
«Ne avevo bisogno», si lasciò sfuggire. Doveva farsi passare per una persona innocua. Si prendono più mosche col miele che con l’aceto, giusto? L’Aquila riportò il suo sguardo sincero su Lois. «Non te lo chiederei se non fosse davvero importante, Lois. Esiste un registro anagrafico del Santuario?»
Lois tamburellò le dita sulla tovaglia.
«Sì. Qualcosa del genere c’è. Ma è scritto a mano. Dal Sommo Sion in persona.»
«Qualcosa per cui serve un occhio esperto, suppongo.»
«Supponi bene.»
«Ho bisogno del tuo aiuto, Lois.»
«E perché mai? Perché so leggere la grafia del Sommo Sion?»
«Perché tu sai raccapezzarti meglio di me in mezzo alle scartoffie.»
Lois sorrise e sorseggiò il suo caffè. «Vero. Verissimo. Sono l’unica che può aiutarvi. Oddio, ci sarebbe anche Apostolos, ma pare sia diventato uccel di bosco. Era il mio superiore, sai? Lo hanno taaanto voluto ed ecco il risultato. E prima che tu pensi che io l’abbia fatto fuori, no, non è andata così. Ho sognato di farlo, lo ammetto. Tante e tante volte. Ma tra il dire ed il fare, c’è di mezzo il mare. Ma c’è un problema.»
«Quale?»
«Una cosetta chiamata orgoglio», rispose Lois posando la tazzina sul piattino. «Il mio. Prima mi accusate di aver rubato dei documenti e adesso mi chiedete di aiutarvi?»
«È un modo per riabilitare il tuo nome», disse Marin.
«E non potrei depistare le indagini? Si dice così, giusto? Depistare
«Credo si dica così, sì. Potresti insabbiare tutto, è vero. Ma voglio fidarmi di te.»
«E perché mai? Sentiamo?»
Marin prese fiato e strinse le labbra. Devi giocarti il tutto per tutto. E devi farlo adesso.
«Sarò sincera, Lois. Potrei fregarmene di te e andare io stessa a cercare quel documento in mezzo a quella bolgia infernale che è la Biblioteca. Ci sono stata. L’ho vista. Ed ho capito che non ce l’avrei mai fatta. Senza di te ci metteremmo dei mesi. Con te sarebbe robetta di poco. Uno o due giorni al massimo. Senza contare che noi potremmo fare dei grossi danni, lì dentro. Alcuni manoscritti potrebbero andare accidentalmente persi. E io non credo che questo ti farebbe piacere.»
Aveva calcato la mano, è vero. Aveva bluffato. Ma doveva colpirla sul vivo. Era una bibliotecaria. Una bibliotecaria che amava il suo lavoro, giusto?
Il viso di Lois si irrigidì, ma niente di più.
«Francamente, me ne infischio», disse.
Sì. E domani è un altro giorno, pensò Marin. Scosse il capo. E si preparò alla stoccata finale. «Pensavo che una donna innamorata del Santo del Capricorno fosse migliore di così…»
Il viso di Lois divenne livido di rabbia. Strinse i pungi e si alzò in piedi, come se la sua sedia avesse preso a scottare all’improvviso. «Chi te l’ha detto?»
«Nessuno», rispose Marin. «Ma a casa tua sono stati ritrovati soltanto i resoconti di Shura…»
«Non chamarlo così!»
«…e io sono una donna, Lois. Una donna che sa cosa significa amare un Santo d’Oro. Che sa quanto possa essere dura, certe volte. Quanto sia difficile essere alla loro altezza. Ecco perché sono venuta a parlare con te. Pensavo potessimo trovare un punto di contatto. Capirci. Mi sono sbagliata», e la maschera di Marin  tornò al suo posto.
«E immagino che adesso la mia posizione si complicherà, giusto?»
«Non ne ho idea», disse Marin. «Ti ho porto una mano. Tu l’hai rifiutata. Chi pensi che ti aiuterà, adesso, Lois? Shura? Sono sicura che lui l’avrebbe fatto. Ma lui non può.»
«Lo so da me!», e Lois sbatté i pugni sul tavolo, gli occhi arrossati.
La ceramica protestò. Aveva comprato quel tête-à-tête pensando a lui. Aveva linee pulite, essenziali. L’unico vezzo era l’impugnatura delle tazzine, una greca d’acciaio che abbracciava la porcellana a mezza altezza e che proseguiva poi nei manici. Gli sarebbero piaciute. Aveva in mente di usarle per portargli il caffè a letto, la mattina. Sarebbe stato il loro piccolo rito mattutino. La vita era ingiusta. Dannatamente ingiusta, pensò, asciugandosi le lacrime. Non voleva farsi vedere in quello stato. Non da lei.
«Ma se vi aiuto, che succede?»
«Ci sarà comunque un processo a tuo carico. Ma la tua collaborazione potrebbe alleggerire di molto la tua situazione.»
«Degradata ad usciere, ma non sbattuta fuori?», domandò Lois, mormorando.
«Non posso sbilanciarmi. Ti farei una promessa che non potrei mantenere. Pensaci, Lois. Io tornerò qui tra un’ora.»
«Un’ora?»
«Un’ora. Grazie per il caffè. Era squisito», disse, scostando la sedia ed uscendo dalla cucina, lasciando Lois a tenersi la testa tra le mani.


«Sono rossi!!»
Si porta le mani alla bocca, spalancata in una O di stupore, disperazione, smarrimento. E ha ragione. I suoi capelli sono di un bel rosso acceso. Che le sta anche bene, a volerla dire tutta. Ma non si aspettavano quel risultato così prodigioso. Nessuna delle due.
«Hai visto?! Sono
rossi
Lo vedo, vorrebbe dirle. Ma tace e si avvicina. Le scompiglia i capelli umidi, dando un’occhiata al cuoio capelluto. «Hai rispettato le proporzioni?»
«Certo che sì!», e la velocità con cui le fornisce questa risposta sta a significare l’esatto contrario. «Ho seguito le indicazioni che
tu mi hai dato. Mi sono fidata. E guarda tu che risultato!»
«Si vede che hai una base rossa», ribatte, osservandole i capelli in controluce. L’henné ha preso benissimo.
Forse anche troppo, si dice. Chiedendole:«E lo yogurt? Ne hai messo quanto te ne ho detto?».
«Certo che sì!»
«Sicura? Non è che per caso nei hai messo una cucchiaiata di meno...», 
perché te la sei infilata in bocca?
«Sicura. Ne ho messo un vasetto intero.»
«Di quelli piccoli?»
«Di quelli
medi. Da duecentocinquanta grammi.»
Adesso capisco tutto, si dice, abbandonando la ciocca di capelli e portandosi le mani sui fianchi. «Tranquilla. Basteranno un paio di lavaggi e il colore si assesterà.»
«Tranquilla un corno! Come faccio ad uscire di casa?!»
«Piove», ribatte lei, indicando la finestra alle sue spalle. «Dove vuoi andare con un tempaccio del genere?»
«Lontano da te!»
Un sospiro. Le spalle che si sollevano. Le mostra i palmi delle mani. Un gesto che le dice che non ha niente da nascondere. Come le ha insegnato Lui. «Ragioniamoci su. Vuoi?»
«Non c’è niente di cui ragionare! Ci sono solo io con i capelli rosso Ferrari!»
«Vero. Ma pensaci. Non è un bene, questo?»
«No che non lo è. Non lo è sotto ogni punto di vista.»
«Sbagli. Con quel colore di capelli sarà difficile che ti riconoscano. Perché è
particolare
«
Particolare a casa mia significa strambo.»
«Lui aveva i capelli rossi?»
«Lui, chi?»
«Lo sai chi.
Etié
«
Etienne. No, li aveva scuri. Era Rémy ad averli rossi… ma non così…»
Lo dicevo, io, pensa. Trattenendo un sospiro. «Suppongo che chi conosceva questo Rémy sia oramai tra i più. E anche se fosse, tu non assomigli a vostra madre?»
«Così diceva Etienne.»
«Prendiamolo per buono. Un colore del genere ti proteggerà. Non ti riconoscerà nessuno. E anche se fosse, dovrebbero avere delle prove, prima di puntare il dito.»
«A questo mondo prima si punta il dito e poi si forniscono le prove!»
«Vero. Ma se queste prove alla fine non ci sono chi ha puntato il dito passa per calunniatore.» Pausa. «E queste prove non ci sono, vero? Non vi ha visto nessuno assieme, vero?»
«Chi ci ha visto assieme è morto.»
«Perfetto!», esclama. Meritandosi un’occhiataccia. «Fai conto di essere un agente segreto. Una specie di 007. Ti stai infiltrando. Ricordatelo. E se qualcuno dovesse fare domande, tu nega. Sempre.»
«La fai facile, tu.»
«Perché
è facile. Ti ricordo che siamo nella stessa barca. Quindi, non mi conviene fregarti. Ci hai pensato?» 
Ripesca nella memoria l’espressione del viso di lui, a metà tra la franchezza spudorata e la verità indifesa; una di quelle che avrebbero convinto un cane affamato a cedergli l’osso che stava rosicchiando. E infatti lei cede. Afferra un asciugamano e si dirige di gran carriera verso il bagno.
«Dove vai, adesso?», le chiede.
«A lavarmi i capelli. Voglio proprio vedere quanto scaricherà il colore!», e sparisce dietro la porta a vetri smerigliati. Lasciandola da sola, con un sorriso soddisfatto sulle labbra.

Adesso ci vuole proprio un bel tè come si deve, pensa. E non sarà un tè di Ceylon, ma pazienza. Se lo farà bastare. Perché anche il corpo ha delle necessità. E occorre assecondarle. O finirà per ammutinarsi. E ricongiungersi alla mente, seguendo il suo pianto. Meglio distrarlo, si dice, accendendo il fornello del gas. Non esce nulla. La bombola dev’essere vuota, pensa. Si stringe nelle spalle. Schiocca le dita ed il fuoco divampa allegro sotto al bollitore. Chi fa da sé, fa per tre.
 


Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:

Capitolo di passaggio. Dal prossimo cominciano i pestaggi furiosi. Promesso.

Gli opliti erano la fanteria dell'antica Grecia, base per la temibile falange macedone e per l'altrettanto tremenda legione romana. Non ho la più pallida idea di quale sia la corretta posizione delle braccia nelle arti marziali. È una mia licenza poetica, prendetela come tale. E sì, gli opliti spartani marciavano ordinati al suono dei flauti, nonstante la loro divinità tutelare fosse Ares. (Secondo voi quanti opliti salteranno fuori prossimamente? Si accettano scommesse!)

E mentre qui sta per scatenarsi l'ennesimo temporale estivo, io vado a farmi un caffè. Chi si unisce?
   
 
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