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Autore: Sibylla    10/06/2015    12 recensioni
E se Kate non avesse mai accettato la proposta di matrimonio di Castle? E se il destino non si fosse ancora arreso, a differenza di loro stessi?
Dal prologo:
"Erano già passati due anni. [...]
Lo aveva detto lui, entrambi meritavano di più: più della paura di rivelarsi cosa fossero e più di un forse. E un forse era proprio ciò che gli aveva dato lei. Tutta l'esitazione concentrata nel rapido scatto delle sue iridi verdi. Avevano ceduto un solo istante all'attrazione dei loro sguardi, per posarsi su un punto troppo distante da loro due, tradendo il proprio desiderio di fuga.
[...]
Da quel giorno non aveva mai più visto Rick.
Castle, invece, lo aveva incontrato altre volte."
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Richard Castle | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro, Più stagioni
Capitoli:
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Come Home -Parte I

And right now there's a war between the vanities
But all I see it's you and me
The fight for you is all I've ever known

(Come Home - One Republic)



Impazienza.
Se avesse dovuto dare un nome alla sensazione che in quel momento gli attanagliava lo stomaco, non sarebbe potuto essere altri che quello.
Evidentemente, calma e sopportazione non erano doti a lui congeniali. O più semplicemente non lo erano a quella situazione, in cui sussultare ad ogni rumore sembrava essere l'inevitabile condotta associata al suo ruolo di sposo agitato.
Tentò di concentrarsi sulle pieghe della giacca -che ostinate continuavano a riapparire, a prescindere da quante volte lui vi passasse la mano sopra- e sul nodo della cravatta -fattosi improvvisamente opprimente-, ma ogni suo tentativo era vanificato dall'agitazione delle dita, incapaci di eseguire correttamente anche il movimento più elementare, e soprattutto dal mellifluo frastuono delle flûte
s di vetro, che da quasi dieci minuti aveva preso a tintinnargli senza sosta nelle orecchie.
«Hey amico, vacci piano! È già il quarto bicchiere quello»
Insoddisfatto del tono esageratamente pungente con cui gli si era rivolto, Esposito in aggiunta dedicò anche un'occhiata storta a Castle, in piedi accanto al piccolo rinfresco alcolico, le cui labbra si bloccarono a mezz'aria, l'attimo prima di potersi ricongiungere con l'orlo del bicchiere.
«Avanti Esposito, non risparmierai sullo champagne, spero! È il giorno del tuo matrimonio, bisogna festeggiare! Questi sono eventi che capitano una volta sola, di solito...»
«Sì, ma vedi di non arrivare ubriaco alla cerimonia. Preferirei evitare la parte in cui uno dei miei testimoni sviene sull'altare»
«Per favore, ricordati con chi stai parlando. Questo fegato ha visto tempi più duri...e migliori, in effetti»
Con fare scocciato Esposito colse l'occhiata poco convinta che, nonostante tutto, l'amico aveva appena osato rivolgere al contenuto del proprio bicchiere, il cui sdegno non sembrava tuttavia trovare riscontro nelle sue azioni. Tornò così a dedicarsi all'altro uomo -quello agitato ed eccitato dentro lo specchio- giusto in tempo per sorprendere il riflesso di Castle a scolarsi in un unico sorso il resto del calice, con un'espressione di agitazione e aspettativa che aveva appena visto espressa a chiare lettere sul proprio di viso, e che vedere riflessa anche su quello dell'amico non gli piacque affatto. Soprattutto perché, nel suo caso, non la si poteva imputare all'imminenza di un matrimonio.
«Se mi rovina le nozze giuro che lo ammazzo...»
La frase uscì esasperata e con un tono volutamente troppo basso perché il diretto interessato potesse udirla, ma giunse comunque a destinazione attirando l'attenzione del secondo dei tre uomini riuniti con lui in quella stanza, e fino ad allora rimasto in disparte, immerso in un'agguerrita lotta con i polsini della camicia.
«Andiamo, adesso rilassati. Filerà tutto liscio»
«Ah sì? Allora perché ho la continua impressione che qualcosa debba andare storto?»
«Solo un po' di sano panico da matrimonio... Vedrai che nel giro di un anno sarà quasi sparito»
Ryan gli fu presto accanto, senza nemmeno curarsi di nascondere il sorriso eloquentemente divertito maturatogli sul volto alla vista del partner in preda a un vero e proprio attacco di panico, a prescindere che lui volesse ammetterlo o no.
E in effetti, se anche fosse stato conscio della curiosa e irrazionale scarica di terrorizzato eccitamento che stava provando al pensiero che da lì a un'ora sarebbe stato sposato, come avrebbe mai potuto ammetterlo ad alta voce?
Lui, perennemente a contatto con l'ingiustizia e il dolore -se non suo, di altri-, che aveva incontrato la morte più volte di quanto dovesse poter essere concesso a un solo uomo, e ancora prima aveva visto la guerra -quella vera-, riflessa sulla canna del proprio fucile... Lui, che aveva sparato ad assassini e obiettivi militari a distanze incalcolabili ad occhio nudo, e che adesso non riusciva a tenere le proprie dita ferme neanche per il tempo necessario ad abbottonarsi la giacca. Aveva conosciuto lo stress post-traumatico, sapeva cosa volesse dire convivere con l'ansia ogni giorno e sentirla divorare le proprie viscere: come avrebbe mai potuto ammettere, anche solo a sé stesso, che dopo tutto ciò che aveva vissuto e sopportato, bastasse la semplice idea di sposare la donna che amava -e con cui avrebbe comunque passato il resto della sua vita, a prescindere dalla firma apposta su un documento- a mandarlo in panico adesso? L'orgoglio e il disperato tentativo di conservare la propria virilità non gli avrebbero mai permesso di venire deliberatamente a patti con quel pensiero, pur tuttavia già ben noto al suo subconscio: ciò nonostante quel paradossale contrasto tra il sapere e il non volerlo ammettere non lo aveva del tutto privato della sua lucidità, almeno non al punto da non rendersi conto che la sua ansia era sì in gran parte, ma non del tutto imputabile a sé stesso e alla propria sciocca paura. Quella cricca sparuta di neuroni dissidenti, che popolava l'angolino del suo cervello rimasto immune alla frenesia da matrimonio, continuava infatti a riproporgli a ondate informazioni non pertinenti compreso, tra le altre, il ricordo dei recenti avvenimenti tra due dei suoi più cari amici che -aveva realizzato con orrore quella stessa mattina- si sarebbero incontrati dopo mesi proprio al suo matrimonio. Quindi, in un moto di amaro compiacimento, dovette concludere che la sua preoccupazione nei confronti della labilità di controllo di Castle era del tutto giustificata. Checché ne dicesse Ryan.
«Signori, è ora»
La porta della camera d'albergo si aprì e la testa dell'organizzatore -una pertica pallida dalla barba curata, avvolta in un elegante completo beige- vi fece capolino, facendo sobbalzare Esposito, colto proprio nell'unico istante in cui -troppo occupato a riflettere- non aveva prestato orecchio all'avvicinarsi dei passi nel corridoio, che gli avrebbero consentito di realizzare che era ora di andare con almeno qualche secondo d'anticipo, così da potersi preparare mentalmente. Avendo sprecato quei preziosi istanti, fu così costretto a respirare profondamente e contemporaneamente a camminare verso l'uscita; una doppietta che gli costò parecchia fatica, specie dopo l'occhiata ebete e sorridente che spiò nel suo riflesso allo specchio un attimo prima di voltargli le spalle, e che gli provocò un irritante moto di auto-derisione.
Odiava comportarsi in quel modo, si sentiva così... Ryan.
Le mani leggermente sudate d'eccitazione, si posizionò di fronte alla porta d'un passo indietro rispetto all'organizzatore, in attesa di un suo cenno per procedere finalmente fuori dalla stanza, lungo il corridoio, e poi giù per le scale fino al giardino, dove un gazebo e un'ottantina di invitati lo stavano già attendendo. Dietro di lui Castle e suo cugino Oliver stavano adesso prendendo posto, sfruttando quegli ultimi attimi per mettere a punto le proprie mise, mentre un Ryan già pronto e sorridente gli si era posto quasi a fianco, sostenendolo discretamente come ogni giorno da che erano diventati partner.
«Hai la pistola con te?»
«Certo che no, perché mai dovrei portarmi la pistola al tuo matrimonio?»
Ryan gli rivolse un'occhiata confusa e sbalordita, indeciso su come interpretare quella richiesta. Gli fu tuttavia sufficiente seguire il suo sguardo, posatosi sullo scrittore alle loro spalle per un breve ma intenso istante, per capire che non era autolesionismo da stress ciò di cui avrebbe dovuto preoccuparsi, ma un potenziale omicidio di primo grado.
«Pazienza, vorrà dire che nel caso me ne occuperò a mani nude»


Febbraio nella Hudson Valley era un spettacolo mozzafiato. Di per sé sufficiente a giustificare la scelta di uno dei mesi più freddi dell'inverno New Yorkese per celebrare un matrimonio con rito all'aperto. All'orizzonte la natura si apriva libera e incontaminata in una vallata nebbiosa, spruzzata qua e là d'argento -ricordo forse di una recente nevicata. A chiudere quella conca erbosa, fitti filari d'alberi ancora sopiti sotto le spire brumose dell'inverno, attraverso cui il sole tentava faticosamente di filtrare, diffondendo nell'aria, quando vi riusciva, una luce soffusa e quasi eterea che riempiva gli occhi. E tra un ramo disadorno e l'altro, ogni tanto Kate riusciva persino a spiare il riverbero del lago, distante poco più di un chilometro, sfuggente e abbagliante come uno specchietto lasciato a giocare col sole.
Il rigido contrasto tra quella vista selvatica e la perfezione artificiosa del giardino dell'hotel non era che il coronamento di quel panorama, contribuendo ad aumentare l'impressione di trovarsi in una piccola oasi di perfezione isolata in mezzo a un paradiso arboreo.
La sensazione di essere fuori posto, per una cittadina come lei, era però sempre in agguato. Così Kate, affacciata alla finestra della stanza adibita alla preparazione della sposa, si premurava di non indugiare troppo su nessun dettaglio che potesse farle prendere reale coscienza di dove si trovasse e perché: onde evitare che il rientro nella sua città natale -vista di sfuggita dal finestrino del taxi, un attimo prima di venire inghiottiti dal traffico delle strade provinciali- non fosse reso più traumatico dal distacco dal suo ambiente naturale, fatto di cemento e fumosità.
Privata dell'unica distrazione disponibile, il cambio d'abito, negli ultimi dieci minuti i suoi sforzi avevano però iniziato a far cilecca lasciando così campo libero ai pensieri che, come le foglie fuori dalla finestra, avevano preso a ornargli le centinaia di ramificazioni gemmatesi nella sua mente. Alla fine Kate aveva escogitato uno stratagemma, e aveva ripreso a osservare il panorama attraverso l'alone di condensa che ad ogni respiro contribuiva ad alimentare sul vetro, attraverso cui la vista di quel luogo si faceva quasi accettabile. Lei si sentiva come quell'alone: una presenza incorporea e quasi invisibile, dai contorni confusi, tenuta in vita dal gesto automatico del respirare e nulla più. E intanto il corpo, elegantemente avvolto nell'abito vinaccio, flirtava con le vertiginose décolleté, prendendo parte ai festeggiamenti che si stavano consumando alle sue spalle, e a cui la testa sembrava invece non essere stata invitata. Persa in quel groviglio mentale, l'unico legame attuale col suo corpo era infatti il peso irrisorio dello chignon basso, che costringeva i suoi capelli in una morbida morsa e che, sottomesso alla forza di gravità, era l'unica cosa ad assicurarle di rimanere con i piedi ben piantati a terra.
In quel brusio indistinto di voci e di brindisi, e di pensieri turbinanti, ci volle il suono rassicurante del proprio nome, pronunciato da una voce altrettanto rassicurante e familiare, per convincerla a riemergere da quell'apatico stato di quiete.
«Kate, cosa ne pensi?»
Voltate le spalle al vetro, una visione altrettanto ragguardevole le si parò davanti quando una splendida Lanie vestita di bianco raggiunse il centro della stanza, raggiante come poche altre volte nella vita. L'abito -un gioiellino di alta sartoria scovato mesi prima in un outlet- la fasciava delicatamente sulla vita, accentuando il seno già prosperoso senza scadere nel volgare, per poi aprirsi in una morbida gonna ampia che terminava con un piccolo ma raffinato strascico. Nella sua semplicità, il vestito si sposava perfettamente con la carnagione scura di Lanie e con il pendente d'oro e ametista verde che le adornava il collo -unica nota eccentrica nel suo aspetto.
«Sei magnifica, Lanie»
Il sorriso sbocciato radioso sul volto della sposa raggiunse rapidamente anche le labbra di Kate, contagiando in breve tempo anche le altre donne presenti nella stanza che, con commenti estatici e gridolini eccitati, s'erano unite al coro di complimenti inaugurato dalla damigella d'onore. Jenny in particolare, complici gli ormoni, si sciolse in un appena accennato pianto di commozione che costrinse Marla, la storica compagna di università di Lanie, a intervenire prontamente con dei fazzoletti, onde evitare che il trucco dell'altra si distribuisse dagli occhi anche sul resto del viso. La scena ebbe il merito di smorzare la tensione, che palpabile s'era sostituita all'aria della stanza nel momento in cui Lanie era uscita dal camerino e tutte avevano definitivamente preso atto che stava per sposarsi. Ne derivò che, quando la proprietaria dell'hotel si materializzò tra loro invitandole a seguirla, non ci furono altri pianti o contrattempi emotivi.
«Lo sposo la attende, signorina Parish»
Sotto lo sguardo gioviale di Mrs Nasser, la proprietaria, e quello decisamente più composto di sua madre, Lanie lasciò che Kate le appuntasse il velo, e si concesse un'ultima rimirata allo specchio prima di incamminarsi lungo il corridoio. Dietro di lei, il piccolo esercito di parenti, addetti e damigelle -Kate compresa- procedeva disordinato, col picchiettare dei tacchi sul parquet a far loro da colonna sonora. L'assembramento si ruppe non appena raggiunsero l'androne, col giardino che faceva capolino dall'angolo di portone spalancato appena visibile dalla loro posizione. Lo stesso portone di legno che Kate aveva l'impressione la stesse spiando, minaccioso e imponente, oltre la colonna dietro cui lei stava pazientemente attendendo il proprio turno. Troppo distante per restituire lo sguardo, poteva tuttavia sentire il mormorio indistinto della gente verosimilmente assiepata lì fuori, appena qualche metro più avanti, in trepidante attesa del loro arrivo. Non aveva avuto modo di vedere l'allestimento finale, essendo arrivata quando ancora i camerieri stavano disponendo le prime sedie sul prato sotto il gazebo, e questo non fece che aumentare la sua ansia. Sarebbe riuscita a non cadere? Sarebbe stata capace di arrivare fino alla fine di quel tappeto di petali senza cedere all'impulso di scappare?
Vide la madre di Lanie allontanarsi con altri membri del gruppo e sparire oltre l'uscio, segno che la cerimonia sarebbe presto iniziata e che tutti, eccetto sposa e damigelle, dovevano affrettarsi a prendere posto. Ancora pochi istanti e la marcia nuziale avrebbe preso a suonare, segnalandole che era giunto il momento di aprire le danze. Si guardò brevemente intorno: accanto a lei ormai solo Jenny e Marla, e Lanie ovviamente, insieme all'onnipresente signora Nasser.
«Sei pronta?»
Lanie, profondamente concentrata sulla delicata operazione dell'alternare l'inspirare all'espirare, parve sobbalzare quando Kate si rivolse a lei, ma tutto il suo stupore morì rapidamente nella dolcezza di un nervoso sorriso sbocciato a fior di labbra.
«Credo di sì»
Kate le strizzò con forza la mano, decisa a infonderle un coraggio di cui in verità non era certa di disporre attualmente, ma negli occhi di lei lesse la gioia e non ebbe dubbi che, a dispetto del suo tono incerto, il resto di Lanie era più che pronta a quel matrimonio.
E lei, lei era davvero pronta a uscire lì fuori? La sua mente continuava a ripeterle di sì, ma le mani erano in chiaro disaccordo, intente a torturarsi e torturare il piccolo bouquet di rose bianche e lavanda. Il bouquet sbagliato, si disse, mentre l'aroma le invadeva prepotente le narici fino a farle girare la testa. Gelsomini e fiori di ciliegio: quello sarebbe stato giusto. Il che le ricordò che anche febbraio non era il mese adatto: la primavera infatti avrebbe dovuto fare da sfondo a qualunque cosa la aspettasse là fuori.
No, non era pronta.
Fu un fruscio di stoffe a riportare la sua attenzione alla realtà e alla sposa -quella vera-, che sotto preciso ordine di Mrs Nasser era andata ad occupare l'ultimo posto di quella sontuosa carovana composta da lei, Jenny e Marla. E con un moto di sgomento dovette faticare per far notare alla propria mente quanto insensati fossero quei pensieri, e ricordarle che quello era il matrimonio di Lanie, non il suo. Nonostante sentisse che la stessa agitazione che imporporava -legittimamente- le guance di Lanie, fosse attualmente dipinta sul proprio di viso, sebbene in realtà non potesse vantarne alcun diritto. Intercettata l'amica con lo sguardo, le rivolse un sorriso d'incoraggiamento, dietro cui nascose il senso di colpa che l'aveva di colpo investita, tentando di rimettersi addosso i panni della damigella d'onore e svestire quelli di qualunque cosa il suo cuore cercasse di farla sentire in quel momento. E tuttavia, un attimo prima che la musica la raggiungesse, quello stesso cuore si premurò di farle notare come, in realtà, non avesse avuto occasione di vederlo neanche una volta da che era arrivata all'hotel, così che quello di fronte all'altare sarebbe stato il loro effettivo primo incontro dopo mesi di silenzi, caricando quel momento di ulteriore attesa che, tirando a indovinare, avrebbe persino potuto superare quella di Lanie e del suo futuro sposo.
Il che, ridicolmente, la fece sentire ancora di più come la diretta interpellata di quella marcia nuziale che aveva appena iniziato a suonare.
Percepì solo con gli occhi il cenno del capo della proprietaria che la invitava a muoversi, mentre la testa era troppo impegnata a ricordarsi di alternare ad ogni passo un respiro, onde evitare un'insufficienza d'ossigeno prima dell'arrivo.
Se Kate avesse potuto vedere Castle, avrebbe capito di non essere l'unica a provare la buffa sensazione d'essere lei la protagonista di quella corsa all'altare. Avrebbe visto le sue gambe impegnate in un'impercettibile quanto nervosa danza, di cui le mani, sfregate senza sosta l'una contro l'altra, scandivano il ritmo. Avrebbe spiato il disagio degli occhi, incapaci di fermarsi a riposare su un punto abbastanza agevole da chiamare casa, costringendolo piuttosto a guizzare con lo sguardo a destra e a sinistra, incespicando ogni qual volta nel suo viaggio si posava erroneamente su di lei. E avrebbe poi scorto i rapidi e intermittenti movimenti del suo torace quando, con profondi e spezzati respiri, riemergeva da apnee che non sapeva d'aver tentato, e l'espressione di irritato sgomento quando s'accorgeva d'esser ricaduto in un altro digiuno d'aria.
Se avesse potuto, ma non poteva. Poiché non alzò mai gli occhi, non finché non ebbe compiuto l'ultimo passo almeno.
Procedette invece lungo la navata, aprendo la strada a Jenny e a Marla, e tutto ciò a cui poté aggrapparsi per evitare di crollare, e tradire così la propria agitazione, era il bouquet, stretto nella morsa d'acciaio delle sue dita. Ad ogni passo la ciocca in cima alla testa minacciava di sfuggire all'intricata tela dell'acconciatura, allentandosi sempre un po' di più, e Kate avrebbe voluto redarguirla, interrompere il fastidio di quel delicato sfregamento contro la propria fronte, ma temeva che a reggersi con una sola mano al suo appiglio odoroso sarebbe crollata. Quando infine giunse di fronte all'altare furono le sue gambe, immuni dalla schiavitù del cuore, a evitarle la pessima figura dell'occupare il posto ritualmente spettante alla sposa, di cui condivideva quantomeno lo stato d'animo se non il ruolo, e a spingerla un po' più a destra nel posto che invece spettava a lei, semplice damigella d'onore. La fonte di tanta confusione le stava ora dinnanzi, e pure con cinque metri e due sposi a dividerli, i loro sentimenti erano talmente ingombranti da schiacciare lo spazio circostante al punto da far quasi avvicinare l'altare e il prete, quel tanto che bastava a far sì che entrambi, nello sfarfallio di un istante, riconoscessero negli occhi dell'altro la consapevolezza curiosamente condivisa d'essere in un punto troppo pericoloso per loro, quasi sull'orlo di un burrone, in cui le uniche alternative erano tuffarsi o rimanere seduti ad aspettare. Forse per qualche minuto, forse per sempre.
La cerimonia per fortuna procedette comunque distesa e senza intoppi.
E talora qualche momento di commozione la spinse persino a concentrare la propria attenzione sui due protagonisti, per il resto ostinatamente ed egoisticamente concentrata su un altro di smoking, quello del secondo testimone.
Nonostante quella cura nello studiarlo però, non seppe mai se Castle si fosse tuffato o meno nel loro personalissimo mare emotivo. Lei sicuramente non lo aveva fatto, preferendo ancora una volta la strada più prudente e meglio delineata: quella dell'attendere al sicuro, al riparo dall'imprevedibilità delle correnti che avrebbero in un istante spazzato via ogni sua possibilità decisionale futura. E dentro di sé sapeva d'averlo fatto più per paura di scoprirsi capace di nuotare in quel mare inesplorato, che per timore di non esserne in grado. E tuttavia, pur non tuffandosi, non trovò neanche mai il coraggio di smettere di immergere i propri piedi nell'acqua, e di chiedersi come sarebbe stato tuffarsi dentro quelle due pozze cristalline che la stavano silenziosamente e discretamente fissando di rimando.
Quando il prete infine dichiarò Lanie ed Esposito “marito e moglie” la sua attenzione le concesse l'ultimo dei suoi rari scarti, consentendole di dare a quel momento -e ai suoi due amici- l'importanza che meritavano. Si commosse nel sorriso eccitato di Lanie, si sciolse nello sguardo umido di Esposito, gioì nel vedere quegli sguardi e quei sorrisi fondersi nel primo loro, appassionato, bacio coniugale... Ma di nuovo, al separarsi di quelle labbra, sul sottofondo di uno scrosciante applauso generale, le sue ultime energie si dissiparono non nel battere le mani a tempo con gli altri, ma piuttosto nell'intercettare lui ancora una volta, dipingendo quella scena finale con un ultimo loro sguardo.
Preceduti dai novelli sposi, lei insieme agli altri cinque occupanti della scena si incamminarono infine lungo il corridoio erboso -per l'occasione improvvisatosi navata- tra petali di fiori, chicchi di riso, applausi e urla. E per uno strano scherzo del destino, che spinse Ryan -primo testimone- a intercettare Jenny -seconda damigella-, portandosi al suo fianco e catturandola in un abbraccio che valse loro il primo posto di quella passerella umana, l'ordine venne invertito e Kate si ritrovò a camminare accanto alla persona più sbagliata: Castle.
Con poco spazio a disposizione e un'andatura confusamente accelerata, le loro dita finirono irrimediabilmente con lo sfiorarsi più e più volte ad ogni passo, in una scarica elettrica che l'attraversava da parte a parte: dalla mano destra a quella sinistra, ancora salda al bouquet. Quando infine mossero l'ultimo passo di quella sfilata, il primo impulso fu quello di separarsi: decisi e senza esitazioni, uno da una parte e uno dall'altra. Eppure, nell'istante in cui la brezza fredda di febbraio tornò a lambirle la mano, lì dove prima s'erano posate le sue dita, l'urgenza di prolungare quel contatto si fece di colpo più impellente di quella di sfuggirgli, prendendo la forma di un suono che, come un seme maturato nella gola, si fece strada verso alla bocca, fino a fiorire nel suo nome. D'altra parte quel suo bisogno non sembrò trovare riscontrò in Castle che, pur fingendo di non averla sentita, non riuscì però a impedire alle proprie spalle di irrigidirsi prima di proseguire diritto per la propria strada, in una determinazione che Kate tradusse come il più chiaro degli inviti a non cercarlo.
Per un secondo valutò di assecondarlo in quella che, forse, si sarebbe rivelata la scelta migliore per entrambi, a dispetto della vocina nella sua testa che, imperterrita, continuava a chiamare il suo nome. Alla fine comunque Kate non poté che arrendersi a quella voce, conscia che l'impulso a parlargli era troppo forte per resistervi per un'intera giornata, così come quello di toccarlo e di guardarlo senza dover ricorrere a languide occhiate rubate.
«Castle fermati, non puoi evitarmi per sempre. Hey sto parlando con te!»
Stretti i pugni contro i fianchi accelerò il passo. E sebbene la sua andatura fosse alquanto affrettata, Kate non ebbe particolari problemi a stargli dietro, forte anche di quella particolare abilità di correre sui tacchi maturata in tanti anni di lavoro come detective. Un'unica sosta in effetti la rallentò, quella necessaria ad abbandonare il bouquet sulla prima superficie che incontrò sulla strada, e che la costrinse a girare l'angolo con qualche secondo di scarto rispetto a lui: il proprio arrivo preceduto dall'ennesimo, perentorio, richiamo. Fu allora che la vide.
Il sapore ancora fresco del suo nome sulle labbra, smorzato dall'amaro di quella visione: Castle, finalmente arrestatosi, accanto a quella che, senza ombra di dubbio, doveva essere Laura. Si bloccò a metà strada, seguendo l'esempio di polmoni e cuore che, solo dopo parecchi interminabili istanti, riprese a pomparle violento il sangue nelle vene.
La donna, di cui possedeva solo l'ombra tuttavia vivida di una voce, s'era ora vestita di un corpo tutt'altro che irrisorio, ornato d'un delicato vestito blu ardesia che contrastava armonicamente con l'incarnato luminoso e la chioma corvina. Riconobbe i tacchi vertiginosi con cui Castle l'aveva dipinta ai suoi occhi, in un portamento rilassato e sereno con cui lei non riusciva a immedesimarsi, specie se immaginandosi accanto a lui, che era invero sempre stato capace di d'investirla d'una agitazione tutta particolare ed estatica.
Concessasi un paio di secondi supplementari per smaltire lo shock, comprese di colpo la fretta dell'uomo come di colpo ne condivise l'urgenza di sospendere ogni loro contatto. Tuttavia ciò che lei aveva vissuto come lunghissimi minuti non erano state che frazioni di secondo il che, unito al modo tutt'altro che discreto con cui aveva chiamato in precedenza il suo nome, le fecero realizzare con orrore che non solo non sarebbe potuta sparire senza destare sospetti, ma che con la sua irruenza aveva attirato anche l'attenzione di Laura, la quale aveva preso a guardare nella sua direzione con un cipiglio curioso in volto.
«Rick, tesoro. Credo che quella donna laggiù ti stia cercando»
Come paralizzata, Kate rimase ferma nella sua posizione a osservare il dito della donna alzarsi e puntare diritto verso di lei, seguito subito dopo dal viso di Castle che, ormai in trappola, non poté fare a meno di voltarsi a guardarla.
«Oh, Beckett, ciao!»
Il tono di finta noncuranza di cui si vestì quella frase la colpì con tutta la forza e l'irritazione di un pugno allo stomaco, mentre una parte di lei -quella razionale- lo stava invece ammirando per il modo encomiabile, e apparentemente disteso, con cui era riuscito a dissimulare l'intera faccenda. D'altra parte lei, del tutto impreparata a quell'incontro, dovette fare appello a tutte le sue forze per decidersi a muoversi e uscire da quell'impasse alquanto imbarazzante. E mentre malvolentieri si apprestava a raggiungerli, si dette della stupida per non aver considerato quell'eventualità, che in realtà era più una certezza considerato che, essendo perfettamente al corrente che stavano ancora insieme, il portare al matrimonio la propria ragazza -e qui il cuore di Kate fece una capriola- sarebbe stata una mossa più che ovvia da prevedere.
«Devi scusarlo, è sempre così distratto»
«È vero, ma potrebbe essere anche colpa di tutti quei brindisi con i ragazzi, prima della cerimonia»
Una risata cristallina si levò dalla donna di fronte a lei, stemperata dal sommesso sorriso del suo compagno, e Kate si sentì in dovere di partecipare a quel surreale scambio di ilarità, sorridendo a sua volta nel modo più naturale che le riuscì.
«Comunque io sono Laura, piacere. La fidanzata dello svagato, qui presente. E tu se non sbaglio sei una delle damigelle della sposa...»
«Sì, piacere Katherine Beckett»
«Oh ma certo, Beckett! L'amica poliziotta di Lanie che lavora a Washington! Ho sentito dire grandi cose sul tuo conto»
L'entusiasmo sincero con cui furono pronunciate quelle parole la lasciò di stucco, certa che quel primo incontro si sarebbe consumato sotto il segno della circospezione e del disagio, e non dell'aperta cordialità. Eppure le sue spiccate doti investigative non colsero alcun segno di ipocrisia nel suo atteggiamento né altro di avverso, se non un'eccessiva espansività tipica di quella categoria gente solare e genuinamente spensierata, di cui Kate aveva sino ad allora ritenuto Castle l'unico sopravvissuto rimasto.
Nel ringraziarla di quei complimenti, Kate comunque continuò a soppesarne le parole, indecisa se sentirsi più lusingata o più svilita dalla poca apprensione che quella donna sembrava nutrire nei confronti del suo passato con Castle. Qualche altro minuto e un paio di frasi scambiate, la portarono infine a concludere che con tutta probabilità Laura non avesse idea di che lei fosse -o fosse stata- per Castle, certa che tanta spigliatezza non sarebbe potuta essere naturale neanche in una personalità del genere. E di nuovo Kate si sentì combattuta tra due sentimenti contrapposti: tra il sollievo cioè d'essere scampata a un incontro potenzialmente molto imbarazzante, e lo strano risentimento repentinamente maturato nei confronti di Castle, che sembrava non aver ritenuto il loro passato qualcosa di sufficientemente importante da metterne a parte la nuova arrivata.
«Scusatemi è il lavoro, devo rispondere. Torno subito»
Lo squillo di un cellulare giunse a mettere fine a quel surreale quadretto di vita sociale, costringendo Laura ad allontanarsi e contemporaneamente Rick e Kate ad avvicinarsi in un inevitabile e necessario confronto. Non prima però di aver condito la scena d'un rapido e sgradevole bacio a stampo di commiato, che attorcigliò le budella di Kate con tanta violenza da farne riversare la bile all'esterno, dritta sulle sue parole.
«Lei non hai idea di chi io sia, vero?»
«No»
«Come è possibile che non sappia nulla di noi?»
«Quando l'ho incontrata era già da un pezzo che non esisteva più un noi, Kate. Inoltre non è una fan dei miei libri»
Il fatto che Laura non fosse una sua fan, sebbene sufficiente a farle perdere qualche punto ai suoi occhi, non era per Kate un'informazione esauriente, essendo la sua domanda mirata a sapere come lui avesse potuto non far neanche cenno a lei in tutti quei mesi, più che al come lei potesse essere tanto estranea al loro mondo da non averne mai sentito mai parlarne. Non seppe dire se lui non avesse davvero inteso il senso della sua richiesta, o se avesse deliberatamente virato sui libri per evitare di rispondere. Ad ogni modo, dopo averlo sentito puntualizzare quel noi a denti stretti, non ebbe più cuore di approfondire la faccenda. Specie perché al momento c'erano questioni più urgenti da dirimere.
«Rick ho bisogno di parlarti, ti prego»
«Sinceramente Kate, non credo ci sia nulla di cui parlare»
«Nulla, davvero? E quello che è successo a Washington lo chiami nulla? Non puoi fare finta che non sia accaduto niente, Castle!»
«Non faccio finta, Kate. So perfettamente cosa è successo, e cioè ci siamo fatti trascinare dagli eventi e abbiamo commesso un errore. Fine della storia. Per cui come vedi non c'è nulla di cui parlare»
«Tutto qui? Trascinati dagli eventi, un errore... Andiamo Castle, non ti sembra troppo semplicistica come storia. Sappiamo entrambi che non è il tuo genere»
«Le persone cambiano, Kate. A volte. Ora scusami, c'è un matrimonio in corso e vorrei andare a congratularmi con gli sposi»


Da quando Castle l'aveva lasciata da sola in mezzo al giardino, Kate aveva deciso di interrompere ogni contatto sociale con chiunque. Una decisione temporanea la sua, e terribilmente egoistica -ne era consapevole-, ma necessaria affinché nessuno si accorgesse dei suoi occhi rossi e le chiedesse spiegazioni. Un ritiro preventivo, atto a proteggere il giorno di Lanie ed Esposito dai suoi problemi, ma soprattutto a preparare lei -era inutile negarlo- al prossimo inevitabile incontro con Castle. Per tutta la durata dell'aperitivo, allestito nel piccolo portico adiacente al luogo della cerimonia, Kate s'era dunque rifugiata in un angolino appartato del muretto di cinta: abbastanza vicina da seguire i movimenti del convito, ma sufficientemente lontana da non venirvi coinvolta. L'unica eccezione era consistita nella rapida e calcolata incursione al tavolo delle bevande, grazie alla quale Kate si era accaparrata il gelato calice di bianco, custodito ora gelosamente tra le proprie dita. I suoi venti minuti di tranquillità vennero fatalmente interrotti dall'arrivo di Ryan, una presenza tuttavia neutrale e che Kate si scoprì sinceramente lieta di accogliere nella propria solitudine.
«Beckett»
«Ryan, ciao!»
Abbandonato il suo tesoretto alcolico per un istante, Kate scese dal muretto su cui era appollaiata per arricchire quel saluto di un allegro abbraccio, che l'ex collega non tardò a ricambiare. Un gesto inusuale per loro, ma giustificato da una lontananza prolungata a cui nessuno dei due, a dispetto del tempo trascorso, era ancora totalmente abituato.
«Ti trovo benissimo!»
Si separò da lui per concedergli una rapida occhiata, mentre il suo corpo aveva già riguadagnato posizione nel suo sedile di fortuna e presa sul bicchiere di vino. Non passò molto tempo prima che l'amico, liberatosi dell'impaccio della giacca, arrivasse a farle compagnia sedendosi a sua volta.
«Anche tu sembri in forma, un po' stanca forse... A Washington vi fanno faticare, eh?»
L'ultima frase venne palesemente aggiunta per smorzare la profondità di quell'appunto sulla stanchezza, che Kate imputò alla vista del suo sguardo, evidentemente ancora non del tutto scevro di lacrime. Una premura che apprezzò particolarmente, avendo colto in essa la preoccupazione dell'uomo per il suo stato e contemporaneamente tutta la delicatezza e la discrezione che facevano di Ryan l'amico prezioso che era.
«Diciamo che a volte rimpiango la flemma dei killer di New York»
«Posso immaginarlo, anche se credo che Washington ti porti a idealizzare un po' troppo il crimine di New York... Forse lo hai scordato ma anche i nostri assassini sanno essere particolarmente creativi, se vogliono»
Quello scambio di battute si perse in una risata condivisa, che andò a riempire lo spazio vuoto di cui Kate aveva faticosamente tentato di circondarsi fino a quell'istante.
«Ho saputo di Jenny, congratulazioni. Sarai eccitatissimo all'idea, immagino»
«Grazie! In effetti non sto nella pelle. Non pensavo che dopo quello che ci ha fatto passare Sarah Grace i primi tempi sarei stato così ansioso di tornare ad avere a che fare con coliche, pappe e notti insonni... ma a quanto pare l'istinto paterno annebbia la mente»
Un'altra risata tornò ad increspare le labbra di Kate, fomentata dalla smorfia comparsa indisciplinata sul viso dell'amico, probabilmente al ricordo dei suoi drammi neo-paterni.
«Ah, eccovi voi due!»
«Jenny!»
La conversazione venne interrotta proprio dall'arrivo di Jenny, quasi fosse stata richiamata dalle loro parole. Approfittando dell'ilare distrazione dei due, si era infatti avvicinata a loro con discrezione, ed era passata inosservata finché lei stessa non si era annunciata parlando. Ryan, la giacca malamente gettata su una spalla, non aveva sprecato neanche un attimo per balzare giù dal muretto e guadagnarne il fianco.
Adesso che l'aveva di fronte, Kate si prese qualche minuto per studiarla, con una cura che non aveva potuto prestarle prima: perché seduta durante il cambio d'abiti della sposa, e perché semplicemente meno interessante di altri durante la cerimonia. La pancia non era che accennata, una lieve curvatura sulla striscia di tessuto che le avvolgeva il ventre; sarebbe facilmente passata inosservata a chi non vi avesse ricercato intenzionalmente i segni d'una gravidanza, come lei. E tuttavia il suo viso era più eloquente di qualunque rotondità, roseo e florido come appena baciato dal sole, nonostante si fosse in inverno: una stagione tutt'altro che coerente con la solarità che sprigionava da ogni poro della sua pelle. Nel guardarli adesso, con Ryan a cingerle la vita con un braccio, in un inconsapevole abbraccio protettivo, Kate fu colta da un inatteso moto di tenerezza, fiera, e quasi onorata, di esser stata testimone di quell'amore fin dai suoi albori, quanto Jenny non era ancora che la metà della coppia aperta di Ryan. Come lui stesso aveva candidamente sottolineato in passato, durante un caso che l'aveva vista sorprendentemente coinvolta.
«Il pranzo sta per essere servito, Lanie e Javier mi hanno chiesto di venirvi a chiamare»
«Grazie, tesoro. Vogliamo andare allora?»
Il braccio era stato porto a Jenny, ma il resto di Ryan aveva invece posto quella domanda a Kate, ancora indugiante sulla soglia del suo rifugio. Ma non c'era scelta, doveva seguirli. E del resto non avrebbe potuto nascondersi lì tutto il giorno, né voleva farlo: era il matrimonio dei suoi migliori amici, dopotutto. Forte di una nuova determinazione -per cui, per qualche motivo, sentì di dover ringraziare Ryan- si decise quindi ad alzarsi e a seguirli oltre il giardino, dentro la sala ricevimenti dove la festa li attendeva.


A dodici anni i suoi genitori l'avevano portata in vacanza in Italia.
A dispetto della suggestività dei paesaggi e delle campagne toscane, il suo animo di bambina aveva trovato maggiore soddisfazione nell'esplorazione dell'agriturismo in cui soggiornavano, e dove i suoi genitori -dopo parecchie rimostranze- si erano infine convinti a lasciarla in occasione di escursioni particolarmente faticose, e meno appetibili quindi per la figlia. In quegli sprazzi di esotica solitudine, Kate aveva finito per fare amicizia con la figlia dei proprietari e, in breve, con il resto della piccola ma ardita compagnia di coetanei che sembravano affollare le camere di quella provvisoria sua dimora. Superate le difficoltà delle barriere linguistiche, grazie a quella particolare capacità, tutta infantile, di non notare le diversità altrui percependole come un problema, s'erano lanciati in avventure che non richiedevano necessariamente l'uso della parola, finendo con l'instaurare una singolare afona amicizia. Un gioco in particolare aveva occupato i loro pomeriggi più afosi, le cui regole vennero apprese grazie all'intervento mediatore del proprietario che, tra una spiegazione in italiano e una in inglese, aveva concesso loro di cimentarsi in divertenti sfide a carte: un gioco noto come “Lupus”.
Con il peso di troppi anni a gravarle sulla memoria, Kate non era certa che avrebbe saputo prendervi parte adesso con la stessa abilità di allora, e tuttavia i ruoli almeno le erano rimasti ben impressi per la loro particolarità: così, a seconda della carta estratta, vi erano i semplici passanti, i lupi -il cui obiettivo era quello di eliminare ad uno ad uno i primi con un abile e discreto gioco di sguardi-, e il cacciatore, chiaramente votato alla ricerca dei suddetti predatori.
Mentre la portata principale del pranzo veniva consumata, Kate -tra una chiacchiera e un boccone- continuava a pensare a quel gioco e, pur non capacitandosi del perché, aveva il forte sospetto che quella passeggiata lungo il viale dei ricordi avesse a che fare con l'intensissima guerra di sguardi che si stava compiendo a quel tavolo da quasi due ore, da quando cioè ognuno aveva preso posto scoprendo la carta assegnatagli. Si era così venuto a instaurare un inquieto equilibrio: loro due, inevitabili membri dello stesso branco, intenti a scambiarsi occhiate eloquenti e sguardi fuggevoli ma fin troppo insistenti, in un'evidente distorsione delle regole, tale per cui non minacciavano di morte gli astanti ma sé stessi e il proprio autocontrollo. E il cacciatore tra loro, nelle rassicuranti e voluttuose vesti di Laura, inconsapevolmente preposta alla ricerca di un canale comunicativo che neppure sospettava esistesse, confidente in una ferrea sicurezza di sé o semplicemente nell'ignoranza circa il passato del suo uomo e della donna che gli sedeva di fronte. E così, a parte loro, nessuno dei presenti sospettava nulla, vittime tutte inconsapevoli di quel conflitto a fuoco tra iridi che avrebbe facilmente potuto trasformarsi in un massacro se solo una piccola scintilla di consapevolezza avesse attraversato gli occhi del cacciatore.
«Prima di passare alla prossima portata, faremo una pausa. Nel frattempo fate un bell'applauso e accogliamo tutti il primo ballo degli sposi»
La voce del cantante del gruppo -una piccola band neo-melodica le cui cover avevano conquistato Lanie già ad un precedente matrimonio- si levò sopra il festoso frastuono di stoviglie, posate e chiacchiere gioviali, attirando l'attenzione di tutti i presenti. Dal fondo della sala che -con una magnifica vetrata affacciata sul giardino a fare da sfondo- accoglieva il tavolo degli sposi, emersero quindi Lanie e Javier, i quali un po' impacciati, una per l'abito l'altro per l'agitazione, raggiunsero il centro della sala, incoraggiati dalle urla e dagli applausi dei tavoli intorno.
Quando infine fu soddisfatto della loro posizione, il cantante abbandonò i toni irruenti dello speaker per passare a quelli suadenti che più si confacevano al suo ruolo, e ben presto l'atmosfera nella sala cambiò. Lanie e Javier, evidentemente poco pratici dei ritmi rilassati di un lento, dopo un inizio un po' incerto iniziarono però a carburare, e ben presto la coppia prese a volteggiare abilmente per la pista. Kate conosceva già le doti danzerecce di Esposito -avendo avuto modo di apprezzarle durante i talent annuali della polizia a cui immancabilmente lui e Ryan si esibivano- e conosceva la passione di Lanie per le discoteche e per il ballo, che in tempi meno rigidi aveva condiviso con lei. Tuttavia vederli in quella veste, di sposi e ballerini insieme, era uno spettacolo nuovo e attraente, specie perché mai, anni addietro, avrebbe potuto immaginarseli così: felici e innamorati, cullati dalle note di una canzone così lenta da scontrarsi con l'effervescenza delle loro personalità.
Col passare dei minuti lo scenario cambiò, e dopo una breve sostituzione di partner per Lanie -che passò da Esposito al padre, e poi di nuovo ad Esposito- alla coppia principale se ne aggiunsero pian piano tante altre, finché i tavoli non iniziarono a svuotarsi e la pista a riempirsi. E al cambiare dello scenario, arricchito di volta in volta da nuovi protagonisti o da diversi appaiamenti dei precedenti, anche i ritmi cambiavano, con un frizzante altalenio tra motivi dance e melodie romantiche che in breve contagiò quasi la totalità della sala. Compresi Castle e Laura.
Nel vederli alzarsi, mano nella mano, e prendere poi a loro volta parte alle danze, Kate si sentì trafiggere al petto, per l'ennesima volta quel giorno. Se già doverli osservare a tavola era stato un boccone duro da digerire, adesso doverli guardare piroettarle gioiosamente davanti agli occhi si stava rivelando quasi impossibile da sopportare.
Indugiò nell'alzarsi per il semplice fatto che la sua posizione attuale le garantiva una certa discrezione, essendo rimasta da sola in quel tavolo, tale da permetterle di poter continuare a godere della vista di Castle senza timore di essere scoperta, approfittando della confusione generale da cui tutti sembravano distratti. Tutti, tranne Castle, che di tanto in tanto, quando la folla lo permetteva, spiava oltre la spalla della sua compagna per restituirle lo sguardo, con un intensità che valeva più di qualunque parola Kate avrebbe potuto sperare di sentirsi dire da lui.
Desiderio, questo leggeva infatti nei suoi occhi. Desiderio e turbamento.
E per quanto si ripetesse che non era possibile -sereno com'era tra le braccia di Laura-, e che anche essendo vero non avrebbe fatto alcuna differenza per loro, Kate non riusciva a smettere di crogiolarsi in quella consapevolezza. La consapevolezza che dopotutto, per quanto lui l'avesse definita una storia semplice, quella di Washington -lungi dall'essere semplice- era una ferita ancora aperta.
Fu un bacio infine a farla desistere da ogni proposito. Qualunque idea malsana stesse tentando di affacciarsi alla sua mente, venne spazzata via dall'incontro delle loro labbra -un incontro decisamente più appassionato di quello a cui aveva assistito precedentemente in giardino- e che le fornì la dose di dolore necessaria a farla alzare dalla sedia. Un'ultima occhiata languida, sfuggita erroneamente al suo controllo, andò a colorare i suoi occhi, riflettendosi poi in quelli dell'uomo,e certa che a lui non fosse sfuggita Kate accelerò il passo, fuggendo letteralmente dalla sala.
Varcato l'uscio, ben poche prospettive le si aprirono dinanzi e, visto il rossore che le infiammava le guance, concluse che il bagno sarebbe stata una scelta più idonea del giardino. La prospettiva di rinfrescarsi si tramutò infatti in un'urgenza, e raggiunti rapidamente i servizi, aprì al massimo il rubinetto del piccolo lavello marmoreo, lasciando che il getto d'acqua fredda le imperlasse le dita. Lentamente prese poi a picchiettarsi la faccia con le mani umide, non potendo permettersi di sciacquarsi davvero considerate le quantità di trucco che aveva addosso. Quando alzò il capo per incontrare il riflesso nello specchio, ringraziò di non riuscire a distinguere se quelle sul suo viso fossero lacrime, gocce d'acqua o un insieme di entrambe. Il suo orgoglio non avrebbe retto a un altro pianto.
Le ci vollero parecchi minuti prima che si sentisse pronta a uscire e tornare alla festa, e quando finalmente si disse soddisfatta del suo aspetto e predisposta a un secondo round, si augurò con tutto il cuore che il momento delle danze si fosse concluso. Avrebbe preferito mille volte doversi sorbire la faccia di Laura di fronte a un buon pasto, che vederla ancora abbarbicata a Castle. Troppo presa da quei pensieri, si accorse a malapena della presenza appostata fuori dalla porta del bagno, e saltò in aria quando una mano le planò con violenza sul braccio, afferrandola con una forza bruta e non necessaria.
«Castle, fermati. Mi fai male!»
«Vieni con me»
Il tono della sua voce era duro e perentorio, quanto la presa sul braccio: le dita talmente spinte in profondità nella sua carne che Kate era quasi in grado di sentirne le protuberanze ossee delle falangi premerle contro le vene. Nella concitazione del momento, pose tuttavia in secondo piano il dolore che aveva preso a irradiarle l'arto, cercando piuttosto di capire il perché di quel gesto, e soprattutto di indovinarne le intenzioni, ora che aveva preso a trascinarla per il corridoio, verosimilmente verso le scale.
«Si può sapere dove mi stai portando?»
La voce le uscì meno combattiva di quanto avrebbe voluto, ma a giudicare dallo sguardo febbrile che gli illuminava gli occhi, Kate dubitò che il tono di voce avrebbe potuto sortire alcuna differenza: parlare non sembrava infatti essere una priorità per lui, attualmente troppo concentrato a trainarla al piano di sopra. Solo quando raggiunsero una stanza nell'ala destra dell'hotel -in cui lei non aveva mai messo piede, ma che tirando a indovinare doveva aver ospitato il cambio d'abito dello sposo-, Castle finalmente si decise a lasciarla andare, non prima di averla cacciata a forza al suo interno e d'essersi richiuso la porta alle spalle.
«Si può sapere che ti è pres-»
«Devi smetterla, Kate! Smetterla di guardarmi, e di cercarmi... Smettila! Dammi tregua, per l'amor di Dio!»
«Lo dici come se fossi l'unica a farlo, ma siamo in due Rick! Anche tu mi guardi, e mi cerchi! Non dare la colpa a me di qualcosa che in realtà vuoi anche tu!»
«Io voglio essere lasciato in pace, Kate! Questa è la sola cosa che voglio!»
«E io non ti credo!»
Vide la sua mascella fremere e le labbra tremare, pressate l'una contro l'altra con tanta violenza da ridurle a nient'altro che una sottile fessura nel suo volto. Le mani, strette a pugno, caddero pesanti lungo i fianchi rendendo la sua figura ancora più rigida, e lo sguardo s'impregnò di collera, incupendosi.
In poche altre occasioni aveva visto Castle in quelle condizioni, ancora meno erano state quelle in cui una tale rabbia era stata diretta verso lei. Persino nelle loro peggiori litigate, l'ira era sempre stata stemperata da un'amorevolezza di fondo e dai silenzi, di cui loro erano abili fruitori: altrettanto incisivi delle parole certo, ma meno violenti. Prevedere cosa sarebbe venuto dopo, fu dunque per Kate impossibile. E poi d'improvviso quella furia lui gliela scaraventò addosso.
Nella violenza della sua presa, nel modo rude in cui la sollevò, nella mancanza di accortezza con cui poi la depose sulla superficie fredda del mobile bar... ogni suo gesto trasudava rabbia e frenesia. Anche quei baci, appassionati e roventi, di cui la stava adesso inondando non avevano nulla di amabile: sapevano solo di sangue e disperazione. Nulla a che vedere con la tenera e struggente passione che li aveva sorpresi a Washington mesi prima: quella che stava per consumarsi adesso era la resa dei conti, in tutta la sua ferocia. In quella foga, nel veemente sollevarsi della gonna, ostacolo inaccettabile, lei e Castle non si stavano preparando a fare l'amore, stavano litigando, si stavano odiando... Dando voce a quel confronto necessario, ma non per questo meno doloroso, che lei aveva cercato sin dalla fine della cerimonia, e che lui le aveva strenuamente negato fino ad ora.
Il corpo di lui era adesso completamento adeso al suo, talmente vicino che Kate poteva indovinarne ogni curva e sporgenza anche attraverso la spessa e ruvida fattura della stoffa del suo vestito. E in quella prossimità, Kate non poté più ignorare il desiderio che stava ormai consumando entrambi, reclamando a gran voce appagamento.
Febbrili, le dita si avventurarono verso il basso, sotto la cintola, alla ricerca di quei bottoni che ostinati ancora si frapponevano al loro piacere. Con suo enorme disappunto quell'operazione le richiese più tempo del previsto, avendo una sola mano a disposizione, poiché l'altra era stata catturata da quella di lui, in un intreccio graffiante ancorato al muro sopra la sua testa. Quando infine riuscì a liberare la prima asola dal suo ospite, e carica di compiacimento si apprestava già a liberare le altre due con più determinazione di prima, tutto di colpo si fermò, e da che quasi non riusciva a respirare -con il petto pressato dai suoi pettorali e la bocca a rubarle di baci i pochi scampoli di ossigeno che riusciva a racimolare- Kate si ritrovò improvvisamente spoglia, circondata da più spazio e aria di quanto le fosse necessario.
Quell'improvviso apporto di ossigeno in esubero quasi le fece girare la testa, e fu con lo sguardo ancora intontito e ubriaco di passione che si guardò intorno, tentando di capire cosa avesse spinto Castle, a un passo dalla meta, ad allontanarsi con tanta violenza da lei.
«Non ti fermare...»
La voce le uscì boccheggiante, ancora in riserva d'ossigeno, ma non ottenne nessuna risposta. Indispettita, con la frustrazione che cedeva rapidamente il passo alla confusione, seguì allora lo sguardo dell'uomo, in piedi di fronte a lei, che con ancora la sua mano stretta tra le dita ne osservava ora un punto preciso con sconvolta curiosità.
Quando la consapevolezza mise radici nella mente di Kate era ormai troppo tardi per ritirare la presa, e lo stesso sconcerto di lui arrivò a devastare anche il suo di sguardo.
«Cos'è questo?»
Il tono confuso era condito di una nota sufficientemente incisiva d'ira. Kate ne fu spaventata e tentò inutilmente di ritrarre la mano, mentre lui di contro aumentava la presa sul suo polso.
«Ti ho chiesto cos'è!»
Strappato con violenza l'intreccio delle loro dita dal muro che le aveva sinora ospitate, Castle le aveva adesso sbattuto davanti agli occhi il quadrato di pelle incriminata, con una forza e una veemenza tali da rendere inutile ogni tentativo di divincolarsi di Kate.
Sentì le ossa scricchiolare sotto la circonferenza delicata del polso, e dovette mordersi l'interno di una guancia per impedirsi di gemere.
«Non è nulla, solo uno stupido tatuaggio! Vuoi lasciarmi andare adesso?»
«
Sappiamo entrambi che è più di questo, Kate!»
Con la stessa irruenza con cui l'aveva afferrata poco prima -in un impeto ben più piacevole di quello attuale- Castle le restituì infine la mano.
Sentire il sangue tornare a circolare lungo le sue dita fu un sollievo doloroso, che Kate tentò di lenire massaggiandosi delicatamente la zona di pelle arrossata. Nel farlo istintivamente il polpastrello del pollice percorse in lunghezza la piccola linea del tatuaggio, reo d'aver scatenato l'ira dell'altro, lasciando che il senso del tatto registrasse, ancor prima della vista, ognuna delle sei piccole lettere che insieme componevano la parola “
always, marchiata indelebilmente nel suo polso. Piccola, quasi impercettibile per un occhio non attento, seguiva parallela la linea della vena: una promessa, un simbolo di qualcosa che le era entrato in circolo e di cui mai avrebbe potuto disfarsi.
Poteva capire la reazione di Castle,era prevedibile, e tuttavia non se ne era mai davvero curata: nessun altro, eccetto loro due, avrebbe potuto riconoscere il reale valore di quella parola all'apparenza insignificante, e d'altra parte fino a qualche mese fa era stata convinta che lui non avrebbe mai più avuto modo di avvicinarsi a lei tanto da notarla.
Si era sbagliata, evidentemente.
Quella notte, a Washington, era stata fortunata: un bracciale, il buio e la passione del momento l'avevano protetta. Ma adesso, senza maschere e con gli animi a nudo l'uno di fronte a l'altra, e col sole a baciare ogni centimetro delle loro pelli, aveva peccato d'ingenuità nel non mettere in conto quella scoperta.
«
Maledizione Kate, sei tu che mi hai lasciato! Che diritto hai di rimpiangerlo adesso? Che diritto hai di... questo!»
Evidentemente turbato, Castle camminava adesso avanti e indietro, coi pugni chiusi ad agitarsi in aria contro nessun obiettivo in particolare, eccetto per quel breve istante in cui uno di essi andò a scontrarsi con forza contro la parete, per la fatica richiestagli dal pronunciare quell'ultima parola.
Seduta sul suo giaciglio di legno, con il cestello del ghiaccio ormai sciolto a farle compagnia, e il vestito ancora malamente sollevato oltre le ginocchia, Kate lo osservava, turbata e scossa da quella reazione, mentre ostinata ordinava alle lacrime di tornare indietro. Indecisa su cosa fare, e non ricevendo nessun indizio da lui -silenziosa presenza di fronte a lei-, scese allora dal mobile, si sistemò il vestito e indugiò poi nel fissarlo, attendendo che facesse o dicesse qualcosa che li tirasse fuori da quell'impasse.
«Quando lo hai fatto?»

Riprese a parlarle qualche minuto dopo, vietandosi categoricamente però di guardarla negli occhi. E Kate, sentendo le sue gambe cedere, ritenne opportuno sedersi di nuovo: il mobile che prima l'aveva ospitata era però ancora rovente della loro passione, il che non lo rendeva un luogo ospitale, e alla fine non trovò nulla di meglio del pavimento. Si sedette così contro la spalliera del letto, lasciando che il peso intollerabile del suo capo gravasse sul materasso e non più sul collo, già troppo provato.
«Qualche settimana dopo essermi trasferita a Washington»
«Perché?»
La rabbia di Castle sembrava essersi notevolmente ridotta: il tono si ammorbidì, le mani si aprirono in un incerto tremolio, e un sospiro rassegnato ne addolcì la piega dura delle labbra. La tensione si alleviò al punto che l'uomo osò persino venirle vicino, sedendosi accanto a lei, pur ben attento a non sfiorarla mai.
«Perché mi hai cambiato la vita. Coi tuoi libri già prima che ci incontrassimo, dopo rimanendomi ostinatamente vicino, e ancora adesso, Rick, tu me la cambi. Ogni volta che ho una decisione difficile da prendere, o che vivo un brutto momento, non riesco a non chiedermi “C
osa farebbe Castle?o “Cosa mi direbbe lui?. Quando ho un caso complicato la mia mente d'impulso ripercorre tutte quelle teorie strampalate con cui mi hai riempito la testa negli anni, non mi forniscono praticamente mai la soluzione, ma in compenso mi aiutano ad aprire la mente, a ragionare fuori dagli schemi. Come mi hai insegnato tu. Tu mi hai cambiato la vita, Rick, in un modo che non credevo possibile. Hai lasciato un segno indelebile in me, per sempre...»
Con uno sbuffo di ilarità che in nessun modo suonò allegro, le labbra di Castle si incresparono in un riso amaro, e la ridicolezza di quella situazione vinse persino sui suoi propositi di non voltarsi a guardarla. L'occhiata che si scambiarono fu comunque ben lontana dall'essere rassicurante per Kate.
«Malgrado ciò, tu mi hai lasciato andare Kate»
«Sì, l'ho fatto, ma non perché non ti amavo abbastanza. Anzi, è perché ti amavo troppo, e avevo paura. Tutte le persone a cui tengo si feriscono, muoiono o mi lasciano. Dirti di sì, quel giorno al parco, avrebbe significato abbandonarmi completamente a te, includerti a pieno titolo nel mio mondo, e a quel punto non avrei avuto più difese e se tu mi avessi lasciato... »
«Non lo avrei mai fatto.»
«Non puoi saperlo»
Le avversità che aveva dovuto affrontare in passato la spinsero a rispondere istintivamente a quella frase, con i residui di cinismo della sua vecchia vita che ancora trovavano modo di riemergere in situazioni ad alto coinvolgimento emotivo, come quella attuale. Bastò però uno sguardo all'uomo accanto a sé, per far sì che i toni si smorzassero.
«Ma sì, forse non mi avresti mai lasciato, non volutamente almeno. Ma sai come sono fatta, lo sai forse anche meglio di me: non riesco a non pensare al peggio, specie quando le cose vanno bene. Non riesco a non pensare alla fine, perché sono abituata a vedere le cose finire. So che avrei potuto avere la mia indipendenza e questo lavoro e te, lo so adesso, ma allora ero troppo spaventata anche solo per provare a immaginarlo, e ti ho lasciato andare... E di questo mi pentirò per sempre.»
Non seppe dire se a spingerla a proseguire in quella, già oltre i limiti, presa di coscienza fosse stata l'incapacità di fermare la propria ugola dal parlare -ora che finalmente le era concesso di farlo per la prima volta-, l'aver maturato quella consapevolezza solo adesso, o lo sguardo di Rick e il modo in cui era mutato durante il suo discorso, tale da indurla a covare una sciocca e rediviva speranza in un loro futuro. Ciò che fece fu semplicemente smettere, per una volta, di mettere paletti ai propri desideri, e le parole scivolarono leggere e indisturbate fuori dalla sua gola, senza alcuno sforzo.
«Io ti amo, Rick, ti amo ancora. E tu? »
Si sentì sciocca nell'ascoltare la propria voce formulare quella frase e porgli quella domanda così infantile, eppure così logicamente bisognosa di risposte. E istintivamente la sua mano cercò conforto e si posò su quella di lui, adagiata sul parquet a qualche centimetro di distanza, e nonostante qualche attimo di rigida esitazione, alla fine le sue dita si rilassarono, in un gesto che Kate tradusse come una resa ad accoglierla.
La resa durò poco tuttavia, giusto il tempo necessario all'altro per metabolizzare quella domanda e vederne, in tutta la loro pericolosità, le implicazioni.
«Non ho intenzione di risponderti, perché so già che la risposta non mi piacerebbe. E dirlo ad alta voce non servirebbe a nulla, se non a rendere tutto questo ancora più complicato»
Con uno scatto rapido delle gambe, Castle si alzò, allontanandosi da lei e deciso senza ombra di dubbio a mettere fine a quella discussione.
«Rick...»
«Devo tornare di sotto adesso, e anche tu»
«Rick, ti prego!»
Di fronte al suo sguardo implorante -consapevole che ormai tentare di salvaguardare l'orgoglio era sforzo vano- Rick sembrò per un attimo capitolare, ma alla fine fu più determinato di lei nelle sue intenzioni.
«No, Kate. Di sotto c'è una donna che mi aspetta, una donna onesta e intelligente, che non si merita niente di tutto questo... Abbiamo entrambi le nostre vite da vivere, e nessuna delle due prevede più la presenza dell'altro ormai»
Le voltò le spalle e si diresse verso la porta della camera, a passo di carica. Kate dal canto suo rimase immobile, seduta nello stesso angolo di parquet, con la testa voltata verso di lui che invece non la guardava più. E che non la guardò nemmeno quando, con la mano già sulla maniglia della porta, riprese a parlare.
«Sai Kate, io non rimpiango nulla di quei cinque anni, e forse quello che sto per dire ti sembrerà assurdo... E in effetti lo è, perché non saremmo le persone che siamo senza quella parte della nostra vita che abbiamo condiviso. Eppure sono convinto che se la Kate e il Rick di oggi si conoscessero, adesso per la prima volta, senza un passato come il loro alle spalle, si piacerebbero, e stavolta avrebbe funzionato. Sarebbero stati solo una comune donna e un comune uomo davanti a un comune caffè, a parlare di sé e a scoprirsi, innamorandosi ad ogni parola. Rick senza dubbio. E forse adesso avremmo il nostro lieto fine, il nostro
Always. Forse eravamo le persone giuste, Kate, ma era il momento ad essere sbagliato. E di questo non ha colpa nessuno, né tu né io»
Quell'ultima frase le si abbatté addosso, pesante come un macigno, e nel momento in cui il rumore della porta sbattuta contro il telaio di legno segnalò la sua uscita dalla camera, le lacrime presero a scenderle copiose lungo le guance e giù fino al vestito, punteggiandolo di piccoli nei umidi e scuri. E Kate non poté opporvi resistenza.
In quel trambusto del suo animo, sentì a malapena la porta riaprirsi, mentre la mano tremante si alzava nel vuoto a ghermire l'aria per posarsi poi spasmodica sulla bocca, a soffocare i singhiozzi del suo cuore.



  
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