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Autore: Biebersbreathe    18/06/2015    2 recensioni
La prima volta che lo persi avevo circa 9 anni.
Ma lui trova sempre il modo di tornare.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lost.

To H.S, thanks

for being my

inspiration right now.


La prima volta che lo persi avevo circa 9 anni.
Ma lui trova sempre il modo di tornare.
Brutta storia, i pensieri. Brutta storia, l'amore.
Non sai mai se è vero, se è sentito, se è sincero. Io, per esempio, dopo anni di amore devoto non ho ancora capito se è una mia esagerazione o se davvero sono stata innamorata.
Come si fa a saperlo? C'è un criterio base?
No. No, no, siamo fuori strada, noi umani. Per ognuno l'amore è qualcosa di diverso: un gesto, un profumo, un giorno, un momento. Per alcuni è un sorriso.
Per me l'amore è stato il mare, il che è piuttosto strano. Non ci siamo conosciuti al mare, non abbiamo gli occhi blu, non siamo nati vicino al mare, non siamo stati al mare insieme.
In realtà, lui al mare c'è stato, ma non con me. E l'avrà pure avuta una ragazza dagli occhi azzurri forse, ma non ero io.
Noi non abbiamo una canzone, un'opera d'arte, una poesia. Noi non siamo neanche un 'noi'.
Ma basta divagare.


La prima volta che lo persi avevo 9 anni, la seconda 17 e la terza adesso, a 20. Probabile che io non sappia tenerlo, probabile che io non sia abbastanza per tenerlo.
Abbastanza forte, abbastanza bella, abbastanza originale.
Forse 'perdere' è un verbo un po' forte, dato che lui non è mai stato mio, però rende l'idea delle conseguenze. Ogni volta che ho perso lui, ho perso parti di me. E quelle si che sono state mie.
Ho fatto idiozie per lui, cose che si leggono solo nei libri e che abbassano drasticamente la dignità femminile. Neanche quelle sono servite, tanto per la cronaca.
Ma suppongo che abbasserò la mia dignità un'ultima volta, per raccontarvi ogni mio fallimento.


Immaginatevi una bambina piccola, 9 anni come ho detto, bassa, magrolina, capelli biondi e sempre legati in una coda (sono più comodi, così non mi cadono in faccia), occhi di un marrone piuttosto banale e qualche lentiggine sulle guance. Come vedete, non sono niente di che. Dai nove anni non sono cambiata granché, escludendo la scomparsa delle lentiggi e la comparsa di tette e varie forme. E i capelli lunghi fin sotto le spalle. Per non parlare del fatto che mi sono imbruttita.
Diciamo che a nove anni ero una bambina graziosa. Non la più quotata della classe, ma almeno i ragazzi giocavano e scherzavano con me. Ricordo alcune battute divertenti, alcuni dei più timidi che provavano a stringermi la manina o a accarezzarmi una guancia. Sa il cielo quanto vorrei adesso un gesto dolce.
Ma, si sa, l'adolescenza porta solo strafottenza e l'essere rudi come tori al pascolo.
Sta di fatto che lo vidi per la prima volta a nove anni, al mio terzo anno di elementari. Generalmente tendo a eliminare i ricordi troppo vecchi, ma questo proprio non va via.
Ricordo che nella mia classe, la sezione A, non mi piaceva nessun bambino. Uno troppo magro, l'altro troppo basso, un altro ancora con i capelli troppo neri. Ok, diciamo che sono una difficile in quanto a gusti, ma ho una predilezione per i biondi con gli occhi azzurri.
Lui era tutt'altro.

Stavo camminando fuori dalla classe, nell'intervallo, e cercavo di raggiungere il mio armadietto tra la calca di bambini saltellanti e felici che la giornata fosse quasi finita. I nostri armadietti avevano ognuno un animale diverso, e il mio era la rana.
Ho sempre pensato che fosse un messaggio subliminale per dirmi che ho la bocca larga e parlo troppo. Comunque, mentre passavo davanti al gruppo degli uccelli vidi una signora alta che sgridava un bambino. Non so perché ma mi fermai.
"Non puoi continuare a comportarti così, Harry!" stava dicendo lei, cercando di trattenersi dall'urlare troppo. Era un bella donna, abbastanza alta e con i capelli neri legati in una crocchia disordinata. Il cipiglio era arrabbiato, ma il suo viso sembrava piuttosto dolce e gentile.
"Ma mamma, non ho fatto niente.", rispose il bambino, sbuffando leggermente. Lo fissai, non l'avevo mai visto prima. Aveva i capelli neri ricci e fitti, che gli cadevano sugli occhi in onde spettinate e buffe. Non era un riccio crespo, ma quasi boccoloso. I suoi occhi erano verde brillante, quasi azzurri, e emanavano una furbizia fuori dal comune. Sorrise a sua madre, come per convincerla, e il suo sorriso era qualcosa di spettacolare. Aperto, perfetto, con i due denti davanti leggermente più grossi, tutti bianchissimi. E, ai lati della sua boccuccia paffuta, un miracolo incredibile che io, a quell'età, non avevo mai visto. Due buchetti adorabili e che ti facevano (e fanno) venire voglia di metterci il dito per vedere se sono morbidi quanto sembrano.
A nove anni a malapena avevo idea di come spiegarmi i miei puntini sulle guance e sulle spalle cercando di non farmi prendere dal panico in caso fosse varicella, ma i buchini sulla pelle proprio non riuscivo a concepirli.
"E la merenda di quel bambino è sparita nel nulla? Cosa ne dici di quella della settimana scorsa?" stava ancora chiedendo la mamma al bambino. Lui sollevò le spalle e le fece ricadere, mettendo su uno sguardo innocente. E magari avrei dovuto capirlo che a mentire era un campione.

Quella sera a casa chiesi a mio padre cosa significasse avere dei buchini sulle guance, ovviamente evitando di parlare del bambino.
"Si chiamano fossette -mi aveva detto- ed è una particolarità proprio come le tue lentiggini. O come una voglia. Sai cos'è una voglia?" mi aveva chiesto, ed io avevo scosso la testa.
Lui si era tirato su la manica della camicia e mi aveva mostrato una macchiolina un po' più scura sulla sua pelle, vicino al gomito.
"Vedi, si dice che se quando una donna incinta ha voglia di mangiare un determinato cibo e non lo fa, il bambino nasce con una macchia, che sta a significare la mancanza dell'aver soddisfatto quella voglia.", mi spiegò, rimettendosi la camicia a posto. Poi mi aveva accarezzato la testa e mi aveva accompagnato a dormire, rimboccandomi le coperte.
"Ora vado a lavorare, ho il turno di notte. Mamma tornerà verso mezzanotte ma tu dormi, non te ne accorgerai nemmeno.", mi disse e mi lasciò un bacio sulla fronte prima di uscire dalla stanza. Non sono mai stata una bambina paurosa, da sempre mi hanno spiegato che il lavoro è importante e viene prima di tutto. Se si guadagnano i soldi, si può avere tutto il resto.
Tranne l'amore, certo. Quello vero intendo.

Il giorno dopo volevo rivedere quel bambino. Mi incuriosiva l'idea, non so perché. Forse mi piaceva già, dato che nella mia classe non avevo mai avuto modo di vedere una figura decente. Non lo so.
Sta di fatto che nell'intervallo uscii dalla classe con passo deciso, facendo dardeggiare gli occhi a destra e a sinistra pur di trovarlo. Non fui così fortunata: non vidi il bambino. Ma dopottutto non l'avevo mai visto, magari rimaneva in classe e ieri era uscito fuori solo per parlare con sua madre.
Non lo vidi per tutta la settimana successiva, ma l'idea non abbandonava la mia mente. Era quasi dicembre, me lo ricordo, e l'aria già di per se' fredda di Londra era diventata ancora più fredda e pungente. Ricordo che adoravo mettere un ridicolo cappellino rosso.
Non ricordo il giorno preciso ma, infine, mentre mi spostavo insieme alla mia classe per fare educazione fisica, eccolo la. In piedi, di fianco ai bagni. I suoi capelli erano più corti, tagliati di fresco, ma i suoi occhi bellissimi come mi ricordavo. Lo guardai a lungo, finché il suo sguardo non incrociò il mio. Sollevò un sopracciglio e mi guardò con confusione e curiosità, mentre io arrossivo e tentavo (inutilmente) di distogliere lo sguardo. Poi mi fece un sorrisetto seguito da un occhiolino. Sì, a nove anni.

Dovevo proprio capirlo.

Quasi inciampai nella fila ordinata dei miei compagni che avanzavano, e mi scusai mentre arrossivo e cercavo di non farmi perforare la schiena dal suo sguardo.

Il giorno dopo fu il primo in cui parlammo.
Mi stavo togliendo il grembiule (avevo la divisa, lo so, uno schifo) e preparandomi per andare a casa quando sentii un colpetto lieve sulla spalla. Mi girai, incontrando gli occhi verdi screziati di azzurro e giallo del bimbo tanto agognato. Da vicino era ancora più carino.
"Ciao, mi chiamo Harry.", disse allungando una mano, come fanno gli adulti.
Riuscii a fare un mezzo sorriso, stringendo quella manina paffuta e calda: "Io sono Alexandra, ma puoi chiamarmi Alex."
Lui sorrise e poi, insieme, iniziammo a camminare verso l'uscita. Non disse niente, mi stava solo accanto, sistemandosi la maglietta bianca stropicciata. Fuori, nel parcheggio, mi aspettava come al solito mio nonno. "Io vado di là.", dissi indicando la destra.
Lui annuì: "Ci vediamo domani, Alex."
Mantenne la promessa.

Per i due anni successivi andò tutto a meraviglia: avevo la mia bella famiglia, i miei voti eccezionali e il mio migliore amico.
Harry.
Passavamo i pomeriggi al parco a rincorrerci e a giocare a nascondino, finché, verso le cinque, sua mamma veniva a prenderlo e lo trascinava via a forza. Harry mi faceva ridere, questo lo ricordo: è sempre stato un bambino vivace e coinvolgente. Mi raccontava storie chiaramente false su come aveva visto coccodrilli o affrontato un leone in giardino, ma io fingevo di credergli. Sempre.
Non avrei smontato quel sorriso bellissimo per niente al mondo.
E crescevamo, come tanti altri, affrontando mano a mano quelli che gli adulti chiamano 'i problemi della vita'. A partire da una sgridata, per arrivare ai primi problemi amorosi.

Harry era un segugio. Piaceva a tantissime ragazze, ma non mi dava granché fastidio. Sentivo quel piccolo pizzicore all'altezza dello stomaco ogni volta che faceva il solletico a qualche altra bambina, ma non l'ho mai considerato come gelosia.
Alla fine della quinta elementare abbiamo fatto l'esame insieme e, per festeggiare, mio papà ci ha portato a mangiare il gelato in un posto artigianale. Ricordo che Harry si è spaventato da morire quando l'asino gli ha rubato il suo cono, e ricordo che gli ho detto che pensavo fosse più forte, dato che aveva combattuto contro un leone. Rise forte, poi mi disse: "Solo tu potevi crederci."
Ho sorriso e non ho detto niente.

Un giorno d'estate dovevamo vederci per decidere a quale scuola media andare, visto che nella nostra città ce n'erano più di tre diverse. Ci eravamo organizzati per trovarci al parco sotto casa mia alle 3 di pomeriggio, ma alle 4 e mezza ero ancora sull'altalena da sola. Pensai che si fosse dimenticato.
Alla sera ricevemmo una telefonata e sentii mia madre chiacchierare amabilmente con qualcuno, prima che il suo tono si facesse triste e dispiaciuto.
Quando venne in camera mia le chiesi subito chi era al telefono, ma mi stupii quando disse che era la mamma di Harry.
"Tesoro...", disse mamma, "Mi ha detto Anne che suo marito ha trovato un posto di lavoro molto importante in Francia."
Io ho sorriso. Che ne potevo capire dei 'problemi della vita'?
"Mi dispiace, Harry va via."
Quello lo capii eccome.
"Quando?" le chiesi.
"Tra una settimana."

Non vidi più Harry, perché decisi che avrebbe fatto meno male un taglio netto. Una separazione forzata. E, da un giorno all'altro, Harry Styles smise di far parte della mia vita.
Per un po'.


A 17 anni potevo considerarmi l'emblema dell'inutilità.
I miei voti erano nella media, la mia popolarità decisamente sotto la media e la mia felicità decisamente sotto la media di quelli che stanno sotto la media. L'adolescenza mi ha portato tante cose negative e ben poche positive.
Avevo pochi amici, perché non riuscivo più a fidarmi di nessuno dopo quello che era successo con Harry.

All'alba del primo giorno del terzo anno di liceo fui decisamente sorpresa. Camminavo per i corridoi ormai conosciuti del mio istituto con le mie due 'amiche' ai lati quando sentii i ragazzi del football parlare di un nuovo ragazzo la cui bellezza avrebbe potuto portar loro via le cheerleaders più fighe. Alzai gli occhi al cielo e li ignorai. Scoprii chi era in mensa.
Prendevo sempre una mela e un piatto di insalata perché il resto mi faceva schifo solo a guardarlo, e mi sedevo in un tavolo nell'angolo destro della sala. Le mie amiche, Charlotte e Pansy, mi raggiungevano dopo aver parlato un po' con le fighe della nostra classe. Giusto per non allontanarsi troppo dalla figaggine.
Se così si può dire.
Quando entrò alzai la testa solo perché sentii alcuni sospiri e perché arrivò ben dopo tutti gli altri. Da lontano non lo riconobbi subito. Il primo pensiero fu: "assomigli ad Harry con quei ricci."
Solo che era molto più bello.
I capelli erano ricci ma meno voluminosi e più lunghi, la camminata sicura e lo sguardo strafottente. Mi dissi che Harry non poteva essere così. Lo ricordavo innocente e carino.

Ricordavo male.

Mi ricordo anche com'era vestito, con quella tuta grigia che gli fasciava i muscoli delle gambe e una maglietta nera attillata. Si spettinò i capelli, guadagnando qualche altro sospiro. Tornai a mangiare per conto mio, fregandomene.
Fino a che non venne lui da me.
Forse perché ero sola, o forse perché non stavo dando nell'occhio.
"E' libero qui?" chiese.
Alzai gli occhi e incontrai i suoi. Allora capii che era lui.
E svenni.


Non tanto bella come reazione vero? Poi, quando mi svegliai in infermeria accanto a lui, gli urlai contro. Gli urlai contro tutti gli insulti che conoscevo e le parolacce e gli tirai anche due sberle sul braccio. Lui rimase impassibile, poi disse:
"Ma chi sei?"


Due mesi dopo ero follemente innamorata di lui.
Perchè? Semplice. Non mi parlava, mi trattava male e mi ignorava. Serve davvero qualcos'altro per far avere una cotta ad un'adolescente femmina?
La risposta è no, in caso ve lo stesse chiedendo.
Lo sognavo di notte, lo bramavo di giorno, lo desideravo disperatamente, giorno dopo giorno. Dite che non è amore questo? Può darsi.
Ve l'ho detto all'inizio che l'amore è relativo e che nemmeno ora sono sicura di essere stata davvero innamorata. Ho anche detto che per noi è stato il mare il punto chiave.
È vero. Ma solo perché andavo là a scrivere poesie su di lui. Ne ho ancora qualcuna, da qualche parte.
Se la trovo ve la scrivo.
Lo dovevo immaginare che, quando iniziò a parlarmi, c'era qualcosa sotto. Qualcosa di sbagliato e di cattivo.
Iniziò un giorno, in cortile. Si avvicinò chiamando il mio nome e chiedendomi scusa per tutto. Non gli credetti subito.
Ci mise una settimana e mezza di gesti dolci e di carezze e dolci parole per farmi capire che davvero si era pentito. Mi accompagnava ovunque, veniva a casa mia e mi faceva ridere.
Sembrava il solito Harry. Il mio Harry.

Dopo poco cominciò a spingersi oltre. Le sue carezze si spostavano dalle guance fino al collo, poi sui fianchi. Finché, a casa mia, un giorno di Maggio, mi baciò. Non ci credevo.
Non volevo crederci.
Disse: "Scusa, non ho resistito."
Io l'ho solo preso per le spalle e l'ho baciato più forte. Mi piaceva così tanto da non riuscire a tenermi.
E non sto parlando solo dei baci.

Ci misi un mese scarso a dargli quello che voleva. Facemmo l'amore, per me lo era almeno, una sera di Giugno. A casa sua.
Andammo avanti tutta la sera. Io non mi pentii, non mi vergognai.
Era Harry, cazzo, l'unico al mondo di cui mi fidassi.
Vi ho già detto che è bravo a mentire, vero?
Solo che a capirlo non ero brava.
Non vidi che faceva una foto alle lenzuola sporche di sangue perché ero girata di spalle, intenta a rivestirmi.
Non ci volle molto, prima che la vedessi. Il giorno dopo la foto era appesa fuori da scuola.
Mi trasferii una settimana dopo.

Vi ricorda qualcosa? Dovrebbe.


A 20 anni, adesso, non è cambiato molto. Esteriormente.
Dentro, sono un'altra.
Ho tentato il suicidio 9 volte, prima di accorgermi che l'errore non era stato mio e che a morire, al massimo, non dovevo essere io.
Ho costruito quella che sono da macerie di dolore e di lacrime. Ho visto invecchiare i miei genitori e ho visto il loro sguardo di pietà che hanno quando mi guardano, e ho detto 'mai più'.
Mai più.
Mi sono rimboccata le maniche e ho trovato un lavoro del cazzo, ma almeno faccio qualcosa. Non ho amici, qui in Italia, e non ho un fidanzato. Non ho nessuno, oltre ai miei genitori.
Ci hanno provato, ad avvicinarmi. Sono io che allontano tutti.
Harry Styles mi ha rovinato la vita.
Eppure non sento di odiarlo neanche più, non sento più niente in effetti. Sopravvivo. Esisto. E va bene così, fa meno male.


Ho visto Harry l'altro ieri. È venuto in vacanza con i suoi amici, gli stessi fenomeni del football più qualche ragazza. Uno mi ha urlato di provare a stringere la corda più stretta, la prossima volta che provo a uccidermi. Gli sono scoppiata a ridere in faccia.
Ci è rimasto male.
Capisco di aver sbagliato a trasferirmi, perché gli ho solo mostrato il fianco permettendomi di colpirmi il doppio.
Tornassi indietro, rimarrei e gli riderei in faccia ogni giorno.
A tutti loro.

Harry non ha detto niente, mi ha guardato e poi ha distolto lo sguardo. Spero si vergogni per quanto schifo mi fa.


Oggi esco per andare a comprare il pranzo, e so già che lo incontrerò. Non so come, ma lo sento. Ed è nel reparto del latte che lo incontro, intento a fissare un'etichetta.
Ha i capelli ancora più lunghi e gli occhi spenti. Fa male sapere che mi dispiace di vederli così. Fa male verso me stessa, perché l'istinto di sopravvivenza viene sempre meno, davanti a lui.
"Ehi.", dice quando mi vede. La voce è roca e profonda come la ricordo. Bella e ingannevole.
I suoi jeans neri soliti gli stanno larghi, la maglia cade sformata. È dimagrito parecchio.
Gli faccio un cenno, poi lo supero. So che mi fermerà ancora prima di sentire la sua mano avvolgersi delicatamente attorno al mio braccio. Mi giro, incontrando il suo sguardo dispiaciuto.
"Sei dimagrito.", commento, staccando la sua mano dalla mia pelle. Lui annuisce e deglutisce, in imbarazzo.
"Senti, io...", inizia, ma lo interrompo subito.
"No. Non mi interessa, qualsiasi cosa sia.", dico risoluta. Ed è così, non voglio più sentire niente.
Nessuna bugia.
Nessuna giustificazione.

Perché ci crederei ancora.


"Ti prego, mi dispiace!" mi implora quasi.
Ma quando io imploravo lui, dov'era?
"Ok.", rispondo.
Dietro di lui si riuniscono i suoi amici e mi fissano con aria divertita. Ma la mia è indifferente. Non ho paura.
"Harry, che fai?" chiede una ragazza.
"Sì, che stai facendo?" lo sprono. Non dirà mai la verità davanti a loro. Non dirà mai che stava chiedendo scusa.
"Io...niente.", mormora.
Gli sorrido. È un sorriso di vittoria. E la sua smorfia è quella dei perdenti. Sai cosa, Harry? -penso- Tu avrai anche vinto una scommessa con la mia verginità, ma nella vita hai perso tutto.

Sei solo un coglione. E non avrai mai pace per questo.


Altri due giorni dopo sto malissimo.
Piango nel letto, poi mentre vado a lavoro e infine quando passeggio per la città. Vederlo mi ha ucciso.
È che lo amo ancora più di prima, quanto è autolesionista questa cosa? Non potrei dimenticarlo e basta? O sputargli addosso.
Lo chiamo.
Il numero è lo stesso quando sento il suo "Pronto, sei davvero tu?"
"Sì. Dove hai l'hotel?" gli chiedo.
Mi da l'indirizzo, gli dico di sbarazzarsi dei suoi amici.
Quando arrivo, mi guarda confuso. Ma io voglio solo mettere fine a questa storia. Voglio chiudere questi sentimenti dolorosi, voglio cancellarlo dalla mia vita.
"Ora stai zitto.", gli dico solo.
Poi lo bacio. Zittisco le cose che ancora vuole dire.

Faccio l'amore con lui. Una volta, poi due.

Lui non dice più nulla. Mi guarda addolorato, capisce cosa sto facendo. È triste, ma io lo sono di più.
Gli dono me stessa ancora una volta. Tengo gli occhi chiusi tutto il tempo.
Tengo il cuore chiuso, tutto il tempo.
Poi mi alzo. Mi vesto. Divento meccanica, un robot. Gli sorrido. Lo saluto. Ed esco.

"Ti prego. Perché?" chiede la sua voce dietro di me.
Non mi giro nemmeno: "Quando partite?"
"Domani.", sussurra.
Sorrido. Finalmente. "Perché tu hai potuto e io no?" gli rispondo.
Poi vado via.


L'ho perso anche adesso.
E fanno tre. Ma non ce n'è una quarta, penso mentre faccio la doccia ed elimino il ricordo di Harry Styles dalla mia vita.

Per sempre.

Ho concluso che, 

siccome sono un'idiota che non riesce a finire una fanfiction intera, 

almeno pubblicherò le one shot che la mia mente malata partorisce.

Spero che a qualcuno piaccia.

Chiara.

  
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