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Autore: Christa Mason    20/06/2015    1 recensioni
Julian Casablancas è uno studente del Le Rosey e fa tremendamente freddo quando incontra Gil.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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  Fare l’amore con Julian nella mia stanza è qualcosa che mi ha fatta sentire sicura come nessun’altra cosa prima della scorsa notte. Le sue mani tremanti e alcoliche mi hanno presa, stretta, amata come nessun altro. Abbiamo riso incitandoci a fare silenzio, abbiamo graffiato la nostra pelle accolta dalle lenzuola, e ci siamo addormentati uno sull’altra, esausti e vuoti. Siamo aggressivi e arrabbiati quando ci amiamo, poi dormiamo, poi siamo allegri e volgari finché non ci spogliamo di nuovo. Non c’è nient’altro che desideri, tranne che tutto ciò non finisca mai. Conosco Julian da appena poco più di una settimana, e già temo la prossima estate, la sua partenza, e il suo inevitabile ritorno. Lo immagino così bene mentre rimette piede in Svizzera dopo un’estate a New York, cambiato, irriconoscibile, mi ha dimenticata, mi sorpassa senza notare la mia presenza. Gli accarezzo i capelli e mi sforzo a non pensare a queste cose, ma non ci riesco, mi addormento stringendo Julian a me perchè non sfugga, perchè non se ne torni a New York. 
  Mi sveglio e lui è ancora addormentato, di quel sonno leggero destinato a rompersi al primo rumore, un orecchio ad ascoltare i miei respiri. Julian, svegliati e fuggiamo e iniziamo l’anno nuovo in un posto che non sia questo. Fuggiamo e basta, Julian, svegliati. voglio dirgli, vorrei così tanto, e so che la sua risposta sarebbe un mugugnare stanco e affermativo. 
  “Julian, svegliati e fuggiamo.” gli dico.
  “Dove?” mi chiede, ancora gli occhi chiusi, immobile.
  “Dove vogliamo.” esito “Parigi.” propongo. 
  “Ci servono soldi per andare a Parigi.” 
  Sono delusa dal fatto che la sua risposta non è affatto un mugugnare stanco e affermativo. Julian è bloccato in questa fottuta Svizzera molto più di quanto lo sia io, bloccato dai soldi che è abituato ad avere e che non avrebbe in una ipotetica fuga con me, bloccato da un padre che lo vuole solo lontano, diplomato e lontano. Non me l’ha più detto, ma io so che Julian ama poter pensare che se tiene la testa bassa potrà tornare a New York. New York è tutto ciò che desidera. E a New York non c’è spazio per me.
  “Potremmo partire e basta.”
  “Devo finire l’anno al Le Rosey, Gil.”
  Deve finire l’anno al Le Rosey, naturalmente.  
  “Tuo padre ha un’agenzia di modelle, Jules.” gli dico stronza. Mi alzo, levandomelo di dosso con fare sbrigativo. Mi infilo i jeans lasciati cadere per pavimento la notte prima con più eccitazione di quanto non siano stati adesso raccolti. Non possiamo litigare, siamo troppo diversi per litigare, non ci capiremmo, ma possiamo evitarci per qualche ora. Dobbiamo evitarci per qualche ora, esattamente come devo andare a lavorare al ristorante della stazione sciistica. Mi infilo una felpa e vorrei solo non aver tirato fuori quella stupida storia di Parigi. 
  “Perchè tiri fuori mio padre, adesso?”
  “Niente. Volevo ricordarti che non è Dio.”
  Ci mettiamo le scarpe in silenzio, Julian raccoglie le sue cose, gli dico di sbrigarsi, sono in ritardo. Esce di casa con le sue Adidas slacciate, colto da brividi di freddo si infila la sua maglietta bianca mentre scendiamo le scale, infine la sua giacca di pelle troppo stretta. Penso che gli servirebbero dei guanti. 
  “Ti do un passaggio?” mi chiede indicando la macchina, la bella MG d’epoca che mi farebbe fare una figura che pochi avrebbero dimenticato. Immagino il mio arrivo alla stazione sciistica. Gillian, la piccola cameriera delle case popolari che arriva al lavoro a bordo di una MG.
  “No, prendo l’autobus.”
  “Okay.”
  Facciamo per andarcene freddamente. Ma sono pochi attimi prima che entrambi ci voltiamo, inevitabilmente attratti l’uno dall’altra.  Diciamo qualcosa, qualsiasi cosa, prima di andare.
  “Ci vediamo, dopo?” mi precede.
  “Sì.” dico pronta.
  “Fantastico.” sorride.
  Ci allontaniamo entrambi soddisfatti, trionfanti oserei dire. No, Julian. Non possiamo litigare.
  Ed è solo al suo sorriso che penso mentre giro tra i tavoli, mentre accolgo i clienti che non sembrano neanche notarmi. Sono invisibile, ma non per lui. Me lo vedo, spettinato che si veste di fretta scendendo le scale, la maglietta sgualcita e quel suo stupido modo di camminare, sicuro e sbilenco. Mi basta pensare al suo sorriso, per tradirne uno dei miei. Devo sembrare una vera stupida. Ricordo il suo inchino plateale al tavolo Dodici, l’inizio di tante cose proprio dove adesso siede un’innocua famiglia tedesca. Strano come è il tavolo Dodici a ricordarmi il primo incontro con Julian, il vero Julian, più di quanto non faccia la visione quotidiana del lago ghiacciato, che quella sera quasi ci aveva fatto assistere alla morte di Gary Simmons. La direttrice di sala, con quei suoi occhiali ridicoli, mi sollecita ad andare a destra e a sinistra. Svegliati un po’ ,Gil. 
  Le ore passano, i rumori si fanno ovattati e i movimenti come passati alla moviola, filtrati nei miei pensieri. Non vedo un film da una settimana, ne sento appena la mancanza. Immagino una commedia romantica americana su noi due, sorrido pensando alla notte appena passata. Sì, Gil, sembri proprio una stupida. Amo Julian nello stesso modo in cui si ama un’ispirazione, nello stesso modo infantile e passionale in cui si ascolta mille volte la stessa canzone, avrebbe potuto essere Paul Newman, un attore americano di cui non si fa altro che fantasticare per giorni, finché tutto non passa, naturalmente, e non fa male. 
  Sono le quattro di pomeriggio, la fine del turno, quando lo vedo attraverso la vetrata dirigersi verso l’ingresso. Una macchia che affonda passi nella neve. Mi sento innamorata, persa nei nostri ricordi condivisi, avida e bramosa di crearne degli altri. Si trascina dentro, come fosse distrutto. 
  “Julian!” lo saluto. Tra le labbra tiene una sigaretta ancora spenta che si toglie tremante dalla bocca, la mette in tasca facendomi un cenno. Ha un aspetto orribile, ben lontano dal ragazzo che avevo tenuto tra le braccia quella notte. Le occhiaie scavate e la pelle lucida. Che cazzo hai fatto, Julian? 
  “Julian, stai bene?” mi avvicino. 
  “Sì, sì…” 
  “Sei ubriaco.” concludo. 
  “Adesso passa.”
  “Julian…” non so neanche io cosa vorrei dirgli, forse volevo provare a litigare. Julian mi interrompe cadendo tra le mie braccia. Mi sfugge e cade sonoramente a terra. Un tonfo disperato. Due spasmi e le pupille bianche. Chiamo il suo nome, non mi sente. Svegliati, Julian, svegliati. Il signore del tavolo Dodici mi allontana, vuole aiutare, io piango, urlo e neanche me ne accorgo. Forse gli fa un massaggio cardiaco, forse capisce che Julian Casablancas è solo un ubriacone e non fa niente. 
  
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