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Autore: _browneyes    14/06/2015    6 recensioni
“Le paure superficiali sono facili, la paura del buio che hai quando sei bambino, solo perché temi che un mostro salti fuori dal tuo armadio, è facile.
Sai quando arriva il difficile?
Quando le tue fobie sono radicate dentro di te, quando la tua mente continua a farti rivivere le cose peggiori che ti sono capitate e ti tormenti, perché temi che possano succederti di nuovo, quelle cose.
E forse tu non lo capisci, ma è dannatamente difficile vivere in un mondo che ti sbatte in faccia le tue paure peggiori in continuazione, senza che tu possa fare nulla per impedirlo.
Vivere in questo mondo è come vivere in un incubo e il problema è che non puoi svegliarti."
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Capitolo Nove.
 
Paura.
 
 
 
Cosa sono lui ed Euphemia, Michael non lo sa.
Però gli sta bene, in fondo non gli è mai piaciuto dare etichette alle cose; anche perché, se stabilisse cosa c’è fra loro, avrebbe paura di essere un fallimento anche qui. Perciò, come stanno adesso, gli va benissimo.
Parlano, anche troppo, al telefono, si sorridono e si lanciano occhiate di sottecchi quando credono che l’altro non stia guardando, si salutano con dei baci sulle guance che sono anche troppo vicini alle labbra. E va più che bene così, per Michael.
Che non abbia nemmeno il coraggio di chiederle di uscire, è un’altra cosa. Euphemia, poi, non sa se accetterebbe.
Lui e la sua solita insicurezza.
Vorrebbe chiamarla anche solo per sentire come sta, ma sa che è a cena dal padre e, anche se lei non gli ha mai raccontato nulla, Michael sa che non hanno per niente un buon rapporto.
«Però se dopo hai bisogno di parlarne, chiamami», le aveva detto la mattina prima, lo sguardo serio. Lei aveva sorriso, «Magari torno  tardi».
Michael aveva alzato le spalle e le aveva lasciato un piccolo bacio sulla fronte, «Terrò il telefono accesso». E poi si era dileguato, senza notare il sorrisone sul viso di Euphemia.
 
Nirvana sospira, lo sguardo vuoto fisso sulla parete color pesca della sua camera, ignorando quasi del tutto Rain, seduta sulla poltrona bianca che la guarda preoccupata. Vorrebbe dire qualcosa, chiedere, ma non ce la fa.
È che Nirvana così fragile, lei non l’aveva mai vista prima.
Rain è ancora abituata a quella Nirvana che era al liceo, quella popolare, quella che tutti invidiavano e quella che sembrava non essere mai scalfita da nulla; la Nirvana che ha davanti, adesso, è tutta una novità assoluta per lei. Che le voglia ancora bene è indubbio, solo che non capisce. C’è qualcosa che le sfugge e sa benissimo che la castana non le sta dicendo qualcosa, ma non può certo forzarla a farlo, se non vuole. Nirvana si volta verso la bionda, sdraiandosi su un fianco, la testa sul palmo della mano destra. Si schiarisce piano la voce e: «Non mi hai mai detto perché i ricordi ti fanno così tanta paura».
Rain stringe le labbra in una linea sottile e volta la testa ‘chè davanti agli occhi disarmanti di Nirvana s’è sempre sentita un po’ in soggezione. Riavvia una ciocca di capelli biondi sfuggita alla coda di cavallo dietro l’orecchio e alza le spalle, «E’ solo che i ricordi sono il tipo peggiore di arma. Sono sempre pronti a farti pensare a qualcosa che c’era e che ora forse non c’è più, a cose che sono finite, ad occasioni non prese, a momenti che vorresti rivivere all’infinito ma che ormai sono passati. Il passato fa male, la maggior parte delle volte, e i ricordi di questo, secondo me, sono tra le poche cose che sono in grado di ferirci davvero a fondo, in ogni momento», sospira, «e non c’è modo di difendersi».
Nirvana guarda l’amica, l’espressione piatta e gli occhi spenti, «Credo che a tutti facciano paura le cose da cui non ci si può difendere», mormora abbassando improvvisamente lo sguardo, ‘chè  i suoi occhi stanno cominciando a diventare fin troppo espressivi.
Rain annuisce piano, prendendo a giocare con un filo che pende dal ginocchio sdrucito dei jeans blu, giusto per scaricare un po’ del crescente nervosismo. E, ormai, non ce la fa a non chiedere, «Si, credo di si. Cosa ti fa tanta paura del contatto fisico? Una volta non era un problema, per te». La guarda e Nirvana tiene lo sguardo in basso. ‘Chè Rain è una di quelle persone a cui non riesce a mentire, soprattutto se la guarda negli occhi cerulei, fin troppo chiari ed innocenti.
Sospira, «No, non era un problema. Ma le persone cambiano, le cose cambiano, succedono delle cose alle quali non si può rimanere indifferenti». La voce le si incrina e sente gli occhi pizzicare, ma fa finta di niente. Deve smettere di essere debole, non è da lei; è una cosa che, in questo momento, non può proprio permettersi, la debolezza.
Rain soppesa le sue parole, la preoccupazione che cresce nel petto e lo sguardo fisso su Nirvana.
Deve sapere.
Deve capire.
Deve.
«Cosa ti è successo, Nirvana?», sussurra quasi, cercando di usare il tono più dolce che riesce a trovare. Vuole aiutarla, ma lei deve contribuire; non può continuare a tenersi sempre tutto dentro, senza avere mai il coraggio di chiedere aiuto o di confidarsi con qualcuno. È sempre stata fin troppo orgogliosa per farlo.
«E’ solo che a volte ci si fida delle persone sbagliate», mormora Nirvana, con la sensazione di stare per cedere. Rain è l’unica a cui non ha mai saputo nascondere nulla, alla fine ha sempre ceduto e, lo sospetta, lo farà anche questa volta.
Rain la guarda attenta, ancora più preoccupata per l’amica. «Di chi ti sei fidata? Cosa ti hanno fatto?».
Nirvana resta in silenzio e scuote la testa, non ce la fa a dirlo ad alta voce, di nuovo. La bionda sospira alla sua reazione, «Dimmi qualcosa, voglio solo aiutarti, ma se tu non parli non so come fare».
E Nirvana resta ancora in silenzio.
Non ce la fa.
 
Euphemia giocherella con le melanzane che ha nel piatto, senza alzare lo sguardo e senza nemmeno prestare davvero attenzione alla discussione tra il padre e Nate. Li sente appena parlare di qualche campionato di football, ma non li ascolta davvero, ‘chè tanto sa che è solo un modo per spezzare il silenzio. Lei, comunque, non ha la minima intenzione di unirsi a questa o a qualunque altra conversazione. Detesta stare lì, non si sente proprio a suo agio.
Nate la guarda di sottecchi, di tanto in tanto, ‘chè vuole essere sicuro che stia bene. È preoccupato per lei, è innegabile.
«Tesoro, tu cosa mi dici?», l’attenzione del padre si rivolge finalmente su di lei. Euphemia deglutisce ‘chè di parlare con lui proprio non ha voglia e scosta con un gesto brusco il braccio dal tocco quasi affettuoso dell’uomo. Non vuole contatti di alcun tipo, con lui. Alza lievemente il viso, quanto basta per far scontrare gli occhi celesti, glaciali, con quelli del padre, «Non ho niente da dirti, David». Lo chiama per nome, ‘chè di chiamarlo “papà” nemmeno a parlarne, le vengono i brividi solo a pensarci, un senso di totale repulsione.
David sospira, ‘chè comunque lo sapeva che con Euphemia non sarebbe stato facile come con Nate, non è mai stata brava a perdonare, lei. Che poi nemmeno Nate l’abbia perdonato, è diverso. Quantomeno lui ci prova.
«Come stai?», chiede col tono quasi colpevole.
Euphemia stringe le labbra in un sorriso ironico e, giusto un po’, malinconico, «Come se ti importasse davvero», borbotta.
Nate si schiarisce la voce e il padre sospira di nuovo.
«Certo che mi importa, sei la mia piccolina», le dice usando il tono più dolce possibile e guardandola apprensivo.
La ragazza si lascia sfuggire un’amara risata di scherno, che in realtà serve solo a mascherare il dolore che i suoi occhi altrimenti tradirebbero, «Però non ti importava un po’ di tempo fa, no? Non ero la tua piccolina mentre mi rovinavi la vita? Mentre la rovinavi a tutta la famiglia?» sbotta, lasciando cadere la forchetta nel piatto con un fragore orribile.
David la guarda, serio, «Sai che non ne avevo intenzione, era un brutto periodo e non ero nelle condizioni migliori. Sai che non avrei mai voluto fare male a nessuno di voi».
Euphemia alza lo sguardo, lampeggiante stavolta, verso di lui, invasa un po’ dalla rabbia vera e propria e un po’ dal dolore che ancora ogni tanto si fa sentire; «Non me ne frega niente di quello che volevi o non volevi fare, non mi importa delle buone intenzioni che avevi, questo non cambia il passato. Non cambia niente», urla quasi, abbassando subito gli occhi sul piatto, ‘chè gli occhi lucidi mica li vuole fare vedere. Nate continua a rimanere in silenzio, sa che la sorella ha ragione, ma non vuole prendere parti. Il padre sospira, «Tesoro, ho fatto degli errori, ma capita a tutti farli. Prova a perdonarmi e a capire», chiede, quasi in supplica.
Euphemia scuote la testa, gli occhi che pizzicano sempre di più e quella ferita ancora aperta che pulsa. Si alza di scatto, facendo strisciare la sedia sulle mattonelle del pavimento, «Non ti capirò mai e nemmeno ti perdonerò. Puoi chiamare quanto vuoi, David, questa è l’ultima volta che mi vedi» urla presa dalla rabbia e esce quasi di corsa, prima dal salotto e poi dall’appartamento, sbattendosi la porta dietro le spalle.
E sul pianerottolo, mentre lascia sfuggire qualche lacrima, la mano corre al vecchio Blackberry e fa un numero a memoria. ‘Chè tutto quello di cui Euphemia ha bisogno adesso, è parlare con Michael.
 
Quando Ashton bussa alla porta di casa Wilson sono quasi le dieci di sera. È solo che aveva bisogno di vedere Rain, nemmeno lui sa perché.
È appena uscito dalla casa dei suoi genitori, quella dove è cresciuto, che sta proprio a due passi da quella dei Wilson e il senso di dover vedere la bionda l’ha oppresso a tal punto da obbligarlo, quasi, a suonare il campanello.
Che poi non si fosse mai sentito così agitato davanti la porta di quella casa, è un’altra cosa. Il fatto è che, da quando ha baciato Rain, non riesce proprio a pensare ad altro, non fa altro che rimurginarci sopra; e, si, si chiede anche cosa accidenti significhi quella stana sensazione che gli ha attanagliato lo stomaco. E prega, con tutto se stesso, che non sia niente di serio ‘chè, tanto, per Rain è solo una commedia per Isaac. E poi, prendersi una cotta per lei, è l’ultima cosa che gli serve.
«Ashton! Rain non mi aveva detto che saresti venuto», gli sorride Celia, corsa ad aprire la porta. Lui si stringe nelle spalle, «In realtà non dovevo, ma ero a cena dai miei e ho pensato di passare a fare un saluto».
Celia annuisce, scuotendo i capelli biondi, che sono giusto di una tonalità più chiari di quelli della sorella, e si sposta, facendo cenno ad Ashton di entrare; «Vieni, Rain arriva subito, sta finendo di farsi la doccia», lo informa.
«Rain! Muoviti! C’è Ashton!», grida poi, con la testa rivolta verso le scale. Da Rain arriva solo un verso incomprensibile in risposta, ma basta per fare ridere Ashton. «Disturbo?», chiede lui, titubante quasi, in direzione di Celia. Lei scuote la testa, mentre si trascina verso il salotto, «Ma no. Siamo solo io e Rain, stasera. Pensavamo di vederci un film, ti unisci a noi?».
Ashton si stravacca sul divanetto verde del salotto e annuisce, «Basta che non mi fate vedere di nuovo Dieci cose che odio di te o, peggio, Le pagine della nostra vita», mugugna con tono ironico. Celia ride mentre sparisce in cucina, «Sai che sono i preferiti di Rain. E i miei».
Il riccio alza le spalle, «Io non ho intenzione di vederli, ancora».
«Rain! Ti vuoi muovere?», urla di nuovo Celia, verso le scale, mentre torna in salotto. Lancia ad Ashton una lattina di Heineken e lui la prende al volo, guardandola con aria di scherno, «Non sei piccolina per bere?», indica con un cenno della testa la lattina che la bionda ha tenuto per sé.
Lei ride e, prima di buttarsi sulla poltrona che è sempre la sua quando si guarda un film, gli tira un pugnetto sul braccio, «Ho diciassette anni, coglione».
Ashton scoppia a ridere e, quasi, si strozza con la birra quando Rain gli si butta addosso. «Non mi avevi detto che saresti venuto!», gli strilla nell’orecchio stringendolo in un abbraccio affettuoso.
«Sorpresa», lui sorride e lei gli lascia un bacio sulla guancia. E questo, in diciassette anni, non gli ha mai fatto l’effetto che gli sta facendo ora.
E Celia, che l’ha sempre detto che, prima o poi, uno dei due ci sarebbe cascato, li guarda di sottecchi per tutta la durata della commedia stupida che hanno scelto. Li guarda, Rain seduta sulle gambe di Ashton ‘chè, anche se c’è tutto il divano a disposizione, così sta più comoda; stanno abbracciati per tutto il film, si danno i pizzicotti e ridono nello stesso esatto momento, anche per cose che in realtà non fanno ridere.
Celia li guarda tutto il tempo ed è innegabile che gli occhi cangianti di Ashton brillino.
 
Amethyst odia dover passare la serata da sola a casa con Calum, ma, visto che gli Scott sono alla fatidica cena e nessun altro dei suoi amici ha la serata libera, le tocca proprio. ‘Chè di andarsene da sola in giro non se ne parla proprio, le sembra una cosa così deprimente.
E poi, comunque, basterà stare in stanze diverse ed ignorarlo, giusto il tempo di trovarsi un nuovo appartamento che può permettersi di pagare e potrà andarsene da lì. E a mai più rivederci, Calum Hood.
Ha uno strano effetto su di lei, quel ragazzo, ed è meglio tenerlo a distanza, non ha alternativa.
Peccato che lui abbia deciso di accaparrarsi il divano del salotto e la televisione, quando in onda sta per andare il nuovo episodio di una di quelle sit-com idiote, che però ad Amethyst piacciono da morire. E al diavolo i propositi di evitarlo, questa sera.
«Mi serve la televisione, devo vedere una cosa», snocciola veloce, facendogli cenno con la testa di andarsene. Lui alza le spalle, togliendo il volume al programma che stava guardando, «Puoi stare, non mi dai fastidio». Un piccolo ghigno divertito gli spunta sul viso e lei non può fare altro se non alzare gli occhi al cielo. A volte, lo trova proprio irritante. «E se tu dessi fastidio a me?», chiede inarcando il sopracciglio scuro in un’espressione scettica.
Calum ride e alza le spalle, «Questo è un tuo problema, raggio di sole».
Amethyst stringe le labbra e alza gli occhi al cielo a quel soprannome, «Ti ho già detto di non chiamarmi così», mugugna, col tono gelido. Si siede sul divano, allungandosi per prendere il telecomando malamente abbandonato sul cuscino che li separa. Ma la mano di Calum la precede, fulminea, e lui ridacchia, «Forse possiamo scendere a compromessi, raggio di sole». Calca volutamente sul nomignolo e lei sbuffa, seccata.
«Sei irritante, lo sai?», sbotta incrociando le braccia sotto il seno.
Calum ride, «Si, me l’hai ripetuto tante volte da quando ci conosciamo», alza un sopracciglio e un sorrisetto divertito in viso. E Amethyst, anche se non lo ammetterebbe manco sotto tortura, lo trova proprio irresistibile, anche quando fa così.
«Ti diverte fare irritare la gente eh?», borbotta sarcastica, raccogliendo i capelli in una coda alta ‘chè fa seriamente troppo caldo.
Calum sorride, «In realtà mi diverte fare irritare te, raggio di sole».
Amethyst sbuffa, anche se non riesce a nascondere il sorrisino che le è spuntato, «Ti assicuro che ci riesci bene, Hood».
Lui si alza e le lascia il telecomando accanto, piegandosi per sussurrarle all’orecchio, «Martedì sera, alle otto».
Le lascia un bacio fulmineo sulla guancia, pericolosamente troppo vicino alle labbra e se ne va, lasciandola lì, senza darle nemmeno la possibilità di rifiutare. Anche se, a dire il vero, la voglia di rifiutare, Amethyst, non ce l’ha proprio.
 
 
 
 
Writer’s wall.
Ehilà.
Mi scuso per il ritardo, ma con la fine della scuola ero davvero stanca da morire e tra le altre cose poi non ho trovato un attimo per scrivere.
Allora vado parecchio di fretta ‘chè tra una mezz’oretta dovrei uscire e ancora devo prepararmi, perciò scusatemi se sono proprio di corsa.
Prima di scappare vi lascio il link della mia nuova long Carpe diem e di una nuova os su Michael Difetti.
A Michael, che oggi mi ha fatto prendere un colpo.
A C. che con lui ho proprio chiuso.
A L. e M. che mi fanno morire dal ridere.
Un bacio,
-Mars

 
 

 
  
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