Ragazzi, interrotti
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Potete
svolazzare avanti e indietro tra queste percezioni e provare una specie di
vertigine mentale. E se è così, siete nel territorio della pazzia: un luogo dove
le false impressioni hanno tutte le caratteristiche della realtà.
(Susanna Kaysen, da "Girl, interrupted")
«Adesso!?» Vegeta aspetta la
risposta cercando di ignorare il rumore dall’altra stanza, in cui sono tutti in
attesa del suo ritorno. Ha infatti abbandonato il tavolo da gioco per prendere
una chiamata “che pare importante”, come gli ha riferito il ragazzo che
gliel’ha passata, da parte di Diciotto.
Sbuffa sommessamente e poi richiude senza salutare. «Cos’è successo?» Chiedo,
preoccupata, restando sotto l’uscio, indecisa se andargli vicino o lasciare
almeno questa distanza tra noi senza essere ulteriormente invadente.
Ha ancora la mano sulla cornetta e solleva solo lo sguardo, incupito, su di me.
Dice: «Nulla che debba interessarti.» Poi Si allontana da quell’angolo della
stanza e, prima di uscire, aggiunge che devo continuare la partita per
lui.
Scorro gli occhi dal suo labbro rotto alla macchina di sangue sul colletto
della maglia. «Sei impazzito forse? Non ho intenzione di distruggermi la faccia!»
«Non accadrà, ho una buona mano e sicuramente vinco.»
«Sicuramente in base a cosa, scusa?»
«È l’unico modo che hai per aiutarmi, altrimenti vai pure al diavolo, non ho
tempo di preoccuparmi anche delle tue paturnie.» Sbotta e mi scansa per
passare. Ignora i richiami di Cell e, senza salutare nessuno esce in giardino
dove ha lasciato la macchina. Faccio appena in tempo ad andargli dietro per
vederlo partire.
«Risparmiaci le
critiche sulla loro relazione, Crilin, sarebbe davvero fuori luogo.» Lo
rimprovero, interrompendo il suo racconto. Siamo seduti sul ciglio di un
muretto all’esterno della palestra; gli altri compagni, non eliminati,
continuano a giocare a Dodgeball.
«Non hai idea di come stanno veramente le cose, Crilin, quindi faresti
bene a tacere! Poi chi ti dice che Vegeta non sia arrivato in ritardo?» Nessuno
sa che proprio ieri sera, noi tre (Vegeta, Goku ed io) eravamo insieme a casa
di Cell, dalla quale Vegeta è partito per raggiungere la clinica psichiatrica
in cui è ricoverato il fratello minore. Si tratta, infatti, di una clinica
vicina al centro della città, non esattamente a un tiro di schioppo dalle
campagne di Ginger Town.
Quindi ciò di cui accuso Vegeta non è la sua presunta noncuranza verso il fratello,
ma la totale mancanza di fiducia nei miei confronti: ci frequentiamo, da amici,
da mesi ormai e mi pare impossibile non abbia avuto occasione di parlarmi anche
di questa sua faccenda famigliare; un’altra conferma di quanto poco mi
consideri. Non riesco nemmeno ad arrabbiarmi con lui, il quale, questa mattina,
è assente.
«Inoltre, non dovresti permetterti di parlare male di lui quando neanche
Diciotto, che di motivi ne avrebbe, si azzarda a farlo.» Continuo, con la
sicurezza di un mercante di grande verità.
Sono passati tre giorni da
quando Vegeta è stato portato in carcere. E per tre giorni ho lavorato senza
sosta sui codici racchiusi nella scheda che mi ha consegnato: lo scrigno del
bilancio reale della Freezer Corporation, dei contatti e delle transazioni di
una compagnia che ha fatto della minaccia la propria merce di scambio. La
Freezer Corporation è riuscita ad inglobare le sei più grandi società del
pianeta nel tentativo di creare un unico monopolio dell’industria bellica,
tenendo sotto la propria ala i migliori scienziati del nostro tempo, tra cui
spiccava il famigerato Dottor Gero e la società che, per anni, aveva rifornito
le milizie delle nazioni più ricche: la Sayan, un tempo presieduta da Vegeta Aransay senior.
L’ultima e settima compagnia di ricerca avrebbe dovuto essere la mia, la
Capsule Corporation. Il piano, stando ai dati forniti e raccolti da Vegeta era
piuttosto semplice: Freezer avrebbe costretto i miei investitori, di cui lui
controlla già le finanze, a ritirarsi dal mercato, se non avessi deciso di
collaborare nel grande progetto di essere l’unico produttore di androidi e armi
specializzate nella distruzione di massa da vendere ai Paesi in guerra.
Nei fuligginosi combattimenti, nelle costellazioni di vinti e vincitori, la
Freezer Corp. è passata da una parte all’altra della barricata, patteggiando
tuttavia solo per se stessa. E mi chiedo che ruolo abbia avuto Vegeta in tutto
questo. Perché ha deciso di redimersi proprio adesso, portando allo scoperto i
piani affaristici di quella che ha più le coordinate di un’organizzazione a
delinquere, piuttosto di una società legale?
La mia sarebbe stata il tassello mancante di un piano diabolico al punto da
sembrare legale sotto molti aspetti. Che Vegeta si sia deciso a scoprire le
carte proprio perché, continuare, avrebbe significato mettermi in mezzo?
Tuttavia, c’è qualcosa che non torna: dai dati che lui stesso mi ha fornito,
risulta che ha lavorato per Freezer dal duemilauno al duemilacinque, e di nuovo
dal duemilaotto al duemiladieci;
per quale motivo c’è un intervallo di due anni? Nello stesso periodo, la
Freezer Corporation ha incassato ben tre milioni di dollari da fonte
sconosciuta (altro introito che, dubito, sia stato lecitamente dichiarato) e ha
assunto Zarbon e Dodoria.
Mentre continuo a rimuginare sui motivi che mi hanno spinta fin qui, al Carcere
di Ovest City, una porta si apre, dall’altro lato della stanza separata da un
vetro, e Vegeta, ammanettato e scortato da due guardie, fa il suo ingresso
nella sala d’accoglienza. Seguo ogni suo movimento finché non siede al posto
parallelo al mio. Non prende subito in mano la cornetta che avrebbe veicolato
la nostra conversazione, sorride ancora per un attimo prima di decidersi.
«Come stai, Vegeta?»
«Non saprei, ma trovo che l’arancio mi doni.»
«Perché non metti da parte il tuo humour da due soldi, per una volta?»
Sbuffa divertito. «Sono inglese; se mi togli il mio humour non mi resta che
parlare del tempo. Di’ un po’, scommetto che hai trovato molte informazioni
interessanti nella scheda che ti ho dato.»
«Molte, sì. Ma come tuo solito, lasci sempre le cose a metà, proprio sul
più bello.» Non mi lascio sfuggire l’occasione di
bacchettarlo per avermi usata, fingendo di fare l’amore con me.
«Se ti avessi detto tutto, adesso non saresti qui. Come avrei resistito
senza vederti per tutto questo tempo?» Continua a scherzare, sorridendo
sornione sul volto da schiaffi.
«Preferisci, forse, parlare del tempo, Vegeta?»
«Per carità!» Esclama. «Dimmi piuttosto che accidenti vuoi, credevo di aver
detto tutto a quell’avvocato da due soldi che mi hai rifilato.»
«Goku è stato qui?»
«Certo che è stato qui, non te l'ha detto? Se ti ho dato quella
scheda, è stato solo perché lui sarebbe stato troppo stupido da decifrarla.»
Nota come, nolente, mi rabbui alla sua ultima confessione e decide di
rincarare. «Non avrai pensato l’avessi fatto per te?»
Stringo la cornetta tra le dita fredde. «No. Ho solo pensato che sono
stata una stupida a correrti dietro per tutti questi anni.» Continuo a
guardarlo, nonostante il riflesso delle luci del soffitto sul vetro copra la
sua immagine rendendola quasi impercepibile. «Ma oggi sono qui, decisa ad
aiutarti, perché sono stufa di vivere nel rimorso di scelte sbagliate e ti sto
dando l’opportunità di chiarire, una volta per tutte, la situazione in cui ti
sei cacciato, sempre che, piuttosto, non ti diverta sguazzarci dentro.»
«Senti, Bulma, non ti permetto di rinfacciarmi le scelte che nessuno ti
ha obbligato a prendere.» Si altera, alzandosi in piedi, stringendo ancora la
cornetta.
Svetto anch’io, cercando però di mantenere un tono più calmo. «A dirla davvero
tutta, mio caro, ho saputo di come, proprio tu te la sia filata, il giorno
prima del nostro appuntamento alla stazione. Quindi, ragionandoci un po’, sei
stato tu a obbligarmi a sentirmi in colpa.» Gli sbobino quanto rivelatomi
proprio da Goku la sera in cui hanno arrestato Vegeta. Il quale intrappola un
guizzo di nervoso in una vena che gli pulsa in fronte, probabilmente pentito di
aver rilavato troppo a quell’imbecille del suo avvocato. «Che razza di
ragionamento sarebbe? Avevi deciso comunque che non saresti venuta.»
«Per il meglio a quanto pare! Alla fine ci stai riuscendo a tenermi alla
larga, tutti questi inutili sotterfugi quando un semplice “non ti voglio”
sarebbe più che sufficiente. Ammettilo, una buona volta, che non ti è mai
importato nulla.»
Sbatte una mano sulla superficie che gli sta difronte. Una delle guardie
presenti gli va vicino a stringergli unaìa spalla, e costringendolo a comportarsi bene. Gli dice qualcosa, che non sento per via del vetro di sicurezza, poi
Vegeta torna a parlarmi attraverso la cornetta. «Quante volte te l’ho spiegato
che non ti volevo?»
Torno composta sulla sedia. Non avremmo nemmeno dovuto parlare di
questo, e il tempo sta scadendo; prendo un fazzolettino dalla borsa e mi
asciugo la fronte imperlata di sudore. Riabbasso i toni. «E tu quante volte non
mi hai detto perché non mi volevi?»
Sono qui, ad aspettare
seduta sui gradini del portone, da almeno mezzora ormai; mi chiedo chi sarà il
primo a tornare, se Vegeta o C18.
Mentre riavvolgo il nastro dell’album che sto ascoltando, finalmente, scorgo la
macchina di Vegeta svoltare l’angolo. Parcheggia e, dopo essere sceso, si
carica addosso il passeggero addormentato sui sedili posteriori. Un ragazzino
molto magro dai capelli lunghi e neri; suppongo sia il fratello di cui parlava Crilin.
«Per qualche ragione non sono affatto stupito di vederti, Brief.» Mi
saluta, una volta raggiunto il portone.
«Sono venuta a portarti i soldi di ieri sera.»
«Quindi ho vinto.» Afferma con un mezzo sorriso, mentre, senza chiedere il
minimo aiuto, tenta a fatica di infilare la chiave nella toppa per aprire il
portone e allo stesso tempo a tenere il fratello in braccio.
Gli prendo le chiavi con un gesto scocciato; mai una volta che si abbassi
a chiedere aiuto. «Lascia, faccio io!» Sono quasi contenta di avere una scusa
per salire con lui fino a sopra, quindi non gli restituisco il mazzo di chiavi,
ma gli reggo il passaggio mentre lo attraversa e poi, insieme, saliamo le scale
fino al sua porta di casa. «Hai bisogno di aiuto?» Chiedo, riferendomi al peso che
ha tra le braccia.
«Ovvio che no.» Nonostante si sia stato scorbutico, non mi sfugge come
abbia abbassato il tono per non disturbare il ragazzino.
Una volta in casa, noto quanto l’arredamento sia cambiato e non solo per la
batteria, quasi smontata, che Diciotto ha lasciato in un angolo; mancano alcuni
mobili: la libreria è sparita e i libri sono impilati direttamente sul
pavimento; i divani non ci sono più e la televisione poggia a terra, senza Nintendo
e senza videogiochi. Anche lo stereo è stato portato via, ma alcune
cassette e giradischi sono rimasti poggiati al muro.
«Lo porto in camera.» Avverte Vegeta, evitando di raccogliere il mio
sguardo indagatore. Vado con lui e sono sollevata nel constatare come la sua
camera sia rimasta come allora. Lascia il fratello direttamente sul letto, con
tutte le scarpe e con tutti i vestiti.
«Almeno sfilagli le scarpe.» Sussurro.
«Lascialo in pace.» Stiletta afferrandomi per un braccio prima ch’io
possa chinarmi a togliere le calzature al fratello. Mi riaccompagna in salotto
e percepisco il suo disagio dalla distanza che tiene e da come mi scorta
all’uscita, neanche fossi una criminale da richiudere in prigione. «Va bene,
dammi i soldi e vattene.» Asserisce, affatto propenso al dialogo.
«Eh no, scordatelo che me ne vada!» Esclamo forse un po’ troppo ad alta
voce, do le spalle alla porta che richiudo con il mio peso, salvo pentirmi del
rumore creato. Sia io che Vegeta affiliamo l’udito e ci voltiamo verso la
stanza in cui dorme il ragazzino, per sincerarci non si sia svegliato.
Siamo uno di fronte all’altro, rivolti alla stessa direzione, e azzardo a
poggiargli le mani sui fianchi, stringo tra le dita la sua maglietta, la stessa
che portava ieri notte ma rigirata. Vegeta non può non accorgersi del mio
contatto, ugualmente però non dice nulla, nemmeno quando i suoi occhi sono su
di me. Poggio la testa sul suo petto. Ha un leggero odore di sudore e di
sangue. Devo essermi spinta un po’ troppo, perché si allontana, però non
mi invita più ad andarmene. «Allora i soldi?»
«Non pensi ad altro, tu.» Lo pungolo, cercando di essere acida come al
solito: non vorrei pensasse sia rimasta turbata dal suo gesto e dagli ultimi
avvenimenti. «Sono duemila e cinquecento.» Gli spiego, passandogli la busta che
tenevo in borsa.
«Come sarebbe duemila e cinquecento, e il resto?»
«Il resto non c’è; ha vinto Goku ieri sera, mentre tu sei arrivato solo
secondo. Tuttavia, siccome è molto gentile, questa mattina ha detto che potevi
avere metà della sua vincita.»
«E per quale motivo?» Inquisisce, braccia lungo i fianchi, lo sguardo
ardente.
Gli tendo ancora la mano con i soldi. «Per aiutarti.»
«Grazie tante, ma se le cose stanno così non li voglio.» Si volta e aggiunge. «In
quanti sanno di mio fratello?»
«Più o meno tutti… però non devi preoccuparti, a nessuno importa.»
«A me importa! Non bastava che tu e tutti gli altri mi guardaste già con
quell’aria penosa. Giuro che domani a quell’idiota del tuo amico gli spacco la
faccia. Nessuno gli ha chiesto nulla.» Minaccia, riferendosi all’unico che
avrebbe potuto raccontare tutto: Crilin.
Faccio un passo verso di lui, gli poggio la mano libera sulla spalla. «Puoi
stare tranquillo, non è esattamente pena quella che i miei amici provano per
te. Sono troppo impegnati a chiedersi come mai tu ti sia rifiutato di andare da
tuo fratello ieri notte.»
«Si vede che sanno come impegnare bene il cervello.» Attacca sarcastico.
«E tu cosa pensi?»
Mi faccio coraggio. «Di non aver mai conosciuto nessuno complicato
quanto te.»
Continua a darmi le spalle. «Complicato? Non c’è nulla di complicato.
Ieri notte ho sperato che finalmente la facesse finita, per una buona volta.»
«Perché non lo ripeti guardandomi in faccia.»
Non esista un istante. «Volevo morisse.» Risponde, asciutto..
Gli sorrido con aria serena. «Penso, invece, tu abbia tentennato perché non
volevi che tuo fratello, già in paranoia, si spaventasse ancora di più a
vederti pieno di lividi e insanguinato. Non è forse questo il motivo per cui ti sei rivoltato
la maglietta?»
Riesco a sorprenderlo.
«Complimenti per la deduzione Watson, devo ammettere che anche tu hai i tuoi
momenti.»
«L’unico mistero, mio caro Sherlock, è capire perché ti nascondi così.» Ribatto
saccente.
«Prova a indovinare.» Mi prende in giro; finge di avere il controllo
della discussione quando cammina fino al balcone, lo apre, e si appoggia con
aria strafottente contro la ringhiera.
Vado da lui con grande sicurezza, poggio entrambe le mani sull'asta di ferro e lo
blocco tra le mie braccia. Lo fisso in silenzio prima di iniziare a parlare,
illuminati dal sole, circondati dai rumori cittadini che salgono dalla strada
sotto di noi. Le mie prime parole vengono portate vie da un clacson, e lui
mi chiede di ripetere. «Dire ciò che provi ti costa così tanto che
preferisci allontanare tutti mostrando quanto tu sia stronzo.»
«Ma davvero? E cosa pensi che provi?» Inizia a cedere, nascondendosi,
ancora una volta, dietro una smorfia incredula.
Lascio la ringhiera e mi appoggio ad essa con la schiena. «Purtroppo la mia
perspicacia non arriva a tanto, Vegeta. Ma se vuoi puoi parlarmi dei tuoi
problemi. Ad esempio, che fine hanno fatto i mobili?»
«Pignorati.»
«Immaginavo. E dimmi, credi davvero sia una buona idea tenere tuo fratello in
casa? Quanti giorni di scuola hai intenzione di saltare per controllarlo, ti
ricordo che quest’anno abbiamo gli esami.»
«Lo so bene che abbiamo gli esami!» Si innervosisce. «Lo porto in
un’altra clinica domani mattina. Non ho bisogno che tu mi dica come comportarmi.»
Non se lo fa ripetere e mi torna davanti, sfiorandomi
l’addome scoperto da una maglietta troppo corta. «Sai, è proprio per queste tue
uscite rozze che non mi piaci. C’ero quasi cascato, Brief, ma come al solito,
sei solo una mocciosa.» I soldi, invece, non li prende , obbligato dal suo orgoglio a rifiutarli.
È riuscito a mettermi a
disagio, quasi una ripicca per aver tentato di scoprire i suoi intenti. Sento l’impulso
di abbassarmi la maglietta, che ora considero davvero troppo corta, ma scelgo
invece di continuare a comportarmi con naturalezza ché non gli venga in mente
mi abbia messo in difficoltà!
«I soldi ti servono per pagare le tasse, vuoi forse pignorino anche tutto il resto?» Arguisco rientrando,
come lui, in salotto.
«Li troverò altrove. E comunque mi servivano per pagare un investigatore privato.» Spiega, sorprendendomi.
«Un investigatore privato?»
«Sì perché? Guarda che esistono sul serio.
O ritenevi mi bevessi la storia del suicidio? Mio padre non può
essersi ucciso. Succedono cose che non mi spiego
ultimamente, come ieri notte. È strano che, proprio mentre ho
iniziato ad
indagare, alla clinica dimenticano di somministrare le medicine
a mio fratello.»
«Succede, non è poi così inusuale. Anzi direi che è quasi all’ordine del
giorno.» Tento di tranquillizzarlo, andandogli in contro.
Soppesa la mia osservazione, affatto convinto. «Si tratta di una delle migliori
cliniche ed è il motivo per cui ci siamo trasferiti in questo schifo di
nazione; inoltre, mio fratello è ricoverato lì da anni e non è mai successo
nulla di simile, né a lui né a nessun altro.»
«E questo dovrebbe provare che tuo padre è stato ucciso e che adesso ti
trovi nel mezzo di un complotto?»
«Assolutamente.»
«E non consideri i risultati delle indagini?» Mi torna in mente il suo
racconto, quella mattina a casa mia, il giorno dopo aver vinto il primo premio
con il nostro progetto di scienze. Cerco di trovare una logica tra i fatti di
allora e quelli di oggi e, nonostante possa esserci del vero, mi pare assurdo
trovare una coincidenza con quanto accaduto ieri notte a suo fratello.
Si altera. «Certo che li considero, mi prendi per uno stupido? Ma non è detto
che sia andata come sembra. Mio padre non si sarebbe mai tolto la vita, hai capito?»
In realtà, essendo direttamente coinvolta in quanto accaduto, ho
rimuginato molto sulla morte del padre di Vegeta e di motivi per uccidersi ne
aveva. Tuttavia, il mio giudizio potrebbe essere fuorviato dal timore che
qualcuno, l’assassino, sia ancora in giro e possa decidere di farmi del male
nel caso sospetti sul serio che Vegeta sia sulle sue tracce. Lo penso perché
sono stata l’ultima persona, presumibilmente, a vedere il signor Arensay da
vivo e potrei essere presa per un testimone scomodo.
Così, un’altra volta, le assunzioni mie e di Vegeta tornano a frapporsi tra il
mio amor proprio e i sentimenti che nutro per lui, mettendomi alla prova: dovrei assecondarlo o
proteggere me stessa, tentando di distoglierlo dai suoi intenti? E se penso
questo, non equivale forse a dargli ragione? Inoltre, non vorrei pensasse che non sia dalla sua parte.
«Domani porto mio fratello in un’altra clinica,
non dirò a nessuno
quale.» Riprende fortunatamente il discorso, evitandomi di
indagare sulle mie
paure. «Spero solo che anche lui faccio lo stesso. Devo trovare
un modo per
metterlo in guardia senza assecondare la sua paranoia.» Parla
rivolgendosi al muro di fronte. Se non fossi qui, presente, lo giurerei
impegnato in un monologo.
«Ma che tipo di paranoie ha tuo fratello?» Domando a mia volta, per prendere
tempo e pensare meglio ad una risposta a tutte le questioni, sia mie che di Vegeta.
«Soffre di disturbi paranoidi di personalità.» Schiocca, quasi fiero di
ricordarsi il termine clinico. «In parole povere, ha manie di persecuzione:
crede di essere perseguitato da qualcuno che lo segue ovunque per ucciderlo o,
semplicemente, per fargli del male. Capisci, adesso non posso dirgli che questo
qualcuno potrebbe esistere davvero.»
A sentirlo ragionare così vengo pervasa da un certo imbarazzo: non so se
credere pazzo anche lui, assecondarlo, o proteggere me stessa. «E… pensi sia la stessa persona che ha ucciso tuo padre?» Infine, propendo per la seconda, attribuendo i suoi scatti nervosi anche all'assenza di sonno.
«Evidentemente qualcuno non vuole che indaghi sulla sua morte. Ieri ne ho
avuto conferma: sarà anche una delle migliori cliniche, ma ci lavorano delle
semplici persone e, in quanto tali, corruttibili. »
Il mio silenzio, inusuale per me, lo turba così mi afferra con rabbia per un
braccio. «Io non ho manie di persecuzione!» Si difende, fuori dalle orbite della razionalità.
«Non lo pensavo affatto, Vegeta.» Lo rassicuro, ma a giudicare da come
mi guarda, mi è difficile convincermene del tutto. «Sono dalla tua parte,
dovresti averlo capito ormai.»
Le mia risposta lo riporta alla calma. «Bene. Perché sei l’unica a
saperlo.» Ed è proprio in questo istante che entra in scena (o forse sarebbe
più appropriato dire, “rientra”) l’ultimo personaggio della nostra commedia:
C18, la quale varca la soglia con indosso la divisa di scuola, dove suppongo
abbia passato parte del pomeriggio in rientro. I suoi occhi azzurri si
increspano di sorpresa, prima di svettare, indagatori, su Vegeta e, infine,
atterrare nell’inferno d'odio che prova per me. A ulteriore conferma della sua
disapprovazione, ci sfila davanti senza aggiungere parola per richiudersi in camera
sua.
Nel silenzio glaciale del salotto, non sentiamo sbattere alcuna porta, segno
che desidera tenerci almeno sotto orecchio.
Vegeta infine mi molla in cucina. «Vado a fare una doccia. Ci vediamo domani a scuola,
Brief. Chiudi bene la porta quando esci.»
«Aspetta un attimo, come sarebbe vai a fare la doccia?» Gli cammino dietro, non soddisfatta dal suo proposito.
«Hai altro da aggiungere?»
«Beh, no.» Tecnicamente, è lui a dovermi ancora molte spiegazioni.
«Quindi…»
Non si prende la briga di accompagnarmi all’uscita, mi lascia da sola in
salotto. Accidenti a lui! Mi rifiuto di abbandonare così la nostra
conversazione, se davvero ha dei sospetti riguardo qualcuno, esigo di sapere
ogni cosa, perché anche io potrei essere presa di mira. Ho il diritto di
prendere le mie misure, come lui. Così lo seguo fino a trovarmi davanti al bagno chiuso.
«Vegeta! Ho cambiato idea, vorrei ancora parlarti.» Lo chiamo inutilmente, l’acqua inizia già scrosciare.
«Guarda che, se vuoi, puoi entrare: non ha chiuso a chiave.» M’informa
Diciotto, con aria strafottente per vedere fino a che punto sarei capace di
spingermi, in attesa di un confronto.
Poggio la mano sulla maniglia. «Hai ragione, Diciotto, grazie del consiglio.» E
come lei stessa avrebbe detto in seguito, ho l’ardire di entrare in bagno.
«Brief! Che diamine combini?!» Si scandalizza
Vegeta, non appena mi
richiudo dentro.
È ancora mezzo vestito, ha tolto solo la maglia che,
appallottolata, giace a terra tra i panni sporchi.
«Beh, che c’è? Come se non ti avessi già visto in tutte le tue grazie.»
Gli ricordo.
«Esci. Subito.» Esorta, categorico, spingendomi contro l'uscita. A
quest’ora starei già fuori in corridoio, se non mi fossi impuntata; così,
ancora una volta, ci ritroviamo vicini, uno davanti all’altro.
«No. A meno che tu non preferisca che ti creda paranoico, adesso mi racconti
tutto.» Lesta blocco la serratura e nascondo la chiave in
tasca, con i soldi su cui lui non ha voluto nemmeno posare lo sguardo.
«Perché invece non provi ad essere onesta e dici subito che temi per la tua
incolumità, invece di girarci intorno.»
«Perché è scontato sia così, ti pare?» Lo sorpasso e mi siedo sul bordo della
vasca. Testo la temperatura dell’acqua. «È calda, non entri?»
«Non appena sarai uscita da qui.»
«Dobbiamo ancora finire la nostra chiacchierata, e questo è l’unico posto in
cui non verremmo disturbati. Quindi, mi pare che resterò a farti compagnia per
un po’, bello mio. O se preferisci, non ti resta che prendermi la chiava dalla tasca.»
«Fai come accidenti ti pare.» Cede infine spogliandosi del tutto, mi
sposta con un gesto brusco e si getta sotto l’acqua. Lo osservo mentre si
insapona e mi rendo conto di non provare alcun istinto libidinoso, tutto ciò
di cui ho piena la mente è la situazione in cui siamo finiti e la voglia di
aiutarlo a risolvere i suoi problemi. Per questo è impossibile che la mia sia
una semplice cotta, ormai c’è molto più di una semplice attrazione fisica.
Perché non lascia che glielo dimostri?
«Comunque ti consiglio di tornare di là, qui stai solo perdendo
tempo: ti ho già detto tutto quello che so.»
«Non capisci che voglio essere rassicurata? Tutta questa storia mi
spaventa.»
«Perché piuttosto non ammetti che volevi vedermi nudo?» Bercia di
rimando. «Mi rincresce, ma i tuoi sotterfugi diventano sempre più scadenti, Brief, devi ammetterlo.»
«Non è affatto come immagini!» Mi difendo. «Sono davvero preoccupata!»
«Beh ad ogni modo non mi riguarda, tu sei l’ultimo dei miei pensieri.»
«Allora perché me l’hai raccontato? Non volevi forse mettermi al corrente,
affinché anch’io stessi in guardia?»
Resta in silenzio a rimuginare sulla mia supposizione, ancora una volta
rivelatasi esatta, considerando la sua reazione. Chiude l’acqua. «Vorrei non
averti sulla coscienza, tutto qui.»
Gli passo l’asciugamano di spugna, che si avvolge in vita. «Ammettilo
che sei preoccupato anche per me.»
«Costringermi a ridirti ciò che non provo per te, non mi aiuterà a
cambiare idea. Ti ho spiegato che credo ci sia qualcosa di strano in tutta
questa storia, quello che potrebbe accaderti è affar
tuo. Se avessi dei sospetti più concreti, non mi affiderei di certo a un
investigatore. Adesso, a meno che tu non voglia approfittare della situazione, ti consiglio di riaprire la porta.»
Quando usciamo dal bagno, Diciotto ci viene incontro dalla cucina per
informarci che ha ordinato una pizza. «Ho preso qualche porzione in più per te,
Brief. Ho immaginato che, dopo aver avuto l’ardire di chiuderti in bagno con
Vegeta, tu voglia restare anche a cena.» Mi sfida ancora, usando una psicologia
che dovrebbe farmi sentire in colpa, senza riuscirci.
«Hai fatto molto bene, ti ringrazio del pensiero.» Accetto imperterrita.
La cena si è però svolta
nella peggiore delle aspettative: il giovanissimo Turble
(come scopro chiamarsi), ubriaco di calmanti, è rimasto a dormire per tutto il
tempo; mentre noi tre abbiamo finito la pizza in un silenzio intervallato da
poche e spicciole chiacchiere imbarazzate.
Avrei voluto continuare a parlare con Vegeta, chiedergli se per caso, anche lui
come me, non avesse capito che il momento non ci è affatto propizio e, date le
circostanze, non potremmo mai essere insieme. Avrei voluto che proprio lui mi
dicesse “Mi piaci, ma ho troppi problemi e non riuscirei a reggere una
relazione.”
Invece, adesso, mi ritrovo davanti l’odiosa C18! Abbandonata per
l’ennesima volta dal mio motorino bizzoso (dovrei davvero decidermi ad
aggiustarlo di persona, invece di attendere i comodi di mio padre!), ho poi
gioito, invano, della possibilità di poter chiedere un passaggio a Vegeta, il
quale ha preferito mandare la biondina.
«Ti è andata male, eh?» Mi sfotte la ragazza, chiudendosi il portone
alla spalle. «Vegeta non poteva lasciare Turble da
solo.»
«Guarda che l’ho capito!» Rimbecco, terribilmente delusa, ma forte della
consapevolezza di aver compreso l’allontanamento di Vegeta: non è il momento di
stare insieme, lui ed io.
«Sappi che rompe più a me di doverti accompagnare. Te l’avrei fatta fare
a piedi.»
«Mi spiace che i tram non passino più a quest’ora, forse non avresti
dovuto invitarmi a cena, Diciotto.» Bercio, salendo in macchina. La biondina,
però, è decisa a non lasciarmi godere della piccola vittoria verbale, così imperterrita
rimarca la sua proprietà sul ragazzo.
Mette in moto, non solo la macchina, ma il discorso che immagino, le sia pesato
sul petto per tutta la serata. «Scommetto che, se sapessi sul serio di chi ti
sei invaghita, torneresti a correre dietro ai giocatori di rugby della
tua scuola.» Svolta l’angolo con una manovra brusca costringendomi a reggere
alla maniglia. Continua a guidare come una pazza. «Io invece scommetto che non
vorresti ti vomitassi qui dentro. E comunque, non so a cosa tu ti riferisca.»
«Sveglia, so benissimo di tutti i discorsi da scolaretta in calore che
gli fai.» Racconta, ma non riesce a convincermi del tutto: non ce lo vedo
Vegeta a ripeterle tutte le mie parole. Piuttosto, il suo è un tentativo subdolo per costringermi a confessare.
Continua subito il discorso, senza darmi occasione di esternare i miei dubbi.
«Immagino tu abbia visto il morso che gli ho lasciato sul collo. Cosa
penseresti se ti svelassi che l’ho fatto per impedirgli di violentarmi?»
Domanda, senza mezzi termini.
«Non ci credo.»
«Sarebbe un male. Ma se hai il coraggio, potresti chiederglielo tu stessa. Digli:
per quale motivo Diciotto ti ha morso, mentre tu cercavi di aprirle le gambe?»
La sua voce cede in un tremore, rendendo vera quanto dolorosa la sua
confessione, che non compro. «Allora perché continui a starci, se davvero ha
tentato di farti una cosa del genere?»
«Perché ho iniziato io.» Sbotta, innervosendosi nel tentativo di capire lei
stessa la sua reazione. «Se tu lo conoscessi bene, tanto quanto lo conosco io,
sapresti che non potrebbe mai essere il tuo principe azzurro.» Frena davanti a
un semaforo rosso, e distoglie lo sguardo dalla strada per posarlo alla sua
sinistra e, nelle luci soffuse dell’abitacolo, scorgo una piccola lacrima sul
ciglio del suo mento.
«Non è nemmeno il tuo.» Le dico, in un sussurro scomposto e imbarazzato.
Continua
Eccomi tornata! :) Spero
questo capitolo sia stato di vostro gradimento, da parte mia posso dirvi che
non è stato affatto semplice scriverlo. Avrei voluto aggiungere un pistolotto
introspettivo riguardo i pensieri di Bulma, ma alla fine ho deciso di
risparmiavi: ve lo propinerò al prossimo capitolo, così intatno,
questa sera posso pubblicare qualcosa. Alla prossima! E grazie ancora a chi
segue, a chi legge e a chi commenta! :)