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Autore: Tigre Rossa    11/06/2015    0 recensioni
“Cosa farai da grande, Sherlock?”
“Il pirata.”
“Io non ti vedo come un pirata. Tu sei più simile ad un cavaliere, un eroe. Un ammazzadraghi, anzi."
. . . .
“Se io fossi un cavaliere, tu combatteresti davvero al mio fianco?”
“Non devi neanche chiederlo, Sherlock. Io sarei al tuo fianco ovunque, in qualsiasi situazione. Saremo solo io e te, contro il resto del mondo.”
. . . .
“La prossima volta che vuoi cacciarti in altri guai, inseguire criminali o smascherare serial killer, prima chiamami. Se fai di nuovo una cosa del genere da solo, ti prometto che ti ammazzo sul serio, e non me ne frega niente se c’è l’intera Inghilterra a guardarci, ok?”.
. . . .
" Ti giuro, John, che se ti azzardi a morire vengo a riprenderti all’Inferno e ti riporto a Londra a suon di calci.”
. . . .
“Mi stai chiedendo di condividere un appartamento con te?”
. . . .
“Grazie di aver mantenuto il tuo giuramento, John. Grazie di essere tornato da me. Grazie di non essere morto.”
. . . .
“Non permetterò mai più che tu sia in pericolo, John. Te lo giuro. Mai più.”
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Non lui
 
 
 
 
 
Io non dovrei amare e ammirare questo uomo?
Non dovrei ritenere mio dovere difenderlo in ogni modo?
(Cicerone)
 
 
 
John guardava fuori dal finestrino del taxi, massaggiandosi piano la spalla, sotto lo sguardo attento di Sherlock.
Gli sembrava ancora un miracolo averlo lì, accanto a lui.
E Holmes non aveva mai creduto nei miracoli, prima di quel momento.
 
‘Il signor Sherlock Holmes? Sono il comandante Sholto. Si tratta del capitano John Watson.’
 
Ricordava bene quando, alcuni mesi prima, il comandante di John l’aveva chiamato nel bel mezzo della notte, dicendogli che il suo amico, il suo migliore amico, stava per morire.
Era un ricordo che teneva rinchiuso al sicuro, nelle stanze più nascoste e meglio sigillate del suo palazzo mentale, ma era così forte da essere capace di uscire da lì e di travolgerlo con tutta la sua disperazione anche dopo così tanto tempo, anche adesso che il suo John era lì, accanto a lui, col cuore che batteva ancora nel petto.
Ricordava che si era sentito come se tutto il mondo fosse scomparso e il suo battito, per quanto anatomicamente impossibile, si era fermato, mentre il suo peggiore incubo diventava realtà.
 
Non può essere, aveva pensato.
No, non può essere.
Non John.
Non il mio John.
 
Aveva subito telefonato Mycroft e lo aveva praticamente costretto a farlo arrivare in Afghanistan, dove Watson stava combattendo quando era stato colpito da un cecchino nemico.
Era arrivato lì, in quella terra di morte, di sangue e di disperazione, ed rimasto al capezzale dell’amico, mentre questi lottava e si aggrappava alla vita con tutte le sue ultime forze e con la sua tenacia di soldato che era sua da sempre.
 
Non azzardarti a morire, John Hamish Watson.
Non abbandonarmi.
 
Era rimasto al suo fianco, a fissare quegli occhi che non volevano saperne di aprirsi, quel viso pallido come la morte, quelle labbra esangui che, forse, non gli avrebbero mai più sorriso.
A nulla erano valse le obbiezioni dei medici, stupiti dalla resistenza del capitano ma certi che a nulla sarebbe servito, o le parole dei soldati, angosciati quasi quanto lui. Non si era allontanato un attimo da John. Era rimasto lì, accanto a lui, la mano stretta attorno alla sua, senza mangiare, bere o riposare, con un unico pensiero in testa.
 
Ti prego Dio, lascialo vivere.
 
Sherlock non credeva in Dio, non ci aveva mai creduto. Come può una persona che venera solo la fredda ed infallibile ragione credere in qualcosa che va completamente contro di essa?
Eppure, in quei momenti, non gli era importato.
 
Dopo quelli che erano sembrati secoli, incredibilmente, il miracolo era avvenuto.
John si era risvegliato, davanti gli occhi increduli di Sherlock.
Era sopravissuto.
Aveva una bruttissima ferita che gli attraversava la spalla, i nervi tesi, l’anima a pezzi, la gamba e la mano sinistra che non volevano saperne di funzionare come si deve, ma era vivo.
E questo era tutto quello che Holmes desiderava.
 
Dopo alcuni interminabili mesi, indispensabili per permettere al medico di viaggiare, era stato mandato via, ormai ‘inabile al servizio militare’, e così Sherlock lo aveva riaccompagnato in Inghilterra, a casa.
 
Adesso erano appena usciti dall’aeroporto, ed erano saliti su un taxi che avrebbe accompagnato John in un piccolo motel, visto che sua madre era morta qualche anno prima e sua sorella viveva dall’altra parte dell’Inghilterra.
Sherlock non riusciva a staccargli gli occhi di dosso, come non era riuscito a farlo nei mesi che precedenti.
Con quei grandi occhi di cristallo, il consulente detective osservava l’amico, si soffermava sulle sue mani continuamente strette a pugno, il suo volto senza espressione, le sue labbra strette, i suoi occhi vuoti.
E quello che vedeva gli faceva male al cuore.
Conosceva John meglio di chiunque altro. Anzi, lo conosceva meglio di quanto conoscesse se stesso. Erano amici fin da quando erano solo due bambini e mai, mai, l’aveva visto ridotto in quello stato. Né quando litigava con una Harry ubriaca e crudele, né quando i ragazzi più grandi li aggredivano e li massacravano di botte, né quando suo padre era morto in guerra, né quando sua madre l’aveva seguito. Nonostante tutto quello che la vita gli aveva lanciato addosso, lui era sempre riuscito ad alzarsi ed ad andare avanti, come un vero soldato. Aveva sempre affrontato tutto, e i suoi occhi, seppur oscurati da una nube, non avevano mai smesso di brillare. Eppure, adesso, non era così.
Il vecchio John Watson, il suo John Watson, sembrava scomparso. Al suo posto, c’era quella persona vuota, spezzata, senza più la forza di andare avanti. La luce che prima brillava nei suoi occhi era sparita, o forse era rimasta lì, nel campo di battaglia, e con essa il suo cuore.
E Sherlock non riusciva ad accettarlo.
Non poteva né voleva accettarlo.
Davanti ai suoi occhi vedeva un uomo spezzato, distrutto, morto nel profondo, che stava andando alla deriva. Un uomo che non era il suo John, quello che gli era sempre stato accanto, che aveva visto tutto ciò che c’è di malsano e sbagliato nel mondo eppure era rimasto comunque un sognatore, che non si era mai arreso, che aveva una parola gentile, uno sguardo affettuoso e una premura per tutti.
Quel John c’era, però. Non era scomparso del tutto, non se n’era andato, non ancora almeno. Era lì, nella parte più nascosta di quell’anima martoriata, rannicchiato su sé stesso a leccarsi le ferite, abbandonato da tutto e da tutti. Lo sapeva. Lo sentiva.
E non gli avrebbe permesso di andarsene.
 
Con quel pensiero, Holmes si sporse verso il tassista e gli disse, con voce calma ma decisa “Abbiamo cambiato idea. Ci porti a Baker Street. 221b di Baker Street.”.
Il tassista gli lanciò un’occhiata sorpresa, ma poi scosse la testa e fece come gli era stato detto.
John si voltò confuso verso l’amico, scrutandolo con i grandi occhi scuri e smettendo per un attimo di massaggiarsi la spalla.
“ ‘Abbiamo cambiato idea’?” ripeté, sollevando appena un sopraciglio “Eravamo d’accordo che mi avresti accompagnato fino al motel e che poi saresti tornato al tuo appartamento. Quand’è che avremmo cambiato idea?”.
Sherlock si sistemò la sciarpa con un gesto elegante, senza nemmeno guardarlo “All’incirca venti secondi fa, se non erro. E comunque, non ti serve più il motel.”.
Il sopraciglio di John si sollevò ancora di più “E dove dovrei dormire, scusa? Per strada?” domandò, accigliato.
“A dire il vero, pensavo nel mio appartamento.” rispose tranquillamente il moro, per poi continuare velocemente prima che l’altro potesse ribattere. “Ricordi la signora Hudson, l’ultimo caso di cui ci siamo occupati prima che partissi? Beh, adesso abita qui a Londra, e ha deciso di affittare un appartamento proprio al centro della città. Visto quello che ho fatto per lei anni fa, mi fa un prezzo di favore, che è comunque troppo alto per le mie finanze. Pensavo di cercare un coinquilino, e visto che anche tu hai bisogno di un posto dove stare, e considerando che un motel sarebbe una soluzione troppo costosa a lungo andare, soprattutto per la tua pensione, mi è sembrata una soluzione più che logica e conveniente per tutti e due quella di condividere l’appartamento e le relative spese tra di noi. Inoltre, al momento sei disoccupato e io ho bisogno di un assistente per i miei casi, soprattutto adesso che il mio giro di clientela sta lentamente aumentando, e quindi potremmo anche occuparci insieme dei casi, come facevamo ai tempi della scuola e dell’università.”.
L’ex soldato spalancò gli occhi “Credo di aver capito male.” mormorò, fissando attentamente il volto del più giovane “Mi stai chiedendo di condividere un appartamento con te?”.
Sherlock dovette trattenersi dal sollevare lo sguardo al cielo, sconfortato dalla scarsa arguzia dell’amico “Si, John, in parole semplici, si. Sarebbe un’ottima soluzione per entrambi, soprattuto dal punto di vista economico. E poi non mi sembra che tu abbia opzioni migliori.”.
“Ma tu sei ricco, non hai problemi di soldi.” obbiettò il biondo.
“Errore.” precisò l’altro “La mia famiglia è ricca. Io vivo con ciò che mi pagano i miei clienti, non con i soldi dei miei genitori. E al momento quello che guadagno non basta a pagare un appartamento qui in città.”
“E vorresti . . .” la lingua di John saettò ad inumidire le labbra, come faceva ogni volta che il soldato si trovava in una situazione d’imbarazzo o di eccitazione “. . . vorresti riprendere a risolvere casi con me?”.
Solo a quel punto, Sherlock si voltò a guardarlo. Gli sguardi dei due amici si incontrarono e si fusero insieme, come non accadeva da tanto, troppo tempo.
“Tu lo vorresti?” domandò lentamente il detective, senza interrompere quel contatto.
Il respiro di John sembrò bloccarsi all’interno della gabbia toracica.
“Oddio, si.” si lasciò sfuggire in un sussurro, mentre all’interno di quei oceani che aveva al posto degli occhi un’antica scintilla tornava a brillare, anche se solo per qualche momento.
Un sorriso, un vero sorriso, si formò sulle labbra del moro.
“Allora siamo d’accordo.” affermò deciso, tornando a fissare la nuca del tassista.
“Direi di si.” concordò Watson, mentre si passava una mano tra i capelli corti “Ma niente pezzi di cadaveri nel frigo, o mi trasferisco da Mike.” lo ammonì, con le labbra atteggiate a mo’ di sorriso.
Sherlock dovette trattenere una risatina.
“Vedremo.” commentò solamente, mentre lanciava uno sguardo fugace al compagno.
John l’aveva salvato tantissime volte e in tantissimi modi, in tutti quegli anni.
Adesso toccava a lui.
 
ooo0o0o0ooo
 
 
John si svegliò di colpo, gli occhi spalancati e il cuore che batteva a mille, mentre i rumori della battaglia ancora gli rimbombavano nelle orecchie.
Ansimò alla ricerca d’aria, mentre si portava una mano alla spalla che bruciava e pulsava come un cuore ferito a morte, e chiuse gli occhi in un gesto stanco e quasi disperato.
La guerra.
Di nuovo.
Quella maledetta, dannata guerra continuava a tormentarlo anche adesso che era tornato nella sua cara Inghilterra. I segni che gli aveva lasciato addosso e dentro lo tenevano legato a lei come mille sottili catene anche quando tentava di dimenticarla, e le sue notti si riempivano di frammenti di quei giorni trascorsi sul fronte, da quei eterni combattimenti, di quegli spari, di quel sangue, di quel colpo quasi mortale.
Lui tentava di non darci peso, di lasciarsi scorrere addosso tutto quello che aveva vissuto, di riadattarsi a quella nuova vita, lontana dal campo di battaglia.
E c’erano giorni in cui quasi ci riusciva. Giorni in cui gli sembrava quasi di sentirsi finalmente di nuovo a casa, giorni in cui non rimpiangeva ciò che aveva perduto.
Ma poi, arrivava la notte.
E la guerra tornava a bruciargli il cuore.
 
Ti ci vorrà del tempo per riadattarti alla vita civile. gli dicevano tutti.
Fatti forza. Andrai avanti. Dimenticherai.
Devi solo avere pazienza.
 
Lui, di pazienza, ne aveva sempre avuta tanta.
Ma non sapeva quanto sarebbe durata, quella volta.
Lui, che era nato per la guerra, per l’adrenalina, per il rischio, per la lotta, adesso era stato strappato dal suo mondo, e si ritrovava lì, a tentar di rimettere insieme i pezzi di una vita che non sarebbe più tornata quella di prima.
E non sapeva quanto avrebbe resistito.
 
“John?”
 
Una voce bassa, ma dolce, lo strappò all’improvviso dai suoi pensieri.
Watson aprì gli occhi e si voltò verso la porta, dove un uomo alto, in vestaglia e dall’aria seria, lo osservava con i suoi grandi occhi color del cristallo.
Sherlock.
Il suo migliore amico praticamente da sempre e il suo coinquilino da nemmeno una settimana. La prima persona che aveva visto quando, mesi prima, aveva finalmente aperto gli occhi, e l’unica che aveva voluto al suo fianco da quando era tornato. E, al momento, l’unica per la quale ancora andava avanti. L’unica che riusciva, almeno per un po’, a fargli dimenticare il campo da battaglia.
L’ ex-soldato si costrinse a fingere un sorriso e si passò una mano tra i capelli corti “Come mai ancora sveglio?” domandò, sperando che la sua voce non suonasse troppo patetica.
L’uomo sollevò leggermente un sopracciglio “Io posso resistere senza dormire anche per una settimana, lo sai bene.”.
John scosse lievemente la testa “Dimenticavo che vivo con un vampiro.”.
Il moro arricciò appena l’angolo delle labbra, ma poi la sua espressione divenne nuovamente seria quando domandò “Incubi?”.
L’altro sobbalzò, stupito ancora una volta da come Sherlock riuscisse a leggergli dentro come nessun altro era capace di fare.
Si strinse inconsciamente la spalla ferita e annuì titubante, improvvisamente senza più parole.
Il detective lo scrutò per un altro mezzo secondo e gli fece segno di seguirlo, per poi sparire al piano di sotto, dove stava la sua camera e la zona giorno del loro nuovo appartamento.
John osservò confuso la porta spalancata, incerto se seguirlo o meno, ma poi scivolò pian piano fuori dalle coperte e, zoppicando, scese nel soggiorno.
Sherlock era lì, in piedi di fronte alla finestra, ed appena il capitano entrò nella stanza gli sorrise lievemente e gli indicò con un cenno del capo la poltrona di fronte alla sua.
Il biondo aggrottò le sopraciglia, ma abituato com’era alle stranezze dell’amico si avvicinò alla poltrona per sedersi, senza mai staccare gli occhi dall’amico.
 
Prima dell’ incidente, come chiamava tra sé e sé quello che era successo, le volte in cui aveva visto Sherlock Holmes dopo il suo arruolamento erano state veramente poche. Aveva vissuto per anni lontano, a combattere ogni giorno e a rischiare la sua vita continuamente, e gli unici contatti che aveva avuto con lui erano stati rare licenze che avevano trascorso insieme e una fitta corrispondenza, per quanto l’ Afghanistan lo permettesse.
Era cambiato molto, il suo Sherlock, e ancora dopo tutti quei mesi in cui erano stati praticamente solo loro due John aveva difficoltà a staccargli gli occhi di dosso. Se fosse stato per lui, sarebbe rimasto per ore ad osservare tutte quelle piccole grandi differenze che c’erano tra lo Sherlock dei suoi ricordi e lo Sherlock con cui conviveva. Però si trattava solo di cambiamenti esteriori, come la lunghezza dei capelli, gli zigomi ancora più affilati, l’aria seria, il fisico più adulto, gli occhi lievemente più chiari.
Dentro, il suo Sherlock era sempre lo stesso.
Era lo Sherlock a cui aveva regalato Barbarossa, quello che sognava di diventare un temutissimo pirata, quello che aveva difeso da un’infinità di bulli, quello a cui aveva parato il fondoschiena infinite volte, quello che aveva seguito in mille avventure e nei suoi primi casi.
Era lo Sherlock che fin da quando erano piccolissimi lo aveva sempre difeso da chiunque avesse tentato di fargli del male, quello che gli aveva proposto di venire ad abitare da lui quando suo padre era morto in missione, quello che l’aveva accompagnato a prendere il treno, il giorno della sua partenza, quello che conosceva meglio di quanto conoscesse sé stesso.
Era lo Sherlock a cui aveva pensato un’ultima volta, prima di perdere conoscenza e di rischiare di non svegliarsi mai più.
Oh si, ricordava fin troppo bene cosa aveva mormorato in quel momento, quando aveva creduto di essere ormai a un passo dalla morte.
 
Ti prego Dio, lasciamelo vedere un’ultima volta.
 
“Puoi sederti, sai. Quella poltrona non ti mangerà, se è questo che ti stai chiedendo.” lo riportò alla realtà Sherlock, che lo fissava con un mezzo ghigno divertito.
John si rese conto di essere ancora in piedi a fissarlo e, imbarazzato, si sedette, mentre le orecchie gli si tingevano di una lieve sfumatura rosata.
Il detective, allora, gli si avvicinò e gli porse una tazza di latte che sembrava come apparsa dal nulla, con grande stupore e confusione del suo coinquilino, che sollevò un sopraciglio.
Holmes si strinse nelle spalle “Sai che il mio thè non è esattamente commestibile, e al momento questa è la bevanda migliore che abbiamo in casa. Bevilo piano, perché è l’ultimo bicchiere. Domani dovrai andare a comprarne dell’altro.”.
Il medico avrebbe voluto ricordargli che era il suo turno di compare il latte, che sembrava stranamente prosciugarsi nel corso della notte, ma era troppo confuso da quel gesto di insolita gentilezza per aprire bocca e così si limitò a prendere la tazza e a fissarla come se fosse una bomba sul punto di esplodere.
“Puoi berlo, non ci ho messo dentro niente.” borbottò il moro, voltandosi con uno svolazzo di vestaglia per poi tornare alla finestra ad osservare Baker Street.
John lanciò un ultimo sguardo all’amico e poi, giungendo alla conclusione che la tazza di latte fosse un modo per farsi perdonare dei maglioni a cui aveva accidentalmente dato fuoco quella mattina, si limitò a sorseggiarlo e poi a poggiarlo per terra, accanto alla poltrona.
“Una o due settimane.” esclamò all’improvviso Sherlock, tenendo ancor lo sguardo puntato sulla strada.
“Come?” chiese Watson, confuso.
“I tuoi incubi, che tra parentesi sono una reazione del tutto normale a ciò che hai passato, non dureranno ancora a lungo. Una, forse due settimane al massimo. Dopo, tranne nei momenti di forte stress o di dolore, non dovrebbero più tornare.” spiegò l’uomo, voltando lentamente la testa verso di lui ed osservandolo con i suoi grandi occhi color cristallo.
“Come lo sai?” il tono del dottore era un miscuglio di nervosismo, sollievo e confusione. E un tocco di imbarazzo.
Le labbra di Sherlock si incurvarono in un lieve sorriso “Perché farò in modo che sia così.”.
Prima che l’altro potesse aggiungere altro, si voltò verso il tavolo, prese il violino e continuò, mentre cercava l’archetto “Comunque, visto che dubito fortemente che riusciremo a riaddormentarci prima delle sette, potremmo spendere in modo utile il nostro tempo.”.
John si inumidì lievemente le labbra, quando comprese cosa l’amico aveva intenzione di fare “Sherlock, non credo che tu possa metterti a suonare il violino alle tre di notte. La signora Hudson . . .”.
“ . . . prende dei sonniferi molto forti per combattere la sua insonnia, non sentirà nulla.” terminò la sua frase il moro, prendendo l’archetto “E poi, pensavo che ti piacesse sentirmi suonare, Jawn.” aggiunse a bassa voce, lanciandogli uno sguardo profondo che per un attimo fece tremare quello dell’ex soldato.
Sentire Sherlock suonare era una delle cose che gli era mancata di più di lui, in guerra. I piccoli concerti privati che teneva per lui e solo per lui, fin da quando aveva imparato a suonare quel superbo strumento, da bambino. I suoi occhi chiusi mentre suonava. Le sue mani delicate ed attente che generavano melodie incantate capaci di prenderlo e di trascinarlo lontano, in un mondo creato da Holmes per lui, solo per lui.
Dio, se gli piaceva sentirlo suonare. E il bastardo, lì, lo sapeva fin troppo bene.
Gli occhi di Sherlock sorrisero ai suoi e, senza dire nemmeno una parola, l’uomo iniziò a suonare.
 
Suonò a lungo, Sherlock Holmes. Suonò tutte le musiche più dolci e serene che conosceva, e quando queste finirono continuò a suonare e a trasformare in note e suoni quello che il suo cuore, vile traditore, gli sussurrava da tempo ormai immemore. Suonò e suonò fino a quando le dita iniziarono a fargli male e il violino a pesargli, ma non si fermò. Suonò per il suo John per ore e ore, solo per lui.
Si fermò solo quando il biondo, che l’aveva ascoltato incantato per tutto il tempo, finalmente si addormentò sulle sue note.
Delicatamente, il detective posò il suo strumento sulla scrivania, per poi voltarsi a guardare, con una scintilla di dolcezza nello sguardo, il suo migliore amico.
Prese una vecchia coperta a quadri, preparata sulla sua poltrona nera apposta per lui, e coprì il biondo, attento a non svegliarlo e a non lasciare scoperta nessuna parte del suo corpo.
Prima di rimettersi dritto, però, rimase chino su di lui, ad osservare John, il suo viso gentile, i suoi occhi chiusi, le sue labbra sottili e screpolate, i suoi capelli scompigliati.
Sorrise lievemente.
Eccolo lì, il suo personale miracolo.
 
“Grazie di aver mantenuto il tuo giuramento, John.” gli sussurrò piano, a voce così bassa che nessuno avrebbe potuto udirlo “Grazie di essere tornato da me. Grazie di non essere morto.”.
Le labbra del biondo si incurvarono nel sonno in un dolce sorriso.
 
 
ooo0o0o0ooo
 
 
Quando Lestrade gli si avvicinò, col volto stanco ma sollevato, Sherlock non poté fare a meno di lanciargli uno sguardo scocciato.
“Perchè ho questa coperta? Continuano a mettermela addosso!” sbottò subito infastidito, prima che l’agente potesse anche solo aprire bocca.
Il povero Lestrade sollevò gli occhi al cielo, seccato per l’atteggiamento infantile del detective. Lo conosceva da quando era un ragazzino, ma il suo atteggiamento non era minimamente mutato nel corso degli anni “è per lo shock.” si limitò a spiegare.
Il moro lo fissò come se fosse impazzito “Non sono sotto shock!” esclamò, come se solo l’idea fosse assurda.
”Sì, ma alcuni dei ragazzi vogliono fare delle foto.” liquidò la faccenda l’uomo, per poi passare a parlare del caso e a discutere con il giovane Holmes riguardo all’avventura che aveva appena vissuto e sull’identità sconosciuta del suo salvatore, alias l’uccisore del serial killer, su cui, almeno a suo giudizio, non avevano praticamente niente.
“Oh, io non direi.” obbiettò sicuro di sé Sherlock, iniziando a snocciolare una serie di deduzioni sul possibile profilo di quel uomo sconosciuto mentre osservava le persone che si trovavano lì attorno, quasi aspettandosi di vederlo girovagare con aria colpevole.
Quando però scorse John, in piedi dietro al nastro giallo della polizia ad aspettarlo, con quell’aria stranamente serena e quasi curiosa, si bloccò, mentre il suo cervello univa tutti i puntini.
“Senti, dimentica quello che ho detto.” esclamò velocemente, rivolto all’ispettore “è per .. lo shock, che straparlo. Ora scusa, ma devo andare. John sicuramente vorrà farmi una lavata di capo per essermi infilato nei guai appena dopo il suo ritorno a Londra.”.
Fece per avvicinarsi al suo coinquilino, ma Lestrade tentò di bloccarlo “Ma ho ancora delle domande da farti!”.
Sherlock sbruffò “Cosa? Adesso? Sono sotto shock! Guarda, ho anche la coperta!” si lamentò, sollevando anche un lembo della suddetta coperta arancione per far arrivare quel concetto, probabilmente troppo difficile per un semplice ispettore di Scotland Yard, al suo piccolo cervello.
L’uomo cercò di obbiettare, ma il moro non lo stava più ascoltando, e si diresse veloce verso l’amico, che lo osservava con i suoi grandi occhi blu.
“Stai bene, Sherlock?” domandò subito John, anche se con una preoccupazione infinitamente inferiore a quella che avrebbe avuto in situazioni analoghe, e Holmes lo sapeva benissimo.
“Si, certo. Quello sparo è arrivato proprio al momento giusto.” commentò con leggerezza, mentre lo scrutava in volto per studiare la sua reazione.
“Si, me lo ha detto Lestrade. Due pillole, il gioco, la vita appesa ad un filo . . . i classici guai che ti attirano tanto, insomma. Non so se essere più arrabbiato del fatto che ti piace tanto mettere a rischio la tua vita in questo modo o perché non hai chiesto il nostro aiuto.” lo rimproverò l’amico, passandosi una mano tra i capelli.
Sherlock non abboccò. “Bel colpo.” si limitò a dire.
Un lampo di stupore attraversò lo sguardo di Watson, ma fu solo un attimo “Si, è partito da quella finestra, ma non cambiare argomento.”.
“Mi hai capito, John.” mormorò con un sorrisetto ironico il detective, mentre osservava la maschera cadere “E grazie, comunque.”.
John sobbalzò, stupito “Come . . .?”.
“Oh, andiamo. Era chiaro e semplice. Solo Scotland Yard può essere così stupido da non capirlo.” abbassò appena la voce, come per non farsi sentire “Tu stai bene?”.
L’ex soldato si leccò appena le labbra ed annuì “Si, sto bene.”.
“Sicuro? Hai appena ucciso un uomo.” obbiettò il moro.
“Abbassa la voce! E comunque, se non l’avessi fatto, saresti morto.” rispose John scrutandolo con intensità ed affetto negli occhi chiari.
Per un attimo, a Sherlock tornarono in mente le parole che John gli aveva detto, tanti anni prima.
 
Per salvarti la vita dall’ennesimo coglione di turno, potrei uccidere.
Per te lo farei.
 
“In fondo, non era una buona persona.” concluse Watson, stringendosi nelle spalle.
Il moro, riportato all’improvviso al presente, sollevò l’angolo delle labbra in uno dei suoi soliti sorriseti appena accennati. “No, è vero. Ed era anche un pessimo tassista. Vedessi che giro ha fatto per portarmi qui!”.
John scoppiò a ridere, divertito, e anche l’altro inizio a ridacchiare silenziosamente, contagiato dalla sua allegria e dalla luce che illuminava il volto dell’amico.
“Non possiamo ridere! Dai, siamo su una scena del crimine, non possiamo ridere!” cercò di calmarsi il dottore, senza però riuscirci.
“Sei tu che gli hai sparato.” commentò candidamente Sherlock, facendo sobbalzare il biondo.
“Shh, sta zitto!” sibilò, portandosi una mano al volto per nascondere il suo sorriso, come se fosse possibile “Che dici, andiamo a casa?”.
Casa. Quella parola sembrava stranamente piacevole, se a pronunciarla era John Watson.
Sherlock annuì e, dopo aver lanciato ad Anderson la coperta color arancio, seguì l’amico, che ormai zoppicava appena.
“Sai” gli disse serenamente l’ex soldato “Credo che mi riabituerò facilmente alla vita civile.”.
Il detective sorrise appena e osservò la luce che, finalmente, brillava all’interno di quei occhi che tanto amava. Non pensava che ci sarebbero voluti appena quattro omicidi-suicidi, una corsa dietro un taxi per mezza Londra, un telefono rosa e un tassista serial killer per farla tornare a brillare.
“John.” lo chiamò piano, con una punta di dolcezza nella voce.
Il biondo si voltò verso di lui, stupito da quel tono che mai gli aveva udito usare.
Sherlock gli riservò il più grande dei suoi sorrisi “Bentornato.”
 
 
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“Sei stato sveglio di nuovo tutta la notte?” domandò con aria stanca John, porgendo una tazza di the  a Sherlock, tutto intento a studiare una mano umana.
“Certo. Dormire è noioso.” rispose il detective, senza nemmeno sollevare lo sguardo dal suo lavoro.
Il biondo scosse la testa, sconfortato, per poi sedersi accanto a lui per sorseggiare la sua bevanda “D’accordo, ma è anche necessario. Non so quanto potrai resistere con questo ritmo.”.
“Poco, se non trovo subito un altro caso. La noia si sta facendo incredibilmente forte, e senza almeno un caso da otto dubito che resisterò ancora a lungo alla mia scorta di sigarette.” si lamentò Holmes, alzando finalmente lo sguardo e notano solo in quel momento la tazza accanto a sé, bella fumante e calda al punto giusto.
“è per me?” domandò confuso, osservando l’amico.
“Vedi qualcun altro per cui potrebbe essere?” chiese in modo retorico quello, sorridendo appena “Si, è per te. A meno che tu non voglia darlo a Willy [1] . . . a proposito, che fine ha fatto? Non lo vedo dalla sera della signora in rosa.”.
“Ah, il teschio? Anderson se l’è portato via quando sono venuti a fare quella loro perquisizione per droga, ma Lestrade ha detto che me lo farà rimandare indietro, in un modo o nell’altro.” rispose con aria noncurante, mentre assaggiava il the. “è buono.” mormorò poi, scrutando la tazza con aria curiosa.
“Certo che è buono, l’ho preparato io.” ribatté Watson, scuotendo appena la testa “Comunque, stavo pensando . . .”
“Oh, davvero? Questa si che è una novità.” scherzò Sherlock, lanciandogli un’occhiata divertita.
“Ah ah, molto divertente.” sbruffò l’ex soldato, alzando gli occhi al cielo “Comunque, stavo pensando di riprendere a lavorare. Sai, come dottore.”.
Holmes lo fissò come se gli fosse cresciuta una seconda testa “Come, scusa?”.
“Beh, lo hai detto anche tu, il lavoro al momento è poco. Non abbiamo un caso dal tassista serial killer, in qualche modo dobbiamo essere sicuri di riuscire a pagare tutte le nostre spese. E per quelle la pensione dell’esercito non basta.” John si passò una mano tra i capelli umidi per la doccia di poco prima “L’ultima volta che l’ho sentita, Sarah dirigeva un ambulatorio. Magari posso chiedere a lei.”.
“Si, magari.” rispose cupo il moro, poggiando la tazza sul tavolo ed alzandosi con la faccia scura “E magari, adesso che ci sei, le chiedi pure di uscire insieme per un rimpatriata e vedi se per te c’è ancora possibilità, anche se ne dubito vivamente, visto il modo in cui la vostra relazione andava avanti, al college.”.
John arrossì violentemente per quell’ultimo commento, anche se non comprese bene se per l’imbarazzo o la rabbia.
“Sherlock!” gridò, indignato, senza però riuscire a trovare qualcosa per controbattere, soprattutto quando l’altro gli lanciò uno sguardo come per dirgli ‘Perché, ho forse torto?’. Come era possibile che quel maledetto riuscisse ogni singola volta a . . .? Dannazione!
“Cambiando argomento.” fece il biondo, scuotendo la testa e mettendo per un attimo da parte la faccenda “Ti ricordi che da ragazzo avevo pensato di seguire le orme di mio nonno e di cominciare a scrivere come aveva fatto lui?”.
Il moro si sedette sulla sua poltrona, unì le dita nel suo abituale atteggiamento d’ascolto e sollevò un sopraciglio “Vagamente. Era quello che aveva scritto dei romanzi su uno che si chiamava come me?[2]”
“Si, quello. Beh, stavo pensando di provarci. Cioè, non di scrivere un romanzo, ma un blog. Sui tuoi casi e le nostre indagini. Chissà, magari riuscirei a farti un po’ di pubblicità e trovarti qualche caso interessante.” spiegò Watson, alzandosi e mettendo nel lavello la sua tazza.
“Non credo che ce ne sia bisogno. Dopotutto, ho un mio sito.” liquidò la proposta il detective, con un gesto sbrigativo della mano.
Watson non poté fare a meno di trattenere un ghigno divertito “Si, dove classifichi i diversi tipi di cenere. Nessuno legge il tuo sito, Sherlock. Ed è per questo che non hai lavoro.”.
Il volto di Sherlock si scurì ancora di più, e l’uomo si alzò di scatto dalla poltrona con fare irritato, afferrò sciarpa e capotto e poi disse con voce offesa “Vado da Molly. Non disturbarti a seguirmi.”.
“Sher ...” prima che John potesse provare a fermarlo, il detective uscì dall’appartamento senza nemmeno voltarsi indietro.
 
 
“Cosa è successo?”
 
Molly conosceva Sherlock e John da quando, al primo anno di superiori, erano finiti nello stesso gruppo di lavoro durante l’ora di chimica e il moro aveva quasi fatto saltare in aria il laboratorio. Era forse una delle poche persone capace di comprendere la fin troppo unica personalità di Sherlock, e dopo tanti anni era ormai capace di leggere il giovane Holmes con pochi timidi sguardi.
Così le era bastato davvero poco, quando l’aveva visto entrare nel laboratorio con lo sguardo cupo e si era messo ad armeggiare con gli strumenti senza uno scopo preciso, a capire che qualcosa non andava. E, a giudicare dall’assenza di John, il medico militare doveva esserne la causa.
 
Sherlock non si degnò nemmeno di alzare lo sguardo, ma anzi continuò ad osservare un composto attraverso il microscopio con così tanta intensità che sembrava volesse fargli prendere fuoco semplicemente con lo sguardo.
La ragazza gli si avvicinò timidamente, scrutandolo con i suoi grandi occhioni e temendo uno scoppio d’ira, che puntualmente arrivò pochi secondi dopo.
“Oh, non è successo niente. Niente di niente. Semplicemente, ho scoperto di avere un idiota in casa!” sbottò il moro, senza staccare gli occhi dal microscopio.
Molly lo fissò, confusa. L’ultima volta che aveva sentito Sherlock dare dell’idiota a John risaliva agli anni dell’università.
“Co-cosa ha fatto?” domandò, titubante.
“Nulla, dal suo punto di vista. Assolutamente nulla.” ringhiò il moro, allargando le narici. Sembrava un drago sul punto di sputare fuoco. “Vuole tornare a lavorare. Come medico. Nell’ambulatorio di quella Sarah della scuola. E vuole scrivere un blog sui casi. Perché, almeno secondo lui, il mio sito non è utile ad attirare clienti.”.
La brunetta sollevò un sopraciglio “E sei arrabbiato per questo?” chiese.
Holmes la fulminò con lo sguardo “Io non sono mai arrabbiato, Molly. La rabbia è un sentimento, e i sentimenti sono il cancro della società, e per questo li evito in tutto e per tutto. Pensavo che avessi imparato qualcosa su di me, dopo tanti anni.”.
Le guance della giovane si tinsero di una forte tonalità di rosso “L’ho fatto. H-ho imparato molte cose su di te, Sherlock. E penso che tu non sia arrabbiato semplicemente perché John vuole praticare di nuovo la sua professione o pubblicare i resoconti sui tuoi casi. Tu sei arrabbiato perchè ti sembra che John si stia pian piano allontanando da te e dalle vostre avventure per avvicinarsi a una vita normale o ad altre persone, come Sarah. Vuoi tenerlo tutto per te. E io questo lo capisco, davvero. Dopo tutto quello che avete passato, è normale. Ma dovresti essere felice per queste sue iniziative.”
Il detective continuava ad armeggiare con il microscopio, apparentemente senza prestare attenzione alla ragazza “E perché dovrei, sentiamo?”
Molly si fece un po’ più vicina e rispose piano, dopo aver preso un bel respiro “Perché vogliono significare che finalmente John sta dimenticando l’Afghanistan. Che sta pian piano riprendendo in mano la sua vita. Non era questo che volevi a tutti i costi? Che John tornasse quello di prima? Lo sta facendo. Pian piano, ma lo sta facendo. E queste sue piccole iniziative sono un modo per farlo. Quindi, non dovresti essere arrabbiato per questo, ma felice. O almeno un po’ sollevato. Perché John sta tornando ad essere quello di una volta, per quanto ciò possa essere possibile. E lo sta facendo grazie a te.”.
Sherlock alzò la testa e rimase a fissare con uno sguardo indecifrabile la giovane donna, la quale arrossì ancora di più ed indietreggiò, imbarazzata. Erano passati tanti anni, eppure si comportava ancora come una ragazzina alla prima cotta. E forse lo era.
“I-io . . . vado a prendere qualcosa da bere. A d-dopo.” borbottò, prima di sparire fuori dalla porta del laboratorio.
Il moro rimase a fissare la porta chiusa per un po’, mentre ripensava alle parole di Molly, fino a quando una vibrazione del suo cellulare lo riscosse dai suoi pensieri.
Prese il cellulare dalla tasca e lo aprì per leggere il messaggio appena arrivato.
 
Non posso non tornare a lavorare. Abbiamo bisogno di soldi per le spese fisse, e la mia pensione davvero non basta. Ma questo non vuol dire che smetterò di seguirti nei casi. Sono i nostri casi, Sherlock, e li abbiamo sempre risolti insieme, fin da ragazzini. Una cosetta come qualche turno in ambulatorio non può impedirci di continuare a farlo.
Se è invece la faccenda del blog a darti fastidio, beh, non pubblicherò nulla, promesso. Solo, non voglio che ci siano attriti tra di noi, non per cose così futili. Non dopo che in Afghanistan ho rischiato di morire e il mio ultimo pensiero è stato per te. Quindi, scusa se ciò che ho detto ti ha dato fastidio, e smettila di fare il bambino. Non credo che tu capisca quanto ciò mi faccia male, a volte. –JW
 
L’uomo sospirò, ma prima che potesse digitare una risposta arrivò un altro messaggio.
 
E, comunque, ti ho trovato un nuovo caso. Quindi metti via il muso e torna a casa. –JW
 
Sherlock arricciò l’angolo destro delle labbra e rispose velocemente.
 
Il caso può aspettare. Vediamoci da Angelo tra dieci minuti. So rendermi conto anche io quando esagero. Qualche volta. –SH
 
ooo0o0o0ooo
 
 
John si lasciò cadere stancamente sulla sua poltrona, sospirando e reprimendo a stento un brivido, mentre Sherlock entrava nella stanza subito dopo di lui e lo scrutava con aria preoccupata.
Erano entrambi terribilmente tesi e con i nervi a fior di pelle. Ma, dopotutto, chiunque lo sarebbe dopo essere stato preso in ostaggio da uno psicopatico, costretto ad indossare una quantità di esplosivo capace di demolire un intero quartiere ed essere stati quasi sul punto di saltare in aria.
Il giovane detective si avvicinò alla finestra, senza nemmeno togliersi il cappotto, e continuò a fissare il biondo, che aveva chiuso gli occhi e cercava di tranquillizzarsi. Anche per lui, abituato alla violenza e al pericolo, era stata una prova non indifferente. E lo stesso Sherlock poteva ancora sentire il proprio cuore battere all’impazzata, quasi terrorizzato al pensiero di quello che sarebbe potuto accadere.
 
Aveva incontrato Moriarty per la prima volta. Erano stati lì, uno di fronte all’altro, finalmente faccia a faccia. Aveva visto i suoi occhi, gli occhi di un ragno, di un genio, di un pazzo, di un demone.
E aveva visto John, il suo John, quel John che era sopravvissuto a stragi, sparatorie, guerre, in bilico sull’orlo, in equilibrio tra il sottile confine che divide vita e morte.
Vestito di un abito di esplosivo, gli occhi tesi e la mascella serrata. Il suo sguardo consapevole, pronto a tutto. La decisione e il coraggio che nemmeno in quel momento non erano venuti meno.
 
E il mondo di Sherlock aveva smesso di girare.
 
No.
Ti prego, lui no.
 
Aveva ragionato velocemente, alla ricerca disperata di una via d’uscita, non più eccitato da quel diabolico ed astuto gioco com’era all’inizio, ma preoccupato.
Preoccupato per John Watson.
Erano in trappola, e lo sapevano entrambi.
Eppure, John non si era arreso.
Era stato sul punto di sacrificarsi per eliminare Moriarty e per salvare lui. Si era offerto di morire per proteggere Sherlock.
E lui non aveva potuto fare a meno di pensare al fatto che, poche ore prima, avevano litigato.
Si, avevano litigato. John era furioso con lui per il suo comportamento durante quel caso “Ci sono delle vite in gioco, Sherlock!” gli aveva gridato “Davvero non te ne importa?”.
Holmes era stato adirato con lui, con la sua rabbia, con i suoi occhi delusi. Ma in quel singolo momento era stato adirato con sé stesso per essere stato, ancora una volta, ciò che John detestava. Per non aver visto il rischio nascosto dietro a quel gioco e per aver così trascinato anche John nel baratro.
Per aver messo in gioco la vita della persona a cui teneva di più al mondo.
 
“Ho avuto paura, prima.” gli sfuggì dalle labbra, prima che potesse rendersene conto.
John aprì gli occhi e lo fissò, la stanchezza e la paura ormai visibili dentro quelle pupille color del mare.
“Il grande Sherlock Holmes che ha paura? Questa devo segnarmela.” mormorò con amarezza, passandosi una mano tra i capelli.
“Dico sul serio.” ribatté piano Sherlock, incontrando il suo sguardo “Ho avuto paura per te. Quando ti ho visto lì, imbottito di esplosivo, sotto tiro . . . a causa mia ... mi sono sentito cadere il mondo addosso. Come quando abbiamo trovato il corpo di Barbarossa distrutto dal fuoco per mano di Alex e degli altri. Non sapevo cosa fare. Ho avuto . . . ho davvero avuto paura di perderti.”.
Abbassò gli occhi, rimpiangendo di aver parlato, mentre nel suo petto il cuore si stringeva dolorosamente.
Il medico rimase in silenzio per qualche secondo, prima di alzarsi e raggiungerlo senza una parola vicino alla finestra.
“Sherlock, guardami.” lo chiamò piano, e quando quest’ultimo spostò nuovamente lo sguardo su di lui continuò dolcemente “Io sono qui, ora, ok? Siamo ancora qui, tutti e due, e stiamo bene. Siamo ancora vivi. E quando Moriarty tornerà per continuare quello che ha iniziato gliela faremo pagare, insieme come abbiamo sempre fatto. Lo batteremo al suo stesso gioco, io e te, da soli contro il resto del mondo. D’accordo?”.
I suoi occhi brillavano, e Sherlock non poté fare a meno d’annuire.
“D’accordo.”
John sorrise appena e poi si allontanò da lui “Vado a dormire un paio d’ore, sono distrutto. Almeno per stanotte, cerca di evitare il violino.” sbadigliò, salutandolo con un cenno del capo.
Holmes non rispose, perso com’era nei suoi pensieri, e il biondo scosse appena la testa.
“Cerca di riposare anche tu, hai bisogno di riposo anche se non lo ammetterai mai.” gli disse a m’o di buonanotte, prima di sparire su per le scale.
Il detective rimase di sotto, con lo sguardo perso nel vuoto, a pensare a quello che era successo. e, soprattutto, a quello che Moriarty aveva detto.
 
Ti brucerò il cuore.
 
In quel momento era stato così dannatamente vicino. Sarebbe bastato un suo cenno e avrebbe perso John per sempre. E con lui, il suo cuore.
Perchè Moriarty sapeva, eccome se sapeva, quanto John fosse indispensabile ed importante per lui. Non riusciva a capire come potesse saperlo, ma dopo gli avvenimenti di quella sera ne era ormai certo.
Moriarty sapeva, sapeva ed aspettava solo il momento giusto per colpirlo, per annientarlo peggio di quanto avrebbe potuto fare una pallottola nel petto o un pugnale nelle spalle.
Gli avrebbe tolto ciò a cui teneva di più in tutto il mondo. E non erano vane minacce, le sue. L’aveva dimostrato. L’avrebbe fatto, quando sarebbe arrivato il momento opportuno.
Ma lui non l’avrebbe permesso. Non l’avrebbe mai permesso.
Mai.
 
 Sherlock alzò lo sguardo verso le scale, dopo il suo migliore amico era appena scomparso, e strinse la labbra, gli occhi che bruciavano di determinazione.
 
“Non permetterò mai più che tu sia in pericolo, John. Te lo giuro. Mai più.”
 
 
 
 
[1] Velato, ma nemmeno tanto, tributo a uno dei massimi poeti della letteratura inglese, il mitico William Shakespeare. A proposito, lo sapevate che suo padre si chiamava John e sua madre Mary? Io dico solo una cosa . . . “William Sherlock Scott Holmes. Il mio nome completo. Nel caso cercaste nomi per il bambino.” Johnlock, Johnlock ovunque!!
[2] Chiaramente, mi riferisco a zio Arthur. Come potevo non citarlo, andiamo?
  
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