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Autore: Lodd Fantasy Factory    11/06/2015    0 recensioni
Il mondo si sta arrendendo al cambiamento. Gli antichi debbono lasciare spazio all'evolversi di nuove vite, poiché è parte del destino di ogni entità che risiede su Draakhonsgaard. Il dominio degli Elfi, che ha imposto un'era di privazione agli uomini, è finalmente giunto alla sua conclusione: una nuova rinascita attende il popolo mortale. L'Arcaico avrà finalmente la sua vendetta!
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- I -
Il tradimento



 

Lasciva e pigra, come un'onda che non trova la forza di raggiungere la riva, la luce del sole si aggrappava ai confini dell'orizzonte, mentre veniva lentamente scacciata dall'estasiante radiosità lunare. Quei moribondi raggi parevano artigli che affondavano disperatamente nelle carni di praterie sanguinanti.

Tutto dava l'impressione di essersi improvvisamente fermato, persino i battiti dei loro cuori, assopiti in quell'alienante quiete. Era un momento immortalato nel tempo, come un ricordo incapace di sbiadire.

«Avvolgere la luna ed il sole insieme nello stesso palmo... Sarebbe una visione meno inebriante del restare qui, immobile su questo colle, ad ammirare il vostro profilo baciato dal chiarore di entrambi gli astri», confessò l'uomo. Alle sue spalle, il cielo si stava facendo ormai profondo come l'abisso.

«Non esiste luna, sole, giorno, notte o qualsiasi altro elemento in questo universo che possa negarvi tale visione: poiché io sarò qui, a condividerla al vostro fianco. Neanche gli Dei hanno potere su ciò che siamo, poiché noi siamo parte di essi. Presto, anche questo creato avrà ciò che merita... Le Eatryn saranno finalmente costrette ad inchinarsi a loro volta alla volontà del destino!», sentenziò una risoluta voce femminile, carica di sapere.

La luce si assopì all'orizzonte, nel momento in cui anche la luna soccombeva alla giunta di nubi cariche di piombo: la tempesta era vicina, ed il cosmo pareva avvertire l'imminente manifestarsi di entità capaci di soggiogare il futuro stesso di quelle terre.

 

Il panorama di Ryll li incantò come se fosse la prima volta: le tre alte torri elfiche, distanti circa cento metri l'una dall'altra, si stagliavano a difesa del querceto in tutto il loro splendore, quasi fossero delle lance luminose. Erano bardate di robuste e fiorenti rampicanti, sulle quali, così come sui bordi degli spioventi tetti conici, sbocciavano eleganti lanterne naturali, ove lucciole dai riflessi violacei erano solite bearsi della genuina magia della razza immortale, o gioire della sua straordinaria compagnia. Di tanto in tanto era possibile intravedere anche qualche fata o folletto aggirarsi per la struttura, attratti dalla luminescenza della stessa.

Volsero un cenno alle vedette, che si affacciarono non appena lì notarono farsi vicini, e ricambiarono cordialmente il saluto. In altri tempi, lì avrebbero sicuramente raggiunti ai confini del bosco, e si sarebbero intrattenuti in piacevoli conversazioni. Quella loro impercettibile freddezza, era il chiaro sintomo che denunciava la crescente decisione comune di lasciarsi alle spalle quel mondo, ormai devastato dal progresso dei nuovi popoli. I loro antichi borghi, un tempo incantevoli e curati minuziosamente, erano ora in via di rovina; lì presidiavano pochi nostalgici membri, principalmente giovani che non avevano ancora avvertito lo schiacciante presentimento di appartenere già al passato.

La cittadina, poco più di un villaggio, era appositamente sprovvista di mura ed armamenti da guerra; la protezione degli abitanti era affidata unicamente ad una ristretta cerchia di soldati. Le torri avevano l'unico scopo di avvistare i Draghi, sebbene alcuna precauzione fosse mai stata presa per contrastarli: nessun arma, nemmeno di fattura elfica, avrebbe potuto placarli, se intenzionati ad attaccare, oltre la magia.

La stirpe immortale di Caylionel aveva però compreso che la furia di un Drago, benché contenibile con l'ausilio delle arti arcane, fosse sempre meglio evitarla; erano dunque più propensi ad appellarsi ai loro incantesimi per sfuggire alle grinfie della creatura, piuttosto che fronteggiarla. Avrebbero anche potuto ucciderla, ma non senza perdere un ingente numero di vite; e la vita, per loro, era un dono che non doveva essere sprecato.

L'accesso di Ryll era composto da una coppia di ricurve querce che, intrecciando i propri rami, creavano un'arcata naturale abbellita da rampicanti in fiore; l'intera via era un trionfo di candidi boccioli profumati che brillavano del riflesso lunare. L'ingresso era sguarnito – come da tradizione elfica – poiché quella terra apparteneva a tutti, ed allo stesso tempo a nessuno: i confini erano superflui per una razza che si reputava parte stessa della natura.

Il solo delinearli imponeva una limitazione alle proprie vedute; gli stessi Elfi amavano dire: “ciò che si trova fuori dai nostri orizzonti è spesso oggetto d'incomprensione; è per questo motivo che abbiamo rifiutato di definirli. Così come un albero concede i propri rami agli esausti viandanti del cielo, la terra offre i suoi generosi frutti a coloro che camminano su di essa, purché la rispettino”.

«Calpestiamo la natura ad ogni passo: come possiamo definirci puri, se il nostro semplice esistere comporta un male per tutto ciò che ci circonda?», recitò sarcasticamente l'uomo.

Quelle stesse parole gli erano state rivolte proprio da un Elfo, durante la sua prima visita a Ryll: per il mortale era stato come annegare in un lago ghiacciato; si era sentito tremendamente colpevole di esistere. Gli errori di pochi avevano condannato la sua intera stirpe ad una truce etichetta.

Aveva da sempre nutrito grande rispetto nei confronti di quella razza, innamorato della loro raffinata cultura, la cura per ogni dettaglio, la filosofia – argomento sul quale aveva divorato innumerevoli tomi – ed infine la magia. Ma, sino ad allora, non aveva mai preso in considerazione il fatto che, per gli Elfi, gli Uomini fossero stati da sempre una minaccia per l'equilibrio del loro mondo.

Erano ritenuti instabili, violenti, volubili e dispensabili per il ciclo della vita. Erano stati addirittura paragonati ai Draghi, ma i mortali avevano un vantaggio rispetto a questi ultimi: la rapida procreazione. Difatti, in poco più di due secoli di esistenza, erano riusciti ad incrementare a dismisura il proprio numero, quasi pareggiando quello elfico, forgiato in millenni di evoluzione. Appresero da loro ogni conoscenza sul mondo, plagiandola al proprio volere.

Poi, a dar prova della loro sconsiderata ed irrazionale indole, si divisero in fazioni ed ingaggiarono cruente battaglie contro i propri fratelli, soggiogati dalla sete di potere promessa loro dai Draghi. Gli Uomini avevano dimostrato di essere costantemente alla ricerca di un qualsiasi motivo per dare libero sfogo alla violenza.

Il punto di vista del mago era cambiato notevolmente dal giorno di quella lontana conversazione, quando la gioventù e lo splendore di cui gli Elfi s'investivano lo avevano facilmente ammaliato, rendendolo cieco. L'incontro di Janeris, una donna di solo carattere, che vantava, per quanto lo disprezzasse, sangue elfico, aveva stravolto tutte le sue concezioni, aprendogli la mente.

Lei aveva sconvolto ogni sua certezza, aiutandolo ad aprire gli occhi sulla verità. Ora soppesava ogni minimo dettaglio, e non poteva sottrarsi all'idea di concedere finalmente una svolta alla sua vita, e consegnare al mondo ciò che davvero meritava: era l'occasione di dare uno scossone a Draakhonsgaard, e di rivendicare a gran voce la propria esistenza.

«Ignorate i loro futili discorsi», tagliò corto la compagna di viaggio, volgendogli un sguardo severo. «Discrezione. Abbiamo giurato che saremmo stati cauti sino al momento dell'incontro. Conosciamo a malapena ciò che potremo fare e, molto probabilmente, ci sarà data una sola occasione per portare a compimento il piano. Dovessimo fallire, ogni nostro sforzo sarà stato vano. Hanno orecchie ed occhi ovunque in questa città... evitiamo di sprecare questa rara possibilità, cadendo preda dell'odio. Il nostro momento è vicino!».

«Sono solo parole, Janeris. Non ho perso di vista l'obiettivo», ribatté, concedendosi di ammirare le sue provocanti forme mentre lo precedeva. «Anzi, esse contribuiscono a focalizzare la mia mente su di esso».

Si scoprì schiavo di ogni suo gesto: era una creatura unica, inafferrabile, indomabile. I lunghi capelli corvini danzavano con eleganza, sfiorando con accennati boccoli i suoi tondi glutei. Le sue sottili e rosse labbra erano inesauribili dispensatrici di affilata saggezza. Gli occhi erano l'emblema della sua unicità: uno azzurro, e l'altro violaceo, ad indicare la sua padronanza della magia.

Era infatti usanza fra i maghi, in giovanissima età, applicare le doti magiche su sé stessi, sì da comprovare il proprio potere. Molti sceglievano di marchiare col fuoco arcano il proprio avambraccio sinistro, altri l'addome o la schiena: un punto facile da celare, all'occorrenza. L'uomo rifiutò la tradizione.

Janeris invece, aveva una spropositata considerazione di ciò che si era impegnata a divenire: aveva prediletto il suo occhio sinistro proprio per ricordare a chiunque le stesse davanti chi fosse. Alcuni sostenevano che esso possedesse proprietà sovrannaturali, e che le concedesse la possibilità di scorgere attraverso il velo che occultava i differenti piani della realtà agli occhi dei comuni viventi.

La chiamavano Chiromante.

 

Scivolarono come sinistre ombre per le viuzze boschive del borgo, abbandonando le lanterne gremite di lucciole per inoltrarsi nelle tenebre delle zone meno popolate. Proseguirono cautamente, cercando di non dare nell'occhio, benché fosse arduo eludere i sensi degli abitanti. Inoltre, a differenza delle città normali, quelle elfiche non dormivano, principalmente poiché gli stessi Elfi non ne avvertivano il bisogno.

Godevano ogni singolo istante della propria vita, trascorrendo poche ore della giornata chiusi in una sacra meditazione; si diceva che fossero in grado di vedere lucidamente nei propri ricordi, e che questo fosse il segreto della loro immensa saggezza e lungimiranza.

Superato un agglomerato di minuscole casupole incastonate nei larghi fusti di querce secolari, dimore di fate, folletti ed altre creature silvane, si tuffarono fra la vegetazione. Riuscirono ad accedere ad un celato sentiero, parzialmente ostruito da rigogliosi rovi, che s'inoltrava nel fitto del bosco che accoglieva la città.

I loro passi erano più rumorosi, così come i loro respiri, poiché costretti a movimenti macchinosi, onde evitare di rimanere impigliati lungo il passaggio. In quello stesso momento avvertirono l'aria raffreddarsi, il vento placarsi, e le prime gocce venir giù dal cielo: presto avrebbe iniziato a piovere.

«Luxaar», sussurrò Janeris, soffiando poi sul proprio palmo, dove venne a crearsi un globo bluastro. Fornì loro una minima fonte d'illuminazione, ora che le tenebre erano assolute.

Man mano che si addentravano la flora rinsecchiva, mostrandosi decadente ed a tratti corrotta, con liquidi rossastri che, come linfa vitale, sgorgavano dalle piante al sentiero. La vitalità dei colori lasciava spazio ad ombre che inghiottivano la natura stessa, privandola della propria solarità. I rovi parevano animarsi, con gli aculei che puzzavano di sangue e putrescenza. Lo stesso terreno brulicava di viscidi insetti, perlopiù cacciatori di carcasse.

«Mi chiedo perché il luogo d'incontro debba essere proprio ad un passo da chi vogliamo affrontare. È un rischio considerevole...», commentò l'uomo.

«Vi sono luoghi di cui neanche gli Elfi sono a conoscenza: esistono segreti addirittura più antichi di loro. Egli ci attende ove i loro occhi e la luce del sole non possono giungere. Ci servirà essere vicini all'obiettivo, per conseguirlo più rapidamente. Fidatevi di me...», rivelò Janeris, scostando sensualmente una ciocca all'indietro con un fluido movimento della mano, puntando le sue penetranti iridi in quelle del compagno. Riuscì a dissipare i suoi dubbi.

Poi, mille minuscoli occhi infuocati affollarono i dintorni del percorso, accalcandosi sul macabro sfondo di quel luogo contaminato. Sembrava fossero lì per giudicarli.

Le folte fronde impedivano all'acqua piovana di filtrare nel fitto del bosco, lasciandola però colare lungo i robusti fusti degli alberi come veleno, sprigionando un tossico miasma.

«Qualcuno ci segue», rivelò l'uomo guardandosi alle spalle. Poi aggiunse: «Come hanno fatto?».

Invitò la donna ad affrettarsi. I rumori sul tracciato stavano crescendo; inoltre, i globi luminosi che stavano utilizzando per ricercarli, indicavano che in molti fossero sulle loro tracce.

«Da questa parte!», fece strada lei, gettandosi in un fitto cespuglio di rovi: vennero inghiottiti entrambi.

Gli aculei non lasciarono alcun segno sulla loro pelle; anzi, parvero quasi inconsistenti al tatto. Egli sorrise: quel luogo celava più di quanto desse a vedere, ed era ormai chiaro che fervesse di potere arcano. Riusciva a percepirlo, estraniandosi dal percorso, pulsare attorno a sé, come un cuore palpitante.

I suoi pensieri furono interrotti da una brusca frenata: la via era bloccata da un incrocio, ed ognuno dei sentieri appariva speculare a quello appena percorso. Si sentirono smarriti.

«Ammetto di aver sottovalutato il nostro contatto: ci sta richiamando, espandendo il proprio potere per farsi trovare. Una mossa azzardata... ci tirerà dietro l'intero Circolo Arcano!», commentò irritato. Poi, superando la donna, aggiunse: «Lasciate fare a me: Iakulu hyream!», evocò a gran voce l'incantatore, protendendo le mani in direzione delle tre vie: dai suoi palmi scaturirono fuori sei dardi luminosi, che si divisero in coppie per ogni deviazione, lasciandosi una candida scia ondeggiante dietro.

La luce consentì loro di notare che le vie sulla sinistra fossero potenzialmente errate, poiché quei globi svanirono avvolti da una cupa tenebra, come se l'incanto fosse stato assorbito da qualcosa che si celava al centro del sentiero; nessuno dei due aveva intenzione di scoprire chi o cosa fosse la causa di ciò.

«Furbo!», commentò Janeris. Il compiaciuto sorriso che le marcava le labbra svanì, quando s'incamminò sulla sua destra, giù per un sentiero scosceso.

Alle loro spalle si levarono grida di battaglia, soffocate presto da altre di dolore; il clangore di lame cessò prima ancora di diffondersi nell'ambiente.

Le ombre in lontananza erano schiarite da colori differenti, mentre l'energia che dimorava in quella natura corrotta sembrava starsi animando sempre più, protendendosi anche su chi si stava allontanando dalla zona dello scontro.

Janeris si gettò per l'ennesima volta dentro i rovi, svanendo come poco prima; quindi, si affrettò ulteriormente, lanciandosi in una sfrenata corsa: a distanza intravidero due fiammelle verdognole, poste ad indicare l'ingresso di una grotta che sprofondava nel sottosuolo.

Ad un passo dall'accesso, la terra si fece improvvisamente instabile, ed una serie di robuste, rigogliose e vive radici frammentarono in più parti il sentiero, avventandosi sugli incantatori: l'uomo ebbe la meglio, divincolandosi, mentre Janeris venne catturata dalle liane, che si avvinghiarono al suo corpo come una seconda pelle, immobilizzandola.

La natura pareva essersi ribellata, almeno ad un occhio inesperto; ma il mago non aveva alcun dubbio su chi fosse l'artefice di quella potente magia.

«Infine, avete scelto il tradimento. Quale assurda e folle teoria vi ha condotto su questa strada? Siete realmente conviti che quanto vi attende nel sottosuolo sia meglio di tutto ciò che vi circonda?», esordì una voce soppesata, figlia di labbra che avevano fiato da secoli. «La natura cela volti che noi vivi non dovremmo mai scorgere, in vita. Rinunciate alla vostra ricerca, siete ancora in tempo...».

«Cènidar... che sorpresa», ammise il mago, disegnando un inchino con la mano sinistra. Riprese dopo una breve pausa: «Con che coraggio trovate il diritto di giudicarci? Cosa potete saperne del dolore di questa atroce vita mortale, voi che nell'immortalità attraverserete il destino?! Siete stati prescelti, come pochi altri uomini, per vedere lo splendore delle ere scorrere. Che cosa resta, invece, a noi poveri ed inutili mortali? Siamo costretti a decadere, a sopperire alle malattie, ad essere piegati dal tempo, sino a che la debolezza ci trasformerà in inutili e vuoti involucri per vermi!». La sua voce era carica di astio.

Seguì con lo sguardo l'Elfo emergere dall'ombra, notando i suoi larghi abiti abbandonare un colorito appassito per ritornare al consueto verde acqua, proprio come la tonalità dei suoi occhi.

Ai profani sarebbe parso un banale gioco di prestigio, ma era un trucco semplice a dirsi, ma assai complicato da farsi: l'omogeneità della tinta richiedeva grande abilità, affinché fosse in grado di apparire come parte dei contorni del cupo bosco che li circondava. I capelli castani erano legati in una coda dalle punte argentate, con una solitaria ciocca dello stesso colore che gli cadeva davanti al viso.

«Quel che non vedete, amico mio, è l'immenso dono che vi è stato concesso dalle Eatryn:

 

Pur gli alberi si piegano alla volontà del vento,

così le alte montagne, erose dal tempo,

gli astri svaniscono dal cielo stellato,

ed i vulcani s'addormentano, senza più fiato».

 

Recitò melodicamente in elfico, facendosi più vicino con le braccia aperte, in segno di amicizia. Il suo sguardo era carico di compassione, per quanto il volto non si fosse increspato dalla fredda espressione d'accusa che aveva mosso nei loro confronti.

Riprese nel linguaggio dei due: «Avete ragione: abbiamo assaporato il delizioso candore dell'alba di questo mondo; ma ditemi, chi vorrebbe scorgerlo sfumare, attraversando la magnifica rinascita, così come la terribile decadenza dei luoghi e delle persone amate? Ai più fortunati è concesso salutare i propri ricordi fintanto che sono ancora floridi».

«Ne ho abbastanza dei vostri filosofeggianti discorsi! Viviamo le stesse emozioni, questo è vero, ma noi siamo costretti a patire una sofferenza immotivata. Non parlate di dolore, quando le Eatryn vi hanno donato solo bontà e serenità!», ringhiò, scartando di lato l'ennesima radice che gli si era avventata contro. «Ponete fine al vostro incanto, e liberatela: vi risparmierò solo poiché siete stato la mia unica guida per molto tempo. Fate appello per un'ultima volta alla vostra estrema saggezza, Elfo: dispensate per voi stesso le parole che pronuncereste per farci desistere!».

«Liberarla significherebbe condannare il mio popolo, oltre che la vita che nasce su queste terre. Bontà e serenità... Voi siete la dimostrazione che gli Uomini si privano di esse con le proprie mani. Credevo avreste saputo dimostrare alla mia gente che si sbagliava sul conto della vostra razza, che vi era del buono in creature tanto fragili. Invece, avete dato prova del fatto che il loro giudizio sia insindacabile. Siete una piaga per questo mondo, creature capaci solo a distruggere tutto ciò che le circonda!», ruggì Cènidar, prima di sollevare i palmi verso il mago.

Il terreno si frammentò davanti ed alle spalle dell'avversario; dalle fratture saettarono fuori altre radici, questa volta più robuste, ma anche più lente.

«Iverust edorth!», pronunciò solennemente l'uomo, puntando indice e medio della mano destra in direzione dell'Elfo, mentre gli si faceva vicino, scansando agilmente gli ostacoli.

Dalla punta delle dita unite sgorgò un raggio violaceo macchiato da un riflesso color pece, che centrò uno schermo di luce creato tempestivamente dal suo bersaglio, senza che pronunciasse alcuna formula.

«Forse avete ragione, maestro...», aggiunse sostenendo lo sforzo dell'incanto, contrastando la strenua difesa di Cènidar. Nella mano sinistra intanto aveva preparato un vorticoso globo smeraldino, che si portò davanti alle labbra: «Kyma ànemos!», recitò, soffiandovi sopra.

La sfera sfrecciò sino alla barriera dell'Elfo, dove esplose in un prorompente boato, che si fece eco insieme ad un frastornante tuono. I tre vennero sbalzati all'indietro dalla potenza generata dall'incontro delle diverse energie, mentre un potente lampo illuminava a giorno il luogo dello scontro.

Il gioco di luci che scaturì dalla fusione delle loro arti arcane illuminò l'ambiente circostante, rendendo visibile la loro posizione da diversi chilometri di distanza, così come quel rombo fu in grado di protrarsi sino alle terre più lontane, ancor più feroce e intimidatorio del ruggito di un Drago.

 
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