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Autore: MadLucy    15/06/2015    1 recensioni
{Grindeldore | Dumblewald | Albus Silente/Gellert Grindelwald | Ariana!pov | 4 flashfics/one-shot | slash | Rowling made it canon | angst | broship | missing moments | backstory | hurt/comfort | RST | Ariana-Aberforth smarm | death | vignette | for the greater good}
Ariana poteva indovinare addirittura la brevissima pausa, l'aspettativa gonfia di trepidazione che aveva trattenuto la mano di Albus Silente, il lucore piretico nei suoi occhi iniettati di ludibrio e sfinimento, prima che posasse la piuma sul biglietto per Gellert e aggiungesse "ma non me ne dolgo, perchè se non fossi stato espulso non ci saremmo mai incontrati".
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Aberforth Silente, Albus Silente, Ariana Silente, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Altro contesto, Dai Fondatori alla I guerra
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Grindeldore
did I even ever cross your mind





#you like to say that you're right
La mente di Ariana Silente era affezionata a ciò che conosceva, e poco propensa ad accogliere estranei.
Aberforth, per esempio, era un postulato che non rinunciava mai a lei. Non sapeva perchè ci fosse, da dove venisse, ma si ripresentava con rassicurante frequenza. La costanza era importante. C'era un ritmo, una coreografia quotidiana di gesti e abitudini, che sfociavano quasi nella mania, ma che le permettevano di trattenere la coscienza tra le tempie.
Albus era anche lui suo fratello, ma era avvolto nella carta di riso, come il personaggio di una fiaba, che per esistere deve trovarsi alla giusta distanza dal resto dell'umanità. Compariva a sprazzi, una variabile lanciata in un dado, ma quando lo faceva quella presenza aveva un suo sapore, che Ariana poteva ricordare. Faceva spuntare minuscole farfalle azzurre dalla bacchetta, le faceva danzare attorno al suo viso. Ariana rideva, incerta. Solitamente le facevano paura le cose che si muovevano in fretta, ma l'azzurro le piaceva tanto.
«Meno stronzate e tagliati quei capelli» sbottava Aberforth in simili occasioni, fissando accigliato la scomposta, arruffata treccia che dondolava contro le sue anche come una corda di tende. Albus si limitava a sorridere, in quel modo suo; concedeva al mondo l'illusione di avere ragione, avvalorando le sue sentenze, come gli alchimisti rendono l'acqua oro. Nessuno ci credeva, ma Ariana capiva queste cose. Leggeva le alterazioni di umori, i movimenti delle aure, gli spostamenti dei fiati, la litania dei passi, le forme e sfregi delle fisionomie spiegazzate dal caso. Ne aveva il tempo, lo spazio. Studiava l'ambiente, si prendeva tutto degli indizi di cui il legno vibrava.
L'ombra dello sconosciuto era diversa da quella di Albus, agli antipodi di quella di Aberforth. Non zoppicava, non fluttuava, non strisciava vicino alla carta da parati e non dava la precedenza alla punta del piede rispetto al tallone. C'era quella nuova presenza invadente. Aveva una temerarietà fervida, una specie di rozza grazia che voleva inghirlandarsi di nobiltà ed allo stesso tempo era troppo violenta per suscitare ammirazione. Dopo qualche tempo per abituarsi, gli occhi di Ariana avevano cercato il loro budello di verità attraverso il buco irregolare delle serrature. Le era parso il protagonista di una storia del suo passato, quella del principe scontento, che nessun giullare riesce a far ridere e nessun amore riesce a far piangere. Attraente, dagli apollinei boccoli biondi, ma imbronciato. Ariana non sapeva chi fosse, e Aberforth non le svelava nulla, ma era evidente quanto lo detestasse. Quella vecchia non aveva altro da fare che mandarci quel delinquente, puzza di maledizioni senza perdono da qui ad Azkaban. Parole cadevano fra un colpo di spugna e l'altro, Ariana fissava la schiuma della vasca da bagno e pensava alle ombre. Le ombre d'ambra di Albus e del bel biondo, e quella cinerea di Aberforth. Temeva di sognare il fratello minore con un rasoio in mano, intento a seghettare il talento che gli mancava.
I moti diventarono regolari, misurabili, ritmo e coreografia integrante dello spettacolo di Ariana. Piedi su e giù per le scale ad orari circoscritti, voci a frequenze differenti. In mezzo a quella finzione di equilibrio ripristinato, le anomalie di Albus erano dati. Cosa vedeva? Qualcosa che Ariana sapeva di non vedere. Lì dove per lei c'erano riccioli, una corona.
«Quel Grindelwald dice solo balle» argomentava Aberforth, bofonchiando. Albus annuiva bendisposto.
«Ha la pregevole dote di non annoiare mai i suoi interlocutori con la banalità di qualcosa di verificabile, per così dire.»
«Ed è un dannato narcisista.»
«Sì, diciamo che va piuttosto orgoglioso della propria persona e delle proprie capacità, e questo potrebbe indurlo a osannarle più di quanto meriterebbero, a volte.»
Non c'era uno straccio di motivo per cui avrebbero dovuto brillargli gli occhi mentre lo diceva. Eppure.





# and you said I wasn't just like anyone
Nell'estate 1899 aveva fatto davvero caldo.
Adesso Ariana li vedeva entrare quando dava da mangiare alle capre. Se faceva la brava Aberforth le dava quei pugnetti di orzo sul palmo, lei schiudeva le dita una alla volta mentre quella lingua rasposa cercava il cibo. Intanto lo sguardo filava insieme alle chiacchiere e alle gambe leste di Albus e Grindelwald, il principe scontento. Loro non badavano molto alla sua presenza, per scelta o forse per disattenzione, non badavano molto a nulla. Aberforth storceva la bocca di ribrezzo, faceva finta di non vederli. Ormai non esplicitava più il proprio parere con Albus. Se avesse parlato, avrebbe detto quel genere di cosa che azzoppa un tavolo per sempre, e da allora non sarà più dritto, nemmeno se ci infili carte sotto.
«Fanno i morosi, si coprono di ridicolo» mugugnava «si toccano in continuazione. Grindelwald, poi» così Ariana era entrata in possesso del nome «gli rimesta sempre quei capelli, come se facesse il pane.»
Ariana Silente non sapeva cosa significasse fare i morosi, nè cosa comportasse un eccessivo contatto fisico fra persone non consanguinee. Non sapeva molte cose, ma in compenso ne sapeva altre. 
Il vento aveva succhiato via la porta dalla serratura, era schiusa. Ariana infilò l'occhio nella fessura. Quel che vide le tagliò il respiro, senza che ne capisse il motivo. Era come diceva Aberforth, ma in qualche modo diverso. Erano seduti sul letto. Albus, accovacciato sul materasso, con le ginocchia strette al petto magro, rivolgeva al ragazzo la spina dorsale, delicata come una radice di salice; Grindelwald era sollevato, con una gamba puntata sul letto e l'altro piede che dondolava fuori. Gli aveva tolto il laccio che assicurava la treccia. Gli la scioglieva piano, lento, gradatamente, maglia dopo maglia, disfacendo la trama con perizia. Aveva un'espressione assorta, intensa. Le falangi, lunghe e affusolate come zampe di ragno, di tanto in tanto fremevano. I fini, fragilissimi capelli rossicci, liberati dalla treccia, aleggiavano fievoli fino ai fianchi. Quello di Albus era un sorriso -il sorriso, il suo- minuto e arcano, come se rammentasse il solito segreto di cui chiunque altro era all'oscuro. Il fatto che fosse di spalle, che non si potessero guardare, che Gellert non cogliesse effettivamente quel sorriso, li rischiarava di un'intimitá sottile e inesprimibile, nella quale Ariana percepiva più trasgressione che in un fiotto di parole colpevoli, di sangue spanto. Sembrava un rituale, qualcosa di grande, enorme, una tempesta di elettricità; sembrava che come al solito si distaccassero dal mondo e lo schernissero dall'alto, da lontano, dalla loro sfera di attese e sottintesi. La ragazzina sentì freddo e caldo addosso, i palmi sudati.
Da allora, da quando era nella vasca e dava da mangiare alle capre e durante tutte le altre piccole occupazioni della sua giornata, Ariana intuiva. Il suo potere di sgranare la messa a fuoco di ciò che stava all'esterno si dilatò all'estremo, si superò, diventò preveggenza. Poteva figurarsi lo scroscio di pagine che si strofinavano quasi all'unisono durante i loro studi condivisi, gli occhi di Albus che sporgevano da sopra le lenti a mezzaluna per bearsi dell'attimo in cui Gellert si mordeva il labbro inferiore per la concentrazione, la risata azzardata sull'orlo della bocca del principe scontento mentre lambiva il bacino del suo compare e sussurrava possiamo essere solo noi Albus, nessuno può farlo al posto nostro. E ancora il rumore dell'imposta verniciata di bianco della finestra, in camera di Albus, che sbatteva fragorosamente contro il davanzale quando gli sfuggiva dalle mani -oh, quell'entusiasmo che fremeva nelle vene e faceva perdere la presa- dopo che, a notte fonda, aveva liberato il suo gufo affinchè tamburellasse il becco al vetro di Gellert, che lui presumeva ugualmente sveglio. Ariana poteva indovinare addirittura la brevissima pausa, l'aspettativa gonfia di trepidazione che aveva trattenuto la mano di Albus Silente, il lucore piretico nei suoi occhi iniettati di ludibrio e sfinimento, prima che posasse la piuma sul biglietto per Gellert e aggiungesse ma non me ne dolgo, perchè se non fossi stato espulso non ci saremmo mai incontrati.
Era estate, ma era anche una stagione che Albus Silente nei suoi diciassette anni non aveva visto, e che giungeva per non tornare. Lui non se ne curava, faceva l'avido, aveva quest'euforia estirpata dall'indole di una giovinezza che non gli apparteneva, quest'allegria stregata, se la incrociava dava ad Ariana un bacio sulla fronte. Lei lo fissava, grave -era una di quelle cose che lui non sapeva e Ariana sì, ma Albus non chiese mai a nessuno di svegliarlo.
Ariana li vedeva uscire quando si affacciava dalla cucina, a ora di cena, aiutava Aberforth ad apparecchiare e poi sgattaiolava per assistere al congedo del principe. Quel pomeriggio, Gellert Grindelwald scendeva le scale con sguardo di gesso. Albus gli toccò il polso. Gellert proseguì, Albus non lo trattenne, la mano scorse lungo il braccio, oltre il gomito, la spalla sgusciò per ultima.
Rimase contrito in cima a quelle scale, a guardarlo. Il clima cambiava e l'umidità dell'agosto che finiva chiamò la prima crepa.
Quando ormai aveva aperto la porta d'ingresso, Gellert percepì altri occhi e si voltò. Era una pressione che Ariana Silente non conosceva, dritta in cima all'anima, sul lembo più membranaceo e vulnerabile, sul ciglio della cassa toracica, indigeribile come un pugno piantato in gola. Era odio. Era una promessa.





#but you treated me just like everyone
Ariana aveva sentito l'odore delle valigie prima di vederle. Albus le aveva dissotterrate dalla cantina, due grossi rettangoli scuri. Ricordavano la cassa in cui sua madre era sparita, per questo lei aveva pianto. Il solstizio dell'illusione di Albus era ormai inoltrato, sempre più spole notturne di gufi, sempre più idee, sempre più pensieri, piume che grattavano freneticamente, quell'afa pesante che metteva la ragione da parte, che faceva cadere le vesti, che li voleva scriteriati, contravventori.
Fu Aberforth a decidere il giorno. Si era preparato le parole, era nervoso, sapeva che quei due erano capaci d'imbrogliarlo, di farlo inciampare, che approfittavano della materia grigia che ingrassava fra le loro tempie per farlo apparire nel torto. Aveva detto ad Ariana resta qui, nello stesso tono di quando lei spiava Albus e Gellert, e Aberforth la scovava e le diceva vieni qui. Quando si trattava di loro era sempre diverso. La porta non era chiusa a chiave. Ariana lo seguì, dopo aver sentito peste e corna aveva una paura matta che quei due facessero fallire la missione di Aberforth, qualunque fosse, ed era pronta all'ultimo momento a saltare fuori e gridare ha ragione lui! casomai servisse. Le parole non le venivano mai come voleva, ma se fosse stato per Aberforth avrebbe fatto uno sforzo, a costo di tacere per i prossimi dieci anni. Era una faccenda tremendamente seria, l'aveva inteso.
Ariana poteva benissimo visionarsi come era andata quella mattina, per Albus, prima che Aberforth salisse a bussare in camera sua. Gellert era rimasto per la notte a casa loro, perciò avevano fatto le ore piccole. Il principe in fondo era un pigro, avrebbe volentieri dormito prono e scompigliato fino a mezzogiorno, ma alle sei Albus lo scuoteva, gli saliva sulla schiena con le ginocchia fino a farsi mandare a quel paese. Gli doveva indicare una nota a piè di pagina di un libro, la formula rivisitata di una pozione, un cavillo nelle norme che regolavano i rapporti tra maghi e babbani, una meraviglia di questo genere. E come sempre Grindelwald restava colpito, rivolgeva un'occhiata di enfatica ammirazione al viso di Albus -già irradiato da un discreto compiacimento- e diceva è fantastico. Pausa drammatica, fingeva di pensarci su: tu sei fantastico, bacio sulla bocca. I cervelli possono anche funzionare in modo differente, ma i cuori all'incirca sono tutti uguali, un tasto di qua, una corda di là. E poi era venuto il fratello deficiente a rovinare la luna di miele.
Ariana stentava a stare dietro ad un discorso così lungo e complicato, ma sentiva pronunciare il suo nome diverse volte dalle labbra di Aberforth. In mezzo alle spine, ai rovi di minacce e avvertimenti, a quell'irta sequela di suoni aspri e duri, Ariana, con l'inflessione di levità e deferenza dei sacerdoti pagani verso uno spirito dell'acqua. Aberforth che l'aveva desiderata sempre, quella famiglia scombinata ma sua, ed al cui centro aveva sempre posto la sorella pazza. Mentre Albus era lì, a rimuginare se restare per sempre o non vederli mai più. La costanza era importante, una delle cose che Ariana sapeva meglio. Grindelwald sorrideva, finalmente soddisfatto, mentre finiva il maleficio della sua angoscia: stava per ottenere ciò che voleva. E allora ci fu l'estremo istante dell'ebbrezza, quando sei ad un picco così elevato che non puoi nemmeno muoverti per voltarti, guardare giù e rimuginare di scendere, il più in alto possibile per non sopravvivere in caso di caduta, ci fu quel battito di ciglia, quella pulsazione di cuore in cui Albus fu completamente suo. Guardò negli occhi Ariana, e lei si sentì addosso per la seconda volta nella sua breve vita l'odio -che non attaccava come quello di Grindelwald, ma affossava, toglieva la terra sotto i piedi, scardinava lealtà e scuoteva fondamenta, quell'odio che scaturisce da un amore come il fumo dal fuoco. Ariana ebbe paura. Della sua scelta. Che fosse necessario scegliere. Che l'esito fosse troppo ovvio, e troppo facile.
All'improvviso, la scena cambiò e nessuno sorrise. Gellert Grindelwald non era mai stato un tipo paziente, il discorso aveva preso una piega che faceva breccia nell'eccitazione di Albus, una falla di rimorso nelle mura di marmo del palazzo reale in cui il principe voleva incoronarlo re. Ariana sentì il corpo diventare strano e spiacevole, come una macchina che si surriscalda e scotta i propri ingranaggi. Il sangue petrolio nelle vene, le viscere che si aprivano. Nella sua mente Grindelwald era come le sabbie mobili, come quella volta che l'aveva fissata e odiata, come quella in cui le aveva abbrancato il polso e sibilato che le avrebbe fatto fare una brutta fine, a lei e quell'altro minorato mentale. Ariana ebbe l'impressione che la promessa stesse per essere mantenuta. Il panico la ghermì da ogni parte, con le mani di Grindelwald, le infilò le dita negli occhi e nella bocca. Barcollò fuori dal proprio nascondiglio, verso il disordine.
Era Albus quello che aveva fatto una brutta fine. La mano che muoveva la bacchetta e la lingua che pronunciava incantesimi erano parti distinte da lui, lontane chilometri. In verità se il principe avesse ucciso suo fratello non avrebbe reagito, non avrebbe fatto niente, non avrebbe mosso un muscolo né un pensiero, figuriamoci un anatema. Pareva supplicare uccidi tutti, radi al suolo questa casa, poi uccidi anche me, così morirò nel dormiveglia, senza essermi del tutto reso conto di quello che hai fatto, quello che hai insultato. Esorcizzava da sè le impurità, il piacere che Gellert Grindelwald aveva stillato dal suo corpo, l'infima bassezza di sudare nudi l'uno contro l'altro in quei letti da ragazzini. Prima era qualcosa di solenne e inevitabile, adesso diventava la prostituzione più economica del secolo. Ma Ariana non cercava la sua mano, cercava quella ruvida e screpolata di Aberforth, quella che si faceva strada tra i suoi capelli di notte per placare i tremiti, quella che era tanto larga e forte da contenere la sua e nasconderla, quella che l'aveva sempre salvata dalle mani degli altri, e che adesso voleva essere lei a sottrarre al pericolo, anche se le faceva male dappertutto e la testa girava. Colse lo sguardo di Aberforth, caduto a terra, che sollevava appena il mento, radunava le sue ultime forze per allungare la mano e respingere idealmente il movimento della sorella, mentre Albus guardava Gellert Grindelwald e scopriva di amarlo ancora.
Poi Ariana sentì il silenzio colmarle i polmoni, lampante, come quando si apre un paracadute e il tracollo in picchiata diventa un volteggiare floreale. Il silenzio le assicurò che Albus non sarebbe scappato di casa con il suo principe dal sorriso felino e Aberforth non ne sarebbe stato cacciato da dentro un grande rettangolo nero, che nessuno avrebbe più combattuto quella notte. Il silenzio era verde ed era tanto grande da uscire dal suo campo visivo, invadere la cornea, propagarsi oltre il limite circolare e ristretto della pupilla, entrarle nelle orecchie e cantare nel suo cervello.



#just got cheated on
Albus scosse la testa. «Checchè se ne dica, sono sempre stato per certi versi precoce, e per altri molto lento.»
Ariana inclinò la testa da un lato, facendo sfregare le piegoline auree dei suoi crini eternamente fanciulleschi sulla manica a sbuffo del vestito azzurro. Non era d'accordo. Era semplicemente convinta che suo fratello avesse ben chiaro ciò che non voleva capire. Lui riprese a parlare, con voce lenta, quasi affaticata.
«A volte mi chiedo quante persone sarebbero ancora vive se quel giorno la maledizione avesse colpito lui. Se avrei dovuto augurarmelo. O se quello colpito dovessi essere io. Se posso fare ammenda, per non essere stato io
Nessuna risposta.
«Non puoi più rimandare» disse la ragazzina, con voce vitrea ma chiara, ferma come in vita non lo era mai stata.
«Oh, lo so» replicò Albus. «Ma solo contemplandoti ho realizzato quanto la mia missione sia urgente. Grazie, Ariana.»
Il sorriso che le rivolse assomigliava a quello di un tempo, ma era greve di cordoglio: un dolore sincero, ma soppesato ormai dall'esterno, come se appartenesse a qualcun altro. E nei suoi occhi, dello stesso colore di quelli di Aberforth, la vita aveva dovuto scavare molto a fondo per trovare la stessa dolcezza. Però ce l'aveva fatta.
Albus si allontanò, dirigendosi alla porta e rammentando a se stesso che sarebbe stato meglio se suo fratello non l'avesse sorpreso lì, nella sua locanda. Poi si fermò e si girò, raggiunto da uno scrupolo.
«Non lo ucciderò.» Non era una domanda, ma aveva una cadenza leggermente interrogativa, come se avesse bisogno del conforto di una garanzia.
«No,» concordò Ariana, restituendo un sorriso di filigrana, «non lo ucciderai.»
Albus annuì con il capo, alleggerito o forse appesantito. Nessuno dei due aveva l'aria di sapere se fosse un bene o un male, ma semplicemente constatavano che sarebbe andata così.
L'estate più calda che si ricordasse, quella del 1899, era passata, ormai era il 1945 e faceva freddo.



































Note dell'Autrice: Seconda puntata di Ritorno di fiamma nei fandom più remoti. Tantissimi, inarrestabili feels Grindeldore dopo la scoperta -ritardataria, sì- della conferma della Rowling. Mi stavo proprio dicendo che c'era troppo poco slash canon in HP, e arriva lei a migliorarmi l'estate. Grazie. *ma lo si sapeva che Silente era gay dai <3*
Il titolo dell'intera storia e delle varie flash-one shot sono tratte dalla canzone #ican'teven dei The Neighbourhood.
Buona estate e grazie per aver letto. Le recensioni sono come sempre ottimamente gradite ;)
Lucy
  
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