So
che eravate molto in ansia per la
sorte del povero Draco ma ci tengo a rassicurarvi: proprio ora
quell'infido
essere felino, dopo la notte in compagnia del bel veterinario, se ne
sta
spaparanzato a pancia in giù sul tappeto intento a
strafogarsi di tartare al
salmone.
Eh
si, perché il piccolo principino
mangia solo il pesce più pregiato e costoso e beve solo il
latte più fresco e
proveniente dalla mucca più giovane e in salute.
Con
Noel non parlo da stamattina
quando abbiamo litigato per decidere chi dovesse andare a ritirare il
nostro
cucciolotto dallo studio del bel dottorino e il tutto si è
concluso con lui che
mi chiudeva in casa, dopo essersi assicurato che tutte le chiavi
fossero in suo
possesso, e io che gli rivolgevo i peggiori improperi del mio
repertorio.
Oggi
è sabato e fortunatamente non
sono di turno in ospedale. Credetemi, amo medicina con tutta me stessa
ma
questo tirocinio mi sta prosciugando tutte le energie ed è
riuscito a scalfire
persino il mio, fino ad ora, inattaccabile entusiasmo verso la
professione.
Grey's
Anatomy è la serie Tv più
illusoria di sempre. Niente Dottor Stranamore ma primari vetusti ed
indisponenti che pensano di governare il mondo. Niente Cristina,
George, Izzie
e Alex che ti supportano e condividono con te notti insonni di guardia,
cuori
infranti, bocciature agli esami e strigliate da parte dei responsabili
ma
spietati avversari con cui gareggiare in modo sleale e meschino per
riuscire ad
ingraziarsi lo staff del proprio reparto. Altro che Hunger Games, la
voglia di
arrivare in vetta, essendo disposti a calpestare chiunque si
interponga, che
caratterizza i tirocinanti di medicina li supera di gran lunga.
Grazie
al cielo mi mancano solo pochi
mesi alla laurea perché altrimenti avrei commesso sul serio
un omicidio e la
vittima designata sarebbe stato sicuramente Charles Cocco Di
Papà Wilkinson,
figlio del nostro docente di riferimento e nipote del direttore del
nostro
ospedale. Sguardo sprezzante, camice sempre perfettamente inamidato,
dall'alto
del suo scranno di boria e alterigia passava le sue giornate a
denigrarci e a
ripetere il suo mantra preferito: «Non sono un
raccomandato». Ogni volta che lo
diceva potevo quasi vedere una freccia luminosa con scritto BUGIA che
indicava
nella sua direzione.
Uno
scampanellio mi distolse dai miei
cupi pensieri e mi ricordò che era quasi mezzogiorno e io
ero ancora in pigiama
e a stomaco vuoto.
Ciabattai
fino alla porta dove, non
appena sollevai il citofono, lo schermo mi mostrò i visi
sorridenti di Sienna e
Adam.
Pigiai
il pulsante di apertura del
portoncino d'ingresso, socchiusi la porta e mi diressi in bagno.
«La
porta è aperta!», strillai
sentendo dei passi, mentre mi sciacquavo rapidamente il volto e legavo
i miei
capelli troppo lunghi in uno chignon spettinato.
Mi
infilai le lenti a contatto,
indossai un paio di pantaloni della tuta, una felpa scolorita della Gap
e
trotterellai in salotto.
«Ecco
i tuoi soliti tre quintali di
posta», esclamò Sienna appoggiando sul tavolo
della cucina una pila pericolante
di buste, dépliant e riviste.
Come
sempre era vestita in modo poco
appariscente: cappotto color carota, stivali dal tacco vertiginoso e
abitino
giallo canarino. La cosa sorprendente era che stava benissimo
nonostante i
colori chiassosi e l'asimmetria dei suoi capi.
Sbuffai
recuperando la tovaglia dal
cassetto sotto al gas. «Noel e la sua brutta abitudine di
lasciare il nostro
indirizzo ad ogni negozio per ricevere il catalogo a
casa...», spiegai
scocciata.
Tutto
ciò mi costringeva ad andare a
gettare la carta ogni due giorni.
«Toelettatura
per serpenti a
sonagli?», ridacchiò Adam mostrandomi un piccolo
fascicolo ancora nel
cellophane pescato a caso dalla pila.
Scossi
la testa esasperata mentre
spostavo tutto quel cumulo di cartacce a cui mi sarei dedicata
più tardi in
camera mia.
«Dov'è
Hannah?», domandai tornando in
cucina.
Hannah
e Adam si sopportavano a
fatica eppure facevano quasi sempre tutto insieme.
«Da
Oliver»
«Quando
si decideranno a convolare a
nozze?», sbottò Sienna, «Voglio avere
una scusa per comprarmi un abito di
Chanel per essere una damigella meravigliosa», concluse
piroettando.
«Come
se ti servisse una scusa...»,
borbottai posando con malagrazia tre piatti sul tavolo.
«Ehi,
Voldemort è di cattivo umore,
temete oh babbani!», esclamò Adam scrutandomi
beffardo.
Sapevo
benissimo che era inutile
prendermela per un piccolo ed insignificante screzio con Noel ma ogni
volta che
ci trovavamo in disaccordo lui spariva e io mi rannuvolavo.
Eravamo
peggio di quelle coppie
sposate da cinquant'anni; borbottavamo, non ci sopportavamo,
bisticciavamo
eppure non riuscivamo a stare lontani troppo a lungo.
Se
a Noel fossero piaciute le donne e
non i bei veterinari e se io avessi avuto un debole per le checche
isteriche
saremmo stati una coppia perfettamente assortita.
«Noel
non c'è», constatò Sienna con
la testa dentro il frigo.
«Avete
litigato!», gongolò Adam,
contento di aver scoperto la causa del mio broncio, «Siete
così tenerelli
quando vi evitate e fate i sostenuti l'uno nei confronti dell'altro
quando
invece vi mancate e siete dispiaciuti...», mi prese in giro.
«Io
non sono dispiaciuto!», protestò
con voce capricciosa Noel, appena entrato dalla porta d'ingresso.
Non
osava guardarmi negli occhi e si
limitava a fissare la tavola apparecchiata per sole tre persone.
Vidi
il suo viso oscurarsi e dopo
aver fatto un cenno rapido per salutare i nostri due ospiti si
voltò e poco
dopo sentimmo la porta del bagno sbattere con forza.
Sienna
mi strappò di mano la pentola
che avevo appena recuperato dalla lavastoviglie e mi ordinò
imperiosamente:
«Vai»
Mi
voltai verso Adam in cerca di
supporto ma lui si strinse nelle spalle e mi indicò la porta
dietro cui Noel
era sparito.
Sbuffando
e mormorando vari insulti
poco carini nei confronti dei due traditori marciai verso il bagno e
arrivata
di fronte alla porta feci un respiro profondo ed entrai.
Un
denso vapore mi accolse in quello
che sembrava essere diventato un angolo di foresta pluviale in quanto
ad
umidità elevata. Avevamo anche una scimmia che si stava
lavando quindi eravamo
piuttosto fedeli all'ambientazione originale.
«Mi
sto facendo una doccia», constatò
incolore la voce di Noel proveniente da dietro la tenda rosa shocking
che lo
nascondeva alla mia vista.
«Davvero?»,
chiesi sogghignando,
«Pensavo stessi frignando di nascosto perché sai
benissimo di essere in torto
stavolta e stavi pensando a quale meravigliosa e costosissima borsa
potresti
regalare alla sottoscritta per ottenere il mio perdono...»
Spense
l'acqua e lo sentii afferrare
un barattolo, probabilmente di shampoo.
«Io
con te non ci parlo», mugugnò
imbronciato.
Noel
che puntava i piedi e si
comportava da bambino cocciuto era semplicemente adorabile. E ancora
più
adorabile era il fatto che non fosse in grado di fare l'offeso per
più di
un'ora.
Mi
sedetti sul water aspettando
pazientemente il momento, ormai vicino, in cui sarebbe scoppiato e
avrebbe
ricominciato a parlarmi come faceva sempre. Potevo quasi percepire lo
sforzo
immane che stava facendo per restare impassibile mentre ogni fibra del
suo
essere moriva dalla voglia di raccontarmi cosa era successo dal
veterinario.
«Pranzi
con noi?», buttai là
vagamente mentre mi fissavo lo smalto sbeccato sulle unghie.
Silenzio.
«È
arrivata la posta e con essa il
nuovo numero di Elle e Marie Claire...», ritentai.
Nulla.
Mmh,
per farlo scattare avevo bisogno
di qualcosa che lo interessasse sul serio. Mi guardai intorno cercando
uno
spunto e lo sguardo mi cadde sullo sgabello accanto al lavandino,
sgabello su
cui erano riposti, perfettamente ripiegati e in ordine, un paio di
pantaloni
neri e un cardigan blu notte.
Idea
luminosa!
«Stavo
pensando che, poiché la tua
stanza è più grande della mia, io avrei diritto a
più spazio di te nella nostra
cabina armadio», mormorai a mezza voce sperando con tutta me
stessa in una
reazione, «Credo sposterò tutte le tue scarpe in
cantin-»
«NO!»,
strillò spalancando la tenda e
mostrandosi in tutta la sua meravigliosa nudità.
Saltai
in piedi e mi misi ad
applaudire e saltellare felice.
«Smettila
di fare la foca scema e
passami un asciugamano», borbottò cercando
però di nascondere un sorriso.
Gli
lanciai il suo accappatoio Ralph
Lauren di morbidissima spugna grigio perla e poi gli saltai
amorevolmente al
collo.
«Adam
ha ragione a chiamarti
Voldemort...sei perfida», mormorò dandomi un
bacino sulla fronte.
Gli
scompigliai i capelli e gli
sorrisi malefica: «Lo so, infatti se fossi in te una
controllatina alle tue
scarpe la darai ugualmente...non si sa mai»
Saettai
fuori dal bagno prima che
avesse il tempo di assimilare la notizia e di tramortirmi colpendomi
alla testa
con il barattolo alquanto pesante della sua preziosissima crema
idratante
Lancôme.
«Ceciliaaaaaaaa,
io ti ucciderò prima
o poi!», mi raggiunse la sua minaccia urlante mentre
raggiungevo sana e salva
la cucina.
«Afefe
faffo pace?», mi domandò
subito Adam con la bocca piena di patatine.
«Dio,
Adam! Sei rivoltante!», strillò
schifata Sienna mentre spegneva i fornelli e afferrava un sottopentola.
«Sienna,
amore mio, non c'è bisogno
che mi chiami Dio, per te posso essere solo Adam...», la
rimbeccò cercando di
suonare lascivo e malizioso.
Sienna
gli tirò una scappellotto e ci
richiamò tutti a rapporto per pranzare.
***
Due
orette più tardi ero seduta sul
mio letto intenta ad aprire e catalogare le mille buste arrivate per
posta.
Sienna era sparita quasi subito dopo pranzo mormorando qualcosa
riguardo a dei
saldi imperdibili in un grande magazzino del centro mentre Adam aveva
rapito
Noel per le solite prove del sabato pomeriggio.
Erano
tutti eccitati perché era la
prima volta che avrebbero suonato nuovamente con un tastierista, che
avrebbe
fatto anche da seconda voce, da quando Jack se n'era andato tre mesi
prima.
I
ragazzi ci avevano invitato, o per
meglio dire ordinato, di fare un salto più tardi e di
portare le pizze.
Sospirai
mentre mettevo in cima alla
pila di buste vuote e carta straccia l'ennesimo volantino di
pubblicità
destinato a finire nella spazzatura.
Strappai
distrattamente l'ultima
busta della giornata pensando già alla visita che proprio
oggi avrei dovuto
fare ai miei cari ed adorati genitori.
Sperai
con tutta me stessa che mia madre
fosse di buon umore e ben imbottita dei suoi farmaci in modo da
evitarmi i suoi
spaventosi sbalzi d'umore e i suoi discorsi sconclusionati riguardo
alla vita
da pezzente che conducevo.
Gentili
Mr. Donovan e Ms.
Lawrence,
dopo
i molti solleciti fatti Loro
pervenire mi trovo costretto a tentare per l'ultima volta a trovare un
punto
d'accordo in modo cortese e civile prima di passare ad azioni legali e
conseguente sfratto forzato. La
quota
mensile dell'affitto comprensiva delle spese condominiali è,
come pattuito tre
anni fa, di 750 sterline. Purtroppo è da ormai cinque mesi
che ricevo solamente
la metà della somma accompagnata da bigliettini
temporeggiatori ricchi di
promesse, mai mantenute, di un pareggio delle spese nei tempi
più rapidi
futuri. Mi dispiacerebbe essere costretto a mandarvi via, siete sempre
stati
due giovani perbene, educati e responsabili, ma non posso fare
altrimenti.
Questo è il mio ultimo avvertimento: uomo avvisato...
Cordialmente,
K.
F. Hunting
Passarono
due minuti buoni prima che
riuscissi a capire pienamente cosa significasse quella lettera.
Già
vedevo la gioia incontenibile di
Mamma nel potermi finalmente avere di nuovo tra le sue grinfie laccate
di rosso
fuoco Chanel e di Papà nel riavere la sua principessina a
casa. Probabilmente
mi avrebbe comprato un pony, convinto com'è che io abbia
cinque anni e mi
diverta ancora a giocare al cavalluccio sulle sue ginocchia.
Dovevo
chiamare Noel. Subito.
Il
numero da Lei chiamato non
è al momento raggiungibile, La invitiamo a riprovare
più tardi.
Dopo
l'ennesima nenia ripetuta dalla
voce registrata persi la pazienza e corsi nell'altra camera per
vestirmi e
raggiungere il prima possibile quell'idiota del mio coinquilino che
presto si
sarebbe trovato o a fare il barbone sotto il Tower Bridge o a fare da
dama di
compagnia a Madre e alle sue amiche del circolo del bridge o da
facchino al
campo di golf di Papà.
Mi
infilai velocemente un pesante
maglione rosso, un paio di jeans e i miei anfibi neri. Gettai
rapidamente
cellulare, chiavi e portafogli nella tracolla di cuoio e dopo essermi
avvolta
nel mio cappotto di tweed e nella
mia
sciarpa grigia ed argento dei Serpeverde mi apprestai ad affrontare il
gelo
londinese.
Le
prove avvenivano nella cantina
della villetta degli Spencer che si trovava a tre fermate di metro dal
mio
appartamento. I genitori di Hannah e Adam erano stati nei tempi della
loro
ormai lontana gioventù i classici hippie tutti pace, erba,
musica e amore
libero ed erano stati gli unici a mostrarsi entusiasti all'idea di
avere una sala
prove in casa. Ai miei non lo avevo neanche proposto perché
sicuramente loro mi
avrebbero affittato la più bella e la più costosa
tra le sale prove di Londra.
Le
note di Luna dei Bombay
Bicycle Club mi accolsero ancor prima di suonare il campanello.
«Cecilia
tesoro!», mi accolse Mrs.
Spencer gettandomi le braccia al collo e stritolandomi in un abbraccio
soffocante.
L'espansività
e affettuosità della
madre di Hannah mi avevano sempre spiazzata e messa un po' a disagio.
Probabilmente questo mio problema derivava dalla mia infanzia e dalla
quasi
totale assenza di contatto tra me e mia madre che l'aveva
caratterizzata.
Ricordo benissimo le braccia paffute e soffici e il seno morbido e
prosperoso
di Consuelo, la tata cilena, che mi cullava per tempi infiniti quando
mi
aggrappavo a lei come una scimmietta. Mi pequeño
koala mi chiamava
sempre quando la cingevo stretta stretta e non la lasciavo andare
più. Mamma
l'aveva licenziata poco dopo quando aveva scoperto che quando veniva a
prendermi all'asilo, invece di filare dritte a casa, ci formavamo a
giocare al
parco pubblico per un'oretta. Consuelo aveva pianto, io avevo pianto e
Mamma
aveva continuato indignata a borbottare tra sé che erano
cose da pazzi, portare
una piccola bambina delicata come me in mezzo a batteri e sporcizia.
Avevamo
ettari di giardino, che bisogno c’era di fermarsi in un
sudicio parchetto nei
sobborghi?
«I
ragazzi sono di sotto», mi informò
allontanandosi e iniziando ad aiutarmi a levarmi il cappotto,
«Ma immagino lo
abbia sentito da te…», concluse ridacchiando tra
sé facendo riferimento al
volume spaccatimpani della musica proveniente dal piano sotto ai nostri
piedi.
La
loro cantina non era neanche
insonorizzata eppure Hazel Spencer non faceva una piega, come se avere
i
Vampire Weekend che risuonavano a mille decibel per casa fosse una cosa
normalissima. Mamma si imbottiva di Xanax anche solo per sopportare il
coro natalizio
di bambini che ogni anno alla vigilia aveva l’ardire di
suonare al cancello e
di farsi a piedi il mezzo kilometro buono che lo separava dalla porta
d’ingresso.
«Mi
fermo solo un attimo», spiegai
per evitare di apparire antipatica e scortese, «Devo tornare
a casa oggi
pomeriggio», mi scusai.
Mrs.
Spencer non commentò e gliene
fui immensamente grata. Lillian Lawrence non era propriamente la tipica
mamma
con cui scambiare due pettegolezzi mentre si era in fila ai colloqui
generali o
con cui organizzare sedute di yoga al parco. Avevo frequentato le
scuole più
prestigiose di Londra, a mio avviso i posti peggiori del mondo. Figli
di papà
ovunque, smorfiose bamboline con troppa fretta di crescere e professori
così
accondiscendenti nei confronti dei rampolli delle famiglie londinesi da
risultare viscidi e assolutamente poco professionali.
Hannah
l’avevo conosciuto quando in
quinta elementare io e Sienna fummo beccate a scrivere con una
bomboletta blu
elettrico un gigantesco BITCH sull’auto della nostra vice
preside che voleva
obbligarci ad iscriverci alla sua associazione di beneficenza nei
confronti dei
bambini meno fortunati. Detto così sembrerebbe un puro atto
vandalistico ma se
voi foste stati presenti ad una di quelle manifestazione di infinita
‘bontà d’animo
e generosità’ avreste capito e sostenuto me e
Sienna. Gli alunni della nostra
scuola, vestiti di tutto punto con la divisa perfettamente in ordine,
andavano
in una qualsiasi scuola pubblica in periferia, nella periferia di
Londra non
del Burundi, il ché avrebbe certamente avuto più
senso, e, dopo un discorso
intriso di falsa commozione e finto orgoglio della vice preside,
distribuivamo
tra i banchi quaderni, matite e cancelleria varia. Era insopportabile.
Lo
sguardo con cui quei bambini, nostri coetanei, accettavano i nostri
schifosissimi regali era insopportabile. Quello che facevamo, o meglio
ci
obbligavano a fare, non era generoso ed altruistico, no, era solo un
modo per
mettere in evidenza il fatto che noi,
figli di membri del parlamento, di luminari nel campo della medicina,
di uomini
importanti della City, di eminenti avvocati eravamo superiori a loro,
poveri
piccoli bimbi sfortunati, nati da semplici impiegati, operai e
casalinghe.
Odiavo fare tutto ciò. Odiavo quando squadravano le mie
scarpe alla bebè di
lucidissima vernice che probabilmente valevano quanto mezzo stipendio
mensile
dei loro padri, scarpe che io non sopportavo e avrei volentieri
lanciato fuori
dalla finestra o dato loro in cambio di un paio di Converse fasulle
comprate
per dieci sterline da Selfridges. Odiavo i sussurri che si scambiavano
alle
nostre spalle. Mi sentivo assolutamente inadeguata. Mi vergognavo di
appartenere a quella gente e quando tornavo a casa sulla Mercedes con
l’autista
e mia madre mi chiedeva «Allora sono stati contenti dei
vostri gentili doni
quei poveri bambini sfortunati?», stavo ancora peggio.
Vi
confesso che quelle scarpe
lucidissime le regalai ad un senzatetto il giorno dopo quella terribile
esperienza in un attimo di distrazione da parte della mia severissima
tata
tedesca. A Mamma raccontai di aver scordato dove fossero finite e lei
scrollò
le spalle dicendo che ne avremmo comprato un modello per bambine
più grandi.
Era quello l’atteggiamento che mi irritava. Perdevo qualcosa:
scrollatina di
spalle. Tanto lo si poteva ricomprare.
Tornando
a noi: Sienna e io fummo
‘punite’ e così per tre mesi dovemmo
andare ad aiutare la squadra dei
giardinieri comunali a prendersi cura delle aiuole di Hyde Park. Hannah
ai
tempi era una bellissima e simpaticissima bambina di dieci anni tutta
ponchi
dai colori improbabili e sorrisi. Lei era lì di sua
spontanea volontà: adorava
la natura e voleva dare una mano per abbellire la sua città.
Non si pose nessun
problema la prima volta che ci vide nei nostri cappottini Burberry
scaricate da
una Porsche fiammante. No, lei ci salutò felice e si
presentò abbracciandoci,
tratto che aveva ereditato dalla madre a quanto pare. Mi piacque da
subito e mi
piacque perché mi trattò come se fossi una
normalissima bambina come lei, cosa
che tra l’altro ero ma che nessuno sembrava comprendere
pienamente.
Una
testa rossa sbucò alle spalle di
Mrs. Spencer e mi ritrovai presto intrappolata in un altro abbraccio.
«Sei
arrivata presto», esclamò
contenta Hannah, avvolta in un maglione a trecce fatto a mano e in un
paio di
pantaloni di velluto a costine risalenti probabilmente alla prima
guerra
mondiale. Ah, Hannah e la sua passione smodata per i negozi con vestiti
di
seconda mano e il vintage.
Detti
un’occhiata rapida al mio
orologio da polso: 3.23 pm.
Dovevo
decisamente darmi una mossa,
parlare con Noel e levare le ancora al più presto.
«Cosa
vuol dire che sei al verde?!»,
esclamai esasperata.
Noel
era laureato con il massimo dei
voti in economia e si occupava dell’amministrazione delle
risorse di molti
personaggi influenti della città. Era un commercialista
oculato e prudente. Sì,
lo era ma solo con i soldi altrui. I suoi risparmi invece non
riuscivano mai ad
essere messi a riposo in una cassetta di sicurezza in banca ma finivano
quasi
sempre nelle casse di Prada, Yves Saint Laurent o Dior.
«Non
ho un soldo ora come ora»,
spiegò mogio mogio senza guardarmi negli occhi e fissandosi
la punta delle sue
scarpe da quattrocento sterline suonanti.
«Noel,
perché non me ne hai parlato?»,
domandai torturandomi disperatamente una ciocca di capelli.
Avremmo
potuto trovare una soluzione
se ne avessimo discusso cinque mesi fa quando non pendeva su di noi una
spada
di Damocle che rischiava di cadere da un secondo all’altra
affettandoci senza
pietà. Avremmo potuto risolvere il tutto con calma quando
ancora nessuno ci
minacciava di conseguenze legali e quando non avevamo un debito di
duemila
sterline.
«Me
ne vergognavo, insomma Cece, fare
economia è il mio lavoro e invece…»,
mormorò quasi arrabbiato con sé stesso
passandosi disperato una mano sul volto.
Pensa
cervellino, pensa. Lavoravo
come babysitter per otto sterline l’ora e dieci se dovevo
tenere il bambino
fino a tardi ma tutto ciò che ricavavo cantando ninne nanne
e sorbendomi ore e
ore di Peppa Pig, che tra l’altro mi piaceva molto, serviva
per pagare la mia
parte di affitto, le spese di luce, acqua e gas,
l’abbonamento ai mezzi
pubblici e il cibo. Nonostante la mia voglia di indipendenza avevo
dovuto
capitolare di fronte al caro prezzo della vita e accettare un piccolo
aiuto
mensile da parte dei miei. Certo poi avevo il fondo fiduciario
intestato a mio
nome fin dalla tenere età di due anni ma mi ero sempre
rifiutata di toccare
quel denaro, la cui somma ignoravo.
«Noel,
parliamone onestamente: il
prossimo mese potresti permetterti i soldi
dell’affitto?», domandai sincera.
«No,
o perlomeno non tutto, forse
duecento…non di più»
Il
mio telefono iniziò a vibrare e
lessi il nome di mio padre sullo schermo.
Si
era fatto veramente tardi.
«Devo
scappare ora», esclamai
dirigendomi verso le scale, «Noel, non abbatterti, troveremo
una soluzione», lo
rassicurai sorridendo.
Non
sapevo come ma questo era un
problema assolutamente secondario. Certo, Cecilia come no, fai sempre
la
WonderWoman da strapazzo.
«Quindi
non mi libererò tanto
facilmente di te, oh mia pazza coinquilina?»,
domandò ritrovando il suo solito
buonumore.
Muahahaha,
mai.
«Sogna,
bello mio», e con quello mi
congedai.
***
Una nuvola
di Chanel N.5 mi avvolse non appena Lillian Lawrence fece il suo
ingresso nel
suo salottino da tè, decorato in modo talmente lezioso e
zuccherino da far
invidia allo studio di Dolores Umbridge.
Ed ecco a
voi mia madre: messa in piega perfetta, tubino color pesca con golfino
di
cashmere abbinato, scarpe tacco 10 e fronte aggrottata.
Si
fermò
sulla soglia a studiarmi. Vidi i suoi occhi percorrere la mia intera
figura,
dai jeans stropicciati al maglione leggermente scolorito dai troppi
lavaggi.
Stava prendendo le misure della sua unica e debosciata figlia che
viveva in un
appartamento squallido lontano dal centro, che mangiava ai fast food,
che
frequentava proletari e, orrore degli orrori, lavorava.
«Spero
tu
abbia le scarpe pulite!», squittì infine
squadrando i miei anfibi che
sicuramente avevano visto giorni migliori.
Lei non mi
vedeva da quasi un mese e la prima cosa che mi diceva era un rimprovero
riguardante le mie scarpe. Normale no?
«Eccola
qui
la mia Cece adorata!»
Mi voltai e
un sorriso a trentadue denti mi si dipinse sul volto. Mio padre,
occhiali
storti sul naso e gilet scozzese orribilmente orribile, mi strinse in
un caldo
abbraccio.
Ancora
stretta tra le braccia del mio amato e sempre più
spiegazzato padre mi accorsi
delle due persone che ci stavano fissando dalla soglia.
Non poteva
essere
vero. Mi veniva quasi da piangere.
«Bisnonno
Samuel!», strillai al settimo cielo precipitandomi accanto
alla carrozzina sui
cui era seduto il mio carissimo nonnino.
Era da
più
di un anno che non tornava a casa, troppo malato per poter fare
qualsiasi cosa
che non fossero tour infiniti tra i vari ospedali e visite dai
più eminenti
specialisti. L’ultima volta che ero andata a trovarlo lo
avevo trovato
peggiorato e non aveva fatto altro che stringermi spasmodicamente la
mano e
sussurrare come una nenia infinita il mio nome alternato a quello di
sua moglie
Lillian, defunta ormai da cinquant’anni. Almeno credo
intendesse chiamare sua
moglie.
Ora sembrava
stare decisamente meglio e il suo sorriso sereno e il colorito non
più terreo
sembravano confermare la mia speranza.
«Tutti
a
dirmi che ormai era una questione di ore, la tua prozia Petunia
probabilmente
aveva già pronta la bara, brutto avvoltoio quella
donna…», ridacchiò tra sé e
sé lasciandomi esterrefatta a fissare quanto fosse bello
vederlo così allegro, «Tsè,
decido io quando morire e io non me ne
vado fino a quando la mia Cecilia non diventa medico come il suo
orgogliosissimo bisnonno che solo allora morirà felice e
contento», scherzò
stringendomi affettuosamente la mano.
Volevo
piangere tanta era la gioia che quel momento mi stava regalando, ero
convinta
anche io che presto avrei dovuto dire addio al mio amatissimo bisnonno
ma
questo momento imprevisto di lucidità e buonumore era un
dono bellissimo che
ero decisa a godermi pienamente.
Perciò
chiusi, almeno per il momento, la faccenda dell’affitto e dei
problemi
finanziari di Noel in un cassetto e mi concentrai su quello splendido
momento
in famiglia.
«Nonno,
vuoi
del thè?», chiese premurosa mia madre mentre si
inginocchiava al fianco
dell’anziano e gli sistemava la coperta a quadri che aveva
sulle gambe.
L’unica
persona per cui mia madre manifestava apertamente affetto, o per lo
meno
tentava di manifestarlo in un modo diverso dal suo solito modo sempre
un po’
freddo e distaccato, era il nonno Samuel.
«Tesoro
mio,
non preoccuparti», la rassicurò lui dandole una
lieve carezza sul viso, «Nel
caso mi venisse sete manderemo questo mio inutile nipote a prendermi
qualcosa»,
borbottò facendo riferimento al ragazzo alle sue spalle che
finora era rimasto
in religioso silenzio.
Distolta la
mia attenzione dal nonno mi concentrai finalmente sulla presenza dietro
di lui.
Sebastian
Lawrence.
Il
più
spocchioso tra i cugini della famiglia e il mio compagno di giochi
obbligato
per tutta l’infanzia.
«Adorato
cugino», lo salutai melliflua cercando di nascondere una
smorfia.
«Cugina
prediletta», mi rispose per le rime lui sollevando appena un
sopracciglio
mentre mi scrutava attento.
«Sempre
impeccabile vedo», gli feci notare sarcastica studiando la
sua camicia
immacolata e la piega perfetta dei pantaloni.
Bello da
sembrare finto, tanto stronzo da farti capire immediatamente che,
purtroppo,
era tutto tranne che finto.
«Sempre
più
arruffata e squisitamente plebea», mi rimbeccò lui
lanciando un’occhiata
eloquente ai miei anfibi piuttosto vissuti.
«Sebastian
è
tornato a Londra per completare gli studi…», mi
spiegò mia madre regalando al
cugino idiota un sorriso luminoso.
Madre
ovviamente adorava Sebastian, d’altra parte lui incarnava
tutto ciò che io non
ero e che lei avrebbe voluto disperatamente fossi.
«Pff,
è
tornato solo perché gli ho tagliato i fondi e quella
squattrinata di sua madre
è troppo ubriaca ai Caraibi per provvedere al
figlio…», borbottò bisnonno
Samuel facendogli segno di spingerlo fino al divano, in modo da essere
vicino a
mia madre e poterci guardare in faccia, «Fondi che tra
l’altro stava
sperperando in tutto fuorché i suoi
studi…»
«Suvvia
Samuel sono giovani e vogliono divertirsi…»,
commentò bonario mio padre
spostandosi per far posto accanto a sé a Sebastian che aveva
uno sguardo
alquanto torvo.
«Giovani
un
cazzo!»
«Nonno!»,
esclamò scandalizzata mia madre mentre io cercavo di
mascherare una risata con
un colpo di tosse.
«Che
hai
intenzione di fare a Londra?», chiesi giusto per cortesia,
non ero molto
interessata alla sorte di Sebastian detto onestamente.
«Vuol
prendere esempio da te, mio fiorellino», mi spiegò
il nonno strizzandomi
l’occhio.
Che cavolo
gli avevano somministrato per farlo tornare come ai vecchi tempi?
«Studierà
alla London School of Economics», proclamò mamma
gonfiandosi come un pavone
tronfio.
Sai che
storia. Noel si era laureato lì due anni prima e quando lo
aveva conosciuto
mamma non aveva fatto tutto questo teatrino ma aveva continuato a
guardarlo
sospettoso e a fargli domande indiscrete riguardo alla sua vita
sentimentale.
«E
starà qui
con voi?», domandai mettendomi a ridere.
Il cugino
scapestrato che dopo anni di bagordi negli States torna in madrepatria
per
essere messo in riga. Troppo esilarante. Soprattutto se il cugino in
questione
era Sebastian.
«Magari…»,
sospirò mamma.
«No
angioletto, starà da te», commentò
candido il nonno.
E in quel
momento smisi di ridere.
Fate
una buona azione: donate una piccola recensione a questa povera autrice
disperata ed insonne.
Buonasera
a tutti,
sono
stanchissima quindi sarò breve. Il personaggio di Sebastian
è stata un’idea
dell’ultimo minuto quindi vedremo se sarò in grado
di svilupparlo per bene e di
inserirlo in modo armonioso tra gli altri personaggi. Prometto che
prossimamente mi concentrerò anche sugli altri protagonisti
e inizierà a
succedere qualcosa che non siano semplicemente puri dialoghi di
passaggio.
AAA:
Cercasi disperatamente un nome per la band dei ragazzi.
Idee
e proposte sono ben accette. Ho in mente un nome ma non mi convince
pienamente
quindi chiedo a voi.
Grazie!
Bacini,
S.