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Autore: Tersy    10/01/2009    0 recensioni
Londra, XVIII secolo. Al giovane Josiah, ceramista affermato, viene commissionato un cameo.
Ma s’invaghisce del destinatario del dono, la licenziosa Anna, la quale è, però, già promessa ad un altro uomo...
**Estratto**
Tutto si può creare.
Molti pensano che sia la mente a comporre e reinventare. Non nego all’intelletto il ruolo di dirigente primo, ma se non ci fossero le mani a realizzare e mettere in pratica ciò che gli viene comandato, non esisterebbe una sola cosa in questo mondo. Nemmeno la natura, poiché perirebbe se il contadino non fosse così carico di premure e dovizia da accudirla con le sue mani. Nemmeno i sentimenti, se non fossimo vogliosi di abbracciare od uccidere rispettivamente chi amiamo e odiamo.
Ne sono convinto: l’amore nasce dal desiderio di toccarsi.
Genere: Romantico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note: Sono necessarie alcune precisazioni. Questo racconto è stato scritto per un concorso sui colore. Il colore che ho scelto è appunto il wedgwood (per un esempio, vedere il titolo). Quando ho letto il nome sulla tavolozza sono rimasta incuriosita ed ho fatto una piccola ricerca (Wikipedia power). Ho scoperto che deriva da Josiah Wedgwood , un ceramista inglese, che usava quella tonalità di azzurro per le sue opere, tra cui questo cameo ( Immagine ) a cui mi sono ispirata per la trama. Si tratta di Anna Laetitia Aikin Barbauld, una poetessa inglese. Viene da sé la folgorazione che ho avuto, creando una romanzata improbabile e mai avvenuta. Una sorta di fusione tra l’intreccio di mani e creta di Ghost e il ritratto commissionato di Titanic. Un racconto originale che, però, assomiglia molto ad una fanfiction xD
Ci tengo a dire che è la prima volta che scrivo una storia “in costume”, quindi è un esperimento.
Disclaimer: Questa storia non è scritta a scopo di lucro e gli elementi di mia invenzione appartengono solo a me. I personaggi sono realmente esistiti, ma i fatti narrati sono esclusivamente e totalmente frutto di fantasia.
Capitolo 1


Mi sono sempre chiesto cosa distingua l’uomo come essere vivente. In tutte le mie speculazioni (se attendibili possano essere le affermazioni di un artigiano, che non possiede né l’acume né la dottrina degli scienziati e dei filosofi) ho riconosciuto un dato di fatto: l’uomo, la nostra specie, si distingue per l’uso delle mani. Per quanto i nostri palmi possano apparire insignificanti e callosi; per quanto il nostro genio possa essere straordinario od altresì modesto (quale ritengo il mio); per quanto eleviamo al cielo la nostra spiritualità, è alla terra che dobbiamo affidarci. Sono le nostre capacità di render malleabile e duttile, plasmabile ed utile la materia a proclamarci padroni del mondo. Nelle nostre mani risiede il principio creatore delle cose.

« Ti ho colto con le mani nel sacco, Josiah... » Impertinente già nel timbro vocale. I tacchi delle sue scarpe lucide pizzicavano i suoi timpani. Boriosi, arroganti, noiosi. Come il proprietario. Un aroma di acqua di colonia si diffuse nel piccolo studio, con prepotenza.
« Invece di curarvi della tua clientela » con un bastone d’ebano che accompagnava la sua figura da aristocratico puntò un tavolo da lavoro, su cui giaceva vario vasellame. Arte ancora informe che doveva essere sottoposta al potere creativo del tornio. E del vasaio. « Ti ritrovo a scrivere un trattato? Non ti pagano forse per imbrattare le vostre abili mani di creta e non d’inchiostro? » Rochemont Barbauld si arrestò proprio dinanzi al giovane con una smorfia, che deformò il suo volto dal mento in su. Bastardo, ma nella misura in cui lo era tutti coloro che si gonfiano il petto in proporzione al rigonfiamento del proprio portafoglio. Né più né meno. Josiah socchiuse le palpebre, quasi volesse evitare a se stesso il diretto contatto visivo con colui che aveva sempre considerato un verme. Uno di quelli che se ne sarebbero dovuti andare con la rivoluzione. Invece erano ancora lì e più di prima. Raccolse i pochi fogli sparsi che vagavano sullo scrittoio e li ripose in un cassetto. Mentre richiudeva quest’ultimo, si rimise in piedi, abbandonando quell’umile seggiola.
« Mr. Barbauld voi mi giudicate fin troppo negativamente. Io ho molto a cuore i miei clienti. Ed è per questo che ogni mia opera deve essere curata in ogni dettaglio. Ma per far questo, me lo concederete, ho bisogno di molto tempo. » Si avvicinò al nobile con sguardo malizioso come ci fosse una sfida in corso. Come se dovesse sempre difendersi per poter affondare una nuova stoccata.
« I migliori artigiani sono quelli che lavorano bene nel minor tempo utile. Tienilo a mente per il futuro, mio caro giovane. » Il pomo del suo bastone si scontrò con il petto del ceramista. Quella fu la sua stoccata.
Il giovane spinse il legno con il centro del palmo destro, allontanandolo da sé, con il volto contrito di una certa rimostranza. Stava trattenendo ogni commento puramente negativo ed offensivo, che sarebbe stato sputato di bocca in bocca in tutta Londra nel momento stesso in cui lo avesse indirizzato al nobil signore. Ma forse non possedeva nemmeno tali parole, adeguate e pertinenti alla figura alla quale andavano affibbiate. Doveva accontentarsi di labbra storte ed occhiate truci per esprimere il suo disappunto.
« Spero non siate venuto solo per sciorinarmi la vostra sapienza... »
« Dovrei forse cogliere una punta di sarcasmo? »
« Ogni uomo interpreta il mondo a suo piacimento, Sir. » La sua testa compì una leggera rotazione, facendo sì che un sol occhio fosse puntato verso l’altro uomo.
« Non ne dubito, ma io sono, per così dire, un’anima scientifica. Credo che esista una realtà obiettiva che possa valere per tutti, in ogni luogo e tempo. Cosiddette leggi assolute. » Restò una manciata di secondi con entrambi i palmi poggiati sul bastone, il quale faceva da perno dalla sua stazza poco titanica. « Ma non è il caso di intavolare una discussione filosofica. D’altronde non ci sarebbe nemmeno un termine paragone con cui confrontarsi...» Un sorriso beffardo, tanto amabile, quanto maleducato, che racchiuse in sé un insulto preconfezionato.
Josiah rimase impassibile alle sue sferzate di esaltazione spropositata della sua persona. Non era la prima e non sarebbe stata l’ultima volta. Inutile pensare che sarebbe cambiato, che la vecchiaia lo avrebbe reso più pacato e meno opportunista. Era un esponente della nobiltà londinese, di quelli che chiamano sua Maestà per nome (o soprannome) con disinvoltura e prendono a calci i servi quando li scoprono sotto le lenzuola assieme alla moglie, anche se è la consorte ad essere fin troppo licenziosa. Non cambiano, perché non ne hanno alcun interesse. È questo che muove il loro piccolo grande mondo: l’economia fruibile e fruttabile. Tutto, dal granello di sabbia al chicco di caffè, si misura in termini di usabilità. Dalla felicità all’amore. Tutto.
« Suvvia, non mi dirai che ti sei offeso? Credevo che voi artigiani foste fieri di essere la parte produttiva della società. »
Parte produttiva della società. Dopo la rivoluzione industriale divenne tabù la parola “plebe” ed iniziarono ad inventarsi perifrasi di circostanza, le più diverse, le più fantasiose, ma con un unico significato: gli schiavi moderni. Nessun diritto contro migliaia doveri, che facevano pendere la bilancia dalla parte opposta della dignità. Che è sempre la parte sbagliata.
« Comunque sia... Non sono venuto unicamente per una visita di cortesia al mio protetto. Sono qui per commissionarti un’opera. O meglio un regalo. » Si tolse lentamente i guanti di seta bianchi, sfilandoli dalle dita per poi riporli nel taschino.
« Regalo? Che genere di regalo? » Monotona la sua voce, standardizzata, prodotta in serie, come del resto ogni cosa oramai. Si era perso il valore della rarità, tutto va realizzato bene nel minor tempo utile,appunto. Anche se era il motto più lontano dal suo pensiero, aveva finito per essere risucchiato da questo vortice, dal capitalismo e dall’industria dilagante. Nessuno ne era immune, per quanto tempo lui avrebbe potuto resistere? E soprattutto, perché? « Oh, sono certo che è alla tua portata. Vorrei un ciondolo... »
« L’orefice è in fondo alla via, Sir. » prima ancora che esponesse per intero il suo pensiero, Josiah lo aveva liquidato, senza batter ciglio.
Chi non lo conosceva, avrebbe interpretato questo atteggiamento come impertinenza imperdonabile. Chi lo conosceva, avrebbe pensato lo stesso, solo che avendoci fatto il callo non ne avrebbe dato peso. Anche Barbauld era al corrente del carattere irriverente del ragazzo, ma c’erano altri motivi a non farlo desistere, non certo l’abitudine.
« Se avessi voluto interloquire con l’orefice, non sarei qui.» Ovvero: “io so sempre ciò che voglio. Non dimenticarlo mai!”
« Allora, Sir... » incrociò le braccia dinanzi al petto, in posa d’attesa. « A meno che Voi non desideriate una brocca pendente al Vostro collo, come posso esaudire i Vostri desideri, facendo sì che rientrino nelle mie capacità?» Ovvero: “da quando un ceramista realizza gioielli?”
« Sono estasiato dalla tua buona volontà e non indugerò ad essere più preciso. D’altronde è un regalo molto, molto speciale. » iniziò a passeggiare avanti e indietro per il piccolo studio, facendo scricchiolare le assi in legno del pavimento, poiché ogni passo era ponderato e gravava in tutto il suo peso.
« Ho una notizia favolosa, mio giovane, che voglio condividere con te in esclusiva. »
« Quale onore... » voltò il capo di un quarto di giro per eludere lo sguardo compiaciuto del nobile. Chissà che incarico altisonante sta per comprare con quel dono. Gli faceva ribrezzo essere l’artefice di una corruzione. Ne era certo, come che il giallo ed il rosso, mescolati insieme, danno l’arancio.
« Sto per prender moglie.» Fiero nel tono, quasi avesse conquistato il diamante più bello. E su questo non aveva torto, affatto.
« Felicitazioni alla futura signora. Sarei ben lieto di realizzare un servizio da the per i novelli sposi. Se voi voleste...»
« Ed infatti non voglio. » scosse il dito indice dinanzi al suo viso. Era un no, categorico. « Realizzerai un cameo per la mia fidanzata. È inutile sottolineare che pretendo la migliore ceramica che hai mai creato. È di gusti raffinati, la mia Anna. Sai, è una poetessa. » L’aggettivo possessivo non era un sintomo d’affetto, ma di vero e proprio possedimento.
« E quando la vostra Anna dovrebbe ricevere il magnifico dono?» Anche lui marcò il possessivo. Ancora doveva chiederle di sposarla e già metteva in conto che avesse accettato? La superbia non è forse uno di quei peccati capitali da cui bisognerebbe rifuggire per non finire all’Inferno?
« La cena formale è fissata tra due giorni. » puntuale, preciso. Come un killer silenzioso.
« Due giorni?! » irruppe la sua voce, sciolse la posizione delle braccia mentre il volto esprimeva cattivo stupore. « Ma due giorni sono... »
« Quarantotto ore, duemilaottocentoottanta minuti, centosettantaduemilaottocento secondi. » pronunziò, con leggerezza, troncando le lamentele del giovane. Un momento di pausa ed un sorriso gli scivolò sul volto. Ma questo non fece arrestare la preoccupazione di Josiah, anzi la rinvigorì.
« Ma, Sir, sono troppi pochi. È un lavoro che richiede accuratezza, dedizione. Non posso farlo in così breve tempo. Devo prima fare una bozza preparatoria, poi devo comprare il materiale, fare una prima lavorazione e poi... »
« Josiah non hai abbastanza fiducia in te stesso. Io ne ho molta, moltissima. Non sei forse il più acclamato ceramista di tutta l’Inghilterra? Non mi stupirei se fossi interpellato da sua Maestà in persona. » Suadente e persuasivo, maestro negli elogi quanto nelle calunnie. E difatti mutò subito registro. Dall’esaltazione alla minaccia. « Non credo che tu sia nella posizione di poter rifiutare... Ti sei già dimenticato di quella locandiera che hai messo incita tra un vaso e l’altro? Se non le avessi sparato in pieno ventre, adesso saresti a spaccarti la schiena per un allevare un bastardo. Josiah, dov’è finita la tua gratitudine? » appoggiò entrambe le mani sulle gote lisce del giovane, gesto che contrastava la rudezza della sua voce « Anche le tue mani sono porche di sangue. » strinse la pelle del viso in una morsa iraconda. « Sei di mia proprietà. Non te lo scordare. »
Josiah piegò le labbra, ricolmo di rabbia. Come poteva cedere ad un ricatto in questo modo e per così tanto tempo? Perché non aveva la forza o il coraggio o entrambe le cose per dirgli in faccia che non era un assassino e che tutto ciò che si poteva imputare era solo paura? Impronunciabile terrore di non essere ancora un uomo e di essere ancora imbrigliato in un mondo, in cui l’amore non fa male, non fa soffrire, non fa morire e non fa uccidere. Ed ora è schiavo della sua ingenuità.
Lo sguardo del nobile si distese, assieme alle labbra, mentre scendevano le sue mani sul petto, picchiettandolo con la punta delle dita. Aveva interpretato il suo timore come la certezza che lo aveva in pugno. Per sempre,qualunque cosa gli avesse chiesto in futuro. Una garanzia di fedeltà. Proseguì con tono pacato ed affabile. « E poi la signorina Aikin ha richiesto esplicitamente di te. » « Di me? Per qual motivo?»
« Ah, non ricordo bene. Josiah, tienilo a mente: le donne ragionano solo in base ai propri istinti ormonali. Non sono come noi.» scosse il capo, in un gesto di compassione per quel gentil sesso, che non era capace di comprendere e che riteneva nessuno fosse in grado di comprendere. Si rimise i guanti candidi, mentre si avviava verso l’uscio, guardandolo solo di sbieco.
« Ma se non pecco in memoria, era molto affascinata dai tuoi colori. » Un attimo di pausa. « Comunque sia, verrà qui domani mattina stesso per esserti da modella. In fondo è lei l’oggetto del tuo lavoro, no? Ne approfitterete per intavolare discorsi da donnicciole e sbarbatelli sui colori. Ve ne do libertà.» Afferrò il bastone, facendo scorrere il palmo lungo il legno fino al pomello in ottone. Aprì la porta con la mano destra, mentre della mancina restavano ritti l’indice ed il medio.
« Due giorni. » si infilò nel pertugio creato dall’apertura e, sbattendo rumorosamente la porta, si riversò in strada.
Josiah restò in un muto silenzio per alcuni secondi, in piedi dinanzi al suo tavolo di lavoro. Le sue lunghe dita sfioravano la superficie lignea, percorrendola per il lato lungo. I suoi occhi castani le seguivano, finché non incrociarono un vaso, su cui era raffigurata una donna che giaceva elegantemente sul suolo, vestita di leggerissime vesti, come una dea classica.
Immagini frammentarie vennero proiettate nelle sua mente. Una porta che si spalanca scricchiolando; una scia rossa sul pavimento; ampie chiazze di sangue; il suo peplo bianco ormai compromesso nel suo chiarore, immondo come colui che l’aveva compiuto.
Un pugno si infranse sul tavolo, provocandogli dolore a causa dell’eccessiva energia adoperata.
« Il soggetto del mio lavoro. Soggetto. Non sono cose, figlio di pu**ana. »
   
 
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