Serie TV > The Musketeers
Segui la storia  |       
Autore: Calliope49    27/06/2015    2 recensioni
*COMPLETA*
«Avete anche un nome, monsieur?»
«D’Artagnan».
Lei strinse appena le labbra. «Ah, siete quel d’Artagnan».
«Prego?»
«D’Artagnan, Athos, Porthos e Aramis. Treville vi nomina spesso - quando parla dei rischi per la sua salute, ad esempio».

Una calma insolita è piovuta su Parigi, ma la situazione non è destinata a durare. Strani incidenti, un omicidio e la comparsa di un misterioso bandito daranno filo da torcere agli uomini del re. Nel mezzo, una ragazza e troppe cose che non sono quello che sembrano…
[AthosXNuovoPersonaggio; Accenni Constagnan e Annamis]
[N.B. La storia non tiene conto degli sviluppi della seconda stagione perché è stata ideata prima che ne cominciassero gli episodi]
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Athos, Captain Treville, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'On the side of the angels '
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
XX
Un ospite di troppo
 
 
Diane sparò.
Nella frazione di secondo che le servì per premere il grilletto, il mondo attorno a lei si dissolse una nuvola di colori confusi.
Per la prima volta, il proiettile colpì il bersaglio a sei metri di distanza aprendo un foro fumante in uno dei cerchi dipinti sul bersaglio.
«Oh, grazie a Dio…» sussurrò Aramis con un sollievo a metà tra lo stupore e l’esasperazione.
«Guarda che ti ho sentito» disse Diane.
Il moschettiere scosse il capo. «Ti giuro, se riesci a rifarlo per almeno tre volte di fila ti pago una sbronza»
«E se arrivo più vicina al centro mi tieni anche su la testa mentre vomito?».
Erano passate due settimane dalla missione al porto. La ferita dietro la schiena di Diane aveva smesso di pulsare e tirare da poco; la ragazza ricordava quasi con orrore il dolore soffocante della carne dilaniata dal proiettile. Constance le aveva assicurato che la cicatrice non era troppo brutta, Aramis era stato bravo a ricucirla, ma quando la ragazza allungava la mano tra le scapole sentiva un rigonfiamento raggrinzito a forma di V sotto i polpastrelli, un bel ricordo da portare.
Era rimasta sorpresa quando suo zio le aveva detto che voleva insegnarle a difendersi e che i moschettieri erano disposti a darle lezioni - più che disposti, erano stati costretti.
Che le armi da fuoco non fossero la migliore attitudine di Diane era stato chiaro da subito, ma la ragazza aveva tutta l’intenzione di provare fino a quando non fosse diventata una tiratrice quanto meno decente.
Non contava che sparare e tirare di scherma non le sarebbero più serviti in futuro, quando tutta quella storia fosse finita, ma quella era la sola condizione che Treville aveva richiesto per lasciarla in gioco e  permetterle di portare a termine il suo piano.
Il suo piano ora era un orizzonte in attesa. Con l’attacco al porto, il conte Legrand doveva aver capito di aver attirato troppo l’attenzione e anche se non poteva essere sicuro che i moschettieri sapessero del suo coinvolgimento, di certo per un po’ avrebbe messo fine ai suoi traffici e se ne sarebbe stato buono nel suo travestimento di lupo mascherato da agnello.
Le occasioni per incastrarlo erano sfumate e forse ci sarebbe voluta una vita prima che se ne ripresentassero di nuove.
Diane ci pensò con rabbia mentre ricaricava la pistola. Pensò a lui, al conte, mentre prendeva la mira e sparava, immaginò che il bersaglio di legno fosse il suo petto grasso da tacchino.
Il colpo andò a segno, anche se era solo di pochi centimetri più vicino al centro rispetto al precedente. 
Se la sua vendetta si fosse ridotta a uccidere Legrand, Diane l’avrebbe già compiuta da un pezzo, senza lezioni di tiro e di scherma, senza l’aiuto dei moschettieri.
Al terzo colpo, non ottenne risultati migliori dei due precedenti. Abbassò la pistola con fare stizzito.
«Calma» si raccomandò Aramis. «Nessuno è diventato un bravo tiratore dal giorno alla notte e tu hai già fatto qualche progresso»
«Sono in ritardo su tutta la linea, immagino che a voi maschi venga insegnato molto presto a sparare».
Il moschettiere scrollò le spalle e le passò una pistola già carica. «Io accompagnavo mio padre a caccia, ho iniziato presto, sì. Anche se i miei preferivano vedermi con un breviario in mano invece che con un fucile»
«Immaginarti prete mi riesce più difficile che pensare di poter centrare il bersaglio»
«A volte penso a quanto più facile sarebbe stata la mia vita, facile e…»
«… noiosa» terminò Diane per lui. «Come lo sarebbe stata la mia se fossi rimasta in Italia».
Un pensiero le attraversò la mente, un pensiero angoscioso e soffocante più dei tanti fantasmi che l’avevano tormentata nelle notti passate. Non rimpiangeva Roma, anzi quella città era lontanissima dai suoi pensieri, ma sapeva che vi aveva lascito promesse e conti in sospeso e un giorno avrebbe dovuto affrontare tutto questo come ora stava affrontando la sua vendetta.
«Non pensi di tornarci, dopo?» chiese Aramis a bruciapelo.
Diane distolse lo sguardo. Quella domanda andava a intrecciarsi con le sue riflessioni lì dove il cuore bruciava. «Immagino che dovrò farlo»
«Ah. Pensavo avessi trovato buoni motivi per restare»
«Il mio buon motivo è sfumato la sera che mi ha strappato la maschera, Aramis, non prendiamoci in giro» sospirò Diane, rassegnata e senza alcuna malinconia. «In Italia potrei avere ancora qualcosa che mi aspetta…».
La ragazza sollevò il braccio, allineò il polso come le avevano insegnato, puntò lo sguardo dove finiva la linea diritta tra la canna della pistola e il bersaglio, ma il mondo non si dileguò stavolta, restò lì con tutta la sua ingombrante presenza di rumori e colori. La concentrazione era sparita; Diane abbassò il braccio senza sparare.
«Come stiamo andando qui?». La voce di suo zio mandò via anche quegli ultimi scampoli di calma che erano rimasti. Athos, Porthos e d’Artagnan comparvero al seguito del capitano.
Passato l’attimo di sconvolgimento e la paura per aver quasi perso la ragazza, Treville aveva preso ad affrontare quella situazione con estrema lucidità, con il suo consueto buon senso aveva stabilito che se non poteva fermare sua nipote, allora doveva assecondarla: era preferibile avere voce in capitolo e tenere d’occhio la faccenda, piuttosto che esserne tagliato fuori come era stato fino a quel momento. Probabilmente non ci dormiva la notte, ma riteneva fosse meglio restare sveglio per un buon motivo piuttosto che dormire nella beata ignoranza.
Aramis si alzò in piedi dal piano della botte su cui era appollaiato. «Fa progressi, come qualsiasi giovane apprendista moschettiere. Anzi, ne ho visti di più lenti di lei».
Il capitano guardò con aria scettica il bersaglio con i due fori a una distanza troppo grande dal centro.
«Ti è stato spiegato che in genere i bersagli a cui si spara quando si combatte davvero sono in movimento?» disse.
Diane fece una smorfia. «Vuoi farmi esercitare sulle galline di Serge?».
Suo zio scosse il capo. «Mi piace immaginare che tu non sparerai mai a nessuno, in ogni caso» ammise. Tutta la questione dell’allenamento era solo una precauzione, almeno nelle speranze di Treville. «Comunque, una volta ti dissi che mi sarebbe piaciuto vedere come te la cavi con la spada». Staccò dalla griglia nell’angolo del cortile di addestramento due spade senza affilatura e ne porse una a sua nipote.
Quello era un terreno su cui Diane si sentiva assai più sicura. Forse non era in grado di tenere testa a un vero soldato in un vero scontro, ma sapeva senz’altro dove mettere le mani.
Impugnò l’arma e ne guardò la lama smussata. «Sapevo che prima o poi ti sarebbe venuta voglia di darmi una lezione» mormorò con un mezzo sospiro.
«Io? Oh, no, ci mancherebbe, sono vecchio per queste cose e non sarei un avversario all’altezza» rispose il capitano con una certa enfasi. «Athos, ti spiace?».
Athos alzò la testa con l’aria di uno che era stato appena svegliato da una lunga dormita. Non era stato molto partecipe agli allenamenti di Diane e, anzi, nelle due settimane dopo quella notte al porto, loro due si erano a stento rivolti la parola. Ritenevano entrambi di non avere molto da dirsi.
Ora il moschettiere stava facendo vagare lo sguardo tra la ragazza e il capitano con un’aria che diceva chiaro e tondo: “perché io?!”.
Il perché in realtà era più che ovvio.
Farla combattere con il miglior spadaccino del reggimento - e forse anche dell’intera Francia - e quindi umiliarla con una pessima figura era senz’altro un modo che Treville aveva escogitato per punirla per le sue bravate e, dopotutto, Diane pensò che era meno di quanto meritasse anche se non riusciva a non sentirsi indispettita.
Athos, era chiaro, riteneva molto più sicuro e sbrigativo ovviare alla sicurezza di Diane rinchiudendola da qualche parte. Aveva sempre voluto averla fuori dai piedi e ora lo voleva più che mai.
Quando la ragazza lo vide prendere la spada da addestramento che Treville gli porgeva, le salì il sangue alla testa.
«Posso occuparmene io?» si intromise d’Artagnan, allungano la mano perché Athos gli consegnasse la spada.
Caro ragazzo, no, non puoi…
«Non ne vedo la ragione» disse Treville con un certo sussiego.
Athos si era già parato di fronte a Diane e la guardava senza alcuna espressione. Lei respirò lentamente cercando di farsi passare la voglia di spaccargli quella faccia imperturbabile.
«Mi sembra giusto» disse la ragazza con un sorrisino tirato, «questo è lo spareggio. La prima volta che ci siamo affrontati ho vinto io, la seconda ha vinto lui»
«La prima volta non hai vinto, sei scappata» mormorò Athos come se stesse rimarcando un concetto ovvio, forse quello che era sempre stato il suo pensiero a riguardo: non sei capace, non sai pronta. «E la seconda volta…»
«La seconda volta mi stavo preoccupando di non farti del male» ribatté lei.
Treville aggrottò le sopracciglia davanti a quello scambio da galline di cortile. Gli altri tre moschettieri si scambiarono occhiate allarmate e imbarazzate insieme, poi indietreggiarono per portarsi alle spalle del capitano, come a proteggersi da quello che stava succedendo. 
«Sì, be’… io avevo in mente un paio di tiri giusto per provare» fece Treville. Di colpo non era più tanto sicuro di quello che stava succedendo o che la sua fosse una buona idea. 
Diane attaccò all’improvviso, Athos riuscì a parare per un soffio. Si avvicinarono premendo le lame l’una contro l’altra, poi si staccarono. Si guardarono, girando in tondo con passi lenti, l’uno di fronte all’altra.
Athos inclinò la testa con aria seccata. Doveva trovare tutta quella faccenda assolutamente noiosa e superflua.
Diane lo attaccò di nuovo, finse di sbilanciarsi verso sinistra pensando di poterlo prendere di sorpresa vibrando poi da destra. Di nuovo lui parò senza alcuno sforzo e la respinse con una scoccata energica che le fece sentire un senso di irritazione frustrata. Lo attaccò di nuovo, spinta come una molla, senza pensare.
Con un movimento veloce e leggero che la ragazza non capì, il moschettiere l’aveva già disarmata. 
La spada cadde rimbalzando contro il terreno.
Erano bastati pochi minuti e lo scontro si era concluso piuttosto miseramente.
Diane lanciò ad Athos uno sguardo astioso, lui si voltò per andare a posare la spada sulla griglia. La ragazza si chinò a raccogliere la lama caduta.
«Dove credi di andare? Non abbiamo finito» borbottò. Si rese conto di suonare infantile e petulante, ma non le importava. Se Athos e suo zio volevano darle una lezione, allora il moschettiere si sarebbe dovuto impegnare molto più di così.
«Non ti serve un duello alla cieca» disse lui con indolenza, senza nemmeno voltarsi. «Ti manca la tecnica e la disciplina necessaria»
«Non costringermi ad attaccarti mentre sei di spalle. Ti ho avvisato».
Il vento rimescolò la polvere e fece scricchiolare la struttura di legno ai lati del cortile.
«Che piacevole reminiscenza» sospirò Aramis, poggiandosi col gomito alla spalla di Porthos. Entrambi voltarono il capo verso d’Artagnan che restituì loro un’occhiata truce.
Treville, per conto suo, continuava a osservare basito i duellanti.
La ragazza fece fischiare la lama nell’aria. Athos si voltò mettendosi in guardia.
Con calma, pensò lei, la voce di Sebastiano che si mischiava a quella della sua mente. La rabbia non è tua amica mentre combatti.
Le spade cozzarono con un suono violentissimo. Diane sapeva che lui avrebbe vinto di nuovo, non voleva batterlo, voleva solo dimostrare di riuscire a tenergli testa e per farlo non doveva pensare a quanto lui la facesse infuriare e quanto male le facesse l’averlo perso, non doveva guardare gli occhi grigi che ogni tanto si fermavano nei suoi da dietro l’elsa della spada.
Gli affondi di Athos erano precisi, forti senza essere brutali, se fossero stati appena più violenti, l’urto gli avrebbe fatto saltare la spada dalle mani, invece lui sapeva calibrare con precisione la giusta dose di forza.
Diane contava i respiri tra un luccichio di lama e l’altro. Prendeva aria dalle narici per non ritrovarsi senza fiato e investire in velocità tutto quello che le mancava in bravura.
Athos non le dava tregua, non le lasciò neppure il minimo spazio di manovra per contrattaccare, ma lei riuscì a parare ogni colpo e a evitarne altri.
Sentì il sudore scorrerle sulle tempie e sulla schiena. Anche il volto del moschettiere era arrossato e lucido.
Diane approfittò di una sua esitazione, la frazione di secondo che Athos si concesse per riprendere fiato, per attaccarlo. Le lame stridettero così forte da far male ai denti.
Athos le bloccò il polso in una stretta tanto salda da farle male. Erano vicini, vicinissimi come non lo erano più stati da quella notte di tempesta, e come quella volta i respiri si mescolavano sui loro visi arrossati. 
Perché il mondo non era finito quella notte?
Diane sentì un gelo di angoscia e pianto stringerle lo stomaco, mischiarsi dolorosamente al fuoco della rabbia.
Perché Athos non poteva gettare le armi e baciarla? Anche lì, davanti a tutti…
Perché non c’era altro nei suoi occhi di piombo se non quella furia mitigata dalla tristezza tanto quanto dalla disciplina?
«Basta!» tuonò Treville. «Smettetela».
Il moschettiere e la ragazza si staccarono, indietreggiando ognuno di un passo.
Aramis, Porthos e d’Artagnan avevano le facce congelate in un’espressione stravolta e le labbra serrate.
Il capitano reggeva tra le mani un foglio e il suo viso non tradiva nessuna emozione particolare. Il ragazzo che gli aveva consegnato la missiva si stava allontanando oltre l’angolo.
«Per oggi abbiamo finito» annunciò Treville, guardando sua nipote. «Mi è arrivato il messaggio che il duca de Leroux sarà a Parigi tra un’ora»
«Oh, merde…» si lasciò scappare Diane.
«Modera il linguaggio!» la riprese suo zio. «Andate tutti a rendervi presentabili, ho detto al cardinale che avremmo scortato noi il duca a palazzo». 

 
***
 
Il luogo dell’appuntamento con la carrozza del duca era un ritaglio di prato poco distante dalle mura cittadine.
«Sono curioso di conoscere questo duca» disse Porthos. «Diane non ne parla quasi mai»
«Considerando come ha reagito quando ha saputo della sua visita, non credo sia il suo parente preferito» osservò d’Artagnan.
«E se pensiamo che di parenti gliene sono rimasti solo due…» fece Aramis, inclinando la testa.
Un sole smagliante faceva brillare il verde dell’erba del prato. Un vento fresco smuoveva le cappe azzurre dei moschettieri e spettinava le piume sui loro cappelli.
L’inverno si preparava a essere solo un ricordo. Era stato uno strano inverno, quello, pensò Athos, un inverno che avrebbero ricordato.
La carrozza comparve come una macchiolina traballante all’orizzonte.
Fermo in mezzo al sentiero, Treville l’attendeva ostentando un’aria tranquilla ma nemmeno lui sembrava troppo entusiasta di avere a che fare con il cognato della defunta sorella.
Il duca era un uomo del cardinale, e questo era un dettaglio tutt’altro che trascurabile.
I moschettieri si scambiarono occhiate annoiate, Porthos si piegò in avanti sulla sella per sgranchirsi la schiena. Sembrava aspettassero da ore.
Diane era di fronte a loro, qualche passo dietro suo zio. Treville era riuscito a portarla con sé, la paura che la ragazza aveva dei cavalli cominciava a passare, anche se seduta di traverso sulla sella per non rovinarsi la gonna dell’abito non era sembrata troppo a suo agio.
Athos la guardò per qualche istante, era nervosa per l’arrivo del duca.
«Mi stavo chiedendo se riuscirete mai ad avere un rapporto normale voi due» disse Aramis, intercettando la direzione dello sguardo del compagno. «A giudicare da quello che ho visto stamattina, direi di no»
«Stamattina mi sono fatto prendere la mano perché mi innervosisce la sua cocciutaggine, come quella di chiunque»
«Bene, tanto lei non nutre grosse speranze su voi due».
Athos guardò Aramis inarcando un sopracciglio. «Credevo le stessi insegnando a sparare, non che fossi il suo padre confessore»
«Sono suo amico»
«Buon per te». Sospirò stizzito, sperando che ciò bastasse a chiudere la questione.
Era stanco dei discorsi su quello che era successo tra lui e Diane, era stanco delle domande, dei consigli, delle allusioni. Tra loro quattro ognuno aveva i suoi demoni, per i propri il moschettiere non chiedeva altro che comprensione.
La carrozza era vicina ora, si sentiva il suono degli zoccoli dei cavalli. Dietro la vettura del duca viaggiava un piccolo seguito di soldati e un’altra carrozza con dei bagagli: il nobiluomo non aveva intenzione di ripartire presto o, forse, non aveva viaggiato da solo.
L’intera carovana si fermò. I cavalli stanchi con il pelo chiaro lucido di sudore abbassarono la testa e sbuffarono, lanciando sguardi languidi ai ciuffi d’era ai margini del sentiero. 
Il duca de Leroux smontò, balzando agile oltre i gradini della carrozza. Qualcosa in lui ricordava i lineamenti di Diane, anche se i suoi tratti erano più marcati e virili, e i suoi occhi erano scuri e un po’ freddi. Nel complesso, il duca era un bell’uomo, elegante e ancora giovane.
Dietro di lui smontò un altro uomo alto e con bei vestiti di velluto rosso e marrone. Non arrivava ai trent’anni, aveva la compostezza innegabile di un nobile abituato agli agi. Non lo si sarebbe potuto scambiare per un valletto o un sottoposto del duca.
Quando de Leroux si fermò di fronte a Treville, Athos pensò che occorreva un enorme sforzo di immaginazione per credere che quei due fossero imparentati in qualche modo.
Il duca portava al fianco una spada con la ricca elsa cesellata, ma dalle sue mani era facile intuire che non avesse mai usato una lama e forse le uniche volte in cui aveva avuto modo di avere a che fare con qualche arma era stato durante delle battute di caccia.
Treville fece un rigido cenno del capo e accennò un sorriso formale.
«Vi do il benvenuto, monsieur» disse. «Avete fatto buon viaggio?»
«Snervante» ammise il duca. «Ma è bello tornare a casa. Vi ringrazio per l'accoglienza».
De Leroux spostò piano lo sguardo su Diane rimasta ferma lì dov’era, accanto alla strada, e le sorrise. «E come sta la nostra bella nipote? Le sue maniere non sono migliorate dall’ultima volta che l’ho vista, non lo merito un saluto?».
La ragazza si riscosse e si avvicinò ai suoi due zii.
De Leroux prese le mani di Diane tra le sue. «Sembra che la vita parigina non vi faccia bene» le disse prima di baciarla sulle guance. «Sono contento di rivedervi»
«Lo sono anche io». Non si riusciva a capire quanto ci fosse di sincero nel sorriso della ragazza, ad ogni modo la sua espressione si spense e si trasformò in una smorfia imbarazzata quando il suo sguardo si posò sull’uomo giovane che accompagnava il duca.
«Cesare!» trillò Diane provando a ostentare una contentezza del tutto fasulla.
Cesare mosse una passo verso di lei e l’abbracciò con un moto di trasporto che fece storcere le labbra di Treville.
La ragazza gli batté una mano tra le spalle, in imbarazzo, e sembrò si fosse dimenticata come fare a respirare. Prese aria solo quando l’uomo la lasciò andare.
«Posso avere il piacere?» disse il capitano dei moschettieri, intromettendosi in quello scambio univoco di effusioni - sembrava proprio che Cesare fosse sul punto di baciarla.
«Voi dovete essere il signor Treville. Cesare Corsini» si presentò l’uomo. «Diane mi ha tanto parlato di voi. È un onore conoscervi». Il suo francese era corretto, anche se la pronuncia lasciava un po’ a desiderare.
Il capitano strinse la mano a Corsini che appariva così deliziato da credere che fosse sul punto di mettersi a scodinzolare. Non ebbe cuore di dirgli che lui invece non lo aveva mai sentito nominare, nonostante la confidenza che l’italiano sembrava avere con sua nipote.
«L’onore è mio, monsieur. Non speravo di avere la fortuna di conoscere qualche amico italiano di Diane».
Corsini spostò lo sguardo tra la ragazza e i suoi due zii.
«Non sono un suo amico, capitano, sono il suo fidanzato».
Il suo che?
I moschettieri drizzarono le schiene di colpo, come se quell’affermazione fosse stata un tiro di frusta contro le loro spalle. Parve che a Treville fosse andato di traverso qualcosa.
Per conto suo, Diane abbassò lo sguardo e fissò la terra sotto i suoi piedi come a pregarla di aprirsi in una voragine e inghiottirla.
«Fidanzato?» bisbigliò Porthos. «Quello? Sul serio?»
«Be’ non mi pare brutto» gli fece eco Aramis.
«E nemmeno povero» concluse d’Artagnan.
Tutti e tre si voltarono verso Athos, aspettando un suo commento o anche solo un gesto che tradisse la sua delusione.
«Una giovane donna di buona famiglia imparentata con un duca: ci sarebbe da stupirsi se non fosse fidanzata» disse lui con calma - ma ovviamente il pensiero non l’aveva mai sfiorato prima di quel momento. «Temo comunque che Diane lo farà impazzire nel giro di un mese»
«O lui farà impazzire lei, per la noia» replicò d’Artagnan.
«Diane non mi sembra il genere di ragazza che uno può forzare a sposarsi» sbuffò Aramis.
Athos scrollò le spalle. «Chi dice che sia forzato?»
«Piantala o ti do un pugno» mugugnò Porthos, stringendo le labbra. «Non mi pare proprio che lei stesse sprizzando di gioia nel rivedere quel tipo»
«Solo perché Treville non ne sapeva niente, non glielo aveva mai detto» concluse Athos. Certo che non lo aveva fatto: raccontare di un futuro marito che l’attendeva in Italia avrebbe sollevato troppe domande e le avrebbe causato fastidi. Un conto era comportarsi da donna libera, altra cosa era dichiararsi impegnata con un fidanzato che l’aspettava dall’altra parte del Mediterraneo. E Cesare Corsini aveva tutta l’aria di aver aspettato Diane con il cuore in mano…
«Signori». La voce di Treville costrinse i moschettieri a prestare attenzione. «In marcia. Il duca è atteso e non voglio che faccia tardi».
Gli uomini a cavallo sollevarono lo sguardo per vedere Diane sparire mano nella mano con Corsini attraverso lo sportello della carrozza del duca.   
 
***
 
«Prima che mi cadano le braccia: c’è dell’altro che non mi hai detto?» disse Treville. «Ogni giorno ne salta fuori una nuova!».
Diane era seduta su un sofà tappezzato di velluto blu, faceva strusciare i piedi l’uno contro l’altro a pochi centimetri dal pavimento con l’aria assorta da bambina sprofondata in un mondo di pensieri inaccessibili.
Il duca era stato fagocitato dalle porte dorate di un ufficio ed era sparito insieme al re e al cardinale Richelieu.
Nei labirintici corridoi del palazzo del Louvre c’era un bel silenzio, interrotto solo dai passi leggeri dei domestici che andavano avanti e indietro, presi dalle loro mansioni.
«Che altro ho fatto, stavolta?» chiese la ragazza, riemergendo dalle sue riflessioni.
«Corsini. Non me ne hai mai parlato, nemmeno un accenno. Sei fidanzata, questo vuol dire che tornerai a Roma prima o poi. Avresti dovuto dirmelo, almeno questo».
Diane sollevò lentamente lo sguardo su suo zio. Non capiva se fosse più sconvolto all’idea che lei avesse un fidanzato o che prima o poi avrebbe di nuovo dovuto lasciare la Francia.
«Non è così semplice» disse con un sospiro.
«No, a quanto pare con te non lo è mai»
«Va bene, ascolta: il duca e la famiglia di Cesare decisero il nostro fidanzamento quando io avevo quindici anni» spiegò la ragazza. «Per conto mio non ho mai dato il consenso a questa cosa»
«Davvero? Be’, Corsini mi sembra molto convinto che tu lo abbia fatto»
«È perché il duca non mi avrebbe lasciata partire se non gli avessi promesso di sposare Cesare. In realtà non l’ho proprio promesso, l’ho solo… aehm, lasciato intuire, in maniera molto vaga. Vaghissima»
«Diane! Forse non lo hai capito, ma il duca è venuto qui per riportati indietro e ha portato con sé… Cesare per rammentarti gli impegni che hai preso» borbottò Treville. «Hai fatto una promessa e loro si aspettano che tu la mantenga. E francamente, me lo aspetto anche io».
Diane lo sapeva. In quei mesi a Parigi aveva dimenticato il peso di quella catena, la morsa fredda dei ceppi attorno al cuore, l’aveva dimenticato con così tanta facilità da concedere a se stessa di innamorarsi di un altro uomo, di immaginare una vita che non poteva avere, come Constance con d’Artagnan, come la regina Anna con Aramis, come tante altre donne. Aveva giocato a essere libera e ora tornare alla realtà le faceva male, ma davvero Treville non capiva le difficoltà, i compromessi con cui aveva dovuto fare i conti a Roma come orfana sotto la tutela dell’ambasciatore francese?
«La manterrò, la mia promessa» sospirò la giovane. «Conosco Cesare da quando eravamo ragazzi, gli voglio bene e lui ne vuole a me. Ma non lascerò la Francia prima di aver ottenuto ciò per cui sono venuta qui».
Treville incrociò le braccia sul petto. «E allora c’è da sperare che la permanenza del duca a Parigi sia lunga abbastanza» concluse lapidario.     
 
 

 
  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > The Musketeers / Vai alla pagina dell'autore: Calliope49