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Autore: HannibalLecter    15/06/2015    0 recensioni
Londra, Regno Unito. Cecilia, quasi medico, soprannominata Voldemort, a causa del suo gatto Draco e dei suoi comportamenti a volte aggressivi e psicotici, sopravvive grazie alla scorta di gelato nel suo freezer, alle serie Tv che le fanno trascorrere notti insonni e ai suoi amici, tutti più sciroccati di lei. C'è Noel, suo coinquilino gay, isterico e vanesio, batterista chiassoso e commercialista da strapazzo che tiene sotto controllo le spese di tutti tranne le sue, la sua amica Sienna, logorroica e fashion victim senza speranza di guarigione, i fratelli Adam, egocentrico e mono neuronico, dotato però di una voce stupenda, e Hannah, ecologista, vegetariana, animalista, femminista e qualsiasi cosa finisca con -ista e implichi cortei di protesta, incatenamenti ai cancelli del parlamento, scioperi della fame o incursioni notturne per liberare le foche dello zoo, Sebastian, cugino altolocato e insopportabilmente saccente e poi c'è Ezra che non somiglia per nulla a Derek Shepherd, Jon Snow o Matthew Crawley eppure fa ballare lo stesso il flamenco agli ormoni di Cece con le sue fossette e i suoi accordi di chitarra.
Di che cosa parla veramente questa canzone? Di tutto ciò e di niente di tutto ciò.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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So che eravate molto in ansia per la sorte del povero Draco ma ci tengo a rassicurarvi: proprio ora quell'infido essere felino, dopo la notte in compagnia del bel veterinario, se ne sta spaparanzato a pancia in giù sul tappeto intento a strafogarsi di tartare al salmone.

Eh si, perché il piccolo principino mangia solo il pesce più pregiato e costoso e beve solo il latte più fresco e proveniente dalla mucca più giovane e in salute.

Con Noel non parlo da stamattina quando abbiamo litigato per decidere chi dovesse andare a ritirare il nostro cucciolotto dallo studio del bel dottorino e il tutto si è concluso con lui che mi chiudeva in casa, dopo essersi assicurato che tutte le chiavi fossero in suo possesso, e io che gli rivolgevo i peggiori improperi del mio repertorio.

Oggi è sabato e fortunatamente non sono di turno in ospedale. Credetemi, amo medicina con tutta me stessa ma questo tirocinio mi sta prosciugando tutte le energie ed è riuscito a scalfire persino il mio, fino ad ora, inattaccabile entusiasmo verso la professione.

Grey's Anatomy è la serie Tv più illusoria di sempre. Niente Dottor Stranamore ma primari vetusti ed indisponenti che pensano di governare il mondo. Niente Cristina, George, Izzie e Alex che ti supportano e condividono con te notti insonni di guardia, cuori infranti, bocciature agli esami e strigliate da parte dei responsabili ma spietati avversari con cui gareggiare in modo sleale e meschino per riuscire ad ingraziarsi lo staff del proprio reparto. Altro che Hunger Games, la voglia di arrivare in vetta, essendo disposti a calpestare chiunque si interponga, che caratterizza i tirocinanti di medicina li supera di gran lunga.

Grazie al cielo mi mancano solo pochi mesi alla laurea perché altrimenti avrei commesso sul serio un omicidio e la vittima designata sarebbe stato sicuramente Charles Cocco Di Papà Wilkinson, figlio del nostro docente di riferimento e nipote del direttore del nostro ospedale. Sguardo sprezzante, camice sempre perfettamente inamidato, dall'alto del suo scranno di boria e alterigia passava le sue giornate a denigrarci e a ripetere il suo mantra preferito: «Non sono un raccomandato». Ogni volta che lo diceva potevo quasi vedere una freccia luminosa con scritto BUGIA che indicava nella sua direzione.

Uno scampanellio mi distolse dai miei cupi pensieri e mi ricordò che era quasi mezzogiorno e io ero ancora in pigiama e a stomaco vuoto.

Ciabattai fino alla porta dove, non appena sollevai il citofono, lo schermo mi mostrò i visi sorridenti di Sienna e Adam.

Pigiai il pulsante di apertura del portoncino d'ingresso, socchiusi la porta e mi diressi in bagno.

«La porta è aperta!», strillai sentendo dei passi, mentre mi sciacquavo rapidamente il volto e legavo i miei capelli troppo lunghi in uno chignon spettinato.

Mi infilai le lenti a contatto, indossai un paio di pantaloni della tuta, una felpa scolorita della Gap e trotterellai in salotto.

«Ecco i tuoi soliti tre quintali di posta», esclamò Sienna appoggiando sul tavolo della cucina una pila pericolante di buste, dépliant e riviste.

Come sempre era vestita in modo poco appariscente: cappotto color carota, stivali dal tacco vertiginoso e abitino giallo canarino. La cosa sorprendente era che stava benissimo nonostante i colori chiassosi e l'asimmetria dei suoi capi.

Sbuffai recuperando la tovaglia dal cassetto sotto al gas. «Noel e la sua brutta abitudine di lasciare il nostro indirizzo ad ogni negozio per ricevere il catalogo a casa...», spiegai scocciata.

Tutto ciò mi costringeva ad andare a gettare la carta ogni due giorni.

«Toelettatura per serpenti a sonagli?», ridacchiò Adam mostrandomi un piccolo fascicolo ancora nel cellophane pescato a caso dalla pila.

Scossi la testa esasperata mentre spostavo tutto quel cumulo di cartacce a cui mi sarei dedicata più tardi in camera mia.

«Dov'è Hannah?», domandai tornando in cucina.

Hannah e Adam si sopportavano a fatica eppure facevano quasi sempre tutto insieme.

«Da Oliver»

«Quando si decideranno a convolare a nozze?», sbottò Sienna, «Voglio avere una scusa per comprarmi un abito di Chanel per essere una damigella meravigliosa», concluse piroettando.

«Come se ti servisse una scusa...», borbottai posando con malagrazia tre piatti sul tavolo.

«Ehi, Voldemort è di cattivo umore, temete oh babbani!», esclamò Adam scrutandomi beffardo.

Sapevo benissimo che era inutile prendermela per un piccolo ed insignificante screzio con Noel ma ogni volta che ci trovavamo in disaccordo lui spariva e io mi rannuvolavo.

Eravamo peggio di quelle coppie sposate da cinquant'anni; borbottavamo, non ci sopportavamo, bisticciavamo eppure non riuscivamo a stare lontani troppo a lungo.

Se a Noel fossero piaciute le donne e non i bei veterinari e se io avessi avuto un debole per le checche isteriche saremmo stati una coppia perfettamente assortita.

«Noel non c'è», constatò Sienna con la testa dentro il frigo.

«Avete litigato!», gongolò Adam, contento di aver scoperto la causa del mio broncio, «Siete così tenerelli quando vi evitate e fate i sostenuti l'uno nei confronti dell'altro quando invece vi mancate e siete dispiaciuti...», mi prese in giro.

«Io non sono dispiaciuto!», protestò con voce capricciosa Noel, appena entrato dalla porta d'ingresso.

Non osava guardarmi negli occhi e si limitava a fissare la tavola apparecchiata per sole tre persone.

Vidi il suo viso oscurarsi e dopo aver fatto un cenno rapido per salutare i nostri due ospiti si voltò e poco dopo sentimmo la porta del bagno sbattere con forza.

Sienna mi strappò di mano la pentola che avevo appena recuperato dalla lavastoviglie e mi ordinò imperiosamente: «Vai»

Mi voltai verso Adam in cerca di supporto ma lui si strinse nelle spalle e mi indicò la porta dietro cui Noel era sparito.

Sbuffando e mormorando vari insulti poco carini nei confronti dei due traditori marciai verso il bagno e arrivata di fronte alla porta feci un respiro profondo ed entrai.

Un denso vapore mi accolse in quello che sembrava essere diventato un angolo di foresta pluviale in quanto ad umidità elevata. Avevamo anche una scimmia che si stava lavando quindi eravamo piuttosto fedeli all'ambientazione originale.

«Mi sto facendo una doccia», constatò incolore la voce di Noel proveniente da dietro la tenda rosa shocking che lo nascondeva alla mia vista.

«Davvero?», chiesi sogghignando, «Pensavo stessi frignando di nascosto perché sai benissimo di essere in torto stavolta e stavi pensando a quale meravigliosa e costosissima borsa potresti regalare alla sottoscritta per ottenere il mio perdono...»

Spense l'acqua e lo sentii afferrare un barattolo, probabilmente di shampoo.

«Io con te non ci parlo», mugugnò imbronciato.

Noel che puntava i piedi e si comportava da bambino cocciuto era semplicemente adorabile. E ancora più adorabile era il fatto che non fosse in grado di fare l'offeso per più di un'ora.

Mi sedetti sul water aspettando pazientemente il momento, ormai vicino, in cui sarebbe scoppiato e avrebbe ricominciato a parlarmi come faceva sempre. Potevo quasi percepire lo sforzo immane che stava facendo per restare impassibile mentre ogni fibra del suo essere moriva dalla voglia di raccontarmi cosa era successo dal veterinario.

«Pranzi con noi?», buttai là vagamente mentre mi fissavo lo smalto sbeccato sulle unghie.

Silenzio.

«È arrivata la posta e con essa il nuovo numero di Elle e Marie Claire...», ritentai.

Nulla.

Mmh, per farlo scattare avevo bisogno di qualcosa che lo interessasse sul serio. Mi guardai intorno cercando uno spunto e lo sguardo mi cadde sullo sgabello accanto al lavandino, sgabello su cui erano riposti, perfettamente ripiegati e in ordine, un paio di pantaloni neri e un cardigan blu notte.

Idea luminosa!

«Stavo pensando che, poiché la tua stanza è più grande della mia, io avrei diritto a più spazio di te nella nostra cabina armadio», mormorai a mezza voce sperando con tutta me stessa in una reazione, «Credo sposterò tutte le tue scarpe in cantin-»

«NO!», strillò spalancando la tenda e mostrandosi in tutta la sua meravigliosa nudità.

Saltai in piedi e mi misi ad applaudire e saltellare felice.

«Smettila di fare la foca scema e passami un asciugamano», borbottò cercando però di nascondere un sorriso.

Gli lanciai il suo accappatoio Ralph Lauren di morbidissima spugna grigio perla e poi gli saltai amorevolmente al collo.

«Adam ha ragione a chiamarti Voldemort...sei perfida», mormorò dandomi un bacino sulla fronte.

Gli scompigliai i capelli e gli sorrisi malefica: «Lo so, infatti se fossi in te una controllatina alle tue scarpe la darai ugualmente...non si sa mai»

Saettai fuori dal bagno prima che avesse il tempo di assimilare la notizia e di tramortirmi colpendomi alla testa con il barattolo alquanto pesante della sua preziosissima crema idratante Lancôme.

«Ceciliaaaaaaaa, io ti ucciderò prima o poi!», mi raggiunse la sua minaccia urlante mentre raggiungevo sana e salva la cucina.

«Afefe faffo pace?», mi domandò subito Adam con la bocca piena di patatine.

«Dio, Adam! Sei rivoltante!», strillò schifata Sienna mentre spegneva i fornelli e afferrava un sottopentola.

«Sienna, amore mio, non c'è bisogno che mi chiami Dio, per te posso essere solo Adam...», la rimbeccò cercando di suonare lascivo e malizioso.

Sienna gli tirò una scappellotto e ci richiamò tutti a rapporto per pranzare.

***

Due orette più tardi ero seduta sul mio letto intenta ad aprire e catalogare le mille buste arrivate per posta. Sienna era sparita quasi subito dopo pranzo mormorando qualcosa riguardo a dei saldi imperdibili in un grande magazzino del centro mentre Adam aveva rapito Noel per le solite prove del sabato pomeriggio.

Erano tutti eccitati perché era la prima volta che avrebbero suonato nuovamente con un tastierista, che avrebbe fatto anche da seconda voce, da quando Jack se n'era andato tre mesi prima.

I ragazzi ci avevano invitato, o per meglio dire ordinato, di fare un salto più tardi e di portare le pizze.

Sospirai mentre mettevo in cima alla pila di buste vuote e carta straccia l'ennesimo volantino di pubblicità destinato a finire nella spazzatura.

Strappai distrattamente l'ultima busta della giornata pensando già alla visita che proprio oggi avrei dovuto fare ai miei cari ed adorati genitori.

Sperai con tutta me stessa che mia madre fosse di buon umore e ben imbottita dei suoi farmaci in modo da evitarmi i suoi spaventosi sbalzi d'umore e i suoi discorsi sconclusionati riguardo alla vita da pezzente che conducevo.

 

Gentili Mr. Donovan e Ms. Lawrence,

dopo i molti solleciti fatti Loro pervenire mi trovo costretto a tentare per l'ultima volta a trovare un punto d'accordo in modo cortese e civile prima di passare ad azioni legali e conseguente sfratto forzato.  La quota mensile dell'affitto comprensiva delle spese condominiali è, come pattuito tre anni fa, di 750 sterline. Purtroppo è da ormai cinque mesi che ricevo solamente la metà della somma accompagnata da bigliettini temporeggiatori ricchi di promesse, mai mantenute, di un pareggio delle spese nei tempi più rapidi futuri. Mi dispiacerebbe essere costretto a mandarvi via, siete sempre stati due giovani perbene, educati e responsabili, ma non posso fare altrimenti. Questo è il mio ultimo avvertimento: uomo avvisato...

Cordialmente,

K. F. Hunting

 

Passarono due minuti buoni prima che riuscissi a capire pienamente cosa significasse quella lettera.

Già vedevo la gioia incontenibile di Mamma nel potermi finalmente avere di nuovo tra le sue grinfie laccate di rosso fuoco Chanel e di Papà nel riavere la sua principessina a casa. Probabilmente mi avrebbe comprato un pony, convinto com'è che io abbia cinque anni e mi diverta ancora a giocare al cavalluccio sulle sue ginocchia.

Dovevo chiamare Noel. Subito.

Il numero da Lei chiamato non è al momento raggiungibile, La invitiamo a riprovare più tardi.

Dopo l'ennesima nenia ripetuta dalla voce registrata persi la pazienza e corsi nell'altra camera per vestirmi e raggiungere il prima possibile quell'idiota del mio coinquilino che presto si sarebbe trovato o a fare il barbone sotto il Tower Bridge o a fare da dama di compagnia a Madre e alle sue amiche del circolo del bridge o da facchino al campo di golf di Papà.

Mi infilai velocemente un pesante maglione rosso, un paio di jeans e i miei anfibi neri. Gettai rapidamente cellulare, chiavi e portafogli nella tracolla di cuoio e dopo essermi avvolta nel mio cappotto di tweed e  nella mia sciarpa grigia ed argento dei Serpeverde mi apprestai ad affrontare il gelo londinese.

Le prove avvenivano nella cantina della villetta degli Spencer che si trovava a tre fermate di metro dal mio appartamento. I genitori di Hannah e Adam erano stati nei tempi della loro ormai lontana gioventù i classici hippie tutti pace, erba, musica e amore libero ed erano stati gli unici a mostrarsi entusiasti all'idea di avere una sala prove in casa. Ai miei non lo avevo neanche proposto perché sicuramente loro mi avrebbero affittato la più bella e la più costosa tra le sale prove di Londra.

Le note di Luna dei Bombay Bicycle Club mi accolsero ancor prima di suonare il campanello.

«Cecilia tesoro!», mi accolse Mrs. Spencer gettandomi le braccia al collo e stritolandomi in un abbraccio soffocante.

L'espansività e affettuosità della madre di Hannah mi avevano sempre spiazzata e messa un po' a disagio. Probabilmente questo mio problema derivava dalla mia infanzia e dalla quasi totale assenza di contatto tra me e mia madre che l'aveva caratterizzata. Ricordo benissimo le braccia paffute e soffici e il seno morbido e prosperoso di Consuelo, la tata cilena, che mi cullava per tempi infiniti quando mi aggrappavo a lei come una scimmietta. Mi pequeño koala mi chiamava sempre quando la cingevo stretta stretta e non la lasciavo andare più. Mamma l'aveva licenziata poco dopo quando aveva scoperto che quando veniva a prendermi all'asilo, invece di filare dritte a casa, ci formavamo a giocare al parco pubblico per un'oretta. Consuelo aveva pianto, io avevo pianto e Mamma aveva continuato indignata a borbottare tra sé che erano cose da pazzi, portare una piccola bambina delicata come me in mezzo a batteri e sporcizia. Avevamo ettari di giardino, che bisogno c’era di fermarsi in un sudicio parchetto nei sobborghi?

«I ragazzi sono di sotto», mi informò allontanandosi e iniziando ad aiutarmi a levarmi il cappotto, «Ma immagino lo abbia sentito da te…», concluse ridacchiando tra sé facendo riferimento al volume spaccatimpani della musica proveniente dal piano sotto ai nostri piedi.

La loro cantina non era neanche insonorizzata eppure Hazel Spencer non faceva una piega, come se avere i Vampire Weekend che risuonavano a mille decibel per casa fosse una cosa normalissima. Mamma si imbottiva di Xanax anche solo per sopportare il coro natalizio di bambini che ogni anno alla vigilia aveva l’ardire di suonare al cancello e di farsi a piedi il mezzo kilometro buono che lo separava dalla porta d’ingresso.

«Mi fermo solo un attimo», spiegai per evitare di apparire antipatica e scortese, «Devo tornare a casa oggi pomeriggio», mi scusai.

Mrs. Spencer non commentò e gliene fui immensamente grata. Lillian Lawrence non era propriamente la tipica mamma con cui scambiare due pettegolezzi mentre si era in fila ai colloqui generali o con cui organizzare sedute di yoga al parco. Avevo frequentato le scuole più prestigiose di Londra, a mio avviso i posti peggiori del mondo. Figli di papà ovunque, smorfiose bamboline con troppa fretta di crescere e professori così accondiscendenti nei confronti dei rampolli delle famiglie londinesi da risultare viscidi e assolutamente poco professionali.

Hannah l’avevo conosciuto quando in quinta elementare io e Sienna fummo beccate a scrivere con una bomboletta blu elettrico un gigantesco BITCH sull’auto della nostra vice preside che voleva obbligarci ad iscriverci alla sua associazione di beneficenza nei confronti dei bambini meno fortunati. Detto così sembrerebbe un puro atto vandalistico ma se voi foste stati presenti ad una di quelle manifestazione di infinita ‘bontà d’animo e generosità’ avreste capito e sostenuto me e Sienna. Gli alunni della nostra scuola, vestiti di tutto punto con la divisa perfettamente in ordine, andavano in una qualsiasi scuola pubblica in periferia, nella periferia di Londra non del Burundi, il ché avrebbe certamente avuto più senso, e, dopo un discorso intriso di falsa commozione e finto orgoglio della vice preside, distribuivamo tra i banchi quaderni, matite e cancelleria varia. Era insopportabile. Lo sguardo con cui quei bambini, nostri coetanei, accettavano i nostri schifosissimi regali era insopportabile. Quello che facevamo, o meglio ci obbligavano a fare, non era generoso ed altruistico, no, era solo un modo per mettere in evidenza il fatto che noi, figli di membri del parlamento, di luminari nel campo della medicina, di uomini importanti della City, di eminenti avvocati eravamo superiori a loro, poveri piccoli bimbi sfortunati, nati da semplici impiegati, operai e casalinghe. Odiavo fare tutto ciò. Odiavo quando squadravano le mie scarpe alla bebè di lucidissima vernice che probabilmente valevano quanto mezzo stipendio mensile dei loro padri, scarpe che io non sopportavo e avrei volentieri lanciato fuori dalla finestra o dato loro in cambio di un paio di Converse fasulle comprate per dieci sterline da Selfridges. Odiavo i sussurri che si scambiavano alle nostre spalle. Mi sentivo assolutamente inadeguata. Mi vergognavo di appartenere a quella gente e quando tornavo a casa sulla Mercedes con l’autista e mia madre mi chiedeva «Allora sono stati contenti dei vostri gentili doni quei poveri bambini sfortunati?», stavo ancora peggio.

Vi confesso che quelle scarpe lucidissime le regalai ad un senzatetto il giorno dopo quella terribile esperienza in un attimo di distrazione da parte della mia severissima tata tedesca. A Mamma raccontai di aver scordato dove fossero finite e lei scrollò le spalle dicendo che ne avremmo comprato un modello per bambine più grandi. Era quello l’atteggiamento che mi irritava. Perdevo qualcosa: scrollatina di spalle. Tanto lo si poteva ricomprare.

Tornando a noi: Sienna e io fummo ‘punite’ e così per tre mesi dovemmo andare ad aiutare la squadra dei giardinieri comunali a prendersi cura delle aiuole di Hyde Park. Hannah ai tempi era una bellissima e simpaticissima bambina di dieci anni tutta ponchi dai colori improbabili e sorrisi. Lei era lì di sua spontanea volontà: adorava la natura e voleva dare una mano per abbellire la sua città. Non si pose nessun problema la prima volta che ci vide nei nostri cappottini Burberry scaricate da una Porsche fiammante. No, lei ci salutò felice e si presentò abbracciandoci, tratto che aveva ereditato dalla madre a quanto pare. Mi piacque da subito e mi piacque perché mi trattò come se fossi una normalissima bambina come lei, cosa che tra l’altro ero ma che nessuno sembrava comprendere pienamente.

Una testa rossa sbucò alle spalle di Mrs. Spencer e mi ritrovai presto intrappolata in un altro abbraccio.

«Sei arrivata presto», esclamò contenta Hannah, avvolta in un maglione a trecce fatto a mano e in un paio di pantaloni di velluto a costine risalenti probabilmente alla prima guerra mondiale. Ah, Hannah e la sua passione smodata per i negozi con vestiti di seconda mano e il vintage.

Detti un’occhiata rapida al mio orologio da polso: 3.23 pm.

Dovevo decisamente darmi una mossa, parlare con Noel e levare le ancora al più presto.

 

«Cosa vuol dire che sei al verde?!», esclamai esasperata.

Noel era laureato con il massimo dei voti in economia e si occupava dell’amministrazione delle risorse di molti personaggi influenti della città. Era un commercialista oculato e prudente. Sì, lo era ma solo con i soldi altrui. I suoi risparmi invece non riuscivano mai ad essere messi a riposo in una cassetta di sicurezza in banca ma finivano quasi sempre nelle casse di Prada, Yves Saint Laurent o Dior.

«Non ho un soldo ora come ora», spiegò mogio mogio senza guardarmi negli occhi e fissandosi la punta delle sue scarpe da quattrocento sterline suonanti.

«Noel, perché non me ne hai parlato?», domandai torturandomi disperatamente una ciocca di capelli.

Avremmo potuto trovare una soluzione se ne avessimo discusso cinque mesi fa quando non pendeva su di noi una spada di Damocle che rischiava di cadere da un secondo all’altra affettandoci senza pietà. Avremmo potuto risolvere il tutto con calma quando ancora nessuno ci minacciava di conseguenze legali e quando non avevamo un debito di duemila sterline.

«Me ne vergognavo, insomma Cece, fare economia è il mio lavoro e invece…», mormorò quasi arrabbiato con sé stesso passandosi disperato una mano sul volto.

Pensa cervellino, pensa. Lavoravo come babysitter per otto sterline l’ora e dieci se dovevo tenere il bambino fino a tardi ma tutto ciò che ricavavo cantando ninne nanne e sorbendomi ore e ore di Peppa Pig, che tra l’altro mi piaceva molto, serviva per pagare la mia parte di affitto, le spese di luce, acqua e gas, l’abbonamento ai mezzi pubblici e il cibo. Nonostante la mia voglia di indipendenza avevo dovuto capitolare di fronte al caro prezzo della vita e accettare un piccolo aiuto mensile da parte dei miei. Certo poi avevo il fondo fiduciario intestato a mio nome fin dalla tenere età di due anni ma mi ero sempre rifiutata di toccare quel denaro, la cui somma ignoravo.

«Noel, parliamone onestamente: il prossimo mese potresti permetterti i soldi dell’affitto?», domandai sincera.

«No, o perlomeno non tutto, forse duecento…non di più»

Il mio telefono iniziò a vibrare e lessi il nome di mio padre sullo schermo.

Si era fatto veramente tardi.

«Devo scappare ora», esclamai dirigendomi verso le scale, «Noel, non abbatterti, troveremo una soluzione», lo rassicurai sorridendo.

Non sapevo come ma questo era un problema assolutamente secondario. Certo, Cecilia come no, fai sempre la WonderWoman da strapazzo.

«Quindi non mi libererò tanto facilmente di te, oh mia pazza coinquilina?», domandò ritrovando il suo solito buonumore.

Muahahaha, mai.

«Sogna, bello mio», e con quello mi congedai.

 

***

Una nuvola di Chanel N.5 mi avvolse non appena Lillian Lawrence fece il suo ingresso nel suo salottino da tè, decorato in modo talmente lezioso e zuccherino da far invidia allo studio di Dolores Umbridge.

Ed ecco a voi mia madre: messa in piega perfetta, tubino color pesca con golfino di cashmere abbinato, scarpe tacco 10 e fronte aggrottata.

Si fermò sulla soglia a studiarmi. Vidi i suoi occhi percorrere la mia intera figura, dai jeans stropicciati al maglione leggermente scolorito dai troppi lavaggi. Stava prendendo le misure della sua unica e debosciata figlia che viveva in un appartamento squallido lontano dal centro, che mangiava ai fast food, che frequentava proletari e, orrore degli orrori, lavorava.

«Spero tu abbia le scarpe pulite!», squittì infine squadrando i miei anfibi che sicuramente avevano visto giorni migliori.

Lei non mi vedeva da quasi un mese e la prima cosa che mi diceva era un rimprovero riguardante le mie scarpe. Normale no?

«Eccola qui la mia Cece adorata!»

Mi voltai e un sorriso a trentadue denti mi si dipinse sul volto. Mio padre, occhiali storti sul naso e gilet scozzese orribilmente orribile, mi strinse in un caldo abbraccio.

Ancora stretta tra le braccia del mio amato e sempre più spiegazzato padre mi accorsi delle due persone che ci stavano fissando dalla soglia.

Non poteva essere vero. Mi veniva quasi da piangere.

«Bisnonno Samuel!», strillai al settimo cielo precipitandomi accanto alla carrozzina sui cui era seduto il mio carissimo nonnino.

Era da più di un anno che non tornava a casa, troppo malato per poter fare qualsiasi cosa che non fossero tour infiniti tra i vari ospedali e visite dai più eminenti specialisti. L’ultima volta che ero andata a trovarlo lo avevo trovato peggiorato e non aveva fatto altro che stringermi spasmodicamente la mano e sussurrare come una nenia infinita il mio nome alternato a quello di sua moglie Lillian, defunta ormai da cinquant’anni. Almeno credo intendesse chiamare sua moglie.

Ora sembrava stare decisamente meglio e il suo sorriso sereno e il colorito non più terreo sembravano confermare la mia speranza.

«Tutti a dirmi che ormai era una questione di ore, la tua prozia Petunia probabilmente aveva già pronta la bara, brutto avvoltoio quella donna…», ridacchiò tra sé e sé lasciandomi esterrefatta a fissare quanto fosse bello vederlo così allegro,  «Tsè, decido io quando morire e io non me ne vado fino a quando la mia Cecilia non diventa medico come il suo orgogliosissimo bisnonno che solo allora morirà felice e contento», scherzò stringendomi affettuosamente la mano.

Volevo piangere tanta era la gioia che quel momento mi stava regalando, ero convinta anche io che presto avrei dovuto dire addio al mio amatissimo bisnonno ma questo momento imprevisto di lucidità e buonumore era un dono bellissimo che ero decisa a godermi pienamente.

Perciò chiusi, almeno per il momento, la faccenda dell’affitto e dei problemi finanziari di Noel in un cassetto e mi concentrai su quello splendido momento in famiglia.

«Nonno, vuoi del thè?», chiese premurosa mia madre mentre si inginocchiava al fianco dell’anziano e gli sistemava la coperta a quadri che aveva sulle gambe.

L’unica persona per cui mia madre manifestava apertamente affetto, o per lo meno tentava di manifestarlo in un modo diverso dal suo solito modo sempre un po’ freddo e distaccato, era il nonno Samuel.

«Tesoro mio, non preoccuparti», la rassicurò lui dandole una lieve carezza sul viso, «Nel caso mi venisse sete manderemo questo mio inutile nipote a prendermi qualcosa», borbottò facendo riferimento al ragazzo alle sue spalle che finora era rimasto in religioso silenzio.

Distolta la mia attenzione dal nonno mi concentrai finalmente sulla presenza dietro di lui.

Sebastian Lawrence.

Il più spocchioso tra i cugini della famiglia e il mio compagno di giochi obbligato per tutta l’infanzia.

«Adorato cugino», lo salutai melliflua cercando di nascondere una smorfia.

«Cugina prediletta», mi rispose per le rime lui sollevando appena un sopracciglio mentre mi scrutava attento.

«Sempre impeccabile vedo», gli feci notare sarcastica studiando la sua camicia immacolata e la piega perfetta dei pantaloni.

Bello da sembrare finto, tanto stronzo da farti capire immediatamente che, purtroppo, era tutto tranne che finto.

«Sempre più arruffata e squisitamente plebea», mi rimbeccò lui lanciando un’occhiata eloquente ai miei anfibi piuttosto vissuti.

«Sebastian è tornato a Londra per completare gli studi…», mi spiegò mia madre regalando al cugino idiota un sorriso luminoso.

Madre ovviamente adorava Sebastian, d’altra parte lui incarnava tutto ciò che io non ero e che lei avrebbe voluto disperatamente fossi.

«Pff, è tornato solo perché gli ho tagliato i fondi e quella squattrinata di sua madre è troppo ubriaca ai Caraibi per provvedere al figlio…», borbottò bisnonno Samuel facendogli segno di spingerlo fino al divano, in modo da essere vicino a mia madre e poterci guardare in faccia, «Fondi che tra l’altro stava sperperando in tutto fuorché i suoi studi…»

«Suvvia Samuel sono giovani e vogliono divertirsi…», commentò bonario mio padre spostandosi per far posto accanto a sé a Sebastian che aveva uno sguardo alquanto torvo.

«Giovani un cazzo!»

«Nonno!», esclamò scandalizzata mia madre mentre io cercavo di mascherare una risata con un colpo di tosse.

«Che hai intenzione di fare a Londra?», chiesi giusto per cortesia, non ero molto interessata alla sorte di Sebastian detto onestamente.

«Vuol prendere esempio da te, mio fiorellino», mi spiegò il nonno strizzandomi l’occhio.

Che cavolo gli avevano somministrato per farlo tornare come ai vecchi tempi?

«Studierà alla London School of Economics», proclamò mamma gonfiandosi come un pavone tronfio.

Sai che storia. Noel si era laureato lì due anni prima e quando lo aveva conosciuto mamma non aveva fatto tutto questo teatrino ma aveva continuato a guardarlo sospettoso e a fargli domande indiscrete riguardo alla sua vita sentimentale.

«E starà qui con voi?», domandai mettendomi a ridere.

Il cugino scapestrato che dopo anni di bagordi negli States torna in madrepatria per essere messo in riga. Troppo esilarante. Soprattutto se il cugino in questione era Sebastian.

«Magari…», sospirò mamma.

«No angioletto, starà da te», commentò candido il nonno.

E in quel momento smisi di ridere.

 

 

 

 

Fate una buona azione: donate una piccola recensione a questa povera autrice disperata ed insonne.

Buonasera a tutti,

sono stanchissima quindi sarò breve. Il personaggio di Sebastian è stata un’idea dell’ultimo minuto quindi vedremo se sarò in grado di svilupparlo per bene e di inserirlo in modo armonioso tra gli altri personaggi. Prometto che prossimamente mi concentrerò anche sugli altri protagonisti e inizierà a succedere qualcosa che non siano semplicemente puri dialoghi di passaggio.

AAA: Cercasi disperatamente un nome per la band dei ragazzi.

Idee e proposte sono ben accette. Ho in mente un nome ma non mi convince pienamente quindi chiedo a voi.

Grazie!

Bacini,

S.

 

 

 

 

  
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