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Autore: mikimac    15/06/2015    1 recensioni
Sherlock si è lanciato dal tetto del Bart's, fingendo il proprio suicidio,
Prima di partire per la sua missione e distruggere l'organizzazione di Moriarty, Sherlock confessa a Mycroft di amare John e gli fa promettere di prendersi cura di lui, fino al suo ritorno.
Mycroft prende la propria promessa così sul serio, che si innamora lui stesso di John.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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The Sign of Three

Sherlock è tornato e non sono più in due.

Ringrazio chi stia leggendo questa storia e chi se la sia segnata.

Buona lettura. J

 

 

The Sign of Three

 

 

John stava baciando Sherlock.

Quando si rese pienamente conto di cosa stesse accadendo, John spinse Sherlock lontano da sé.

Lo fissò per qualche interminabile secondo, per essere sicuro che non fosse un sogno o che non fosse qualcuno che gli stesse facendo uno scherzo di cattivo gusto.

“John. – sussurrò Sherlock, con voce bassa e calda – Sono così felice di vederti. Non ho fatto che pensare a te, in questi due anni. Ti amo tanto e sono tornato per te, da te, per sempre.”

Il primo pugno di John partì senza che nemmeno lui si rendesse conto di cosa stesse facendo.

Colpì Sherlock in pieno viso.

Sherlock non cadde e guardò John sorpreso.

Con il secondo pugno lo prese ad una spalla.

Il terzo arrivò allo stomaco, togliendo il fiato al più giovane degli Holmes.

Prima che John colpisse Sherlock per la quarta volta, il maggiordomo e l’autista di Mycroft riuscirono a bloccarlo.

John si dibatté nelle loro braccia per qualche minuto:

“Tu … maledetto bastardo … tu …” respirava a fatica e non riusciva ad articolare una frase completa.

Mycroft gli fu accanto immediatamente:

“John, calmati. – gli disse preoccupato, ignorando il fratello minore sanguinante – Posso spiegarti, ma calmati, rischi di stare male.”

John ansimava, ma non tentò più di liberarsi.

Ad un cenno di Mycroft, i due uomini lasciarono John e si allontanarono da lui.

John sapeva esattamente cosa stesse facendo quando fece partire il pugno che colpì Mycroft in piena faccia.

Il maggiordomo e l’autista bloccarono nuovamente John, ma non fu il pugno a far stare male Mycroft.

Fu lo sguardo di John, quello che lo colpì più duramente.

Non c’era più traccia dell’amore e dell’affetto che quegli occhi gli avevano dimostrato fino a qualche minuto prima.

John lo stava fissando furioso, ferito e, soprattutto, deluso.

 

 

Si erano spostati in salotto.

L’autista di Mycroft stava sorvegliando John, per impedirgli di continuare a prendere a pugni i due Holmes.

Il maggiordomo era andato a prendere del disinfettante e del ghiaccio per i due fratelli.

John era seduto su una poltrona, la schiena rigida, i pugni stretti, il fiato corto.

Mycroft e Sherlock erano seduti sul divano, il più lontano possibile l’uno dall’altro.

Ogni tanto lanciavano un’occhiata preoccupata a John, ma nessuno dei due riusciva a reggerne davvero lo sguardo.

Troppo infuriato.

Troppo ferito.

Il silenzio era pesantissimo.

Si sentiva solo il respiro irregolare e rumoroso di John.

Fu il maggiordomo a parlare per primo.

Si avvicinò a John, gli porse del ghiaccio per la mano e chiese, con voce dolce:

“Dottor Watson, posso prepararle un the?”

John alzò appena gli occhi:

“Grazie Andrew, ma è meglio di no. Temo che lo vomiterei.” la voce era rauca, come se volesse urlare, ma si trattenesse dal farlo.

Il maggiordomo non disse altro e si mise di fianco alla poltrona del dottore.

“Perché.” chiese John con voce tesa, a nessuno dei due Holmes in particolare.

“Moriarty aveva incaricato dei cecchini di uccidere te, Lestrade e la signora Hudson, se non mi fossi suicidato. – rispose Sherlock – Ho dovuto stare al suo gioco per salvare le vostre vite …”

“Chi lo sapeva?” lo interruppe John.

Silenzio.

“Chi era al corrente del vostro piano!” ripeté John con maggiore irritazione.

“Molly …” iniziò a rispondere Sherlock.

“Molly Hooper?” chiese John con un filo di voce, come se potessero esserci altre Molly disposte ad aiutare Sherlock, nel suo folle piano.

“Sì, Molly Hooper.” confermò Sherlock con stizza.

John emise una specie di lamento, mentre gli passava per la mente l’immagine di Molly che, piangendo, al funerale di Sherlock, gli porgeva le condoglianze.

Si ricordò di come le avesse sorriso e l’avesse consolata.

“HO CONSOLATO MOLLY E LEI SAPEVA CHE SHERLOCK FOSSE VIVO E VEGETO!!”

Chissà come aveva riso alle sue spalle di povero stupido credulone.

“Chi altro?” sibilò fra i denti.

“Alcuni dei miei irregolari.” rispose Sherlock riluttante.

“Quanti?” la rabbia stava tornando sempre più in superficie.

“Oh, ma che importanza ha?” sbottò Sherlock.

“QUANTI!” urlò John.

“Venticinque.” borbottò Sherlock.

John spalancò gli occhi:

“Venticinque?” chiese incredulo.

“Sì, venticinque.” mormorò Sherlock in un tono appena udibile.

John scattò in piedi, con le braccia tese, strette lungo i fianchi:

“MOLLY HOOPER E VENTICINQUE PERFETTI SCONOSCIUTI HANNO SAPUTO PER DUE ANNI CHE TU FOSSI VIVO ED A ME NON HAI DETTO MEZZA PAROLA?!”

Il maggiordomo e l’autista si mossero in modo impercettibile, pronti a bloccare qualsiasi mossa del dottore.

John, però, non fece un passo verso i due Holmes.

“Non sono perfetti sconosciuti. – protestò Sherlock – Ho scelto persone fidate, naturalmente.”

Il cuore di John mancò un colpo e si lasciò cadere sulla poltrona:

“Quindi io non sono una persona di fiducia. – disse in tono stanco – È per questo che non meritavo di sapere la verità. Perché non vi fidate di me.”

“No! Non ho detto questo!”

Sherlock si alzò per andare da John e prenderlo fra le braccia, ma venne bloccato dallo sguardo che il dottore alzò su di lui.

Il sangue gelò nelle vene di Sherlock.

Non c’era più rabbia, in quegli occhi azzurri del colore dell’oceano.

C’erano un dolore ed una delusione così grandi, che Sherlock capì quanto il cuore di John fosse stato spezzato dalle sue azioni e dalle sue parole.

Non sapeva più cosa dire.

Per la prima volta in vita sua, Sherlock Holmes, il più brillante ed intelligente consulente investigativo al mondo, non sapeva che cosa dire.

“Allora che cosa sono per voi? – chiese John a voce bassissima – Un giocattolo che potete passarvi come se nulla fosse, per potervi divertire?”

Lo sguardo ferito passò dal minore al maggiore degli Holmes.

“No, John. – rispose con voce strozzata Mycroft – Non sei un giocattolo! Io …”

“Spero di avervi divertito. – lo interruppe con tono brusco John e si alzò – Ora, dovrei andare al lavoro. Fatemi il favore di non cercarmi. State fuori dalla mia vita. Non voglio vedervi mai più.”

Senza più guardare nessuno dei due fratelli, John si diresse verso la porta d’ingresso, seguito dal maggiordomo e dall’autista.

Prima di uscire, tolse una chiave dal proprio mazzo e la porse ad Andrew:

“Le chiedo un favore, Andrew. Potrebbe mettere le mie cose in una valigia e farle portare al mio appartamento? Le sarei molto grato se mi evitasse di tornare qui.”

“Come lei desidera, dottor Watson.” rispose Andrew gentilmente.

“La accompagno in ospedale.” si offrì l’autista.

John sospirò:

“Grazie, Peter, ma non è necessario. Posso chiamare un taxi.”

L’uomo aprì la porta a John:

“La accompagno in ospedale. – ripeté con gentilezza – Appena Andrew avrà preparato le sue cose, gliele porterò all’appartamento.”

John costrinse la bocca a fare un sorriso tirato:

“Grazie. Ad entrambi.”

Ed uscì dalla casa di Mycroft, senza voltarsi indietro.

 

 

Sherlock e Mycroft erano rimasti soli nello studio.

Non si guardavano né si parlavano.

Dopo un periodo di tempo che sembrò eterno, Sherlock spostò lo sguardo sul fratello, arrabbiato:

“Perché lo hai fatto venire qui, ma non lo hai preparato a quello che stava per succedere?”

“Ieri sera ti ho chiesto di rimanere nel rifugio sicuro, fino a quando non avessi avuto il tempo di sistemare alcuni dettagli. – rispose Mycroft arrabbiato – Ho stupidamente pensato che per una volta in vita tua facessi quello che ti avevo domandato. Se tu non avessi preso l’iniziativa di venire a casa mia, avrei potuto preparare John all’incontro e sarebbe tutto andato molto meglio. Ma tu no! Tu hai dovuto fare di testa tua!”

“Non potevo certo immaginare che John fosse qui! – ribatté Sherlock nello stesso tono – E poi, cosa voleva dire con quella frase sul fatto che lui sia il giocattolo che ci siamo passati?”

Mycroft non rispose subito.

Sherlock strinse gli occhi e fissò il fratello maggiore:

“Sto aspettando una risposta.” disse in tono irritato.

Mycroft guardò Sherlock:

“John non era qui per caso. Gli ho chiesto di venire a vivere qui, con me.”

Sherlock alzò un sopracciglio:

“Hai fatto bene, così John è stato più al sicuro, mentre io ero in missione.”

Mycroft scosse la testa:

“Non hai capito. – disse a voce bassa e tesa – Non ho fatto venire John a vivere con me perché fosse più al sicuro, ma perché mi sono innamorato di lui ed abbiamo una relazione.”

Mycroft aspettò che Sherlock reagisse.

Sherlock non realizzò subito cosa gli avesse detto il fratello.

“Hai una relazione con John?” chiese Sherlock, come se la cosa fosse uno scherzo.

“Da quasi un anno.” rispose Mycroft.

Sherlock capì che il fratello non stesse scherzando.

L’espressione del suo viso passò dalla sorpresa alla rabbia:

“HAI UNA RELAZIONE CON JOHN?!” urlò incombendo sul fratello.

Mycroft non si mosse dal divano:

“Non è una cosa che io abbia pianificato. – si difese – È successa e basta.”

“Dopo che IO ti ho detto che amo John e che sarei tornato da lui, TU ti sei INAVVERTITAMENTE innamorato di lui? – ribatté Sherlock in tono sarcastico – TU! L’uomo di ghiaccio. Quello che per tutta la mia vita ha detto che i sentimenti non sono un vantaggio. TU ti sei innamorato di JOHN!”

“Esatto. – sospirò Mycroft – E non ho alcuna intenzione di chiedere scusa a TE, per questa cosa. Non l’ho fatto apposta. L’unico a cui devo delle spiegazioni è John, se mi vorrà ascoltare e mi vorrà ancora nella sua vita.”

“Certo che non ti vorrà. – sbottò Sherlock – Io sono tornato.”

 “E pensi che tutto si metterà magicamente a posto solo perché sei tornato? – chiese Mycroft con una risata amara – Agli occhi di John siamo colpevoli entrambi ed allo stesso modo.”

 “Ti sbagli Mycroft. – ribatté Sherlock fissando il fratello con sguardo duro – Io sono quello che ha finto il proprio suicidio per salvarlo. Tu sei quello che ha approfittato del suo dolore per portarselo a letto. Quando John rifletterà bene su tutto quello che è successo negli ultimi due anni e sulle motivazioni che hanno spinto noi due a fare quello che abbiamo fatto, deciderà di stare con me.”

“Oppure ci butterà fuori entrambi dalla propria vita.” controbatté Mycroft, sostenendo lo sguardo del fratello.

Sherlock non aggiunse altro e se ne andò.

 

 

John era arrivato in ospedale e si stava dirigendo verso il proprio ambulatorio, quando si accorse che le gambe non lo reggevano.

Gli girava la testa e non riusciva a respirare normalmente.

Si appoggiò con una mano alla parete e chiuse gli occhi, concentrandosi sulla respirazione.

In pochi secondi venne avvicinato da infermieri e colleghi:

“John cosa ti senti?” stava chiedendo una voce lontana, che Watson sapeva di dover conoscere, ma che non riusciva ad identificare.

“Sto bene. – tentò di rispondere John – Lasciatemi in pace.”

Le parole, però, gli uscirono dalla bocca inarticolate.

Le gambe non sostennero più il peso e John si lasciò cadere.

Fortunatamente, braccia robuste lo sorressero prima che potesse battere la testa in terra.

John cadde in un mondo di oscura incoscienza.

 

 

Quando si riprese, era sdraiato su un letto d’ospedale e attaccato a dei monitor.

Girando lo sguardo intorno, vide Sarah che stava controllando una cartella clinica.

“Conosco quello sguardo. – disse John con un filo di voce – Lo fai sempre quando hai davanti degli esami che ti preoccupano.”

Sarah gli fece un sorriso e si avvicinò a lui:

“Come ti senti?”

“So cosa hai visto in quegli esami. – disse John – Sono un medico anche io, ricordi?”

Il sorriso scomparve dal viso di Sarah, sostituito da uno sguardo addolorato:

“Da quanto lo sai?”

“Da circa un mese. – rispose John – I primi sospetti li ho avuti alcuni mesi fa, così sono andato in un altro ospedale, in cui ero sicuro che nessuno mi conoscesse, e ho fatto dei controlli. Non ho avuto bisogno di un consulto per valutarne gli esiti.”

“Ti sei fatto visitare da qualcuno, però.” volle assicurarsi Sarah.

“Sì. Mi ha parlato del trapianto, naturalmente, ma sai come vanno queste cose. Sono lunghe.”

“Perché non me lo hai detto?”

“Non sono ancora alla fase terminale. – le sorrise John – E volevo prima parlarne con Mycroft.”

“Lui lo sa?”

“No. – John distolse lo sguardo e lo spostò per guardare fuori dalla finestra – Oggi è tornato Sherlock.”

Sarah cercò di nascondere la preoccupazione per quello che John aveva appena detto, pensando che si trattasse di una allucinazione causata dalla malattia.

“Non è stata una visione. – disse John, come se le avesse letto nella mente – Lo ho anche preso a pugni.”

Sarah stava per ribattere, quando sentirono un certo trambusto provenire dal corridoio.

John riconobbe le voci di Mycroft e Sherlock, che stavano litigando.

Afferrò Sarah per un braccio:

“Non voglio che sappiano che cosa stia succedendo e non voglio vederli. Soprattutto non ora.”

“Li mando via.” lo tranquillizzò Sarah ed uscì dalla stanza.

 

 

Sherlock e Mycroft erano giunti in ospedale a pochi minuti l’uno dall’altro in cerca di John.

Entrambi volevano parlargli per spiegargli la propria versione dei fatti.

L’infermiera di turno al banco dell’accettazione lanciò loro un’occhiata preoccupata. La giovane donna conosceva Mycroft perché nell’ultimo anno era passato diverse volte a prendere John e stava per informarlo del fatto che il dottore fosse stato ricoverato per un malore, quando era arrivato anche Sherlock ed i due fratelli avevano iniziato a litigare.

“Ora smettetela! – si intromise Sarah con un tono molto irato – Questo è un ospedale. Per litigare, potete andare fuori!”

“Sono qui per vedere John.” disse Sherlock voltandosi verso Sarah.

“Anche io.” si intromise Mycroft.

“John non vuole vedere voi due. – ribatté Sarah – Ed ora capisco anche il perché.”

“Non hai il diritto di impedirci di vedere John.” sibilò Sherlock.

“Certo, hai ragione. – rispose Sarah, incrociando le braccia – Andate pure. Date spettacolo. Mettete in imbarazzo John. Ne sarà deliziato. Sappiamo tutti come John ami mettere in piazza le sue questioni personali, vero?”

I due uomini si bloccarono sul posto.

Sarah aveva ragione.

Qualsiasi cosa avessero fatto, John si sarebbe sentito messo in imbarazzo davanti ai suoi colleghi e non avrebbe reagito bene.

Non era proprio il caso di farlo arrabbiare ancora di più.

Mycroft e Sherlock fissavano Sarah, risoluta più che mai a proteggere John da loro.

Alcune guardie di sicurezza si avvicinarono a lei:

“Dottoressa Sawyer ha bisogno di aiuto?” chiese quello che ne sembrava il capo.

Sarah non si voltò verso di lui, ma continuò a fronteggiare i due Holmes:

“Signor Meyer, questi due signori stanno cercando il dottor Watson, ma lui non vuole vederli. È troppo impegnato, capisce?”

L’uomo si avvicinò minaccioso ai fratelli Holmes:

“Se il dottor Watson non vi vuole fra i piedi, è meglio che ve ne andiate con le buone o lo farete con le cattive.” il tono di voce dell’uomo era tranquillo, ma si capiva che avrebbe messo in atto la sua minaccia senza problemi.

Sherlock stava osservando Sarah:

“John sta bene?” chiese preoccupato.

Sarah era consapevole di chi avesse davanti. Aveva visto Sherlock all’opera e sapeva che non poteva ingannarlo:

“Certo che no, con te che torni dall’aldilà e tuo fratello che gli ha mentito per due anni, come potrebbe stare bene!” disse, sperando che la mezza verità potesse nascondere le reali condizioni di John.

Sherlock la fissò perplesso, ma non aggiunse altro.

“Ce ne andiamo. – intervenne Mycroft – Potrebbe riferire a John che può contattarci quando vuole?”

“Lo farò.” disse Sarah, rilassandosi appena un po’.

I fratelli Holmes uscirono dall’ospedale, senza rivolgersi la parola, andando ognuno per la propria strada.

 

 

Sarah entrò nella stanza di John. Sembrava che Watson stesse dormendo, ma aprì gli occhi:

“Grazie per averli fatti andare via.” disse con un sorriso.

“Basta una tua parola e li faccio anche picchiare. – scherzò Sarah – Non potevo credere che Sherlock fosse davvero vivo! Come hanno potuto farti una cosa così? Sono dei mostri!”

John spostò lo sguardo verso la finestra:

“Sono le due persone più importanti della mia vita. – sussurrò – Sono i due uomini che amo. Forse è per questo che il mio cuore vuole smettere di battere. Perché non potrei mai decidere con chi stare dei due.”

Sarah appoggiò una mano al braccio di John:

“Non meritano il tuo amore, la tua amicizia e la tua lealtà. – sibilò cercando di nascondere la rabbia che provava – Dovrebbero esserci loro su questo letto, non tu.”

John si voltò verso di lei:

“Ho già perso Sherlock una volta. Non sopporterei di vederlo morire ancora o di assistere al lento spegnersi di Mycroft. Va bene così, Sarah. Ho avuto i miei momenti di felicità. Non ho rimpianti. Non sono mai stato tanto felice e vivo, come in tutto il periodo che ho trascorso con quei due uomini. Non cambierei nulla. Questo non significa che non sia arrabbiato con loro. Lo sono ed anche tanto. Però, questo non cambia il fatto che io li ami. Entrambi.”

Sarah abbassò gli occhi per non far vedere a John le lacrime che faceva fatica a trattenere.

“Ti lascio riposare. – riuscì a mormorare, sperando che la voce non tremasse troppo – Torno a trovarti più tardi.”

John le fece un cenno di sì con la testa e chiuse gli occhi.

 

 

Erano trascorse due settimane dal ritorno di Sherlock.

John non aveva risposto alle sue telefonate ed ai suoi messaggi.

Sherlock aveva evitato di cercarlo di persona, perché non sapeva bene come gestire quello che stava accadendo. Si era aspettato che John lo accogliesse a braccia aperte, accettando di ricominciare la loro vita da dove la avevano lasciata la notte prima che lui inscenasse il proprio suicidio.

John si stava dimostrando irrazionale nel suo ostinarsi a non voler parlare con lui.

Quella mattina, Sherlock si era alzato senza grandi aspettative, annoiato e scontroso.

Si era trascinato dalla camera da letto al divano, su cui si era sdraiato, fissando il soffitto.

Non si era nemmeno vestito, ma si era solo infilato la vestaglia viola.

Il campanello della porta suonò.

Nessuno andò ad aprire.

Il campanello suonò ancora.

“Signora Hudson! – urlò Sherlock irritato – Il campanello!”

Dentro la casa regnava il silenzio.

Solo il campanello continuava a suonare.

Sherlock, arrabbiatissimo, si precipitò giù per le scale e spalancò la porta.

John alzò gli occhi su di lui:

“Buongiorno Sherlock, ti disturbo?” chiese con un mezzo sorriso.

John si sentì analizzare dagli occhi di ghiaccio di Sherlock.

Era una cosa a cui era abituato, perché sapeva che Sherlock lo osservava in continuazione per dedurne lo stato d’animo e le condizioni fisiche.

“Non stai bene.” sentenziò Holmes, con una traccia di preoccupazione nella voce.

“Ho dormito poco. – rispose John – Del resto, voi due Holmes non mi avete reso la vita facile.”

Sherlock continuava a scrutare John cercando di valutare se gli avesse detto la verità.

C’era qualcosa che lo disturbava nell’aspetto di John, ma non riusciva a capire cosa fosse.

L’abbigliamento era curato, come al solito, ma le occhiaie erano profonde e John sembrava molto stanco.

“Posso entrare o pensi di tenermi sulla porta ancora a lungo?” chiese John con un sospiro.

Sherlock si fece subito da parte:

“Scusa. Entra.”

Mentre John si avvicinava alle scale, Sherlock ne studiò l’andatura e vide che stava leggermente zoppicando.

Di nuovo.

John sapeva che Sherlock avrebbe notato che zoppicasse e lo prevenne:

“Sì, mi fa di nuovo male la gamba. E sì, è solo un disturbo psicosomatico. Qualche ragione di stress psicologico penso di potermela permettere, dopo quello che mi avete fatto tu e Mycroft, non credi?”

Il tono di voce di John non era arrabbiato od irritato, ma stava solo constatando qualcosa di ovvio.

Sherlock annuì con la testa, ma non ribatté.

Seguì John, facendo attenzione che non cadesse per le scale, dato che non aveva il bastone.

Arrivati nel salotto, John ne studiò la disposizione.

Erano anni che non vi metteva piede.

Tutto era rimasto come se loro due fossero sempre vissuti lì.

La poltrona di John.

La poltrona di Sherlock.

La scrivania nel caos più completo.

Il teschio sopra la mensola del camino.

Il divano con la coperta attorcigliata.

Lo smile giallo dipinto sulla parete.

I fori di proiettile sul muro, sublime dimostrazione della noia di Sherlock.

John si andò a sedere nella propria poltrona e Sherlock in quella di fronte a lui, le gambe accavallate, le mani con i polpastrelli uniti sotto la punta del naso.

John fissò il proprio sguardo negli occhi di Sherlock:

“Perché?” chiese semplicemente.

Sherlock lo guardò un po’ confuso:

“Cosa vuoi sapere di preciso?”

“Perché mi hai detto di amarmi, hai fatto l’amore con me ed hai finto di suicidarti, facendo sì che io assistessi alla tua morte? Hai una vaga idea di quello che mi hai fatto?”

Nella voce di John continuava a non esserci rabbia.

Sembrava rassegnato.

“No. – rispose sinceramente Sherlock – Non capisco cosa tu abbia provato, ma posso dirti cosa siano stati per me questi due anni senza di te. Sono sempre stato solo, non ho mai avuto tanti amici ed ero abituato ad essere considerato un mostro. La cosa non mi dava fastidio, fino al giorno in cui tu sei entrato nella mia vita. Tu non mi hai mai considerato strano. Tu mi vedevi non solo come se fossi stato normale, ma addirittura meraviglioso. Amavo il tuo sorriso ed il tuo modo di guardarmi, quando risolvevo un caso o ti spiegavo qualcosa. Non sei mai stato veramente irritato dal mio tono supponente, ma eri davvero e sinceramente curioso di capire come fossi arrivato ad una certa conclusione. Nessuno lo aveva mai fatto per me. Tu ti sei interessato a me e ti sei preso cura di me. Hai fatto da intermediario fra me e quel mondo che ho sempre considerato noioso e banale, facendomi capire che, a volte, sbagliavo. Hai permesso a me di comprendere cose della gente comune che non avevo mai preso in considerazione e hai fatto sì che il resto del mondo non mi vedesse solo come un mostro insensibile. Amavo il tuo blog, perché riuscivi a spiegare come io vedessi l’umanità senza farmi apparire distaccato ed arrogante. Per me sei diventato indispensabile, come l’aria che respiro. Quando mi sono accorto di amarti, non potevo credere che avrei potuto perderti. Non sarei mai riuscito a sopravvivere senza tutto quello che tu mi avevi donato, senza chiedere nulla in cambio. Prima di partire per la mia missione dovevo dirti cosa provassi per te, perché dovevo sapere se tu ricambiassi i miei sentimenti. So che ti può sembrare un gesto egoistico e, quasi sicuramente, lo è stato. Però non hai idea di cosa sia significato per me sapere che mi amavi. Mi ha dato una ragione in più per vivere, per tornare a Londra, da te, per te. Questo, però, non mi impedito di sentire la tua mancanza. A volte mi sono sorpreso a parlarti, come se tu fossi stato lì, accanto a me. Perché tu c’eri, John. Ci sei sempre stato. Eri con me, dentro di me. Quando mi sembrava di essere in un vicolo cieco e non vedevo la fine di quello che stavo facendo, pensavo a te, al tuo sorriso, al tuo calore e trovavo l’energia per andare avanti. Perché concludere significava tornare da te. Ho dovuto farti credere di essere morto perché dovevo essere sicuro che nessuno ti facesse del male, mentre ero lontano. So che hai visto tutto questo come una mancanza di fiducia in te, ma tu non sei così bravo a mentire, John. Se gli uomini di Moriarty avessero avuto anche solo il più piccolo sospetto che fosse stata una messinscena, ti avrebbero ucciso. Ed io non potevo permetterlo. La tua sicurezza è sempre stata più importante della rabbia che puoi provare per me. Preferisco perderti, ma saperti vivo, che correre il rischio di farti uccidere.”

Sherlock finì il proprio lungo monologo.

John lo aveva ascoltato, senza mai interromperlo.

“Quel giorno mi hai ucciso con te. – mormorò – Non hai idea dell’inferno in cui ho vissuto, pensando di non essere riuscito a proteggerti e salvarti. La mia mente capisce le tue ragioni, ma il mio cuore è andato in pezzi, Sherlock, e non sono sicuro di riuscire a rimetterne insieme le parti.”

John si alzò e fece per andarsene.

Sherlock scattò in piedi, ma non cercò di bloccarlo.

“John!”

Watson si fermò, tenendo la mano sulla maniglia della porta.

“Non ti chiederò scusa. – disse Sherlock a voce bassa – Non ti dirò che mi dispiace. So di averti ferito e che hai sofferto molto, per colpa mia, ma non posso chiederti scusa. Se mi trovassi nelle stesse identiche circostanze, lo rifarei. Nello stesso modo. Se per tenerti in vita devo farmi odiare da te, non mi importa. Non c’è niente … niente John … assolutamente niente di più importante per me che saperti vivo. Puoi stare con Mycroft, se vuoi. Puoi odiarci e cacciarci fuori entrambi dalla tua vita, se ti fa sentire meglio. A me basta sapere che il tuo cuore batta. Farei qualsiasi cosa per te. Io ti amo, capisci? E non so farlo in modo diverso.”

John non si voltò.

Avrebbe voluto ridere e piangere.

Era tutto così assurdo!

Sherlock aveva rischiato la propria vita per un uomo che stava morendo.

“Anche io ti amo, Sherlock. – sussurrò con una voce così bassa da essere appena udibile – Però non basta, Sherlock. A volte l’amore non basta.”

Aprì la porta ed uscì zoppicando, lasciando Sherlock nel silenzio e nella disperazione.

 

 

Poche ore dopo, John suonava al campanello della porta di casa di Mycroft.

Andrew gli aprì e lo accolse con un sorriso:

“Buongiorno, dottor Watson. È un piacere rivederla. Si accomodi. Il signor Holmes mi ha preannunciato il suo arrivo e lui stesso sarà qui fra poco.”

“Buongiorno anche lei, Andrew. – lo salutò John, ricambiando il sorriso – Gli ho mandato un messaggio e mi ha detto che sarebbe arrivato presto.”

Andrew fece accomodare John in salotto.

Pochi minuti dopo, si presentò con un the:

“Spero che lo gradisca, in attesa dell’arrivo del signor Holmes.”

“Grazie Andrew. – rispose John – Lo prendo volentieri. Lei mi ha sempre viziato.”

“Questa casa è vuota, senza di lei, dottore.” disse Andrew e lasciò solo John con il proprio the.

Una mezz’ora dopo, Mycroft entrò in salotto trafelato.

John alzò gli occhi su di lui e vide che si rilassava:

“Il traffico di Londra è tremendo. – esordì Mycroft, andando a sedersi di fronte a John – Temevo che fossi andato via.”

John appoggiò la tazza del the sul vassoio:

“Non credo che Andrew me lo avrebbe permesso. – sorrise – E, comunque, sono qui per parlare.”

Mycroft scrutò con attenzione John:

“Sei stanco. – disse preoccupato – Stai bene?”

John tenne gli occhi fissi in quelli di Mycroft:

“Come potrei stare bene dopo quello che mi avete fatto tu e Sherlock? – sbottò irritato – Sherlock ha inscenato il proprio suicidio davanti a me. Tu … tu …”

John si interruppe, come se non riuscisse ad andare avanti.

“Io ti amo. – disse Mycroft – Non ho potuto evitarlo.”

“Tu mi hai mentito! – sibilò John – Posso intellettualmente capire le ragioni di Sherlock, anche se non approvo quello che ha fatto, ma tu … tu mi hai guardato negli occhi e mi hai spudoratamente mentito, approfittando del mio dolore per la perdita di TUO fratello. Come hai potuto farmi questo, Mycroft? Credi che quello che mi hai fatto possa essere giustificato chiamandolo amore?”

John non aveva urlato, ma la voce era tesa come se lo stesse facendo.

Il fiato corto e gli occhi furiosi, fecero sentire Mycroft come se John lo avesse colpito fisicamente.

“Stavo proteggendo Sherlock e la sua missione. – ribatté Mycroft – E te. Avrei tanto voluto dirti la verità, ma avrei messo in pericolo entrambi e non potevo permetterlo.”

“Siamo stati insieme per un anno, Mycroft! – esplose John – Un anno di menzogne!”

“Non ho mai mentito quando ti ho detto di amarti e che ci sarei sempre stato per te.”

“Non fare della semantica con me, va bene? – ribatté John – Sai benissimo che dire ti amo non giustifica tutto quello che si fa al proprio partner. Ci sono mariti che picchiano le mogli e poi dicono loro che le amano moltissimo, ma questo non giustifica le botte.”

Mycroft abbassò lo sguardo. Non gli piaceva essere paragonato ad un marito violento, ma la similitudine rendeva quanto si sentisse ferito John.

“Potrei dire che mi dispiace, ma so che non sarebbe sufficiente, vero? – chiese, appoggiandosi allo schienale della poltrona – Inoltre, non sarebbe vero. Non posso scusarmi per il fatto di essermi innamorato di te, John. La cosa ha sorpreso anche me, perché pensavo di essere immune da questo sentimento.”

“Stai insinuando che sia colpa mia? – sbottò John con un risata strozzata – Stai per accusarmi di avere sedotto entrambi i fratelli Holmes per rovinare il loro idilliaco rapporto?”

“Assolutamente no! – rispose Mycroft – Non sto dando la colpa a te. Nessuno è responsabile di quello che è successo. È accaduto e basta. Lasciamocelo alle spalle ed andiamo avanti.”

“Il nostro rapporto è basato solo su delle menzogne.” John scosse la testa.

“Non puoi dimenticare e darmi la possibilità di ricominciare tutto da capo?” chiese Mycroft.

“Temo di no.” rispose John, che si alzò per andarsene.

Mycroft gli prese il polso:

“So di averti ferito e tradito. Mi dispiace tantissimo averlo fatto. Vorrei che lo cose fossero andate in modo diverso, ma possiamo mettere tutto a posto. Dimmi cosa posso fare per farti tornare e lo farò.”

John sospirò:

“In amore non si dovrebbe mai dire mi dispiace, Mycroft.” sussurrò John guardandolo negli occhi.

Mycroft lasciò andare lentamente il polso di John.

Rimasero un attimo in silenzio. Mycroft tornò a fissare John negli occhi:

“Mi hai mai veramente amato, John? – domandò con un filo di voce – Oppure hai sempre amato Sherlock, attraverso me?”

Mycroft si aspettava che John diventasse furioso, voleva che sfogasse la sua rabbia e la sua frustrazione, in modo che capisse quanto fosse inutile essere arrabbiato e potessero ritornare insieme, invece la sua voce era solo stanca e triste:

“Se mi fai questa domanda, Mycroft, significa che non hai mai capito nulla di me.”

“Allora, rimani, parliamo. Noi siamo una coppia. Insieme possiamo superare qualsiasi cosa. Non sarà facile, lo so, ma possiamo farcela. Insieme.”

“Non abbiamo altro da dirci, per ora.” rispose John.

“Io ti amo, lo sai, vero?” chiese Mycroft.

“Sì, lo so. – rispose John con tono amaro – Anche io ti amo, Mycroft, ma amare a volte non basta.”

John uscì dalla casa, lasciando Mycroft solo e disperato.

 

 

Era trascorsa una settimana da quando John aveva fatto visita ai due fratelli Holmes.

Non aveva più contattato nessuno dei due.

Loro gli avevano mandato qualche sporadico messaggio, ma John non aveva risposto.

Quel giorno, con loro grande sorpresa, ricevettero entrambi lo stesso messaggio:

 

[11.30] Oggi pomeriggio. Ore 17. Captains Cabin. JW

 

 

Alle 17 in punto i tre uomini erano nel bar, in un angolo appartato, per poter parlare tranquillamente.

“Scusate se vi ho costretti a venire in un bar e vi ho mandato un messaggio all’ultimo minuto. – esordì John – Qui mi sento più a mio agio che parlare con voi in casa di uno di noi. Inoltre, visto che siamo in un luogo pubblico, spero che si riesca a parlare da persone civili.”

“Faremo di tutto per non metterti in imbarazzo o ferirti ancora.” assicurò Mycroft.

“Non stai bene.” affermò Sherlock con tono preoccupato.

“In effetti è della mia salute che vorrei parlare con voi.” confermò John.

“Sei malato.” nella voce di Sherlock, la preoccupazione si stava sostituendo al panico.

Mycroft passò lo sguardo da John a Sherlock, poi ancora a John:

“Era questo che volevi dirmi! – esclamò Mycroft, ricordando come John avesse cercato di parlare con lui, prima del ritorno di Sherlock – Non volevi lasciarmi, ma dirmi che non stai bene.”

“Quanto è grave?” chiese Sherlock.

“Abbastanza.” rispose John.

Stava per aggiungere qualcosa, quando Sherlock e Mycroft lanciarono un urlo.

Sul petto di John era apparsa una lucina rossa, che poteva voler dire solo una cosa: un tiratore scelto aveva inquadrato il proprio bersaglio nel mirino e stava per sparare.

Prima che uno dei tre uomini potesse reagire in qualche modo, la lucina rossa sparì, lasciando al proprio posto una macchia di sangue che iniziò ad allargarsi sempre più.

Sul viso di John apparve un’espressione stupita, come se non capisse cosa stesse accadendo.

Sherlock gli fu subito accanto e lo afferrò, prima che cadesse in terra.

Lo tenne tra le braccia, sostenendone la testa e chiamandolo disperatamente:

“John, non morire. Non lasciarmi, ti prego. Resta con me. Non chiudere gli occhi. Guardami. Andrà tutto bene. John, ti amo.”

Mycroft si era inginocchiato di fianco a John e gli aveva preso la mano:

“Resisti. – sussurrò – Andrà tutto bene. Ti salverai. Come potremmo sopravvivere senza te che ci prendi a pugni? Non lasciarmi John. TI amo.”

John sorrise, ma fu difficile farlo, perché sentiva una grande stanchezza:

“Anche io vi amo. – sussurrò con un tono di voce così basso da essere quasi inudibile – E vi amerò per sempre.”

John Watson chiuse gli occhi.

Aveva un sorriso dolce sulle labbra.

Nessuno avrebbe detto che fosse morto.

 

 

Non sparate sull’autrice! J

 

 

Non ho proprio potuto evitare che la storia prendesse questa strada.

A volte capita di essere un po’ angst

J

 

“The Sign of Three” mi sembra che non abbia bisogno di molte spiegazioni: i tre sono John Watson ed i due fratelli Holmes.

 

So che qualcuno potrebbe obbiettare che così John non scelga.

Però voi, nella stessa situazione di John, sapreste davvero scegliere chi amate di più dei due?

È trascorso pochissimo tempo dal ritorno di Sherlock (tre settimane), è possibile per una persona sensibile come John Watson stabilire i confini dei propri sentimenti per due persone tanto importanti per lui in così poco tempo?

 

Per la cronaca: secondo Google Maps, il locale in cui si incontrano “Captains Cabin” esiste veramente.

 

Resto in attesa dei vostri commenti!

 

A giovedì per l’ultima puntata. J

   
 
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