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Autore: Afaneia    21/06/2015    5 recensioni
È l'anno della prima edizione della Lega Pokémon: Samuel Oak è un valido allenatore all'inizio di una brillante carriera. Tutto ciò che vuole è affermarsi e competere con avversari del suo livello.
Agatha ha diciott'anni, è testarda e impulsiva, orgogliosa e severa con se stessa e con gli altri.
Il loro è un legame inaspettato, guidato dall'ambizione e dalla fame di avventure. Ma proprio questa ricerca di avventure finirà per condurli in una spirale di eventi agghiaccianti e irresistibili, in una tragedia di cui non volevano affatto essere i protagonisti, tanto spaventosa e irreale da essere destinata a rimanere per sempre segreta...
Genere: Avventura, Drammatico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agatha, Prof Oak
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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Buongiorno e buona domenica a tutti!

Mi rendo conto di aver lasciato passare un tempo assurdamente lungo dall'ultimo aggiornamento, ma devo confessare che ho avuto orari di lezione improponibili e la sessione non mi ha di certo aiutata; comunque ho deciso di prendermi qualche giorno di riposo per dedicarmi a scrivere e ad aggiornare la storia, e ne avevo proprio bisogno. Spero di non impiegare lo stesso tempo anche per il prossimo aggiornamento!

Questo capitolo è stato una bella sfida per me, ma non penso che sarei stata in grado di scriverlo meglio di com'è venuto: nell'insieme, sono abbastanza soddisfatta. Spero di non aver deluso troppe aspettative, se mai qualcuno ne avesse nutrite al riguardo, e di non lasciare molti dubbi o punti poco chiari.

Tutti i miei ringraziamenti e i mie abbracci a cristal_93, a Bankotsu90 e a Persej Combe per le loro recensioni e i loro pareri: contano davvero tantissimo per me!

Detto questo, non posso che lasciarvi alla storia: buona lettura e buon primo giorno di estate!


Afaneia


Capitolo VII – Inferno.


Fuoriusciva a mezzo da una profonda buca nel terreno. Le sue carni erano scavate, flaccide e marcescenti, vive e purulenti sul petto, come se vi fossero state ferite che ormai non potevano più sanguinare; ma ferite lunghe e sottili, come se si fosse dilacerato il petto con le sue proprie unghie... Era nudo, era calvo, colle intimità orrendamente rattrappite, il cranio ferito e ammaccato cosparso di nauseabonde croste. Il suo volto era grottescamente scavato, esangue sotto una sozzura nera che lo ricopriva, i suoi occhi affondavano all'interno di orbite profonde come abissi...

«Sei qui, finalmente» disse muovendo con difficoltà la bocca marcescente, come se un tempo qualcuno gli avesse slogato la mandibola. Ma Samuel capì che non parlava direttamente, intenzionalmente con lui; parlava con la persona a cui si stava rivolgendo prima del suo arrivo, e che ora identificava con lui.

«Non sono stato io a rinchiuderti qui dentro!» esclamò, immobile là dove si era fermato a pochi metri di distanza da lui, poiché questa gli sembrava l'unica cosa che il mostro poteva desiderare di sentirsi dire da lui, o dalla persona alla quale credeva di rivolgersi.

Gli occhi del mostro saettarono da una parte all'altra dello stretto corridoio tra i due filari di tombe: forse cercava se vi fosse qualcun altro oltre a lui?

«Sono in trappola» disse con bassa voce lenta e rantolante, muovendo un passo nella sua direzione.

Era troppo, era molto più di quanto Samuel fosse in grado di reggere. Alla vista di quel corpo ripugnante che si muoveva verso di lui, delle sue ferite straziate e purulente che si riaprivano nel torcersi dei muscoli, dei suoi orridi e grotteschi movimenti nel tentativo di uscire dalla buca, un senso profondo di orrore e di disgusto lo invase. Senza dare allo zombie il tempo di reagire, né a se stesso quello di riflettere, afferrò la pistola dalla tasca del giaccone, tolse la sicura e sparò tre colpi nella direzione di quell'essere.

Samuel Oak era un allenatore, non un tiratore. Di quei tre colpi, solo uno andò a segno e affondò nella carne putrescente del sepolto vivo, trapassandola come acqua: l'orrida creatura fu spinta all'indietro per la forza d'urto del proiettile, col petto trapassato da parte a parte – ma non chiuse gli occhi, non gridò, non ebbe reazione. Rimase stupidamente in piedi col volto decomposto privo di qualsiasi espressione di stupore o dolore o rabbia, e Samuel comprese improvvisamente che essendo morto non poteva morire, e che alle sue carni decomposte non era dato provare dolore.

«Mi sento solo» disse semplicemente.

Anch'io fu il suo primo, drammatico pensiero, e anche l'ultimo, prima di cominciare a correre.

Ripercorse a ritroso il corridoio tra le tombe, con Arcanine che gli correva dietro guaendo di terrore: ma ora in che zona della Torre si trovavano, in quale angolo di quella stanza immensa? Rimpianse di non aver memorizzato la posizione delle scale, di non aver scelto dei punti di riferimento mentre scavalcava correndo lapidi e statue che mai come in quel momento gli erano parse identiche e indistinguibili tra loro. Attratto da quella voce, solo pochi minuti prima aveva attraversato di corsa la stanza buia e ora non sapeva più dove si trovasse e poteva darsi persino che avesse girato in cerchio...

«Molto, molto solo» disse all'improvviso una voce nel buio.

Il sepolto vivo era ora di fronte a lui, a due o tre metri scarsi di distanza. Samuel si scoprì ad ansimare rapidamente mentre, con gli occhi infissi in quell'abominevole sembiante, cercava di convincersi della concretezza della sua presenza. Non era possibile – l'aveva superato. Quel mostro poteva muoversi all'interno della Torre con rapidità disarmante. Era in trappola.

«Vuoi venire con me?»

«No!» tuonò Samuel. Sapeva di starsi comportando in modo illogico e insensato, ma che poteva fare, poiché non vedeva vie di fuga? «Non sono io che ti ho fatto questo! Non è stata colpa mia!»

Il sepolto vivo lo fissò in silenzio senza dar segno di aver udito o tantomeno comprese le sue parole: Samuel rimase come sospeso, in attesa di una qualsiasi risposta o reazione a ciò che aveva detto, senza desiderare altro che di vedere cosa sarebbe accaduto a quel punto.

«Mi sento solo» ripeté ancora il sepolto vivo e poi all'improvviso, calando dall'alto con un sibilo acuto, apparve tra di loro un grosso Gengar.

Samuel rimase sulle prime sconvolto, del tutto stupefatto: di tutto ciò che aveva creduto, non si sarebbe aspettato certo che... ma era un Pokémon, quantomeno.

«Vuoi lottare?» chiese stupefatto, e non vi fu risposta, ma non poteva che essere così. Quello era un allenatore zombie, e quello il suo Pokémon fantasma... in un modo del tutto orribile e allucinato, aveva senso. «Se vinco, mi lascerai andare?»

Di nuovo non vi fu risposta, ma quale altra scelta aveva? Era pur sempre una lotta ed era la sua unica possibilità.

«Va bene, va bene... lottiamo.»

Sentirsi sollevato era da folle, Samuel lo sapeva bene, eppure in quel momento era così che si sentiva: di tutta quella storia, di quell'orribile luogo, una lotta era l'unica cosa ch'egli potesse concepire. Il mostro voleva una lotta, Samuel era un allenatore: ma certo! Cosa poteva esserci di più logico, di più conseguente? S'egli avesse vinto la lotta, il sepolto vivo avrebbe smesso d'inseguirlo e di raggiungerlo. Era così, doveva essere così, e Samuel represse furiosamente nella propria mente ogni possibile ombra di dubbio che vi si stesse insinuando al riguardo, sopprimendo con rabbia i viticci sottili d'incertezza che minacciavano di minare quell'idea. Non poteva essere altrimenti! Una lotta era stata sempre un mezzo di scambio o una fonte di prova, era sempre stato così per tutti gli allenatori... e negli ultimi anni egli non aveva mai perso. Sì! Si sarebbe aperto la strada lottando, come sempre aveva fatto negli anni dei suoi allenamenti, come se quella Torre diabolica non fosse stata altro che il dedalo senza fine di una grotta nella quale egli si fosse perso e il sepolto vivo, e il Pokémon che combatteva con lui, nient'altro che qualcuno dei tanti Pokémon selvatici che lo allontanavano in continuazione dal fiotto d'aria fresca che giungeva dall'alto e che voleva mostrargli la strada per uscire.

«Vai, Arcanine!» ordinò seccamente, ed esso non se lo fece ripetere due volte. Con un balzo poderoso delle zampe ben piantate, Arcanine si schierò davanti a lui, faccia a faccia con Gengar, al centro di un immaginario campo di battaglia che Samuel vedeva disegnarsi con rapidità nella propria mente, e ruggì. Il suono di quel ruggito gli diede un senso di conforto che fino a quel momento gli era parso inimmaginabile: Samuel sentì il sollievo crescere e dilagare nel suo petto come una calda marea. Arcanine non lo aveva mai deluso. Li avrebbe tirati fuori entrambi da quella situazione e l'incubo sarebbe finito.

Il sepolto vivo non disse una parola. I suoi occhi si mantenevano vacui e privi ed egli li teneva infissi sul terreno di scontro quasi senza vederlo, eppure Samuel era convinto ch'egli fosse attento e consapevole di quanto stava per accadere.

Se lottare era la sua via di salvezza, Samuel non poteva permettersi di perdere tempo. Arcanine attendeva i suoi ordini con la sua infaticabile fiducia ed egli vedeva i suoi fianchi trepidare d'impazienza e di eccitazione; poteva leggere la sua voglia di combattere nella luce che tremava sulle pareti... Non era il frangente adatto per adottare una strategia di tipo passivo-difensivo: in quella lotta dall'esito fatale, egli non poteva permettersi di lasciare la prima mossa al suo nemico.

«Arcanine, Fuocobomba!»

Arcanine non ebbe esitazione. Le fiamme che eruppero dalla sua bocca illuminarono a giorno l'aria stantia dell'enorme sala, divamparono come fiumane incandescenti, tanto che persino Samuel, che pure vi era abituato, chiuse istintivamente gli occhi e vi si portò una mano davanti, pur continuando a guardare, fissando con difficoltà attraverso le fessure tra le dita: il fuoco aveva avviluppato il corpo di Gengar, egli sentiva le sue strida di dolore soffocate dal crepitio delle fiamme, eppure presto esse si sarebbero dissolte... nella luce abbagliante di quella torcia, Samuel non seppe resistere al gettare un'occhiata al suo orrido nemico. Com'era naturale, i suoi occhi erano ormai quasi ciechi, troppo sensibili alla luce: disturbato dall'incendio che divampava a pochi passi appena da lui, il sepolto vivo si era riparato il volto con ambo le braccia e ora, attraverso i viluppi delle sue membra scheletriche, egli leggeva la smorfia di dolore e fastidio che gli si era dipinta sulla bocca.

Rapido com'era iniziato, il fioco si consumò e si spense e la sala sprofondò di nuovo nel buio, ma più profondo e impenetrabile di quello che l'aveva preceduto. Samuel si ritrovò ad avere gli occhi lacrimanti, abbagliati dalla luce intensa che aveva folgorato la sala, e si rese conto di non riuscire più a vedere in quell'oscurità. Trovarsi al buio senza preavviso lo riempì di terrore: come seguire ora la battaglia?

«Arcanine!» urlò, continuando a sbattere le palpebre per cacciare via le lacrime e abituarsi a quella nuova oscurità. Come avrebbe fatto il suo Pokémon a lottare senza il suo aiuto? «Arcanine, stai attento!»

Udì provenire dall'oscurità, a una distanza imprecisabile da lui, un suono orribile e umidiccio, tanto evocativo da dargli la precisa sensazione di qualcosa di gelido e viscido che gli scivolasse lungo la schiena, e urlò di nuovo: «Attento!»

Era certo che Gengar stesse attaccando, quel suono che aveva sentito non poteva essere altro che quello di una Leccata, ed egli sapeva bene quanto infida potesse rivelarsi quella mossa. Infisse disperatamente gli occhi davanti a sé, cercando di penetrare lo schermo della notte: sì! Riusciva a intuire la grossa sagoma nera di Arcanine, stagliata contro il buio che stava diventando un grigio uniforme ai suoi occhi, ferma ma tesa e nervosa; non vedeva Gengar, eppure era certo che fosse vicino... doveva rischiare.

«Arcanine, Lanciafiamme!»

Sarebbe rimasto accecato ancora per vari secondi, tuttavia non poteva permettersi di distogliere lo sguardo: socchiuse gli occhi mentre una frusta fiammeggiante dilaniava le ombre e di nuovo illuminava la sala a giorno, ma stavolta con l'effetto fugace e inquietante di un lampo. In quel rapido attimo di luce, Samuel vide gli occhi spalancati di Gengar, la sua bocca ammutolita e contorta dal dolore, ma il suo gemito strozzato perdurò nell'aria anche più a lungo, quando le fiamme si furono spente e i suoi occhi non furono più in grado di vedere.

Si spense solo dopo una decina di secondi. Samuel rimase a lungo interdetto, sforzandosi di mantenere il respiro per evitre di sovrastare col suo rumore quello di qualsiasi suono che potesse dargli indicazioni sull'esito della battaglia: aveva vinto? Aveva sconfitto Gengar? Ah, se solo fosse riuscito a distinguere qualcosa nella luce della luna che filtrava dai finestroni sporchi, e che di certo sarebbe stata sufficiente s'egli non fosse stato abbagliato da un fuoco più intenso!

Gli giunse alle narici un odore terribile, tanto forte e nauseante che Samuel si tappò istintivamente il naso. Cos'era quella puzza? Gli invase la mente un dubbio terribile, angosciante, ma poi fu la puzza stessa a dissolverlo: egli la conosceva, l'aveva già sentita altre volte, ma non era sangue, era... era...

Ma certo! Aveva ricordato cos'era, e ora che sapeva esattamente cosa e dove cercare i suoi occhi percorsero con più sicurezza l'oscurità, frugarono le tenebre con maggiore prontezza: si soffermarono quando trovarono una sagoma irregolare, d'aspetto molle e flaccido, come una macchia più scura sul pavimento stagliata contro il grigio uniforme della notte... era un Muk, e ora che aveva un punto di riferimento la sua vista si abituò più facilmente al buio, riuscì a discernere con sufficiente precisione i contorni e le distanze. Non riusciva a individuare da nessuna parte la sagoma di Gengar, e questo voleva dire almeno che Arcanine era riuscito a sconfiggerlo: vedeva ancora infatti la silhouette eretta del suo Pokémon, riuscendo persino a riconoscere le striature del suo pelo variegato, e più oltre vedeva senza possibilità d'errore il pallore malaticcio della pelle del sepolto vivo: scorgeva persino, sul suo volto corrucciato e indecifrabile, le strane linee d'ombra dovute al susseguirsi sulle pareti delle finestre e all'incrociarsi nella sala delle loro proiezioni di luce... si trattenne dal guardarlo ancora e cercò di concentrarsi sulla battaglia, perché la sua vista lo riempiva di ribrezzo e continuava a insinuare nella sua mente il dubbio che, da quella Torre, lui e i suoi Pokémon non sarebbero usciti mai; che non era certo di una sfida che quel mostro si sarebbe accontentato...

Arcanine sembrava turbato dall'odore terribile emanato dal corpo del suo rivale: Samuel lo vide arretrare nervosamente di qualche passo, pur sforzandosi di mantenere la posizione, e lo udì emettere un basso ringhio di protesta e di minaccia. Era stranamente più agitato di quanto fosse mai stato di fronte a un nemico, e aguzzando la vista nell'oscurità Samuel non fece fatica a intuirne il motivo: anche Muk sembrava sepolto lì da tanto tempo.

«Va tutto bene, Arcanine!» gridò. Le sue parole ebbero una strana eco rimbombante nell'enorme sala vuota, eppure non gli fecero paura: chissà perché, l'impressione di sentire un'altra voce che fosse veramente umana lo faceva sentire un po' meno solo al mondo e inascoltato. «Ancora Lanciafiamme!»

La sala si accese un'altra volta, un disegno di fiamma si delineò nell'aria immota e stavolta Samuel non riuscì a trattenersi dal chiudere gli occhi e dal volgere il capo all'indietro, tuttavia la battaglia non cessò di raggiungerlo per altri mezzi: più forte del crepitio che perdurava nell'aria, egli udì il forte mugghiare sofferente di Muk, gli giunse alle narici un odore ancora più intenso che sapeva come di gomma bruciata... Quell'odore era il più forte e disgustoso che avesse mai sentito, più crudo e vivido assieme di qualsiasi altro che fosse stato prodotto durante una battaglia, forse proprio perché, di quella lotta, egli non riusciva a percepire altro che dolore e carne bruciata. Quell'odore gli diede una sensazione tanto immediata, fisica, che credette di dover vomitare. Si premette di nuovo e con più violenza la mano sul naso mentre cercava di tornare a guardare avanti a sé.

Ovunque posasse lo sguardo, ora lunghe fruste colorate gli abbacinavano gli occhi come dopo aver fissato troppo a lungo il sole, e per diverso tempo egli non vide nient'altro che quegli odiosi giochi di luce che si spostavano assieme ai suoi occhi. Ma il Lanciafiamme aveva avuto effetto?

Udì il verso sonante di Muk mentre di esso non riusciva a distinguere a malapena che la sagoma informe attraverso le macchie di luce: sforzandosi di mantenere lo sguardo fisso su di lui, vide che contraeva il proprio corpo molle sul pavimento nei suoi tipici movimento scomposti che preparavano un attacco. «Arcanine, spostati!»

L'enorme bocca di Muk si spalancò per eruttare un fiotto maleodorante di liquido denso che Arcanine non riuscì a evitare: il Fango lo colpì in pieno muso, sul petto e sulle zampe anteriori, ed esso ringhiò scuotendosi e dimenandosi per liberarsene, ma invano: quella melma brunita andava già rapprendendosi sulle sue membra. Samuel aveva assistito altre volte agli effetti di un attacco Fango: sapeva che aderiva alla pelle, finendo per ostruirne e soffocarne i pori, e paralizzava le membra rallentando i movimenti. Entro pochi secondi Arcanine non sarebbe quasi più stato in grado di muoversi, allora bisognava attaccare ora, compiere un atto inaspettato che fosse in grado di sorprendere il suo nemico. «Arcanine, usa Morso!»

Quando ricordò quanto insidiosi e subdoli fossero i Pokémon Veleno, per l'ennesima volta, era troppo tardi. Muk rilasciò una nuvola di Velenogas nel medesimo istante in cui Arcanine gli infliggeva il colpo definitivo affondando le zanne nel suo corpo flaccido. Era l'ultimo attacco, il suo canto del cigno, perché di certo ora non sarebbe più stato in grado di combattere, ma questo contava poco: Arcanine aveva inalato il gas quasi puro nello stesso istante in cui era stato emesso e di certo il veleno doveva avergli già contaminato i polmoni e le vie respiratorie: Samuel lo sentì annaspare e tossire e lo vide fremere, contorcendosi in preda ai conati di vomito...

Se fosse stato possibile, Samuel avrebbe in quel momento potuto giurare di essersi scordato della presenza del sepolto vivo. La vista di Arcanine gli riempiva la mente così come il veleno stava consumando i polmoni del suo compagno: era avvelenato, paralizzato, stava soffocando! La sua mano corse da sola alla cintura, si trovò ad annaspare tra le Pokéball alla ricerca dell'unica rimasta vuota...

Fu allora che arrivò la mano.

Capì che apparteneva al sepolto vivo con la stessa certezza con la quale l'aveva saputo per Gengar e Muk. Era bianca e avvizzita, con lunghe dita scheletriche su cui la pelle sembrava ricadere come morta, rugosa e flaccida; sembrava recisa all'altezza del polso – ma di un polso immane di alcuna creatura esistente, di almeno quaranta centimetri di diametro – e brani di muscolo e tendine ne pendevano in modo raccapricciante, muovendosi in risposta a ogni suo gesto.

Questa volta il suo corpo non ebbe alcuna reazione fisica. Samuel rimase stolidamente immobile davanti a quel prodigio ripugnante e terribile, del tutto incapace di muoversi o di urlare o di reagire, e una parte di lui avrebbe voluto gridare e mettersi a correre, fuggire il più lontano e il più velocemente possibile da quell'abominio, ma quella parte era impotente e inascoltata. Gli sembrava che gli impulsi che il suo cervello inviava si dibattessero ululando lungo i suoi nervi nel tentativo di scorrere giù, di raggiungere le sue membra e scuoterle per farlo reagire, ma contemporaneamente ogni singola parte del suo corpo sembrava aggravata di un peso infinito, totalmente sorda e insensibile a quelle urla...

Arcanine emise un tremulo guaito di terrore.

Quando finalmente, dopo un tempo lunghissimo, Samuel riuscì a distogliere lo sguardo dalla pallida mano, vide che il suo Pokémon si era accucciato al suolo, col corpo tutto raccolto e premuto contro una lapide, e che respirava a fatica. Anch'esso non riusciva a distogliere lo sguardo dalla mano e proprio per questo non accennava ad allontanarsi dalla tomba: sembrava sperare di farsi il più piccolo e insignificante possibile, quasi riuscire a sprofondare e fondersi con la dura pietra contro la sua schiena, e sfuggire così all'oscuro potere di quella mano. Da quando lo conosceva, quella era la prima volta che Arcanine aveva veramente paura.

Ma che cosa stava facendo? Ce lo aveva portato lui lassù, e ora lo lasciava alla mercé di quella cosa terrificante! Arcanine si era fidato della sua scelta, lo aveva accompagnato e condotto attraverso la notte perché era certo ch'egli l'avrebbe protetto sempre, e ora egli non stava facendo niente per proteggerlo e per salvarlo! Tornò ad annaspare con la mano sulle ball appese alla cintura, graffiò più volte senza riuscire ad afferrarla la superficie sferica con le dita che tremavano; riuscì alfine a strapparla da suo sostegno e cercò di stringerla solidamente nel pugno per richiamare Arcanine...

Ma poi la Pokéball gli scivolò dalla mano sudata e rotolò con tintinnii echeggianti da qualche parte nel buio. Quanto tempo avrebbe impiegato per ritrovarla?

Samuel non si rese conto di essersi precipitato in avanti finché non avvertì la sensazione concreta e umida delle sue mani che affondavano nella pelliccia morbida di Arcanine, ora intrisa e appiccicosa di Fango, e sentì il suo corpo che ansimava e sussultava dolorosamente a tratti irregolari mentre i suoi polmoni ustionati si dilatavano per respirare. Non si sarebbe reso conto neppure di stare urlando se Arcanine non lo avesse guardato, con le pupille enormemente dilatate, come richiamato dalle sue grida, e non avesse emesso un basso uggiolato che era come una richiesta di pietà.

«Lasciaci andare, ti prego! Ha bisogno di un medico, ha bisogno...»

Non sapeva neppure cosa precisamente stesse urlando o chiedendo, e neppure per quale ragione. La sua voce finì per ammutolirsi da sola quando una parte della sua mente si rese finalmente conto che alle sue preghiere non rispondeva che il silenzio: allora Arcanine emise un'ultima nota incerta e stranamente calma, come se volesse rassicurarlo e dirgli di smettere, di non affannarsi, che non ne valeva la pena...

Alle sue spalle, la mano scattò.

Samuel lo percepì dall'improvviso sibilo nell'aria che fischiò dietro di lui. In un tempo che sembrava scorrere a una velocità eccezionalmente lenta e snaturata egli riuscì a voltarsi e a vederla con precisione stupefacente. La vide avvicinarsi e diventare ai suoi occhi sempre più grande, più vivida e più distinta, ne distinse con curiosa e malsana attenzione persino i più orridi dettagli delle vene sporgenti di colore violaceo, delle scure macchie brunite della pelle, dei tendini che cadevano in grossi viluppi rattrappiti fuoriuscendo dal polso...

Alzarsi in piedi e fare un balzo indietro fu istintivo.

La spinta che si era dato con le gambe per alzarsi fu tale da farlo sbilanciare: Samuel inciampò nei propri piedi e cadde pesantemente al suolo con un urto che gli fece serpeggiare fitte di dolore per tutta la schiena, ma probabilmente non fu questo a togliergli il respiro. Fu la consapevolezza istantanea, cominciata già nel momento stesso in cui il suo corpo aveva fatto forza sulle ginocchia per alzarsi in piedi, di essersi scansato mentre un enorme mostro aggrediva il suo Pokémon esanime.

La botta alla schiena gli aveva fatto chiudere gli occhi in modo involontario. Ora gli parve che invece tutta la sua volontà non fosse abbastanza per costringere le sue palpebre ad aprirsi e a fronteggiare l'orrore di quanto aveva fatto abbandonando il suo Pokémon; che se non avesse guardato, non avesse visto, nulla di male sarebbe mai accaduto. Il tempo si sarebbe fermato nel buio delle sue palpebre chiuse, la cecità sarebbe diventata un limbo inviolabile ed eterno privo di consapevolezza o di sofferenza... ma l'ululato di Arcanine abbtté ogni difesa.

Tenere gli occhi chiusi non gli impedì minimamente di udire quanto accadeva. Aveva udito il rumore molle e flaccido della carne che veniva squarciata con tale nitidezza da non avere alcun bisogno degli occhi per visualizzare l'intera scena nella propria mente, ma pochi attimi dopo l'odore del sangue che gli riempiva le narici fu più terribile ancora del resto e forse fu la scossa decisiva che gli permise di aprire gli occhi.

La sagoma nera di Arcanine era ora totalmente immobile, non manifestava più il minimo movimento o scatto convulso: sopra di essa ora la pallida mano si allontanava, ma Samuel la vide nitidamente nella luce della luna, ora le sue dita erano nere, erano nere, nere, nere...!

A questo punto Samuel fece forse la cosa più orribile che potesse fare. Annaspò alla cieca per rovesciarsi sulla pancia, perché a qualsiasi costo doveva dare le spalle a quell'orribile cosa, non poteva guardarla!, si trascinò sulle ginocchia fino a sollevarsi in piedi e poi, semplicemente, corse via.

I suoi passi rimbombavano nel buio, sovrastavano il suono dei suoi singhiozzi e del suo cuore che martellava nel petto a velocità straziante. Arcanine era morto! Per colpa sua, per non aver saputo difenderlo, e ora... oh, ma dove stava correndo? Tutto, tutto si confondeva attorno a lui, le lapidi parevano emergere dal niente e proiettarsi verso l'alto come pallide sagome che perforassero una nebbia, ma tutto era buio attorno a lui! I corridoi parevano perdersi negli altri e mescolarsi e non condurre da nessuna parte, o minacciare a ogni momento di riportarlo là dove giaceva Arcanine e farglielo rivedere, costringerlo a fronteggiare ancora una volta la realtà innominabile di quanto aveva fatto... ma ora non cercava neppure più le scale, correva alla cieca urtando e inciampando sulle tombe: Arcanine era ovunque! Arcanine era dappertutto! Era nelle foto sulle lapidi, era nei volti delle statue dai tratti sbiaditi, era in fondo al corridoio, era nei passi della sua folle corsa furiosa... no, no, non era vero, non poteva essere vero! Non lo stava vedendo veramente! Sì, Arcanine pareva occhieggiarlo da ogni angolo, pareva pronto ad attenderlo immobile ogni volta ch'egli svoltava in un corridoio, lo fissava coi suoi grandi occhi privi di qualsiasi segno d'accusa o di rabbia, eppure Samuel lo sapeva, lo sapeva che non era vero! Che Arcanine era rimasto alle sue spalle disteso al suolo contro una lapide col ventre squarciato, là dove egli l'aveva abbandonato... oh, e ora tutto si confondeva e s'inseguiva, l'intero, enorme piano sembrava vorticare su se stesso...! Ma perché mai era fuggito, lui?

Quando inciampò su una stele poco più bassa delle altre e rotolò al di là di essa, abbattendosi al suolo su un fianco, provò uno strano senso di sollievo, come se fosse esattamente ciò di cui aveva bisogno. Non fece nulla per ammortizzare la caduta. Sbatté dolorosamente la spalla e il gomito sul pavimento, mordendosi le labbra per non urlare, e non perché non volesse che il sepolto vivo udisse il suo grido. Rimase immobile, distendendo al suolo le braccia e le gambe come in segno di resa, e lasciò che la vergogna della sua fuga gli riempisse il petto e lo calmasse risalendo su di lui in placide ondate.

Rimase forzatamente fermo, col petto che si gonfiava e si svuotava rapidamente in cerca d'aria. Rialzarsi in piedi, riprendere a correre e cercare disperatamente quelle maledette scale, o almeno morire nel tentativo, sarebbe stato ancora una volta così spontaneo, così facile e immediato, come pochi secondi prima, ch'egli doveva impedirselo con tutta la sua volontà per rimanere là disteso. Tutti i muscoli del suo corpo, tutta la parte più istintiva e purtroppo sinceramente sensata del suo cervello pareva scalpitare e urlare dentro di lui le scale! le scale!, eppure egli si costringeva a rimanere lì. Non la smetteva di tremare, eppure egli sapeva – egli, Samuel, dopo aver ripreso tutto il possibile controllo sulla sua volontà e il suo corpo – che ora il suo dovere era di non muoversi. Chiuse gli occhi, inalando profondamente col naso in una specie di singhiozzo che lo scosse tutto, e gli riempì le narici un odore di polvere e cera e sporcizia e pavimenti che nessuno lavava da un po'.

Aveva abbandonato Arcanine. Si era scansato e gli aveva dato le spalle, era corso via e aveva a malapena guardato il suo corpo, e non importava quanto fosse stato spaventato, o quanto avesse prevalso in lui l'istinto di sopravvivenza... era scappato. Arcanine era stato con lui per molto più tempo di quanto riuscisse a ricordare (o meglio, lo ricordava, ma i ricordi che possedeva dei loro viaggi gli sembravano così tanti e si assommavano in così gran numero nella sua testa che non sembrava possibile che si fossero verificati tutti in quei soli otto anni), ed egli aveva odiato ogni singolo passo di quella corsa meschina, ma prendere il controllo del suo corpo in quegli spasmi di terrore era stato impossibile, e al terrore egli si era abbandonato.

Ora che era caduto lo aveva riempito uno strano senso di pace, come se fosse stato inaspettatamente sollevato dalla responsabilità della fuga. Era stata la Torre a decidere per lui e ad aiutarlo, dopotutto, a sopprimere quell'indecente istinto di sopravvivenza che lo aveva privato di ogni genere di umanità e nel quale non riusciva più a riconoscersi nonostante non fossero passati che pochi minuti solamente, perché non avrebbe mai voluto aver abbandonato Arcanine. La verità era che si sentiva come se ora che il mondo attorno a lui gli aveva precluso ogni via di fuga e messo a tacere quella parte orribile e riprovevole di lui che voleva solo salvarsi, egli ora potesse veramente fermarsi in pace. Non c'era più bisogno di scappare. Era stato un allenatore mostruoso per qualche istante, d'accordo, ma poi la ragione aveva di nuovo riottenuto la sua dominazione sul corpo e Samuel era certo che Arcanine avrebbe saputo perdonargli quel solo attimo di debolezza. Non era stato veramente lui a fuggire, dopotutto – era stato quell'altro Samuel! L'altro, quello meschino e viscido e codardo: e ora lui, quello vero, era tornato e avrebbe affrontato il destino che doveva. Era quello il suo dovere. Era certo che il sepolto vivo l'avrebbe trovato, presto o tardi, ammesso che già non sapesse dove si trovava, e quando fosse arrivato egli non si sarebbe opposto. Sarebbe rimasto ancora immobile, e non importava quanto male questo gli avrebbe fatto, era il suo dovere...

«Samuel!»

Scattò a sedere col cuore che palpitava, il respiro bloccato in gola. No! Non era possibile, stava impazzendo. La sua mente se ne stava andando, egli non doveva aver fatto che immaginare la sua voce in quegli ultimi suoi minuti di vita, per il solo desiderio che nutriva di udirla, di...

«Samuel, aiutami!»

Non stava impazzendo, era tutto vero. Agatha era lì.


Balzò in piedi per poter scrutare nel buio, percorrendo freneticamente con lo sguardo l'enormità senza fine della sala che si estendeva attorno a lui: ma come fare a vedere qualcosa in quell'oscurità?

«Agatha, dove sei?»

Dio, perché quella ragazza l'aveva seguito fin lassù? Samuel represse l'impeto di rabbia che gli saliva alla gola mentre per l'ennesima volta si gettava alla cieca lungo quei corridoio sterminati, con tutti i suoi sensi concentrati alla ricerca del benché minimo indizio che potesse guidarlo verso di lei. «Agatha, vattene da qui!»

Gli parve di udire ancora la sua voce, ma più bassa e indistinta, ed emise un'imprecazione oscena al pensiero di essersi allontanato. Ritornò correndo sui propri passi, col cuore che batteva forte e pareva percuotergli la cassa toracica, cercando di discernere nell'ombra il tracciato delle lastre che si stendevano davanti a lui, anticipandone con le mani la posizione per evitare di sbattervi contro...

«Nidoking, Iperraggio!»

Se prima aveva corso ora gli parve di volare. Smise di evitare gli urti contro le sculture e le lapidi a malapena visibili, si riparò a malapena il volto con le braccia mentre saltava e correva alla cieca. Stava andando nella direzione giusta? «Agatha, non lottare con lui!»

L'Iperraggio di Nidoking folgorò la sala illuminandola come un sole: Samuel vide per un istante l'intera distesa funerea illuminata come in pieno giorno dal raggio sgorgato da qualche parte alla sua destra, distinse persino con la coda dell'occhio l'enorme sagoma di Nidoking in controluce, ma poi dovette chiudere gli occhi che gli bruciavano... «Agatha, è un trucco!»

Con gli occhi chiusi sbatté in pieno contro una statua che non aveva notato e si ritrasse di scatto al sentirla oscillare sul suo piedistallo di marmo. Continuò a correre cercando di indirizzarsi verso destra, là dove aveva visto brillare l'Iperraggio, con gli occhi ora chiusi e ora aperti che gli lacrimavano, immaginandosi in qualche modo un ipotetico tracciato che si stendesse tra lui e Agatha e che potesse condurlo a salvarla. Si stava avvicinando alle finestre, riusciva a distinguerle dalla massa tutta indistinguibile e omogenea delle pareti di legno...

«Samuel!»

Il corridoio finì a pochi metri dalla parete, ora egli vedeva la figura di Agatha, ma proprio quando gli sembrava di averla raggiunta, fu costretto a fermarsi bruscamente: l'impeto della corsa lo fece quasi cadere quando si rese conto della situazione. Agatha stava lottando contro il sepolto vivo, che era a pochi metri di distanza da lui... ma davanti a lei, tra di loro, c'erano due mani.

Samuel vedeva nitidamente la sagoma di Agatha stagliata contro la finestra, dall'altra parte del campo della battaglia che aveva intrapreso. Il suo volto era immerso in una pozza di tenebra che ne rendeva indistinguibili i tratti, ma vedeva la nube crespa e vaporosa dei suoi riccioli che infrangeva la poca luce, riconosceva il modo in cui le sue ginocchia magre si congiungevano in controluce... era in trappola. Doveva aver retroceduto finché le era stato possibile, incalzata dalla lotta, perdendo terreno un passo dopo l'altro finché non si era ritrovata con le spalle al muro e priva di ogni via di fuga. Le scale erano dall'altra parte della sala, ma se anche così non fosse stato, in nessun modo avrebbe potuto raggiungerle.

Infisse lo sguardo davanti a sé, là dove Nidoking stava ruggendo e scalpitando mentre cercava di trattenere e opporsi a un'enorme mano con tutta la possanza del suo corpo nerboruto, là dove Tentacruel e Vileplume assieme cercavano di tener testa insieme alla sua compagna, respingendola in un insieme confuso di tentacoli e vischioso acido nero. Persino le loro forze congiunte sembravano insufficienti a opporlesi: la mano continuava irresistibilmente ad avanzare a mezz'aria, agitando le dita ossute nel tentativo di afferrare, di graffiare,di... Se tre Pokémon forti come quelli di Agatha avevano mai avuto una possibilità contro una sola di esse, unendo e moltiplicando le loro forze, ora egli era certo che non ce l'avrebbero mai fatta.

«Agatha! Sono qui!»

Non avrebbe mai voluto esserle vicino più che in quel momento, ma a separarli c'era lo stesso scontro che era l'unica momentanea salvezza di Agatha. Doveva dirglielo! Doveva dirle cos'erano in grado di fare quelle enormi mani avvizzite, doveva metterla in guardia, avvertirla di ritirare i suoi Pokémon... non poteva permettere che succedesse di nuovo. Ma proprio quando si protese verso di lei, prese fiato per gridare... all'improvviso si rese conto che nessuna parola riusciva a prendere voce nella sua bocca. Si ritrovò a boccheggiare nel tentativo di dire qualcosa, di urlare, ma ora gli sembrava di trovarsi in uno di quegli incubi orrendi e asfissianti nei quali si sente che solo urlare potrà salvarci eppure ci manca la voce. Era sciocco, era orribile, ma come poteva dire ad alta voce la verità su ciò che era successo? Dire ad Agatha che Arcanine era morto non l'avrebbe forse reso reale e innegabile?

Dopo interminabili secondi di lotta intestina, tutto ciò che la sua gola secca fu in grado di dire fu: «Sto arrivando.» Cos'altro poteva fare a parte cercare di raggiungerla?

Vide che Agatha si contraeva inconsciamente a quella proposta, la sagoma del suo corpo s'irrigidiva: scosse freneticamente il capo. «No, Samuel, ascolta! Insieme possiamo sconfiggerlo, e allora...!»

C'era tutto un tumulto di voci dentro di lui che urlava: ti stai sbagliando! Nessuno può sconfiggere quella pallida mano e lui non ci lascerà andare mai! Era come una grande folla che rumoreggiava dentro di lui e urlava, ma per quale diamine di motivo allora Samuel non riusciva a dar voce a neppure una parola di tutto quel tumulto? «Agatha...»

«Tentacruel, Limitazione!»

La voce di Agatha era un insieme di terrore e di combattività: Samuel lo percepiva dalla lieve nota incerta che tremolava in fondo alle sue frasi. In quel momento realizzò che era quella Agatha, la sua Agatha: che a seguirlo lassù, su quella Torre, senza nessun vero motivo se non la sua volontà, non era stata la ragazza terrorizzata di quel pomeriggio sul divano, ed egli seppe che ella non avrebbe smesso di lottare per aprirsi la strada a nessun costo. Non era proprio per questo che occorreva dirle di stare attenta, e subito, prima che fosse troppo tardi?

Mosse il primo passo verso di lei nel preciso istante in cui l'enorme tentacolo di Tentacruel si abbatteva contro il palmo della mano con uno schiocco raccapricciante di carne marcia e putrefatta che lo fece sobbalzare. Non seppe trattenersi dal gettare uno sguardo verso il sepolto vivo: non era possibile che fosse tanto astratto ed estraniato dal mondo che lo circondava, tanto chiuso all'interno della sua propria mente, da non venir scosso quanto lui da quel suono. Eppure, quando si volse verso di lui, vicino tanto che avrebbe potuto balzargli addosso e colpirlo, il sepolto vivo non aveva avuto alcun moto o reazione. Era accasciato al suolo, in un modo tanto scomposto e sgraziato da essere quasi insostenibile alla vista, e seguiva la battaglia con occhi vacui e persi. Non sembrava trovarsi lì e il suo sguardo vago, distratto, gli diede un impeto di rabbia che per un attimo pensò di non poter trattenere. Qual era la ragione di tutto quel dolore?

Tutto il suo corpo tremava del desiderio insaziabile che l'aveva preso di saltargli addosso, colpirlo, affondare le mani nella carne marcescente del suo corpo e sfogare su di lui tutta la rabbia per ciò che Arcanine... eppure si trattenne. Non poteva fare nulla per Arcanine dopo averlo abbandonato, ma Agatha era viva, era vicina, i suoi Pokémon potevano ancora essere salvati!

«Agatha, richiamali!»

Le parole gli uscirono finalmente di bocca in un grido confuso e stentoreo, forte abbastanza da superare le strida dei Pokémon che combattevano: Samuel vide che Agatha si volgeva verso di lui in un vorticare di ricci in controluce. Ora che aveva iniziato, o almeno detto qualcosa, Samuel si rese conto che parlare diventava più facile, quasi necessario. «Sono troppo forti Agatha! Ha ucciso Arcanine, devi richiamarli ora! Ha...»

All'improvviso, dalle sue spalle il sepolto vivo emise un sibilo lungo e minaccioso, un suono serpentino e contrariato al quale Samuel si voltà immediatamente per istinto: eppure, quando i suoi occhi lo ritrovarono nel buio, si rese conto che non stava guardando lui. Non aveva sentito le sue parole, di certo non era lui che voleva mettere a tacere. Ma allora cosa...

Gli occorse un istante di troppo per rendersi conto che quello era il suo modo di dare ordini.

Il ruggito di dolore di Nidoking si levò alle sue spalle già prima ancora ch'egli riuscisse a voltarsi verso di lui, si mescolò nell'aria a quello di stravolto stupore di Agatha, eppure ancora non era nulla rispetto a quello di Arcanine.

Con un rinnovato impeto di energia, l'enorme mano aveva vinto le difese di Nidoking. Samuel vide le sue lunghe dita pallide che si stringevano attrno alle sue spalle in una morsa formidabile, immobilizzandogli le braccia contro i fianchi, costringendogli il petto in una pastoia soffocante: sul suo corpo corazzato egli scorse i riflessi di luna tremare e cangiare nell'ombra. Nidoking cercava di scuotersi e di divincolarsi, ma quella stretta era troppo forte.

«Agatha, sta soffocando!»

Agatha non aveva certo aspettato di sentirselo dire da lui per reagire. Una serie di raggi rossi balenò a ripetizione nel buio, colpì Nidoking più e più volte, eppure non funzionava.

«Nidoking, rientra!»

Eppure tutto rimaneva immobile, Nidoking ancora stretto da quelle dita immani: la voce di Agatha si fece più acuta, si riempì di panico a ogni colpo che andava a vuoto. «Dannazione! Ti prego, ti prego, rientra!»

Con un ultimo sforzo condiviso, Vileplume e Tentacruel respinsero la pallida mano con la quale si stavano scontrando e si gettarono verso Nidoking per cercare di liberarlo; sebbene non ci fosse nulla che potesse fare, Samuel stesso balzò in avanti. Non aveva alcun modo per opporsi a quell'immenso abominio, ma Nidoking stava soffocando!

Con gli occhi infissi su Nidoking, le orecchie piene della voce di Agatha, non ebbe la minima percezione della mano che precipitandosi in volo verso i Pokémon lo colpiva alla testa.


Riemerse dal buio boccheggiando come dopo un'apnea che era parsa eterna, cogli occhi annebbiati e le tempie che pulsavano furiosamente, immerso in una cappa d'odore ferrigno e nauseante di cui non riusciva a individuare l'origine.

Tirarsi su di scatto fu un errore: la tempia gli diede una fitta fortissima e l'odore gli riempì il naso con tale intensità ch'egli si chinò in avanti e vomitò. Dio, che cosa era successo? Perché tutto era silenzio, tutto era sfocato?

«Agatha!»

Quando il suo stomaco ebbe espulso tutto quanto era possibile, Samuel fece appello a tutte le sue forze per cercare di alzarsi. Perché gli sembrava di essere così lento, e la stanza attorno a lui pareva girare e le vetrate confondersi e le statue circondarlo e inseguirlo...? Cercò con le mani qualcosa a cui aggrapparsi in attesa che la sua testa smettesse di girare: dopo lunghi secondi d'incertezza, le sue dita incontrarono una fredda superficie dura e la strinsero ed egli si concesse di abbandonarvisi interamente. Ma perché al di sotto del ronzio che gli risuonava nelle orecchie tutto era silenzio? «Agatha, rispondimi!»

A poco a poco la stanza cominciò a rallentare il suo strano girotondo, le sagome scure ch'egli scorgeva a malapena assunsero lentamente una loro precisa collocazione nello spazio, divennero masse plastiche e solide che non vorticavano più tutte attorno a lui e non recavano più alcuna minaccia. Aggrappandosi con tutte le sue forze a quella lapide che era l'unico vero punto di riferimento stabile che avesse, l'unica ancora di salvezza dalla quale egli potesse cercare di capire cosa vi fosse nella sala, Samuel si sforzò di continuare a guardare, cogli occhi lacrimanti che faticava a tenere aperti, come se davvero qualcosa li premesse pulsando dall'interno. Vedeva veramente quelle immani sagome scure riverse al suolo? Erano forse macchie nere che i suoi occhi proiettavano su ciò che vedeva in seguito al colpo in testa? Ma se non erano reali, allora perché tutto era silenzio?

Eppure una parte di lui era consapevole di sapere già cos'era accaduto, cos'erano quelle sagome nere che si rifiutava di guardare direttamente ai margini del suo campo visivo. Stare in piedi lo stava lentamente aiutando: il sangue gli defluiva dalla testa, le tempie gli pulsavano un poco meno. Ora i suoi occhi erano in grado di mettere a fuoco più cose, e proprio per questo egli levò lo sguardo imponendosi di non guardare mai verso il basso: sapeva già in fin dei conti cos'erano, e per quanto si sforzasse di reprimere in un angolo del suo subconscio quel pensiero, sentì che esso gli faceva scendere un brivido freddo lungo la schiena.

Freddo! Ma l'aria era fredda! Samuel realizzò all'improvviso cos'era quella strana impressione di brividi che gli scendevano lungo le spalle, e non era solo orrore: c'era una corrente d'aria. Quando la sua attenzione si sforzò di concentrarvisi per capire da dove provenisse, il suo cuore ebbe un improvviso sbocco di gratitudine ed egli si sentì inspiegabilmente commosso. Era l'aria fresca, pulita della notte che entrava da chissà dove, che mitigava un po' l'odore nauseante della sala – perché all'odore di chiuso e d'incenso si era ora assommata quella strana puzza disgustosa e ferrigna sulla quale la sua mente preferiva non soffermarsi – ma che soprattutto gli ricordava che da qualche parte, appena al di fuori della Torre, vi era un tempo che continuava a scorrere e un vento che accarezzava la terra. Forse la sua mente era troppo sconvolta da ciò che aveva visto, forse il colpo in testa che la mano gli aveva inferto lo aveva davvero turbato, ma comunque stessero le cose, quel soffio d'aria fresca sulla schiena era quanto di più simile alla speranza che egli fosse in quel momento in grado di concepire.

Il soffio d'aria proveniva dalle sue spalle. Samuel si voltò lentamente con la testa che aumentava le sue dolorose pulsazioni a ogni momento, nel disperato tentativo di mantenere l'equilibrio, e cercò con gli occhi cosa potesse esserne l'origine. Le finestre erano ancora chiuse, le pareti erano troppo scure per poter distinguere chiaramente qualcosa. Quanto tempo avrebbe perso così al buio?

Aveva bisogno di luce e per quanto quest'idea gli ripugnasse, sapeva che c'era un solo modo per procurarsela. La sua mano esitò a lungo all'altezza della sua cintura, oscillò incerta sugli ultimi centimetri che la separavano dalla Pokéball che gli occorreva, ma infine egli si decise a prenderla e a gettarla al suolo. Non aveva alternative. Se fosse rimasto all'interno di quel luogo d'inferno, egli ne era certo, sarebbe morto, e allora anche per i suoi Pokémon non vi sarebbe stata alcuna speranza... ma neppure per un momento egli avrebbe anche solo pensato di uscire da lì senza di lei. Era stato stupido e sciocco e Agatha era venuta a salvarlo dalla sua stupidità – era solo arrivata troppo tardi per riuscirvi.

La luce della coda di Charizard era tanto calda e abbagliante da fargli lacrimare gli occhi e distogliere lo sguardo, ma quando il suo Pokémon emise il suo solito, famigliare ruggito di saluto, Samuel non provà la benché minima sensazione di conforto. Quanto tempo avrebbe impiegato a scoprire di Arcanine? Ed egli stesso sarebbe mai più stato in grado di fronteggiare la fiducia tradita dei suoi occhi allungati?

Il saluto gioioso di Charizard non si era ancora spento quando esso vide direttamente, in piena luce, i corpi orrendamente deturpati che Samuel si era impegnato a non guardare per tutto il tempo: Charizard conosceva i Pokémon di Agatha e ricordava di certo com'erano fatti, dunque come avrebbe potuto non riconoscerli anche ora?

Samuel ebbe la certezza che li aveva visti quando il ruggito di Charizard si tramutà in un lungo ululato di dolore e di sgomento: in preda all'agitazione, Charizard cominciò a sbattere forsennatamente le grandi ali possenti, sollevandosi dal suolo di quasi un paio di metri, in un tripudio di suoni terrorizzati e raspanti.

«Charizard, ascoltami!»

Quali parole potevano bastare a calmarlo? Socchiudendo gli occhi nei lampi di luce fiammante che la sua coda disegnava nell'aria, Samuel fece un balzo verso di lui, si sforzò di saltare e raggiungerlo per istituire un contatto e cercare con esso di calmarlo. «Charizard, fermo!»

La sua mano urtò contro la zampa di Charizard in una fitta di dolore che lo fece ritrarre di scatto, ma poi con un ultimo, deciso scatto rabbioso egli riuscì ad afferrare per un istante il suo ginocchio ruvido e a stringerlo. «Devi aiutarmi!»

Se non a calmarlo, il suo contatto riuscì a richiamare almeno la sua attenzione: Charizard non si abbassò, ma le sue ali rallentarono il ritmo a cui sbattevano, spazzando l'aria con minore violenza, e il suo Pokémon chinò lo sguardo di occhi colmi d'orrore.

«Ha preso Agatha, Charizard!» singhiozzò. «Farà anche a lei quello che ha fatto a loro!»

Questa volta però Charizard non si limitò a obbedirgli con la stessa naturale, spontanea complicità con la quale aveva sempre eseguito ogni suo ordine durante le lotte. Questa volta Charizard lo guardò. Samuel sapeva cosa vedevano i suoi occhi e questo gli diede una certa fitta di disagio all'altezza del petto: Charizard vedeva un allenatore che per qualche strano motivo lo aveva condotto in un inferno di Pokémon morti e di membra dilaniate, e nient'altro. Cos'avrebbero visto se Charizard avesse saputo che in quella stessa stanza, a pochi metri di distanza da loro, giaceva senza vita il corpo di Arcanine?

«Ti porterò fuori da qui» esclamò ansiosamente, aumentando la presa sulla sua zampa squamosa. «Ti prometto che usciremo da qui, ma ti prego, aiutami a salvare Agatha!»

Stava giocando il tutto per tutto. Charizard era sconvolto, aveva appena visto i Pokémon di Agatha fatti a pezzi, doveva essere furioso con lui per averlo messo in un pericolo del genere: non era tenuto affatto ad aiutarlo. Tutto ciò che Samuel poteva fare era sperare che l'affetto che li legava da ormai troppi anni per poterli enumerare fosse più forte del senso di orrore e tradimento, e che in nome della loro antica amicizia Charizard acconsentisse a portarlo fuori da lì...

Il suo Pokémon ebbe un'esitazione tanto lunga, tanto angosciosa che Samuel temette che non gli avrebbe obbedito. Non avrebbe di certo potuto biasimarlo se davvero la vista dei Pokémon smembrati lo avesse adirato e spaventato a tal punto da fargli rifiutare di muoversi, ma infine Charizard acconsentì ad abbassarsi un poco verso di lui, fissandolo con un certo distacco. Samuel colse la freddezza del suo comportamento dall'insolita rigidezza del suoi muscoli guizzanti, ma proprio della sua freddezza gli fu grato. Era rimasto – qualsiasi sentimento di rabbia o di dolore provasse nei suoi confronti, era rimasto con lui. Era molto più di quanto egli potesse chiedere.

«Grazie» mormorò mentre cercava di guardarsi attorno alla luce della sua coda. Provava la percezione quasi fisica del tempo che scorreva, e quella sensazione non gli piaceva.

I suoi occhi tornarono a percorrere la sala, si allontanavano dalle finestre, tornando a seguire un loro affrettato percorso sulle pareti. Da dove diamine veniva quel fiotto d'aria fresca?

Charizard emise un ringhio basso e nervoso al quale Samuel si volse di scatto: il suo Pokémon doveva aver capito che cosa stava cercando e guardando nella sua stessa direzione, egli si sentì sollevato. C'era una scala di servizio profondamente incassata nella parete, che saliva inerpicandosi su, verso... ma verso cosa, se si trovavano all'ultimo piano?

«Il tetto!»

Si mosse verso la scala più rapidamente di quanto le sue reali forze gli permettessero: si sentiva le gambe instabili e tremanti, le ginocchia che minacciavano a ogni passo di piegarsi sotto il suo peso, e anche la sua vista sembrava sempre più annebbiarsi. In qualche misura tuttavia la presenza di Charizard sembrava aiutarlo e proteggerlo ed egli intraprese la salita consapevole che il suo Pokémon lo seguiva da vicino.

In tanti anni di viaggi, mai nessun tragitto che avesse compiuto era parso più lungo di quei pochi gradini. Samuel strisciò più che percorrerli di corsa come aveva pensato, aggrappandosi al rozzo corrimano di ferro e appoggiandovisi con tutto il suo peso via via che saliva, con la testa che gli martellava furiosamente proprio dietro gli occhi. Eppure, in un modo o nell'altro, emerse infine da quella tromba di scale angusta come un dedalo oscuro e si stagliò alfine sulla cima della Torre.

Lassù il vento era molto forte, umido e freddo: dalla sua destra, là dove doveva trovarsi il nord, egli colse con la coda dell'occhio grandi ammassi di nubi scure che salivano a coprire le stelle presagendo un temporale. Sforzandosi di mantenersi ben saldo contro le folate di vento, Samuel avanzò di qualche passo, percorrendo con lo sguardo la sudicia distesa di assi di legno che aveva davanti. Il suo primo impulso sarebbe stato quello di urlare, chiamando Agatha con tutta la voce che era in grado di emettere, ma s'impose di trattenersi: se aveva anche solo una possibilità di sfruttare l'effetto sorpresa del suo arrivo, non poteva sprecarla.

Avanzò ancora, acquisendo sicurezza sulla superficie irregolare e accidentata del tetto, e si volse cautamente girando su se stesso. Si rese conto di stare ansimando dal movimento irregolare del suo petto, ma il vento infuriava sulle sue orecchie impedendogli di udire il suo respiro. Forse anche il vento avrebbe potuto aiutarlo, se solo...

Charizard emise un ruggito di guerra levandosi in volo.

«Charizard, non lo fare!»

Il suo Pokémon non voleva scappare o abbandonarlo: Samuel vide dalla fiamma nei suoi occhi che ardeva più del suo respiro che ciò che voleva era tutt'altro. Aveva visto morti i Pokémon di Agatha, e non li aveva mai particolarmente amati, ma erano Pokémon come lui, e ora era furioso: cos'avrebbe fatto se avesse saputo del suo antico compagno di squadra?

Samuel non poteva fare niente per fermarlo, lo sapeva anche troppo bene, e del resto, quale diritto ne avrebbe avuto? Poteva solo approfittare della situazione così com'era: nel cerchio di luce proiettato al suolo che andava sempre più allargandosi, egli scattò in avanti senza esitare oltre.

Charizard si gettò in volo verso l'estremità settentrionale della Torre. Samuel lo seguì correndo controvento per quanto gli era possibile sulle tegole sdrucciolevoli, con la testa che pareva vibrare come di un coro di tamburi militari particolarmente violenti e il cuore che pulsava di preghiere.

Il sepolto vivo, finalmente. Samuel ne scorse da lontano la figura quando ancora non era che una nera silhouette asciutta contro il tono più tenue del cielo di sfondo, e proprio a quella vista il suo cuore saltò un battito: dov'era Agatha? Ma poi, quando Charizard lo sovrastò sbattendo ripetutamente le ali e inondandolo della luce della sua coda che fustigava l'aria, i suoi occhi colsero dietro di lui, riversa al suolo a pochi metri dal bordo del tetto, una miserabile figura immobile avvolta in un manto di capelli scomposti.

Perché non si muoveva? Samuel ebbe uno scatto nervoso verso di lei, ma appena sopra la sua testa Charizard gli rivolse uno strano gesto di ammonimento, come a impedirgli di avanzare oltre, ed egli si trattenne all'ultimo secondo. Mai come in quel momento quel colosso di fiamma incarnata gli era parso tanto minaccioso.

Ora rivedeva di nuovo il sepolto vivo in piena luce, per la prima volta dopo ciò che era accaduto ad Arcanine, e le sue carni vizze e scomposte gli diedero un rinnovato senso di disgusto, di quel disgusto offeso, risentito, di chi vede qualcosa d'indecente. L'espressione del suo viso non era più tanto vacua: ora era alterata, colle labbra contratte, ed esprimeva un vivo risentimento per essere stato interrotto. All'improvviso, in quella luce, Samuel si rese conto che era sporco di sangue sul viso e sulle mani, e che non si trattava di semplici schizzi.

Il senso di gelo e di rabbia che lo prese quando notò per la prima volta il sangue sulle gambe di Agatha fu indicibile.

«Charizard...!»

Non occorse altro. Charizard si precipitò in picchiata sul sepolto vivo in una vera e propria esplosione di fiamme e di ruggiti: nonostante l'elevata velocità dei suoi movimenti, Samuel riuscì a distinguere comunque il momento in cui una zampata in pieno petto lo squarciava letteralmente, lacerando pelle e tessuti e mettendo a nudo le ossa biancheggianti al di sotto... ma fu solo un attimo. L'urto sollevò il sepolto vivo da terra e lo scaraventò a quasi due metri di distanza, mandandolo a rotolare sul tetto in un cigolare di legno, e subito dopo Charizard si lanciò al suo inseguimento con una foga selvaggia. Per un attimo Samuel credette che l'avrebbe gettato giù dalla Torre o qualcosa di simile, ma poi la furia stessa dei suoi gesti gli diede torto. Charizard non era salito fin lassù per difendere lui e Agatha. Era lì perché era molto arrabbiato.

Non poteva fare nulla per contrastarlo o aiutarlo, se anche l'avesse voluto. Samuel si precipitò accanto ad Agatha e si chinò su di lei, cercando di vedere qualcosa alla luce intermittente e in movimento della coda di Charizard che infieriva sul sepolto vivo.

La chiamò, la scosse, cercò di sollevarla e di stringerla contro il petto, ma tutto ciò che ottenne fu di sentirla completamente molle e inerme tra le sua braccia, col capo reclinato all'indietro sulla nuca che si scuoteva senza opporre nessuna resistenza quando egli l'agitava. «Agatha, mi senti? Ti prego, parlami!»

Le fece scorrere la mano sulle gambe per trovare la ferita: il sangue le aveva impiastricciato completamente persino le cosce, ma le sue dita trovarono il segno di una ferita profonda sul polpaccio destro. Si sentì impotente.

Distendendola di nuovo sul terreno, si sfilò la camicia e alla cieca, basandosi più sull'istinto che su altro, cercò di annodarlo attorno alla sua ferita in una misera imitazione di bendaggio. Ne venne fuori un nodo confusionario e storto, ma sarebbe bastato fino a quando non se ne fossero andati da lì... già, ma quando?

Si voltò a guardare la devastazione che Charizard stava operando sul tetto. La sua coda e le fiamme che talora gli sfuggivano dalla bocca nell'agitazione avevano disegnato sulle assi di legno striature più o meno regolari: ora Charizard non stava volando. Avanzava in quel momento sulle quattro zampe, spazzando il terreno con la coda in archi regolari, e incombeva sul sepolto vivo come una promessa di morte. Lo zombie ne era completamente soggiogato: aveva il petto squarciato in più punti, ma dalle sue carni ormai morte non sgorgava sangue.

«Charizard, non puoi ucciderlo!» gridò Samuel al di sopra del vento. Si rese conto di star piangendo, anche se non riusciva a individuarne un motivo specifico. «Andiamocene via, ti prego!»

La successiva zampata di Charizard colpì il sepolto vivo all'altezza del collo, disegnando uno squarcio che dilacerò anche la spalla. Non gli avrebbe obbedito, si rese conto Samuel. Era furioso per ciò che aveva visto e non se ne sarebbe andato finché non avesse visto il sepolto vivo morto, o... ma quanto tempo avrebbe impiegato?

«Charizard, non ce la farai mai! Agatha ha bisogno di cure, ti prego...»

Ma nulla di quanto avrebbe mai potuto dire avrebbe potuto sortire il minimo effetto. Charizard non lo avrebbe mai ascoltato, e nel profondo Samuel sapeva che aveva ragione. Gettò un'occhiata al volto di Agatha che pareva andare sempre più sbiancandosi, al sangue che aveva già tinto di rosso la sua camicia continuando a sgorgare da sotto la fasciatura...

All'improvviso egli comprese qual era l'unica cosa che Charizard avrebbe ascoltato, e anche ciò che aveva diritto di sapere nell'infierire sul sepolto vivo.

Si levò in piedi stagliandosi contro il vento. Charizard stava aggredendo quel corpo con rumori quasi vomitevoli, ma quando Samuel lo chiamò, la sua voce suonò inaspettatamente calma.

«Fai bene, Charizard» disse ad alta voce. Le sue parole tremavano e si accorse di tremare lui stesso in procinto di pronunciarle. Stava piangendo. «Se lo merita. Ha ucciso Arcanine, Charizard!»

La cima della Torre divampò di fiamme.

   
 
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