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Autore: Mirtastolfo    12/06/2015    1 recensioni
"sai quello che lasci, ma non sai quello che trovi. E questa è la mia più grande paura: cosa mi aspetta dopo questo volo?". Un volo che lo porterà dalle stelle alle stalle, dalla libertà di volare libero al sentirsi un animale allo zoo. Ma qualcuno aprirà quella gabbia e Filippo torna a sognare, a voler bene ad amare. Quel sorriso di Davide però, è pieno di tristezza, al novantesimo minuto. Only know you love her when you let her go...
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Ho sempre trovato gli aeroporti dei luoghi fantastici: quel viavai di gente, lacrime di gioia di persone che si rincontrano, lacrime di tristezza di persone che partono e salutano amici, parenti, fidanzati e fidanzate. Dovrei passare una giornata in un aeroporto e raccontarne le storie e le immagini che mi circondano. Quando ero ancora un piccolo bambino delle scuole elementari, mi piaceva farmi portare da babbo sul carrello delle valigie e salutare gli sconosciuti che ci circondavano come una star di Hollywood dalla mia sfrecciante quattroruote. Mamma-vigile però mi multava e mi ritirava il mezzo con l’accusa di ‘veicolo pericoloso’. Mi piaceva guardare gli aerei dalle finestre accanto al gate, mentre eravamo in fila. Aerei che decollano, aerei che atterrano. Sali e scendi, ali spiegate, il rombo dei motori. Da grande dicevo di volerci lavorare, in aeroporto. Molti bambini sognano di diventare piloti, altri invece di fare gli stuart oppure i più appassionati di tecnologia di lavorare nella torre di controllo con tutti quei radar, pulsanti e rotte da tenere d’occhio. Io invece volevo lavorare dietro a quel grigio banco del Check-in. A questo proposito, credo di avere un trauma d’infanzia da quel giorno in cui non fecero partire mamma perché aveva dimenticato il passaporto a casa. Da lì, ho pianificato la mia vendetta: avrei detto anch’io almeno una volta nella vita – “il suo documento è scaduto, non può partire”. Quanto sadismo in un bambino di soli otto anni.
Per me gli aeroporti sono come una seconda casa, ho fatto il mio primo volo intercontinentale quando ancora non dicevo neanche “mamma” e le ore del viaggio erano più dei miei mesi di vita. Ore di viaggio batte mesi dalla nascita 18 a 6.
Di viaggi ne ho fatti tantissimi, anche e soprattutto grazie al lavoro di mamma che ci ha sempre permesso di scoprire nuove città in giro nel mondo. L’ultima, quella dove ho passato tutta la mia adolescenza e dove ho costruito una fitta rete di amicizie, sicurezze e abitudini è Madrid. Sì abitudini, sono un ragazzo abitudinario: il caffè tutte le mattine al solito bar, il giornale del lunedì mattina perché esce con l’inserto su cultura e società, la passeggiata domenicale al parco sotto casa, il mercoledì al cinema per il giorno dello spettatore e il primo sabato del mese shopping con le mie due amiche storiche. Effettivamente è un po’ un controsenso: un ragazzo abituato a viaggiare in continuazione, a “rifarsi una casa” di volta in volta non dovrebbe radicarsi più di tanto nelle città dove arriva, sapendo di dover ripartire. A dir la verità i nostri trasferimenti prima di arrivare a Madrid non li ricordo molto bene, abbiamo vissuto sia in Argentina che in Brasile, ma in entrambi i casi ero ancora troppo piccolo e si sa, a quell’età si è particolarmente socievoli e soprattutto si ricreano amicizie. Quando più di sei anni fa sono arrivato con mamma e babbo a Madrid, l’approccio è stato diverso. I primi tempi ero insopportabile, poi però mi sono iniziato ad affezionare molto sia alla città sia alle persone che stavo iniziando a conoscere. La Spagna mi ha dato tantissimo e in poco tempo mi sono sentito subito a casa. Aiutava anche il fatto che avevamo una casa fantastica, un clima familiare particolarmente felice e senza dubbio una classe al liceo stupenda. Gli anni più belli sono stati gli ultimi due, terza e quarta liceo. Sono stati i più belli perché all’inizio della terza ho trovato la forza e il coraggio di dire che a me piacciono i ragazzi. Fino ad allora mi sento di dire che la mia vita era stata un po’ rinchiusa in una bolla di sapone, che mi faceva fluttuare senza mai poter vivere le esperienze con la mia personalità e con tutta la vitalità che è esplosa dopo quell’episodio. Essere me stesso è stata la più bella conquista che mi ha dato Madrid, perché a lei riconosco un grande merito in tutto questo. Se io ho avuto il coraggio di fare questo salto, le persone che mi circondano hanno avuto la sensibilità e la maturità di accettarlo e soprattutto di sostenermi.
Potete capire bene che Madrid per me è significato molto più che una semplice città tra le tante che mi hanno ospitato in questi pochi ma intensi anni di vita. Io in questa città ho scoperto il valore dell’amicizia, ho passato forse gli anni più importanti nella crescita di un ragazzo, il liceo. Amo Madrid, la sua vita, il suo battito, perché per me Madrid è come un cuore, che sprigiona energia, allegria e voglia di fare. Se non ci siete mai stati, andateci, ma senza la pretesa di visitare grandi monumenti o impregnarvi di storia, quando nel 1088 a Bologna nasceva la prima università del mondo Occidentale, a Madrid c’erano le capre che pascolavano. Ma questo non vuol dire niente, tutte le città italiane devono essere invidiose della vita e della forza di una capitale come Madrid. Aperta, varia, colorata, originale.
Oggi l’aeroporto ha un sapore diverso, non lo vedo più come quell’avvincente teatro di storie da raccontare, forse perché oggi in scena andrò io. Oggi partiamo. Ma è una di quelle partenze a senso unico, biglietto di sola andata. Le esperienze all’estero per la mamma si sono concluse e io da italiano emigrante in giro per il mondo, sarò per la prima volta italiano in Italia.
Mancano ancora due fermate di metropolitana, c’è un’aria pesante. No, non è il sudore della signora accanto a me, cioè non solo. È pesante perché nessuno di noi tre vorrebbe lasciare Madrid, ed è un po’ come se neanche lei volesse lasciarci andare via. Questa pesantezza nell’aria è come se volesse trattenerci qui. Per tutto il viaggio siamo stati in silenzio, come in silenzio siamo stati anche ieri sera a tavola, l’unico mobile insieme ai materassi che erano rimasti in casa.
La giornata di ieri è stata tristissima: di solito fare la valigia è una cosa bella, piena di adrenalina per il viaggio che si sta per fare, questa volta invece mi sembrava quasi di preparare un pacco da spedire, mentre io invece rimanevo lì, a casa. Casa, che svuotata di tutti i mobili, completamente vuota, faceva effetto. Le pareti bianche ormai spoglie di tutti i quadri e camminare per i corridoi e sentire il mio eco è stata una grande malinconia. Stamattina poi, ho salutato per l’ultima volta la mia camera. Quanto gli ho voluto bene a quei dieci metri quadrati. Dieci metri quadrati dove ho studiato, ho finto di studiare, ho dormito, ho finto di dormire, ho sognato, ho spettegolato, ho mangiucchiato davanti al computer, mi sono dondolato nell’amaca del mio piccolo terrazzino, ho sfogliato pagine e pagine di libri bellissimi, ho ospitato amici e amiche care a dormire. Quante avventure in quella bellissima casa sopra a quella bellissima piazza. Un mio amico dice sempre che “nulla è per sempre” e io l’ho sempre smentito da buon romanticone e ottimista qual ero e sono. Oggi però forse ho un ripensamento, se anche la cosa a cui tenevo di più ho dovuto lasciarla, forse un po’ è vera quella frase, e nulla è realmente per sempre. L’amore non so, su questo non posso ancora esprimermi.
Prossima fermata, Aeroporto. Eccoci arrivati. Babbo come in tutte le cose è sempre in anticipo, ed è già sulla porta del vagone con la valigia al seguito. Mamma ha lo sguardo basso e un’espressione contrariata che sembra voler dire mille cose ma al tempo stesso chiede di poter star zitta. Io mi guardo intorno in cerca di qualche sorriso. C’è un bambino che avrà si e no due anni, il collo alla mamma, che mi guarda con degli occhioni blu. Lo guardo, gli sorrido. Un sorriso innocente compare sul suo visino paffutello accompagnato da qualche suono, che ho interpretato, in maniera un po’ libera – “non fare quella faccia triste, Madrid sarà sempre casa tua, te la tengo d’occhio io”. Se c’è lui allora, posso partire con un po’ più tranquillo. Il treno si ferma e le porte si aprono. Scende babbo, scende anche mamma che nel frattempo si era alzata e ora tocca a me. Un’ultima occhiata a quel dolce batuffolo di felicità e poi scendo anche io.
Il tragitto dalla metropolitana al controllo passa come sottofondo di una serie di immagini che mi balenano in testa dei miei anni trascorsi a Madrid: dalle più belle risate ai pianti più forti. Tantissime emozioni. Il mio percorso di ricordi viene bruscamente interrotto da una presa che mi attanaglia il collo, mi giro. Non ci posso credere. È Pablo, il mio migliore amico. E insieme a lui ci sono anche tutti gli altri... Silvia, Marco, Luca, Lola, pure Andrea! Era l’ultima cosa che mi aspettavo, ma a quanto pare babbo e mamma lo sapevano bene, viste le loro facce. Dentro di me sono un’esplosione di fuochi d’artificio e fuori sono completamente paralizzato, incapace di dire né fare niente. – Fili che ti prende? Non sei contento di questa sorpresa?! – il solito tono incalzante di Silvia mi sollecita a dare segni di vita. Abbraccio fortissimo Pablo, mi appoggio su di lui che è abbastanza più alto di me e provo a iniziare un discorso: “Io... voi... siete grandi” fatico a finire di parlare perché sento che il cuore sta accelerando bruscamente e soprattutto sento che le lacrime non vedono l’ora di avere il via libera, dopo esser state trattenute per più di un giorno. Già, quando abbiamo lasciato la casa, stranamente non ho pianto. “Grazie, io... vi voglio troppo bene” – sento il calore di Pablo che mi trasmette con la sua presa sicura, stringendomi a sé con quel fare paterno e protettivo che lo contraddistingue e che tanto mi piace di lui. Dopo abbraccio gli altri. Ora sono in silenzio e sono loro a parlare “magna tanta pizza anche pe’ me” – il solito Luca – “e quando torni a trovarci portami tanti pan di stelle!” – questa invece era Lola. La scusa del cibo è solo un modo di far finta che quello che ci stiamo per dare è per certi versi un addio. Di sicuro ci rivedremo, ma non sarà più la stessa cosa. Si perderà tutta la quotidianità, le nostre vite saranno lontane e proseguiranno indipendenti. Questo non significa che si perderanno i nostri, credo forti, legami d’amicizia, io però più li guardo negli occhi e più voglio rimanere qui con loro. È questo il mio posto!
“Anche voi dovete venirmi a trovare però eh!” – mi piacerebbe molto ospitarli una volta arrivato in Italia, sarebbe di sicuro un modo per rendere la casa nuova, più “casa”. Da lontano mamma, che ha sentito il mio invito, aggiunge con un sorriso grande rivolgendosi a loro: “Assolutamente ragazzi, siete tutti invitati, anche i vostri genitori!”. Mi sento come i concorrenti in quei quiz a tempo negli ultimi secondi prima del gong, che ne sentono l’imminente arrivo: guardali bene Filippo, abbracciali forte e digli tutto quello che devi, che poi saranno lontani. Ma non riesco più a dire nulla e babbo sembra abbastanza impaziente, ma aggiungerei con ragione visto che il volo non aspetta certo noi a partire. Arrivano i saluti, uno alla volta li stringo tutti forte dicendo loro all’orecchio quanto gli voglio bene e quanto la mia vita in Italia sentirà la loro mancanza. Dai Fili, stai resistendo senza piangere. Tocca a Silvia, che però, proprio quando stavo per staccarmi, inaugura il primo singhiozzo della giornata. Mi guarda con gli occhi acquosi e mi dice “prometti che non ti dimentichi di avere una sorella?” – io allora le prendo le mani e le rispondo: “una sorella è per sempre Sil”. Ormai la soglia-pianto è vicinissima e rischia di essere raggiunta con l’ultimo da salutare, mi sono tenuto Pablo. Un salutino leggero insomma.
Con lui ho costruito un rapporto speciale, spesso noi non parliamo, ma in uno sguardo ci mettiamo dentro più di centinaia di parole. Questo sguardo non me lo dimenticherò mai più, mi sembrava di parlarci in quel momento. Il bene che gli voglio supera ogni possibile limite spaziale e temporale, supera di gran lunga le barriere della lontananza e spero che anche per lui sia così, quando sarò via.
Ecco, è arrivata. La prima lacrima si fa strada sulla guancia e scende minacciosa di chiamarne molte altre dietro di sé. Appena me ne rendo conto mi avvicino a lui e lo abbraccio come prima, più di prima, per un ultimo e forte slancio per partire con tutto quell’affetto che sono stati capaci di darmi prima di questa partenza. Inizio a piangere, ma è un pianto veramente pieno di tantissime cose. Era da ieri che avrei dovuto farlo e, ora finalmente, riesco a scaricare tutte le tensioni, tutte le paure e tutte le insicurezze. E c’è lui, che mi tiene forte, che mi sostiene. Ma anche questa bellissima sorpresa deve finire, o davvero perderemo l’aereo. Magari.
Piano piano e con tanta fatica mi allontano dalle braccia di Pablo, saluto con le mani tutti mentre mi allontano e mi dirigo verso il controllo. Anche mamma, che è poco più avanti si è commossa, sa quanto ci tengo a loro e quanto mi pesi lasciare Madrid. Ma non è colpa di nessuno, è il corso della vita. I ragazzi ormai sono lontani e, passato il controllo al metal detector non sono neanche più distinguibili tra tutte le persone della sala. L’attesa del volo la passo tutta seduto su una sedia con le cuffie nelle orecchie. Let her go in riproduzione nell’IPod. Canzone forse troppo inflazionata, sentita e risentita, troppo malinconica, dite quel che volete, ma è la mia canzone preferita, una canzone che mi lega particolarmente a quest’ultimo anno trascorso a Madrid e a questi giorni di addii, di sentire la mancanza di molte cose...

 
Well you only need the light when its burning low
Only miss the sun when it starts to snow
Only know you love her when you let her go
Only know you’ve been high when you’re feeling low
Only hate the road when you’re missing home
Only know you love her when you let her go
And you let her go
Staring at the bottom of your glass
Hoping one day you’ll make a dream last
But dreams come slow and they go so fast...
 

 
Siamo sull’aereo, seduti. Stiamo percorrendo la pista e ci stiamo preparando per il decollo. Ecco il rumore dei motori, alla mia destra la hostess sta facendo la solita dimostrazione delle misure di sicurezza ma non la sto minimamente seguendo. Guardo fuori dal finestrino. Sotto di me sento il vuoto, tutte quelle sicurezze che avevo trovato stanno cadendo sotto di me. Come quando l’aereo decolla, e non ha più nulla sotto ai piedi, in questo caso sotto alle ruote. Come si dice sai quello che lasci, ma non sai quello che trovi. E questa è la mia più grande paura: cosa mi aspetta dopo questo volo? Il paesino dove sono nato mi accoglierà come ha fatto Madrid a suo tempo? Riuscirò a integrarmi subito bene e conoscerò persone tanto uniche quanto queste di Madrid? Chissà, per ora solo timori e speranze.
   
 
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