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Autore: Phoenix Mars Lander    26/06/2015    2 recensioni
"La loro storia sa di cappuccino e croissant al cioccolato.
Cominciò in un pomeriggio umido, nuvoloso, al tavolo numero cinque del bar all'angolo."
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La loro storia sa di cappuccino e croissant al cioccolato.
Cominciò in un pomeriggio umido, nuvoloso, al tavolo numero cinque del bar all'angolo.
Cominciò nel bel mezzo di una città che scappava a gambe levate dal cielo minaccioso, infilandosi in negozi a caso, facendo sbuffare il commesso di turno e ricoprendo gli scaffali colmi di libri dell'indifferenza meschina di chi non ha tempo, tempo di respirare fra un dovere e l'altro.
Era da un'altra parte, Frank, quando successe: era nella Contea a fumare erba pipa.
Il rumore della sedia che raschiava rudemente contro il pavimento lo trascinò via dalla Terra di Mezzo, rispedendolo nella realtà in un singulto strozzato.
“Posso?”
Per un attimo Frank si domandò se la ragazza gli stesse chiedendo il permesso di entrare nella sua vita o semplicemente quello di occupare la sedia di fronte alla sua, vista la massa caotica di persone che si premeva nel bar in quella giornata e si buttava su ogni posto libero come un animale feroce con la sua preda.
Frank fece un cenno e quello bastò.
La loro storia cominciò senza nomi da scambiare, senza mani da stringere, niente di niente.
I loro due mondi divisi soltanto dal tavolo numero cinque, il legno scuro che delimitava i bordi delle loro anime.
Il terzo giorno in cui la ragazza fece raschiare la sedia contro il pavimento – anche se il bar era mezzo vuoto e il sole splendeva rassicurante nel cielo – Frank ebbe il primo indizio della sua caccia all'essere umano: la ragazza era un ragazzo.
Lo capì dal modo in cui aveva corretto il pronome personale usato dal cameriere; “Stiles,” disse, “sono un uomo, chiamami Stiles”.
Fu la prima volta in cui Frank lo guardò per davvero, col viso nascosto dal suo nuovissimo libro, e si chiese come ci si dovesse sentire ad essere nati nel corpo sbagliato.
Poi Stiles fece un sorriso e chiese il solito – “un croissant al cioccolato... e se ti va portami anche il tuo numero.”
Il cameriere rise e Frank avvampò vergognosamente, spiazzato da quella battuta che lui non sarebbe mai riuscito a fare, con la sua timidezza e le sue guance rosse e la sua autostima che certo non arrivava alle stelle.
Balbettando, Frank chiese il solito cappuccino e si rese conto che i loro due ordini si completavano.
Stiles disegnava sempre, a novantatré centimetri dalle sue amatissime pagine, e quando cominciava sembrava dimenticarsi di qualunque altra cosa.
Stava bene, Frank, seduto di fronte a quegli occhi scuri: non aveva bisogno di giustificarsi.
Perdevano la fame e la cognizione del tempo, insieme, ciascuno immerso nelle proprie folle di anime.
E la carne era messa da parte, non era importante, se ne stava buona nella loro pelle, crogiolandosi nella schiuma del cappuccino e nel dolce.
Fu per questo che Frank sussultò, quando lo strascicare della sedia sul pavimento venne accompagnato, un giorno, da un'intrusione così concreta e violenta che gli fece bloccare per un attimo il cervello.
Stiles si lasciò cadere con i gomiti sul tavolo, sbuffando, quasi ringhiando, nel loro trentaquattresimo pomeriggio.
Frank rimase immobile con gli occhi incollati alla macchia violacea che si allargava sul viso dell'altro, scivolando minacciosa verso il suo naso e imbrattando tutto di un colore troppo scuro, che faceva a pugni col suo incarnato pallido.
“Cos'è successo?” Furono le prime parole che gli rivolse, il cuore in gola e l'ennesimo universo stretto fra le dita. 
Piantò le proprie iridi verdi in quelle marroni di Stiles e lo vide serrare la mascella, digrignare i denti, in un debole tentativo di calmarsi.
“È successo che abbiamo qualche problema nel cervello. Con le nostre prime, seconde, terze, centesime possibilità che concediamo a chiunque. E non riusciamo a vedere quando le persone ci fanno male e quando ne abbiamo la prova sulla nostra cazzo di pelle, la prova che s'ingrandisce e diventa più scura ad ogni istante, non facciamo assolutamente niente. Diciamo vattene via dalla mia vita e poi non diamo neanche una piccola spinta, nulla di nulla. E ci ripetiamo che andrà meglio la prossima volta e invece la prossima volta è uguale alla prima e ci basta una risata per convincerci che quella persona vale ancora la pena. Che ha solo bisogno di essere aiutata. E poi ce ne dimentichiamo perché abbiamo così tante dannatissime cose a cui pensare e certamente non ci si fossilizza davanti alle reazioni esagerate. E invece si dovrebbe. Si dovrebbe e mi fa schifo vedere quanto siamo deboli.
Quanto lo sono.”
Il labbro inferiore di Frank tremò solo un attimo, prima che lui sputasse fuori una frase che non aveva programmato.
“Non sei debole.”
Stiles sussultò, un sorriso amarissimo ad inacidirgli il viso.
“E tu come fai a dirlo? Non mi conosci nemmeno.”
Frank voleva dirgli che non era vero, che sapeva che quando qualcuno gli si rivolgeva al femminile diventava nervoso e cominciava a spostarsi ossessivamente i capelli dietro l'orecchio.
Voleva dirgli che si era accorto che mangiava il suo croissant al cioccolato lasciandosi il centro per ultimo, così da ributtarsi sul disegno di turno col sapore dello zucchero sul palato che lo faceva sorridere come un bambino.
Voleva dirgli che aveva notato che quando gli suonava il telefono e la parola “papà” riluceva sullo schermo lui s'irrigidiva sul posto e poi prendeva un respiro profondo, prima di rispondere con tono cauto, con una voce troppo acuta e squillante a quella a cui Frank si era abituato.
Voleva dirgli che lasciava in giro impronte digitali tinte di grigio, per colpa di quelle matite che si portava sempre dietro, che facevano a pugni coi colori sgargianti che ricoprivano permanentemente il suo braccio destro, le figure che scivolavano fuori dal colletto delle sue camicie protendendosi verso il suo viso.
Voleva dirgli che si era accorto che una volta Stiles aveva raggiunto il numero massimo di appunti consentiti dalla memoria del telefono e aveva imprecato ad alta voce senza neanche rendersene conto, perché, aveva detto, stava perdendo le idee un frammento dopo l'altro e doveva muoversi a raccoglierle su uno schermo, un foglio, un tavolo.
Fu la volta in cui si mise a scrivere sul proprio disegno quasi terminato, rovinandolo clamorosamente sotto gli occhi di Frank e il suo sguardo allibito.
Quel giorno Frank aveva pensato che forse l'altro aveva il cervello in sovraccarico, come il suo telefono, e che forse avrebbe dovuto pensare un po' di meno e poi si disse la medesima cosa anche di se stesso.
Voleva dirglielo, ma non lo fece.
“Hai ragione, non ti conosco.”
Stiles deglutì, abbassando la testa.
“Scusami.”
Frank scrollò le spalle, cercando di mostrarsi incurante.
Forse imparare le abitudini e le manie delle persone non era sufficiente.
“Tu lo sai, vero, che sei importante?”
Gli occhi di Stiles gli si puntarono addosso, spalancati come finestre su ogni sua emozione, pieni zeppi di lacrime.
Si permise di tremare e sorrise.
Stiles non si presentò più col viso deturpato.
Non parlavano quasi mai, ma stavano bene comunque.
Frank scoprì quand'era il suo compleanno, ascoltando una conversazione al cellulare che l'altro stava avendo con un parente, o un amico, ripetendo ogni due per tre che chiunque gli avesse fatto una festa a sorpresa, l'indomani, sarebbe stato strangolato da Stiles stesso.
Frank aveva sorriso internamente e aveva pensato che ne sarebbe valsa la pena, di rischiare l'incolumità per una persona del genere.
Il giorno seguente, quando Stiles compì ventun anni, Frank gli fece trovare una candelina azzurra sul suo croissant al cioccolato e si beccò uno sguardo stupito, un respiro strozzato e un abbraccio fortissimo.
Nel loro ottantaduesimo pomeriggio, Frank trattenne l'altro ragazzo con un gesto improvviso, inaspettato, come quando s'imponeva di fermarsi nel bel mezzo dei propri movimenti automatici, mentre si pettinava i capelli o si lavava i denti, per ricordarsi che era ancora lui il padrone delle sue mani, anche se la maggior parte della sua vita andava avanti a muscoli involontari e gesti abitudinari e impulsi meccanici.
Fermò Stiles con una stretta al polso e un cenno del capo, lo stesso che gli aveva rivolto quando gli aveva dato il permesso di entrare nel proprio mondo, e gli chiese se gli andasse di mangiare con lui una cena o un pranzo, un giorno.
Successe l'indomani e Frank dovette farsi violenza per trattenere un sorriso, nel notare che i loro due ordini si completavano.

La prefazione alla loro storia sa di cappuccino e croissant al cioccolato, viene al mondo col rumore di una sedia strascicata sul pavimento e finisce col tavolo numero cinque scavalcato da un bacio.


Author's corner 
~
Quanta dolcezza, ew. Non ci sono abituata ahahahah!
Se qualcuno è arrivato a leggere fin qui, beh, grazie infinite.
  
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