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Autore: comeasfiorarsi    16/06/2015    1 recensioni
"Stringe il lenzuolo tra le mani pallide, vorrebbe solo urlare, urlare quanto tutto questo faccia così schifo, così male , perché fa male , male dentro, da soffocare da impedire alle urla di uscire ed alle lacrime di scendere. E nella sua mente risuonano le note di una melodia triste, cantate da quella sua voce roca, dal timbro marcato, che lei saprebbe riconoscere tra altre mille, che ha cercato su altre labbra invano.
Così mentre all’interno del suo corpo la voce di Harry fa eco, Cara si addormenta, ancora scossa, ancora così viva per morire, ma così morta per vivere davvero"
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Harry Styles
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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 " ’cause he’s where i wanna be
and satisfaction feels like a memory
and i can’t held myself alive
wanna hear you say are you mine
well are you mine? are you mine tonight?
are you mine? are you mine tonight
are you mine?"

Era ancora notte inoltrata e in sottofondo, giacente sul suo letto, tra le lenzuola azzurre, Cara sentiva il rumore metallico e costante delle lancette di quel piccolo orologio posto al di sopra del grande armadio a due ante, ormai mezzo vuoto nella parte occupata in precedenza dai vestiti stravaganti di lui.
I tic-tac scandivano il tempo in modo snervante e lei si ritrovava a pensare a tutti i tic-tac passati con Harry e a quanti ancora ne avrebbe dovuti passare senza un suo bacio, senza un suo sorriso strafottente, senza un suo sguardo sicuro, senza quei ricci forse un po’ troppo lunghi e scuri, senza quegli occhi verdi da far male e senza quel “noi”, che forse sapeva d’insicurezza e che di stabile aveva ben poco, ma che faceva tremare comunque.
Spesso si ritrovava a fissare il soffitto bianco. Tracciava linee immaginarie tra le crepe e le imperfezioni, disegnando costellazioni solo a lei visibili: posava lo sguardo su quella macchia scura e poi lo spostava su una riga curva che verso la fine sfumava leggermente per poi interrompersi. La sua attenzione, però, si focalizzava sempre su un pezzo d’intonaco nell’angolo, che era lì lì per staccarsi. Ecco, lei si sentiva esattamente come quel piccolo e bianco e instabile e insulso pezzo d’intonaco, pronto a sgretolarsi e cadere giù, per essere lasciato lì e demonticato o spazzato e buttato via. Pensava a una vita passata ad attendere la persona giusta nel momento sbagliato, riponendo speranze vane su gambe lunghe e spalle larghe. Pensava ai chilometri e alle persone che li separavano, ai mille volti che incontrava per strada, ognuno con una propria storia, con i propri rimpianti e i propri dolori. Pesava alle braccia che l’avevano stretta, ma non abbastanza forte, non abbastanza a lungo, per farla reggere in piedi.
Fissava il soffitto e ricordava i baci leggeri, rubati, magari in cucina, mentre sul fuoco bolliva quel tea che gli piaceva tanto; ricordava quel letto, che la mattina dopo, disfatto dalla loro passione, sapeva ancora del loro acerbo amore. Ricordava i risvegli tra capelli, braccia, gambe e corpi uniti e sovrapposti, indistinguibili e vicini, presenti. A quei “buongiorno” assonnati e rochi, talmente profondi da riscuoterla dentro ad ogni singola lettera. Ripensava alle risate risuonate in quella casa un po’ troppo grande per lei che in quel mondo, senza Harry, si sentiva sempre troppo piccola ed incompleta,incostante.
Lentamente scorre le dita affusolate e smaltate di un rosso opaco, ormai rovinato, dapprima sulla pelle pulita del suo viso, poi su quella candida del suo collo, mentre nella sua mente riaffioravano quei baci, quei morsi, quei brividi e quei lividi che ormai erano relativamente lontani nel tempo e sulla cartina geografica, ma non abbastanza da smettere di farle male. Sì, perché lei, Harry, se lo sentiva bruciare sotto ogni singola cellula del suo corpo. Sentiva ancora le sue labbra sulle proprie, le ciglia a solleticarle le guance, le sue mani grandi sui propri fianchi stretti, il sapore del dentifricio alla menta nella bocca dopo ogni suo bacio e l’odore acre e intenso nelle narici, mischiato al dopobarba.
E dopo tutti quei ricordi, ancora troppo vividi e presenti nella sua mente, formati da un susseguirsi d’immagini dove i contorni sono ancora nitidi, i colori ancora accesi, le voci squillanti e le persone ancora presenti. E Cara vorrebbe solo piangere, e si ritrova a pregare dio o qualsiasi altro ente al di sopra di lei ,che quelle lacrime si decidano a scendere e a bagnarle le guance, salarle le labbra e farle colare il trucco della sera precedente.  Invece si non scendono, se ne stanno lì e bruciano, bruciano e fanno male, fanno male e si sentono, si sentono e non c’è nessuna spalla abbastanza forte su cui versarle.
Stringe il lenzuolo tra le Mani pallide, vorrebbe solo urlare, urlare quanto tutto questo faccia così schifo, così male , perché fa male , male dentro, da soffocare da impedire alle urla di uscire ed alle lacrime di scendere. E nella sua mente risuonano le note di una melodia triste, cantate da quella sua voce roca, dal timbro marcato, che lei saprebbe riconoscere tra altre mille, che ha cercato su altre labbra invano.
Così mentre all’interno del suo corpo la voce di Harry fa eco, Cara si addormenta, ancora scossa, ancora così viva per morire, ma così morta per vivere davvero.
Compie movimenti spasmodici ed incontrollati durante il sonno: muove la gamba impercettibilmente, gira la testa da un lato e poi dall’ altro, contrae il colto in un espressione poco serena e con la mano sottile cerca un corpo di cui ormai rimane solo la forma su quel letto, un corpo che non è lì, che non è lì è chissà dov’è.
E così mentre pure nei sogni l’assenza di Harry è viva e presente e non lascia respiro. Il tempo scorra inesorabile ed inarrestabile, il sole sorge e la vita continua e a sorpassa, la trapassa. Un candido raggio di luce, sicuro, denso e sprezzante, attraversa la tenda opaca che oscura la finestra a lato del letto, dove il sottile corpo di cara sembra ancora più piccolo instabile e solo, il raggio si posa delicatamente sui suoi occhi socchiusi ed essa non può che svegliarsi e mettere fine ad un sonno agitato, per ritornare ad una realtà fatta di mancanze sempre troppo vivide ed incombenti per lei che senza lui , sta a stento in piedi sulle sue stesse gambe. Prende un respiro profondo, forte, come se cercasse la forza negli alveoli dei suoi polmoni di alzarsi e affrontare la monotonia e la solitudine, con un sorriso stanco e di circostanza, in mezzo a tutte quelle persone così vuote e superficiali per capire che lei sta male, che lei non “sta” nemmeno più. Forse quella forza la trova, nella speranza, o meglio nell’illusione che questo giorno vada meglio, o forse non la trova neppure e poggia il piede destro sulle mattonelle fredde solo per forza di abitudine, e forse sempre per quella per essa poggia anche l’altro e a passi lenti e incerti avanza verso la cucina.
Apre la porta con calma, e al contatto con il freddo metallico della maniglia rabbrividisce, mordendosi il labbro screpolato.
E dentro quella piccola stanza dalle pareti mattone da poco ritinteggiate, Cara si ritrova davanti la figura imponente di Harry, e non ci crede nemmeno lei quando lo vede con un sorriso sghembo a solcargli il viso, gli occhi vispi piantati nei suoi stanchi, contornati da occhiaie violacee, frutto di notti insonni passate a pensare ad un loro ora non più anto lontano.
Lui è lì che la scruta con quel suo sguardo furbo e quell’atteggiamento fintamente innocente e arrogante, stretto nei suoi jeans strappati, e con quegli stivaletti ridicoli e logori, rovinati dal tempo e dai passi che l’hanno allontanato da lei, con quella giacca costosa che gli ricade larga sulle spalle ricurve per la stanchezza.
Harry era lì, lì da lei e lì per lei, lì per lei ma forse anche un po’ per lui, appoggiato al tavolo di legno massiccio, con le gambe incrociate, una mano nei capelli e nell’altra una tazzina di caffè bollente. A Cara sembra di sentire i cocci di quel muro di apatia e freddezza che aveva costruito in quei mesi, frantumarsi a terra e sgretolarsi in mille pezzi sotto i suoi piedi nudi, contro le mattonelle lisce. E non sa cosa fare, che dire, che pensare, quindi si avvicina e prende del caffè e
“attenta, scotta.”
Sono le prime parole che Harry pronuncia e anche le ultime prima di cingerla in un abbraccio che non lascia via di scampo, tra braccia toniche e tatuaggi d’inchiostro nero. Un abbraccio che sa di bisogno di sentirsi, di parole inutili e ‘ti amo ancora, ti amo di più’, soffocati nella stoffa di quei vestiti superflui.
“ho paura, sai? Mi sei mancata e dio, sei così piccola”
Che si okay, lei tra quelle braccia ci sprofonda, quasi ci annega e quasi le manca il fiato. E  queste parole potrebbero sembrare sconnesse, scontate, superficiali, quasi stupide se si pensa ai messaggi prima rari e poi inesistenti, ai mesi di silenzi e distanze, di lacrime e pacchetti di sigarette, ma i battiti dei loro cuori battono ancora a ritmo della stessa musica, il volto di lei si incastra ancora perfettamente nell’incavo del collo di lui e i loro corpi, seppur scheggiati, combaciano ancora, dopo tutto e dopo tutti, quindi le loro gambe non possono che tremare e le ginocchia cedere ma poco importa, che ora sono l’, pronti a sorreggersi a vicenda.
Finalmente piange, piange e versa tutte le lacrime che in quei mesi hanno inondato i suoi occhi vacui, ché finalmente una spalla abbastanza forte su cui farlo c’è. Lui le asciuga le lacrime con i polpastrelli delle dita callose e le sorride
“sono qui ora, sono qui e no, non me ne vado, non  voglio andarmene.”
Le loro mani si uniscono ed il caffè ormai si raffredda.

 
#BANANA
Okay, questa è la prima cosa che pubblico e si, va bhe, non ha un senso, lo so. Anyway spero "vi piaccia" e se volete lasciate una recensione, tanto così, per sapere se devo continuare o meno a pubblicare. 
In ogni caso grazie per averla letta e di aver portato attenzione a queste 1491 parole.
la canzone sopra citata è "R U MINE?" degli Arctic Monkeys.
All the  love as always,Xx.
  
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