*****
“Non è
assolutamente vero”, esclamai, cercando di far
valere la mia opinione che,
in quel momento, era stata accantonata con fin troppa
facilità. “Preferirei
guardare altro, per quanto
riguarda le competizioni di nuoto ne ho avuto abbastanza”.
Erano
passate praticamente sei settimane da quando,
la notte dell’ultimo dell’anno, mi ero ritrovata a
casa mia con Travis a
seguito. Non ci frequentavamo, ed era stato messo perfettamente in
chiaro dalla
sottoscritta già tempo prima, ma quando ne avevamo la
possibilità ci
incontravamo, per lo più al mio appartamento, e a parte aver
testato gran parte
delle superfici utilizzabili lì dentro, facevamo ben poco
altro. Più che altro
film alla tv e chiacchiere vuote, giusto per passare il tempo.
“Non mi
sembra di averti chiesto chissà cosa e, tanto per cambiare,
ti stavi per
addormentare, quindi mi è sembrato il minimo cambiare canale”,
cercò di
giustificarsi, lui, che fregava il telecomando da sotto il naso delle
persone.
Non
eravamo scesi in particolari riguardo alle
nostre vite private, eravamo ancora troppo sconosciuti per poter
scendere
troppo a fondo, ma ci eravamo confrontati su parecchi argomenti e,
spesso, ci
trovavamo stranamente d’accordo, ma quando accadeva il
contrario finivamo
sempre per discutere e, per lo più, per insultarsi senza
problemi. Era un’amicizia
turbolenza, sempre se amicizia
si trattasse perché né io né lui ne
eravamo certi. E nemmeno in un’occasione
avevamo cercato di dare una seria definizione a quello che eravamo
diventati.
Perché non eravamo nemmeno friends
with
benefits – giusto per essere più
internazionali – dato che, come nostro
solito, tendevamo a complicarci la vita ed a crearci mille problemi;
quindici
eravamo definiti solamente un grandissimo punto interrogativo.
“Si, ma non
per del nuoto”, mi lamentai, cercando di afferrare
il telecomando che
teneva sollevato troppo in alto per me. “Ancora
una volta”, specificai, infine.
Travis
si affidava sempre più spesso ai centimetri
che ci dividevano, divertendosi sempre più spesso a mie
spese che, con tutte le
mie forze, avevo sempre cercato di farmi valere nonostante, in
confronto a lui,
fossi sempre stata una nanetta. Così, alla fine della
storia, mi ritrovavo
sempre a dover combattere contro di lui per recuperare il telecomando e
poter
cambiare canale dato che, quella, era pur sempre casa mia. Ma raramente
ero
riuscita a vincere, a discapito suo, ovviamente, che più di
un paio di volte di
era ritrovato con un mio ginocchio sul petto a comprimergli la cassa
toracica.
E sarebbe successo anche in quell’occasione, se non fosse
stato per Travis che,
con un colpo di reni, riuscì a spedirmi per terra senza
troppi complimenti,
facendomi cadere come una pera cotta.
E
lui cominciò a ridere senza ritegno, stringendosi
lo stomaco tra le braccia per quanto le sue risa erano sguaiate, e
nemmeno il
mio sguardo di fuoco riuscì ad intimidirlo, nonostante fossi
davvero stizzita
per la botta che avevo appena dato. Sembrava non notarmi nemmeno, lui,
quasi
con le lacrime agli occhi.
“Sei il
solito idiota, Travis”, esclamai, alzandomi in
piedi. “E sei un bambino, tanto per
cambiare”.
Lo
guardai ancora una volta, mentre cercava di
trattenersi a stento, cominciando ad escogitare la mia prossima
vendetta, anche
se non avevo la minima idea di cosa avrei potuto fare. Così
lo lasciai alle sue
risate e ai suoi programmi sul nuoto, ignorando il suo tentativo di
richiamarmi
indietro e dirigendomi verso la mia camera oscura, sperando che potesse
darmi
quella pace necessaria per stilare il mio piano.
Non
avevo la più pallida idea di cosa avrei potuto
fargli, ma qualcosa dovevo inventarmi perché, oltre ad una
figuraccia di dimensioni
epiche, avevo davvero sbattuto il culo per terra e mi aveva fatto male,
quindi
Travis doveva pagarmela, in qualche modo. Sembravo molto una bambina,
in quel
momento, stizzita per così poco, ma non potevo farci nulla.
E non era la prima
volta che, tra noi, accadeva una cosa simile.
Alla
fine mi ritrovai a sistemare quelle poche cose
che, nella mia camera oscura, erano fuori posto, perdendo tempo e non
riuscendo
a pensare a come potermi vendicare, così tornai in salotto
dopo nemmeno
quindici minuti e, stranamente, trovai Travis addormentato sul divano,
nonostante alla tv ci fossero ancora le competizioni che tanto aveva
agognato
guardare.
Mi
fermai un momento a fissarlo, e non era nemmeno
la prima volta che avevo l’occasione di guardarlo dormire.
Più di una volta era
rimasto da me più del necessario, ma non avevo insistito
più di tanto nel
cacciarlo, pensando che non potesse davvero essere una cosa
così disastrosa. E,
come in quel momento, già in un paio di occasioni mi ero
svegliata nel cuore
della notte e, per un po’, mi ero bloccata a studiare il suo
viso mentre
dormiva. Le sue labbra socchiuse, la fronte che si aggrottava di tanto
in
tanto, regalandogli un’espressione infastidita, come in quel
momento.
Poi
il lampo di genio. E non attesi un momento a correre
in cucina, cercando di fare meno rumore possibile, e recuperare due
coperchi di
pentole che avevo a portata di mano. Mi avrebbe odiato e,
probabilmente, me ne
sarei pentita, ma era un’occasione troppo accattivante per
lasciarsela
scappare. Così mi avvicinai lentamente al bracciolo del
divano dove lui aveva
deciso di poggiare il capo e, cercando di trattenere le risate,
respirai a
fondo prima di cominciare a sentirmi come un membro della parata di San
Patrizio. Poi cominciai a sbattere tra loro i due coperchi e, lo
spettacolo che
mi si parò davanti agli occhi, fu a dir poco appagante,
nonché da sbellicarsi
dalle risate.
Travis,
che all’inizio saltò spaventato sul divano,
dopo un momento crollò giù dal divano, ancora
più impaurito dal caos che
creavano quei due pezzi da cucina. Poi, quando decisi di fermare quella
tortura, cominciai a ridere senza riuscire a fermarmi, dovendomi
poggiare al
divano per paura di cadere a terra per mancanza di fiato. E intanto lui
mi
fissava truce, ancora stordito dalla sveglia che avevo appositamente
preparato
per lui, ma non era riuscito a spaventarmi per quanto divertente fu
quella
scena.
“Ora… ora mi
posso ritenere soddisfatta”, cercai di articolare,
tra le risa. “Avresti dovuto vedere
la tua faccia”.
E
avrebbe dovuto vederla davvero, perché era a dir
poco uno spasso, nonostante si notasse perfettamente quanto fosse
incazzato. Ma
mi importava davvero poco, perché avevo avuto la mia
vendetta ed era stata più
bella di quanto avessi sperato.
Poi,
lentamente, si alzò da terra con una strana
espressione in viso, mista a malizia e perfidia, e fu proprio quello a
spaventarmi in minima parte e a farmi smettere di ridere
all’istante perché
avevo la strana sensazione che non sarebbe accaduto nulla di buono,
almeno per
me.
“Che ti prende?”,
domandai, ricomponendomi e facendo un passo indietro, intimorita dai
suoi occhi
famelici.
“A me? Nulla”,
rispose, lui, con un ghigno sulle labbra, come se fosse davvero
convinto che mi
bevessi una stronzata simile. “Piuttosto
dovresti preoccupare di te stessa”,
continuò, avvicinandosi di qualche
passo. Ed io cercai di recuperare quella distanza, continuando ad
indietreggiare perché, nonostante la sua espressione fosse
accattivante, non
sapere quel che mi aspettava mi infastidiva e preoccupava al tempo
stesso.
Un
altro passo avanti ed uno indietro, fino a
quando non mi scontrai con il tavolo della cucina, così
decisi di aggirarlo,
continuando a tenere lo sguardo incollato a quello di Travis che, con
estrema
tranquillità, sembrava non aspettare altro che un mio
momento di distrazione.
Ma ormai avevamo il tavolo in mezzo a noi ed era strano,
nonché divertente, in
un certo senso, tornare bambini in quel modo, facendo finta di giocare
al gatto
e al topo. Anche se dubitavo che lui stesse fingendo.
“Me la pagherai,
Maya”, mormorò, lui, con un sorriso
divertito, poggiando le mani al piano
del tavolo. “Puoi scappare quanto
vuoi,
in ogni caso prima o poi ti prenderò”.
“Scapperò in
Brasile”, ribattei, senza pensare, facendolo
ridere. “Andrò nella
foresta Amazzonica e non mi farò più trovare”,
continuai, cercando di restare seria anche se, a dire il vero, si era
rivelata
un’impresa davvero difficile.
Non
avevo via di scampo e lo sapevamo perfettamente
entrambi, nonostante io cercassi un modo per raggiungere una qualsiasi
altra
stanza senza essere acciuffata dal nuotatore che continuava ad
osservarmi
attentamente.
Maledetti
quei suoi occhi.
Nemmeno
con lo scatto più fulmineo del mio
repertorio sarei riuscita a sfuggirgli, ma ci provai comunque,
cominciando a
correre come una pazza verso la mia camera oscura, ma a lui
bastò allungare un
braccio per mettermi in trappola, in un batter d’occhio.
“Allora,
piccola amazzone, dove vorresti scappare?”, chiese,
sbeffeggiandomi, e
stringendo la presa sul mio corpo, facendo aderire la mia schiena al
suo petto.
“Voglio
tornare nella mia madre terra”, ribattei, ridendo.
E
in un attimo mi sollevò da terra, con fin troppa
facilità, non allentando in ogni caso la stretta che
continuava ad esercitare
sul mio corpo. Poi cominciò ad incamminarsi a passo svelto
verso la camera da
letto, cominciando a ridere come un idiota – seguito a ruota
da me -, ed in
quel momento capii che, probabilmente, la mia punizione sarebbe stata
più
lussuriosa e piacevole di quanto avessi mai pensato.
Travis’
POV
Dopo
la vittoria a Doha e l’euforia che ne seguì
non avevo fatto altro che prepararmi per le Olimpiadi. E ad una persona
qualunque sarebbe sembrato stupido, cominciare ad allenarsi per un
evento che
sarebbe arrivato dopo più di un anno, ma non avevo la minima
intenzione di
lasciarmi scappare un’occasione come quella che rappresentava
il Brasile, nel
2016, e inoltre era normale prepararsi con largo anticipo per
competizioni
simili, nonostante fosse davvero spossante.
Claudio
non mi dava tregua ed aveva perfettamente
ragione a volermi spronare fino a quel punto, ma molte volte si
rivelava essere
solamente fin troppo assillante, con i suoi soliti urli alla piscina e
le sue
ramanzine se qualcosa non era andata per il verso giusto. Il
ché, nelle ultime
settimane, avveniva più spesso del solito e di quanto avessi
sperato. E di
questo il mio allenatore se ne era accorto, ma continuava a restarsene
buono e
calmo e a riprendermi quando ce n’era bisogno.
Se
solo avesse saputo la verità, probabilmente, gli
sarebbe preso un infarto. Dopo avermi ucciso con le sue mani,
ovviamente.
Mi
ero immaginato quella scena parecchie volte e, più andavo
avanti, più
mi rendevo conto che, se fosse successo davvero, avrei dovuto
cominciare a
correre per trovare rifugio in un nuovo paese. Forse meglio un nuovo
continente.
Maya
si era presentata alcune volte, alla piscina, mentre ero occupato
con gli allenamenti e a parte continui scambi di sguardi tra il
divertito ed il
timoroso per la situazione in cui ci trovavamo, solamente un paio di
volte ci
era capitato di rivivere ciò che era accaduto nello stanzino
delle scope.
Probabilmente,
se qualcuno fosse venuto a conoscenza del nostro tipo di
rapporto, ci avrebbero scambiato per ninfomani, ma alla fine sapevamo
che
quello era l’unico modo per non finire in discussione, con
insulti e parolacce
a completare il quadretto. Era un rapporto turbolento, il nostro, anche
se un
rapporto vero e proprio non lo era assolutamente. Sapevamo che, in
qualsiasi
momento, avremmo potuto scrivere la parola fine a quella cosa,
ma finché ci andava bene ne approfittavamo. Beh, certo,
forse
un po’ troppo e un po’ più spesso di
quanto avrei mai pensato, ma restavano
dettagli, quelli.
Era
passato più di un mese dall’ultima notte
dell’anno e, nel frattempo,
avevo scoperto alcune cose su di lei, le sue passioni, i suoi gusti, ma
quello
che più mi premeva sapere restava un mistero. Né
io né lei eravamo mai riusciti
a trovare il coraggio di parlare del nostro passato, come se fosse
troppo
brutto o difficile da rimandare, e quello era stato un tacito accordo
che
avevamo stretto non ricordo nemmeno quando. Forse una delle tante volte
che
eravamo finiti a letto insieme dopo gli ennesimi insulti.
Non
avevo la minima idea di come avrei potuto continuare ad andare
avanti perché, in un certo senso, a lei cominciavo ad
affezionarmi perché era
molto più di quanto lasciasse trasparire
quell’espressione da stronza che,
spesso e volentieri, metteva su, ma sapevo fin troppo bene che per lei
non
significava nulla quello che poteva esserci tra noi. Anche se non
c’era nulla,
e lo sapevo. Bastava proprio lei a ribadirmelo fino allo sfinimento. Ma
eravamo
entrambi del parere che, finché eravamo giovani e
consenzienti, potevamo fare
ciò che più ci piaceva.
E
quello piaceva ad entrambi. Fin
troppo.
“Pensi di ricominciare ad
allenarti, Travis, o preferisci che ti porti un caffè?”,
mi chiese Roberto,
quando passò davanti a me e si rese conto della mia
espressione annoiata e
distratta.
Me
ne stavo tranquillamente poggiato al bordo della piscina, con le
labbra a pelo d’acqua ad analizzare i comportamenti di quella
ragazza che
continuavano a mandarmi in panne, perché una volta era la
persona più
insopportabile ed indisponente sulla faccia di questo pianeta e, il
momento, si
rivelava essere docile, tranquilla e con la parlantina facile. Cosa che
continuava a stupirmi ogni giorno di più.
Le
piaceva ritagliarsi i suoi spazi, lo avevo capito, soprattutto quando
prendeva un libro tra le mani e metteva le cuffie alle orecchie, ma
c’erano
volte in cui era proprio lei a venirmi a cercare, con l’ombra
di un sorriso sul
volto. E di me non restava più nulla, se non un idiota che
la seguiva senza
battere ciglio.
Mi
guardai un attimo intorno e non feci altro che osservare tutti i miei
compagni che si ammazzavano di lavoro, continuando a fare vasche su
vasche per
essere preparati e pronti per le prossime competizioni. Ed erano a dir
poco
ammirevoli. Poi c’ero io che avevo la voglia di allenarmi
sotto i piedi e ci
mancava davvero poco che mi addormentassi con la testa poggiata al
bordo.
Così
ricominciai con il mio lavoro, prima che Roberto potesse tornare a
darmi una vera strigliata, o peggio, che facesse venire Claudio con il
suo
solito cipiglio irritato che cominciava a contraddistinguerlo in quei
giorni.
Di
certo, l’ultima cosa che volevo, era qualcuno che mi facesse
la
predica, soprattutto in quel momento in cui avrei mollato tutto e me ne
sarei
tornato volentieri a letto.
Le
giornate cominciavano a susseguirsi senza che io me ne rendessi
conto, probabilmente colpa del fatto che, oltre a casa mia, nel giro
delle
ultime settimane avevo visto solamente quella dannata piscina; nemmeno
per Doha
mi ero allenato ed impegnato tanto, ma quello che mi aspettava era ben
diverso
da dei campionati mondiali. E faceva molta più paura.
Eravamo
agli inizi di marzo e pensare che avrei dovuto continuare in
quel modo per più di un anno, mi faceva venire la nausea. Ma
continuavo ad
andare avanti, era il sogno della mia vita, l’unico vero
obiettivo che mi ero
sempre posto e, di certo, non potevo deludere Claudio in un momento
come
quello. Ne avrebbe sofferto troppo, e non avrei potuto sopportare
l’espressione
di disappunto e la delusione sul suo volto.
Però
cominciavo a sentirmi davvero stanco, forse per colpa del fatto
che, nemmeno dopo i successi di Doha, non mi ero fermato un attimo, e
mi
sarebbero bastati solamente un paio di giorni di pausa, per staccare il
cervello e per dare un attimo di tregua al mio corpo che, ormai, andava
avanti
ad inerzia. Ma quello che più di tutto mi bloccava, era la
possibile reazione
di Claudio perché in quei giorni sembrava un’altra
persona, molto più
irascibile e nervoso di quanto non fosse mai stato. E vedere come,
certe volte,
riprendeva alcuni miei compagni per delle piccolezze insignificanti e
come si
scaldasse, faceva davvero paura. Era strano vederlo in quello stato,
nonostante
fosse comprensibile.
Così
avevo preferito tacere e tenere quel desiderio per me, per evitare
che la prossima sfuriata potesse essere indirizzata a me.
“Ti vedo parecchio distratto, in
questo momento, campione”, disse, una voce alle mie
spalle, mentre cercavo
di capire come migliorare le mie virate senza dover chiedere consiglio
a
Claudio. Ed era ovviamente una voce troppo nota perché
potessi confonderla con
qualcun’altra.
“Forse è la tua presenza a
distrarmi, Simona”, ribattei, voltandomi a
guardarla e sorridendole. E non
mi sfuggì il compiacimento che le si annidò in
quel mezzo sorriso che mi
rivolse, cercando forse di apparire seducente.
Certo,
era una gran bella ragazza e sarei stato un idiota a non
rendermene conto, ma era vuota ed insipida, nonostante su molti
argomenti fosse
davvero ferrata, ma avevo avuto già parecchie volte la
terribile conferma di
quanto a lei importasse solamente la facciata del mondo, e non il suo
interno,
non i suoi particolari. Forse era questo e la terribile somiglianza a
mia
madre, nei modi di fare, a farmi innervosire ogni volta che sentivo una
qualche
parola uscire dalla sua bocca.
“Sei troppo signore per dirmi in
faccia la verità, caro, ma sono meno stupida di quanto credi”.
Dannazione!
Non
che mi aspettassi una risatina stupida e gli occhioni da cerbiatta,
ma di certo non mi sarei mai aspettato una frecciatina simile,
soprattutto dopo
essermi reso conto di quanto fosse vera. Ma era stata la sua
sincerità a
sorprendermi ed il modo in cui lo disse, sempre con quel sorrisino in
faccia
come se non le importasse di nulla. E probabilmente era
così, perché negli
ultimi tempi l’avevo vista parecchie volte in piscina, sempre
alla ricerca di
Luca e sempre con indosso straccetti che lasciavano scoperti pezzi di
pelle più
di quanto ne coprivano.
Esibizionista?
Chi, Simona!?
“Touchè”, mormorai,
grattandomi il mento e poggiandomi al bordo della piscina. “Ma ci tengo a precisare che non ho nulla
contro di te”, aggiunsi, con il miglior sorriso da
bravo ragazzo che
riuscii a sfoderare.
“Lo so, tutti mi adorano”,
replicò, lei, tirando fuori dalla sua borsa il cellulare.
Oltre
che esibizionista, aggiungerei anche modesta. Giusto per avere una
descrizione più dettagliata di questa ragazza, eh.
“Comunque, perché tu lo sappia, ti
stavo cercando”, aggiunse, Simona, continuando a
guardare il display del
suo telefono.
“Non vorrei essere ovvio, ma mi
hai trovato”.
“Lo so, campione, ma non mi hai
lasciato finire”, ribatté, poi,
lanciandomi un’occhiata infastidita. “Tu
ed io andremo a cena insieme”.
Per
un momento mi chiesi se stesse parlando seriamente oppure fosse
tutto solamente un gioco, uno scherzo, ma disse quelle parole con una
convinzione ed una sicurezza tale che quasi mi sconvolse e,
probabilmente, se
non fossi stato in acqua sarei caduto a terra. Perché non
poteva essere seria
o, almeno, non poteva pensare che io potessi accettare come se nulla
fosse,
soprattutto dopo il fiasco che si era rivelata Doha per noi due.
“E no, la mia non era una domanda”,
continuò, come se mi stesse leggendo nel pensiero.
“Tu accetterai ed io
dovrò farti qualche domanda per un breve articolo
per la rivista. La parte dedicata a te nel numero di gennaio
è piaciuta
talmente tanto che è stato richiesto qualche piccolo
aggiornamento sui
preparativi per le prossime Olimpiadi”.
Tutto
tornava al suo posto, ovviamente, ma in ogni caso la situazione
diventava più piacevole, anzi. Probabilmente sarebbe stata
un inferno, quella
serata, piena di domande a raffiche e frecciatine che avrebbero colpito
in
pieno il bersaglio. E, un momento dopo, mi ritrovai terrorizzato
dall’ipotesi
in cui lei avrebbe voluto scendere nei dettagli della mia vita privata,
andando
a finire fin troppo vicina a Maya. E non potei non domandarmi se non
sapesse
già qualcosa, quella specie di arpia in gonnella dal bel
faccino.
I
giornalisti sono subdoli, falsi e non aspettavano un momento ad
infangarti e a tirarti giù per la buona riuscita di un
articolo da prima
pagina. E quella era la mia più grande paura, soprattutto
con una come Simona
che aveva vissuto abbastanza a stretto contatto con la mia
realtà e con il mio
ambiente, che conosceva perfettamente Maya e che sapeva come fosse
legata al
mio allenatore.
Mi
sarei dovuto giocare bene le mie carte, cercando di non scendere in
particolari e di non lasciarmi scappare qualche informazione che le
sarebbe
bastata per tirare su un perfetto castello di carte pieno zeppo di
menzogne.
“Vedo che hai già organizzato
tutta la cerimonia nei minimi dettagli”, commentai,
issandomi per poter
uscire dall’acqua e smetterla di guardarla finalmente dal
basso, nonostante
fosse una più che meravigliosa visione. “A
quando il grande evento?”. Se doveva giocare con il
sarcasmo, non avrei
atteso un attimo per farmi avanti, nonostante quella sua espressione
soddisfatta metteva un po’ spavento, soprattutto
perché ero consapevole del
fatto che era lei ad avere il coltello dalla parte del manico.
Claudio
mi aveva informato di come, grazie all’articolo pubblicato
dalla
rivista per cui lavoravano sia Simona che Maya, la piscina
riuscì ad ottenere
più visibilità, di come la mia storia divenne
all’improvviso molto più
interessante e di come riuscimmo ad ottenere più sponsor
rispetto a prima, e mi
aveva anche detto che avrei dovuto mantenere un basso profilo,
mostrandomi
disponibile e gentile con lo staff della rivista perché se
ci fosse stata
un’altra possibilità di metterci in mostra
– come stava accadendo in quel
momento – non me la sarei dovuta lasciare scappare. Ed era
meglio obbedire al
mio allenatore, in quel periodo.
“Domani sera”, rispose, secca.
“Ci troviamo qui per le sette e
trenta, e
non ritardare: odio dover cenare ad orari indecenti, poi non riesco
più a
digerire”, continuò, rimettendo a posto
il telefono, come se nulla fosse.
Doveva aver controllato la sua agenda, molto probabilmente fitta di
appuntamenti come parrucchiere ed estetista.
Mi
fissò per un momento, come incerta delle sue azioni, prima
di
riprendere il completo controllo delle sue facoltà mentali,
tornando la donna
tutta d’un pezzo con cui avevo avuto a che fare fino a quel
momento. Ed era
strana, per certi versi, Simona, perché non sembrava affatto
la ragazza con cui
avevo passato il tempo a Doha. Sembrava cresciuta, maturata, si era
fatta meno
svampita e meno stupida, nonostante continuasse a mantenere salda
quella sua
facciata, ma era più diretta, senza peli sulla lingua e
senza paura di dire la
cosa sbagliata al momento sbagliato.
“E vedi di abbandonare per una
sera questa tua divisa da nuotatore sciupa femmine, renditi
presentabile perché
non voglio che tu mi faccia sfigurare, soprattutto nel locale che ho
scelto”,
aggiunse, quasi facendomi una risonanza. Poi cominciò ad
andarsene da dove era
venuta, dirigendosi verso l’uscita.
“Carina come sempre, Simona”,
le dissi, infine, sapendo bene che avrebbe sentito le mie parole.
“Ah dimenticavo, paghi tu!”,
esclamò, agitando una mano in aria, senza nemmeno prendersi
il disturbo di
voltarsi a guardarmi, come se già il fatto che me la sarei
dovuta sorbire per
un’intera serata non bastasse a gettare la mia voglia di
vivere nel cesso.
“A cena con Simona?”.
Non
si scomodò nemmeno a mascherare lo stupore nella sua voce,
non ne
aveva alcun motivo, e quello sguardo scettico che mi aveva rivolto la
diceva
lunga su cosa pensasse di quello pseudo appuntamento che avrei avuto il
giorno
seguente con la bionda. Ma Maya non si lasciò sfuggire
altro, era troppo
orgogliosa per farlo, si limitò solamente a fissarmi per
alcuni istanti come se
fossi appena giunto da un altro pianeta, perché lei sapeva
quanta poca simpatia
nutrivo per l’altra ragazza.
“Si, lo so, è assurdo, ma ha detto
che è per un piccolo articolo per la vostra rivista”,
cercai di
giustificarmi, cadendo di peso sul divano.
Mi
ero diretto a casa sua subito dopo l’allenamento, non sapendo
bene
cosa fare, e l’avevo trovata ancora in pigiama intenta a
lavorare su alcuni
scatti che le erano stati commissionati per un servizio su un giocatore
di
tennis, una nuova stella nascente, a quanto avevo capito. Mi aveva
aperto con
la sua solita aria annoiata e un po’ sorpresa, ma quando si
rese conto di chi
si trovasse davanti a gli occhi non si scomodò nemmeno a
dire qualcosa che
tornò al computer, lasciandomi la possibilità di
entrare.
Faceva
sempre così: apriva, si accorgeva che ero io e tornava ai
suoi
lavori come se nulla fosse.
“Ha anche detto che è stato
richiesto un aggiornamento sui miei allenamenti per le Olimpiadi, dopo
l’articolo di gennaio, così è arrivata,
mi ha informato della cosa e se ne è
andata”.
“Strano, non ne sapevo nulla”,
mormorò, continuando a fissare lo schermo del portatile.
“Non metteranno nemmeno una tua
immagine, come minimo, o ne ricicleranno
qualcuna”.
“Devi stare davvero sulle palle, a
Simona, se non sei stata informata di un’occasione simile”,
la punzecchiai,
osservandola attentamente al lavoro. Ma sembrava troppo presa anche
solo per
rendersi conto delle mie frecciate.
“O forse è stata più clemente
del
solito, nei miei confronti, risparmiandomi una serata a tre che sarebbe
potuta
finire in rissa”, ribatté, lei, con la
sua solita delicatezza. “E
lasciamelo dire, fotografarti ancora, e
magari tutto in tiro e in compagnia di quella ragazza, non è
tra le mie
migliori aspirazioni”.
Nonostante
non sembrasse prestare attenzione a nessuno se non al suo maledetto
computer, mi aveva fatto capire fin troppo bene quanto potesse
rivelarsi
multitasking, soprattutto rispondendo alle mie provocazioni con una
tranquillità che quasi metteva i brividi. Continuava a
lavorare eppure era
abbastanza sveglia da non lasciarsi sopraffare da me o dalle mie
parole. Era
una continua sfida, lei, ecco cos’era.
Ma
non mi era sfuggito ciò che aveva detto, e probabilmente
nemmeno si
era conto di come il suo discorso potesse venire travisato con
semplicità, ma
io me ne ero reso conto in quello stesso momento, cercando di capire
cosa
volesse dire con quelle parole. Sicuramente ero io dalla parte del
torno,
perché sembrava troppo fredda e distante per preoccuparsi
per un’uscita simile,
eppure quello era un pensiero che si era rivelato come un tarlo nella
mia
mente.
“Non sarai gelosa, vero?”, le
domandai, assottigliando lo sguardo senza riuscire a nascondere quel
sorriso
divertito che stava facendo di tutto pur si comparire sulle mie labbra.
E
finalmente riuscii ad ottenere la sua completa attenzione, tanto che
distolse lo sguardo dallo schermo del computer e trovò i
miei occhi. Alzò un
sopracciglio, guardandomi scettica, perplessa e forse anche un
po’ seccata,
perché non era la prima volta che tiravo fuori quel
discorso. Eppure ogni singola
volta andavo a segno, ottenevo la sua completa attenzione e la vedevo
rispondere sempre con una tale quantità di sarcasmo da farla
apparire irreale.
Come in quell’occasione.
“Sicuro che il tuo ego riesca a
stare in questo appartamento? Forse gli servono spazi più
grandi”.
Colpito
e affondato!
Di
certo, di lei non passava inosservata la semplicità con cui
riusciva
portare ogni situazione a suo favore con delle semplici parole. Avrebbe
dovuto
fare lei la giornalista, non Simona: ne aveva la faccia tosta, la
parlantina
diretta e sincera, la capacità di non trovarsi mai in
imbarazzo e a disagio.
E
con la stessa tranquillità con cui mi aveva appena rimesso
al mio
posto, tornò a prestare attenzione al suo lavoro,
perfettamente consapevole di
come fosse riuscita nel suo intento di zittirmi. Tuttavia, non riuscii
a
trattenermi e scoppiai a ridere, perché quella situazione
aveva un ché di
assurdo, ma che ancora sfuggiva alla mia comprensione.
Mi
alzai dal divano, avvicinandomi a lei e scorgendo alcuni suoi scatti
– meravigliosi, come sempre – e mi fermai un
momento ad osservarla
attentamente, a notare come i suoi occhi si stringessero davanti ai
particolari
che solamente lei notava, davanti agli errori che credeva di aver
commesso e di
come, alcune volte, l’ombra di un sorriso le occupava le
labbra se un’immagine
riceveva la sua approvazione. Era maledettamente meticolosa in
ciò che faceva e
non lasciava mai nulla al caso, anzi, era addirittura disposta ad
andarsene a
letto all’alba pur di rendere perfetta un’immagine
per la rivista; a volte era
sfiancante vederla sempre davanti a quello schermo, nella sua camera
oscura,
chiusa in sé stessa perché il suo lavoro le
occupava sempre più ore del giorno.
Sapevo
che negli ultimi tempi aveva lavorato parecchio, aveva cominciato
a farsi conoscere e, ormai, il suo nome era noto tra i corridoi della
redazione
della rivista per cui lavorava, ma si notava perfettamente anche la
stanchezza
che le si annidava nel volto, negli occhi assonnati ed arrossati per le
troppe
ore passate davanti ad uno schermo. Ma era talmente testarda che
nemmeno con le
forze sarei riuscito a convincerla a desistere e a prendersi un paio
d’ore di
pausa per riposarsi.
“Lascia perdere per un momento il
lavoro, Maya”, le dissi, poggiando le mani sulle
sue spalle.
“Non posso, Travis”,
ribatté,
lei, convinta. “Domani devo
consegnare
questi scatti e sono già in ritardo sulla tabella di marcia”.
“Ma devi anche dormire, non credi?”.
“Avrò abbastanza tempo per dormire
quando sarò morta”, rispose, ridendo.
“Ora
devo finire questo stramaledetto incarico”.
Era
irremovibile, come sempre, e sapevo che non avrei potuto dire nulla
per farle cambiare idea. Ecco un chiaro esempio di quando, con la sua
testardaggine, si dimostrava la persona più irritante sulla
faccia della terra.
Così presi una sedia dal tavolo della cucina e mi sistemai
alle sue spalle che,
seduta su quel minuscolo sgabello che utilizzava per la piccola
scrivania del
computer, se ne stava tutta curva sullo schermo. Mi avvicinai il
più possibile
a Maya, poi cominciai a massaggiarle lentamente le spalle, sapendo con
quale
facilità abbassasse ogni sua barriera davanti a tocchi del
genere.
Non
potevo dire di conoscerla alla perfezione, ma ero stato bravo ad
osservare in quelle settimane, ed avevo capito le cose essenziali di
lei, cosa
potesse piacerle e cosa no. E dei massaggi simili, mentre era sul punto
di
addormentarsi, li accettava sempre molto volentieri.
“Così non mi aiuti, però”,
si
lamentò, raddrizzando leggermente la schiena ed abbandonando
per un attimo il
computer, passandosi energicamente le mani sul viso.
“Non puoi continuare così, e lo
sai”, mormorai, attirando ancora di più
il suo corpo al mio, facendole
poggiare la schiena al mio petto. Era sul punto di cedere, me lo
sentivo, ed
avrei dovuto continuare per quella strada solamente per qualche altro
momento e
sarebbe stata fatta.
“Non avrai il mio corpo in cambio,
se è questo che credi”, disse poi, lei,
quasi leggendomi nel pensiero.
Anche se non ero del tutto convinto di ciò che volevo in
quel momento.
Mi
piaceva quella sensazione di tranquillità che cominciavo a
sentire e
quella situazione che si era andata a creare non mi dispiaceva affatto.
Sembrava una cosa da tutti i giorni: io che tornavo
dall’allenamento e trovavo
lei al lavoro, stanca dopo una giornata intensa, io che le concedevo un
momento
di tranquillità e relax e tutto che finiva nel
più scontato dei modi. Ma non
era quello il caso, perché non eravamo una cosa
da tutti i giorni, noi. Eravamo di passaggio, un lampo occasionale che
avrebbe
occupato le nostre vite per qualche altro tempo, poi sarebbe sparito ed
i suoi
ricordi li avremmo messe nel cassetto delle cazzate post adolescenza.
“Vorrei solamente che rallentassi un
momento,
Maya, che ti prendessi i tuoi spazi perché si vede lontano
un miglio quanto tu
sia stanca”.
La
sentii abbandonarsi completamente a me, mentre continuavo a passare
le mani sulle sue spalle e sulle braccia, entrare quasi in fare rem e
chiudere
gli occhi, sospirando. “Devo
solamente
ricontrollare una decina di scatti e scegliere quelli migliori, poi
avrò
finito; non rendermi le cose più difficili, Travis”,
mormorò, poggiando la
testa sulla mia spalla, quasi mezza addormentata. Diceva di voler tanto
finire
di lavorare, eppure non sembrava avere alcuna intenzione di muovere un
dito per
impedirmi di corromperla in quel modo.
Le
spostai i capelli da una parte, avendo così libero accesso
alla parte
del suo collo più vicina a me , e non attesi un attimo a
chinarmi su di lei. “Puoi concederti
qualche momento di pausa”,
cercai di convincerla, per l’ennesima volta, facendo scorrere
le labbra sulla
sua pelle, scendendo piano fino alla porzione di pelle lasciata
scoperta dalla
maglietta che indossava. “Poi potrai
tornare a lavorare”.
Maya
poggiò le mani sulle mie ginocchia e, se avesse potuto, si
sarebbe
rannicchiata ancora di più a me, cercando di recepire alla
perfezione ogni mio
tocco. Sembrava ancora più piccola e minuta, in quel
momento, e quasi
scompariva.
Continuai
per quella strada per non so quanto tempo, e lei si ostinava a
non lasciarsi andare, a non voler dormire qualche istante per potersi
riprendere. Apriva gli occhi, ogni tanto, giusto per cercare di restare
sveglia
e controllare che il suo computer fosse ancora davanti a lei. Poi, come
se non
bastasse, il mio cellulare cominciò a suonare
all’improvviso, ancora dentro al
borsone da allenamento dove lo avevo lasciato.
Sentii
Maya sbuffare sonoramente, perché aveva capito
all’istante quel
momento di relax era appena giunto al termine, così si
staccò da me dandomi la
possibilità di alzarmi dalla sedia e correre a recuperare
quell’aggeggio
infernale che faceva sentire la sua presenza nei momenti meno
opportuni. E,
solamente quando lessi il nome che occupava il display, mi resi conto
di come
avrei voluto gettare il telefono fuori dalla finestra.
“Mamma”, dissi, rispondendo,
cercando di ignorare l’espressione divertita sul viso di Maya.
“Ciao amore!”,
esclamò, lei,
quasi perforandomi un timpano. “Sarà
possibile che debba farmi sentire sempre e solo io? Ricordi che hai una
madre,
vero?”.
“Purtroppo sì, me ne ricordo”,
ribattei, cadendo ancora una volta di peso sul divano. “Cosa vuoi?”.
Forse
ero stato un po’ duro, troppo diretto – e anche
Maya sembrava
pensarla a quel modo, vista la sua espressione sorpresa -, ma ne avevo
davvero
abbastanza delle telefonate programmate di mia madre. Se proprio ci
teneva a
sentire la voce del figlio, ogni tanto, non avrebbe dovuto chiamare
solamente
una volta al mese, giusto in tempo per chiedermi altri soldi.
Non
potei non domandarmi come avessi potuto cadere in un guaio simile.
“Tesoro, ma che hai? Sei talmente
scontroso, oggi”, continuò, con la sua
voce sibillina e quel suo accento
che, nonostante gli anni in Italia, sembrava non volerla abbandonare.
“Sono solamente stanco”,
risposi, esasperato. “Rispondi alla
mia
domanda, per favore, così potrò tornare a farmi
gli affari miei”,
continuai, lanciando un’occhiata a Maya che, nonostante il
suo sguardo fosse
rivolto ancora una volta allo schermo del computer, ascoltava
attentamente la
conversazione con mia madre.
“Oh beh, volevo solamente
ricordarti che domani passerò da te, sai”,
cominciò, fingendosi
imbarazzata. “Sai bene che non
vorrei
ridurmi a questo, ma mi trovo costretta ancora una volta a chiederti un
piccolo
aiuto; lo metterò in conto, tesoro, non ti preoccupare. Ti
ridarò tutto, parola
di mamma”.
“Tesoro,
non ne ho idea”,
esclama, la mia mamma, guardandomi negli occhi. Sono tanto diversi dai
miei,
quegli occhi, lei è tanto diversa da me.
“Ma
io voglio che torni
ora”, continuo, io, sempre più deciso. Non voglio
passare un’altra serata solo
con mamma, voglio il mio papà, voglio giocare al Capitano
con lui. “Devi farlo
tornare ora, mamma!”.
“Travis,
non posso, mi hai
capito?”, chiede, abbassandosi al mio livello, con le
ginocchia poggiate a
terra. “Non posso fare tornare papà adesso,
è a lavorare, lo sai bene”.
“Ma
io voglio giocare al
Capitano”, continuo, pestando i piedi sul pavimento.
Siamo
nella mia cameretta e
tra poco si mangia, ma la mamma mi ha già detto che
papà non riuscirà a tornare
per cena. Probabilmente tornerà quando io sarò
già a dormire, ma lo voglio
aspettare, voglio vedere il mio papà. E voglio giocare al
Capitano!
“Giocherai
domani al
Capitano, va bene? Domani papà sarà a casa dal
lavoro e potrai giocare con lui
quanto vorrai, parola di mamma!”, mi promette, con un
sorriso. “Ma adesso devi
smetterla di fare i capricci, Travis”, aggiunge,
più severa di prima. Ma non mi
fa paura, è la mia mamma e mi vuole bene, quindi non mi
spaventa.
Poi
si alza dal pavimento e
va verso la cucina. Stava cucinando la cena, prima che arrivassi io
quasi in
lacrime. Sono già un ometto, io, e non posso piangere, ma
voglio il mio papà.
Voglio giocare con lui.
Saltò
sul mio letto,
accucciandomi vicino al cuscino e prendo il regalo che papà
mi ha fatto qualche
giorno fa. Era tanto che non lo vedevo e, quando è tornato
dal suo ultimo
viaggio, mi ha portato quella piccola ancora in miniatura che tengo
sempre sul
comodino vicino al letto.
È
il regalo più bello che
papà mi abbia fatto, è bellissima! Ed
è mia, nemmeno la mamma può toccarla,
solo io. Di notte mi fa compagnia, la metto sotto il cuscino e sembra
quasi che
il mio papà sia accanto a me a raccontarmi tutte quelle
storie di marinai, mari
e imprese eroiche.
Da
grande voglio essere un
pirata, e quando l’ho detto al mio papà
è scoppiato a ridere. Mi prendeva in
giro, e non mi è piaciuto. Ma poi mi ha detto che, qualunque
cosa voglia fare,
sono in grado di farla. Quindi, se lo dice il mio papà deve
essere vero!
Parola
di mamma. Le sembravo ancora il bambino che aveva tentato di
crescere, probabilmente, perché era da quando avevo sette
anni che non mi
diceva così. E faceva male, soprattutto perché
sembrava prendersi gioco di me.
“Non mi interessa”, mormorai,
massaggiandomi le tempie con la mano libera. “L’importante
è che mi lasci in pace, mamma, non è il periodo
adatto”.
“Oh si, lo so”,
esclamò,
incrinando ulteriormente il mio povero timpano. “Eco perché vorrei chiederti qualche
spicciolo in più, tesoro, così per
un po’ ti lascio in pace. È un’idea
formidabile, non trovi?”.
Formidabile.
Aveva davvero una strana concezione della parola
formidabile, ma non glielo feci notare, non ne avevo le forze. Volevo
solamente
che quella telefonata finisse, che mi lasciasse in pace e che sparisse
dalla
mia vita per un po’. Quella non era mia madre, non
più.
“La migliore che tu abbia avuto”,
esclamai, trasudando sarcasmo da tutti i pori. Cosa che, da lei, non
venne
affatto recepita. “Sei davvero un
genio,
mamma”.
Fu
il tono che usai ad attirare l’attenzione di Maya. Forse per
l’esasperazione
troppo evidente, forse per la mia espressione oppure per il sospiro che
mi
concessi prima che la donna dall’altra parte del telefono
ricominciasse a
parlare.
“Oh tesoro, quanto sei gentile con
la tua mamma”, replicò, lei, fingendosi
commossa. Era rivoltante. “Allora ci
vediamo domani al tuo
appartamento, va bene? Non dimenticartene, te ne prego”.
Non
mi diede nemmeno il tempo di replicare – nonostante non fosse
in
vena di farlo – che chiuse la chiamata all’istante,
come per paura che potessi
cambiare idea. E forse lo avrei fatto, se non fosse stato per il
malsano
desiderio di levarmela dai piedi, di smettere di dover ascoltare quella
sua
voce fastidiosa. Lo avrei fatto se ne avessi avuto la forza, se non mi
fossi
cacciato in un casino simile già tempo prima.
Poggiai
la testa alla testiera del divano, chiudendo gli occhi e
sospirando, quasi sconfitto da quella telefonata che mi aveva rovinato
la
giornata. Mi sentivo svuotato, stanco come non mai; nemmeno dopo uno
dei più
duri allenamenti mi ero ritrovato in quello stato.
“Travis”.
Non
me ne ero nemmeno reso conto, ma Maya si era alzata dal suo sgabello
e mi stava di fronte, con un’espressione preoccupata. I
capelli legati alla
bell’e meglio, la t-shirt oversize, quei due oceani
assonnati; era bella anche
così, un po’ trasandata. Ed aveva mormorato il mio
nome quasi con paura, come
se fosse spaventata dalla mia reazione, come se fossi potuto scattare
all’improvviso per la rabbia. Ma come potevo scattare con una
come lei davanti
agli occhi?
“Tutto bene?”, mi chiese,
avvicinandosi ancora di qualche passo, quasi raggiungendomi.
“Che domande fai?”, le chiesi,
sarcastico. “Non ti sembro un
bambino a
Natale?”.
“Smettila di fare l’idiota, per
una volta”.
“Non sto facendo l’idiota, Maya”,
ribattei, allungandomi verso di lei e afferrandole un fianco,
così da riuscire
a farla sedere a cavalcioni su di me. “Sto
semplicemente evitando il problema”.
“Beh, non dovresti”,
continuò,
Maya, incrociando le braccia al petto e lanciandomi
un’occhiata saccente.
“Senti da che pulpito arriva la
predica”, risi, davanti alla sua ostinazione.
Perché era assurdo che,
proprio una come lei, mi venisse a dire che avrei dovuto risolvere i
mie
problemi, proprio lei che si privava di ore di sonno per poter
terminare un
incarico, proprio lei che se ne restava ore davanti al computer.
E
la vidi trattenere un sorriso, nonostante sembrasse convinta a non
lasciar perdere il mio umore diventato improvvisamente nero. Non si
faceva
distrarre dagli eventi, semplicemente questo, anche se a volte ero
riuscita a
darle la spinta giusta per lasciarsi andare. Ma non era quello il caso.
“Si può sapere che ti
prende?”.
Forse
fu quel suo tono quasi sconfitto - neanche fosse lei la vittima
delle assidue telefonate di mia madre -, oppure quei suoi occhi che
sembravano
non voler lasciare i miei o le sua mano che raggiunse la mia mascella e
ne
segnò il profilo, nel suo solito modo delicato che aveva.
Non so cosa fosse
stato, ma mi sentii cedere per la prima volta dopo anni, sentii tutte
quelle
barriere che avevo eretto nel corso degli anni incrinarsi davanti a me,
per
colpa di quella maledetta ragazza che non faceva altro che prendermi in
contropiede e sorprendermi. E continuava a guardarmi come fossi un
cucciolo
impaurito, lei, e non sopportavo quella sensazione di impotenza che
avvertivo
quando i suoi occhi incontravano i miei, quando mi guardava in quel
modo,
quando si ostinava a percorrere le linee del mio viso con una lentezza
incredibile, mandandomi al manicomio.
“Il problema è mia madre, tutto
qui”, cominciai, spostandole uno ciocca di capelli
dal viso, sfuggita
all’elastico della coda. “L’hai
conosciuta, avrai capito com’è; non è
semplice starle dietro, soprattutto se si
fa viva una volta al mese con un taglio di capelli diverso, una nuova
parte del
suo corpo rifatta a puntino e la solita richiesta di soldi per
mantenersi”.
La
vidi strabuzzare gli occhi, incredula, e anche la sua mano si
fermò
dal percorso che aveva intrapreso sul mio viso; sicuramente non si
aspettava
una rivelazione simile, nonostante a molti potesse sembrare
insignificante.
Non
era insignificante, cazzo, era tutt’altro che semplice,
soprattutto
se la donna in questione aveva una considerazione pari a zero di suo
figlio, se
non per i soldi del proprio conto corrente o per la
notorietà che ne derivava.
Ed io ero stanco, mi ero rotto le palle già tempo prima, ma
non avevo trovato
il coraggio di fare il passo decisivo e darci un taglio per davvero,
ponendo la
parola fine a tutta quella storia.
“Mantenersi?”, chiese, Maya,
ancora incredula e con gli occhi fuori dalle orbite. Risaltavano ancora
di più,
quei suoi mari, con quell’espressione stupita.
“Sì, Maya, ogni mese arriva alla
mia porta con la sua migliore faccia da mendicante e riesce, sempre, ad
estorcermi i soldi sufficienti affinché riesca a campare
fino alla richiesta
successiva. Ed io da perfetto coglione ci casco ogni volta!”,
aggiunsi,
incazzato con me stesso. E lo ero davvero, perché parlandone
con lei mi rendevo
conto di come non avessi un briciolo di spina dorsale, di forza per
fermare
tutto quello. “Le ho dato un brutto
vizio, e adesso sembra non poterne più fare a meno. Vuole
essere giovane come
lo era anni fa, vuole tornare al fiore degli anni, a mie spese”.
La
mano di Maya riprese il suo corso, più titubante rispetto a
prima, ma
cercò di non darlo a vedere. Non riuscivo a reggere i suoi
occhi preoccupati e
dispiaciuti, non volevo farle pena e non volevo la sua compassione, e
mi pentii
all’istante di averle rivelato un particolare simile della
mia vita.
Particolare che erano davvero in pochi a saperlo.
Non
parlò per non so quanto tempo, lei, forse per metabolizzare
la
notizia, per cercare di capire come potersi muovere nei miei confronti,
nervoso
com’ero. E la capivo perché anche io, al suo
posto, non avrei saputo cosa fare,
cosa dire. Ma lei era sempre un passo avanti a me.
“Resta comunque tua madre, ecco
perché ci caschi ogni volta”, disse,
infine, torturando il colletto della
mia maglia. “Sarà anche
un tipo strano,
non lo nego, ma resta la donna che ti ha messo al mondo”.
“Lo so, ma non è più la donna
che
mi ha cresciuto, da bambino”, continuai,
imperterrito, studiando il disegno
che occupava gran parte della t-shirt di Maya. Tutto pur di non
incontrare il
suo sguardo. “Non è
più la mia mamma”,
mormorai, infine, quasi non credendo alle mie orecchie per come mi ero
esposto.
Intravidi
il sorriso che cercò di nascondere Maya, non so per quale
motivo. Non si era mossa, non aveva detto nulla, aveva semplicemente
continuato
a carezzarmi il viso, non sapendo esattamente cosa fare. Ma apprezzavo
il suo
silenzio, la calma con cui decideva le parole migliori da dire.
“Da quanto va avanti così?”,
domandò, poi, rompendo il silenzio che si era creato.
“Da un paio d’anni, ma in questi
ultimi mesi è diventata più insistente e, ogni
mese, è lì a chiedere
l’elemosina”, confessai, tornando a
guardarla.
Sembrava
concentrata a seguire il percorso delle sue dita, assorta nei
suoi pensieri, ma sapevo bene che la sua attenzione era rivolta
completamente
su di me. Sembrava inerme, una bambina occupata a giocare. E forse
proprio per
quello mi lasciai andare ancora un po’, feci crollare
un’altra barriera e
ricominciai a parlare.
“Quando è ritornata in Italia non
era più lei, si faceva vedere una volta l’anno, se
mi andava bene, e le
bastavano cinque minuti per stancarsi di me, così se ne
andava e tornava in
California dal surfista che aveva deciso di seguire”,
cominciai,
concentrandomi su un ricciolo di Maya che le era sfuggito e non sui
suoi occhi
che continuavano a cercare i miei. “Se
ne
è andata, la prima volta, quando avevo undici anni ed
è stato un colpo
incredibile, per me, perché le volevo bene e si era sempre
comportata da madre
perfetta, con me, ma poi ha fatto crollare tutto con una
semplicità disarmante.
Sono rimasto con mio padre perché non avevo nessun altro,
perché quella che
credevo fosse la donna della mia vita aveva lasciato la sua famiglia
per un
ventenne conosciuto di straforo”.
Il
tocco di Maya si era come intensificato, quasi volesse farmi sentire
la sua vicinanza tramite le sue mani, e con l’altra mano
aveva cominciato a
giocare con i miei capelli, alla base della nuca. Sperava di calmarmi,
lo avevo
capito, sapeva che non era facile per me parlare così
apertamente e quello era
il suo modo per farmi capire che andava tutto bene. Io, invece, non
riuscivo a
trovare il coraggio di incontrare i suoi occhi, non ne avevo le forze.
Avevo
come la netta sensazione che non avrei trovato altro che compassione,
nei suoi
oceani, ed era l’ultima cosa che volevo vedere.
“E tuo padre?”, chiese, in un
soffio, insicura se pormi quella domanda o meno.
“Mio padre è sempre stato
perfetto, troppo signore per mostrarsi ferito dalla decisione che aveva
preso
Tanya, nonostante sapessi perfettamente quanto ne avesse sofferto”,
dissi,
cominciando a sentire la gola stringersi per la situazione in cui mi
trovavo.
Era un tasto ancora dolente, quello, nonostante fossero passati anni.
Ma ancora
ne soffrivo, ancora mi riusciva troppo difficile parlarne. “Faceva il marinaio, in uno quei vecchi
vascelli che attraccano ai porti giusto per il gusto di far vedere al
mondo
come fossero belle le vecchie navi, e di rado era a casa, ma quando
c’era
esistevo solamente io, sai? Voleva recuperare il tempo perso”,
continuai,
avendo perso ogni freno ed ogni filtro possibile. Avevo cominciato ad
essere
sincero, finalmente, tanto valeva farlo fino in fondo. “Non so bene cosa sia stato a dare l’input
a mia madre e a farla
scappare, ma mio padre non aveva nulla da invidiare agli altri. Certo,
non era la
tipica bellezza che noti in mezzo alla folla, ma è sempre
stata una persona
meravigliosa, di quelle persone che ti fanno sorridere con la loro sola
presenza…”.
“Aspetta…”, mi
interruppe,
Maya, confusa. Ma io sapevo perfettamente dove voleva andare a parare e
non ero
pronto per quel momento, non lo ero affatto. “Era?”,
mi chiese, infine, con la stessa insicurezza che l’aveva
contraddistinta negli ultimi minuti.
Finalmente
riuscii a guardarla negli occhi e non vidi altro che
preoccupazione per la risposta che le stavo per dare. Certo, aveva
chiesto conferma,
ma sapeva perfettamente cosa avrei risposto, aveva solamente bisogno di
sentirselo dire.
“Si, era, Maya”, dissi,
finalmente, con un sorriso amaro, mandando giù il groppo in
gola.
Lo
stupore nel viso di Maya diceva tutto, parlava da sé ed io
continuai,
evitando che potesse dire qualcosa, per paura che tutto potesse
complicarsi
ulteriormente. “Ha continuato a
lavorare,
qualche volta, dopo che mia madre se ne andò, ma non voleva
lasciarmi a casa da
solo per tutto quel tempo, così cominciò a
lavorare sempre meno e ad essere
sempre più stanco, poi… un giorno torno a casa da
un allenamento e lo trovo
steso a terra, incosciente, così chiamo
un’ambulanza, vado insieme a lui in
ospedale e, dopo due ore passare a fare avanti e indietro per la sala
d’aspetto, mi vengono a dire che è sveglio, che
voleva parlarmi, ma che non
devo trattenermi per molto perché deve riposare. Avevo
sedici anni, cazzo, come
potevo non trattenermi? Dove sarei andato?”,
esclamai, infine, ponendo
quella domanda più a me stesso che a Maya che, come avevo
previsto, aveva
cominciato ad osservarmi con tristezza, e le sue mani si erano fermate,
avevano
fermato l’unica cosa che sembrava calmarmi. Si erano posate
sulle mie spalle
con pesantezza, come se quello non rappresentasse un peso solamente
mio, ma
anche suo. “Così
raggiungo mio padre e
ancora ricordo la moltitudine di macchinari che gli stavano attorno,
che gli
gettavano addosso una luce strana. Sembrava più vecchio di
quindici anni, lui,
in quel lettino da ospedale, mentre cercava di riposare e di respirare
in modo
adeguato. Alla fine, dopo aver girato attorno al discorso non so quante
volte,
mi venne a dire che era malato, gli avevano diagnosticato un cancro al
quarto
stadio all’intestino e che… era inoperabile, non
c’era altro da fare che
aspettare”.
Sospirai
pesantemente, passandomi le mani sul viso, come per scacciare
una stanchezza che in realtà non c’era. Era
solamente la forza di ricordi che
ancora facevano troppo male, ricordi che venivano rivangati dopo un
tempo
lunghissimo e che erano stati sepolti fino a quel momento per
preservarmi, ma
sentirsi così svuotato, così debole dopo aver
detto solamente parte della
storia era la cosa peggiore. “Certo,
abbiamo provato con la chemio e siamo andati avanti per qualche tempo,
ma la
situazione non migliorava, anzi. Così cominciai a saltare
sempre più
allenamenti, a chiedere scusa a tuo padre per tutte quelle assenza, ma
dovevo
occuparmi di mio padre, di quello che avevo creduto fosse
l’uomo più potente
del mondo, del mio supereroe che tornava a casa la sera solamente per
poter
giocare con me. Ero diventato improvvisamente adulto, comportandomi
come un
adolescente non dovrebbe mai fare, ma non avevo altra scelta se non
quella:
andavo a scuola e correvo a casa per paura che potesse succedergli
qualcosa”.
Rivangare
nel passato non era mai stato tanto difficile, non aveva mai
fatto tanto male, eppure continuavo ad andare avanti, continuavo a
raccontare
la mia storia a Maya che, quasi con le lacrime agli occhi, non faceva
altro che
fissarmi con apprensione. “Poi, un
giorno, torno a casa in fretta e furia perché avevo sentito
che ci sarebbe
stato uno di quei vascelli poco lontano da casa mia: avevo
già organizzato
tutto, pensato ad ogni particolare, avrei preso un taxi sia
all’andata che al
ritorno perché non volevo affaticare mio padre, nonostante
in quegli ultimi
giorni si sentisse meglio. Ma quando tornai a casa lo trovai a letto,
disteso,
che respirava a malapena e non aspettai un attimo di più a
chiamare l’ennesima
ambulanza. Fu come un flashback, quello, a dir poco terribile”.
Cominciavo
ad agitarmi, a non poterne davvero più di tutta quella
storia
e se avessi avuto la forza necessaria, probabilmente, me ne sarei
andato seduta
stante, ma il mio corpo non accennava alcun movimento, se non per le
mani che
avevano ricominciato a giocare con una ciocca dei capelli di Maya, come
per
distrarmi. Ma se fosse stato così facile, non mi sarei
trovato in quella
situazione. non accennavo a rivolgerle uno sguardo, quando lo avevo
fatto mi
ero sentito un perfetto idiota. “Così
mi
ritrovai sempre nella sala d’aspetto ad andare avanti e
indietro, ma le ore da
due erano diventate cinque e nessuno si era fatto vivo, nessuno mi
aveva dato
una minima informazione. Solamente quando fu sera inoltrata un dottore
– non
ricordo nemmeno che faccia avesse – mi venne a dire che
avevano fatto ogni cosa
possibile per mio padre, avevano provato a rianimarlo diverse, troppe
volte, ma
non c’era stato nulla da fare. Il cancro era troppo esteso e
lui troppo debole;
così a diciassette anni mi sono ritrovato senza una madre,
occupata chissà dove
con il suo stramaledetto surfista e senza un padre, l’unica
vera persona che
avesse sempre creduto in me, indipendentemente da quello che ero in
grado di
fare o meno”.
Maya
non disse nulla, non fece nulla, sapeva che non avevo ancora finito
e così preferì tacere piuttosto che interrompermi
in un momento così delicato.
“Mi ha sempre detto che qualunque
cosa voglia fare, sono in grado di farla. Ha sempre creduto in me, ha
sempre
pensato che fossi invincibile, quando il supereroe tra i due era lui,
ma nel
momento in cui sarei dovuto essere presente, nel momento in cui avrei
dovuto
salvarlo non c’ero, non ci sono stato nel momento cruciale e
mi odio per
questo. Non faccio altro che odiarmi ogni mattina, quando mi guardo
allo
specchio, perché il senso di colpa è troppo
grande, pesante e fa male”.
Ed
era vero, cazzo se era vero! Ed era stato il tarlo che mi aveva
distrutto il cervello nei dieci anni che erano passati, che mi aveva
disgregato
dall’interno facendomi sentire una nullità. Ed era
quella consapevolezza a
farmi sentire di merda, senza mezzi termini, perché sapevo
di non aver fatto
tutto il possibile per salvare l’unica persona che non mi
avesse mai remato
contro, che avesse sempre creduto in me e nelle mie
potenzialità. E il rimorso
più grande era quello di non aver avuto la
possibilità di dimostrargli quanto
il resto del mondo si fosse sbagliato sul mio conto, di renderlo fiero
di me e
di vedere ancora una volta quell’espressione felice che tanto
caratterizzava il
suo sguardo. La cosa che mi faceva incazzare maggiormente, poi, era il
palese
menefreghismo di mia madre, di quella maledetta donna che se ne era
sempre
lavata le mani, che aveva abbandonato la sua stessa famiglia per un
ragazzino
abbronzato della California, per una vita migliori e per migliori
aspettative.
“Travis, non… non devi dire queste
cose, non è colpa tua”,
mormorò lei, con fare rassicurante.
“Come può non essere colpa mia,
Maya!?”, esclamai, cercando il suo sguardo. E non
lo avessi mai fatto,
perché quelli erano due laghi pronti a straripare, ed era
stranissimo vederla
così scossa, non me la sarei mai immaginata. Ma era
bellissima, come sempre. “Come posso
non sentirmi in colpa davanti a
tutto questo? È colpa mia, lo so, e sono stato un idiota a
suo tempo quando
credevo che tutto sarebbe andato bene. Ci credevo davvero, cazzo, anche
se mia
madre non c’era più. Avevo mio padre e lui aveva
me, ma poi tutto è andato a
puttane, tutto è andato perso”,
continuai, quasi sull’orlo di un esaurimento
nervoso, sull’orlo delle lacrime. E, dannazione, non potevo
crederci perché
quello non ero io, non mi riconoscevo più: avevo pianto due
volte nella mia
vita, e quella era una novità assurda, incredibile e
spiacevole. “Come posso non
incolpare me stesso per
quello che è successo? Perché se
l’avessi scoperto probabilmente non sarebbe
successo e, ti prego, se hai la soluzione, dimmela e aiutami
perché così non
riesco ad andare avanti”.
Era
diventato tutto insostenibile, tutto quanto, e non faceva altro che
peggiorare e quella ne era la prova, perché cominciavo ad
essere davvero
stanco, spossato. Ed era quella sensazione alla bocca dello stomaco, il
rimorso
ed il senso di colpa a farmi dormire male la notte, a farmi stare male
per una
cosa su cui non avrei mai potuto avere potere, ma ero convinto che
avrei potuto
fare qualcosa, in qualche modo. Eppure avevo fallito miseramente.
“Travis, non puoi fartene una
colpa, tu non c’entri niente con quello che è
successo a tuo padre, non avresti
potuto fare nulla: presto o tardi sarebbe successo”,
cercò di convincermi,
lei, con decisione, prendendomi il viso tra le mani e costringendomi a
guardarla. Non avevo scampo. “Non
darti
colpe che non hai”, aggiunse, con voce
più dolce e rotta dall’emozione.
“Non riuscirai a farmi cambiare
idea, Maya, ci ha provato tuo padre per dieci anni e non ci
è minimamente
riuscito… e sai cosa mi fa incazzare? Che una persona come
mio padre sia metri
sottoterra, mentre una sanguisuga come mia madre, quella maledetta
donna,
invece sia ancora viva e vegeta e in perfetta forma”.
Lei
rimase di sasso davanti alla mia affermazione e non me lo sarei
aspettato nemmeno io, ma era la verità ed era quasi
liberatorio dirlo ad alta
voce. Avevo sperato per fin troppo tempo che mia madre cambiasse
atteggiamento,
che tornasse la donna che mi aveva cresciuto nei primi anni, ma
più aspettavo e
più mi rendevo conto di come fosse giunta ad un punto di non
ritorno.
“Parli così perché sei
incazzato,
adesso”, disse, assottigliando lo sguardo, senza
però togliere le mani dal
mio viso.
“Si, sono incazzato, ma queste
cose le penso davvero, Maya, e se sapessi anche solo una minima parte
di ciò
che ha fatto mia madre mi daresti ragione. E mio padre ti sarebbe
piaciuto, non
ho dubbi, lui piaceva a tutti”, aggiunsi,
abbassando lo sguardo ancora una
volta, ricominciando a guardare i disegni sulla maglia di lei, che
ancora se ne
stava appollaiata sulle mie gambe. “Non
è
nemmeno venuta al funerale, sai?”.
Quella,
probabilmente, fu la cosa che mi fece più male
perché, nonostante
avessi cercato di mettermi in contatto con lei, non riuscì a
farsi sentire.
Così mi ero ritrovato da solo, il giorno del funerale,
affiancato dalla mia
vicina di casa, costretto a stringere la mano e ringraziare decine di
sconosciuti che erano venuti per farmi le condoglianze. “Quando tornò in Italia mi disse che
aveva avuto un contrattempo e che
non era riuscita a prendere l’aereo in tempo, quattro anni
dopo la morte di mio
padre, Maya. Quattro anni passati da solo, senza sue notizie e senza
sapere se
anche lei fosse ancora viva o meno”.
“Non sarà stata la madre perfetta,
ma dire quelle parole è in ogni caso sbagliato, Travis, e
non sto cercando di
giustificarla, assolutamente: ha sbagliato su tutti i fronti; ma tu
devi anche
imparare a dimenticare e ad andare avanti. Se continui a convivere con
questo
peso non vivrai mai davvero”, aggiunse, infine,
spostando le mani sui miei
capelli e cominciando a giocarci. Era rilassante, il suo tocco, ogni
volta che
mi sfiorava era come se venissi percorso da scariche al tempo stesso
piene di
adrenalina, ma anche capaci di tranquillizzarmi.
“Come faccio a passarci sopra?”,
le chiesi, disperato, avvicinandola ancora di più a me.
Avevo bisogno della sua
vicinanza, avevo bisogno di lei come non mai. “Mio
padre è stato l’unico che abbia creduto davvero in
me, senza
riserve, l’unico che sia riuscito a farmi sentire qualcuno”,
continuai,
poggiando la fronte sulla sua spalla.
“Non devi dimenticare tuo padre,
assolutamente, ma devi smetterla di incolparti per qualcosa che nessuno
è in
grado di controllare. Purtroppo succede e mi dispiace davvero che sia
capitato
a tuo padre, ma non puoi farci nulla, non più. E non avresti
potuto nemmeno a
suo tempo”.
Aveva
ragione, lo sapevo perfettamente, ma continuavo ad incolparmi
perché non riuscivo ancora ad accettare quella perdita,
troppo grande da
metabolizzare. Ci aveva provato anche Claudio, quel santo uomo che era
addirittura venuto al funerale, dieci anni prima, ma non era riuscito
nel suo
intento e dubitavo fortemente che potesse riuscirci anche Maya. Ero
certo
solamente del fatto che avrei dovuto conviverci a vita.
“Ma non ho potuto fare nulla per
salvarlo; non ricordo nemmeno l’ultima cosa che ci siamo
detti, non ricordo
nulla”, mormorai, ormai al limite. Stavo per cedere
e non volevo, non
dovevo perché non sapevo se sarei stato in grado di fermarmi.
Oh, Starlight don't
you cry
We're going to make it right before tomorrow
Oh, Starlight don't you cry
We're going to find a place where we belong
We're we belong
And so you know
You'll never shine alone
Starlight we'll find a place where we belong
We belong
Slash
ft. Myles Kennedy
- Starlight
Poi
Maya mi attirò a sé, circondandomi le spalle con
le braccia e
stringendomi, e fu quasi istintivo rispondere a
quell’abbraccio improvvisato. Istintivo
e normale e, per un momento, fu come tornare a respirare regolarmente
con il
viso immerso nei suoi ricci. Continuò a stringermi, lei,
come se fosse
questione di vita o di morte ed io non avrei voluto cambiare nemmeno un
singolo
particolare di quel momento: sembrava perfetto, nonostante fosse ben
lontano
dalla perfezione. Sapeva che avevo bisogno di quello, di un contatto
che mi
riportasse alla realtà e che mi tenesse incatenato a me
stesso, che mi
impedisse di cedere.
E
forse era proprio per quel motivo che, alla fine, l’ancora
che mi
aveva regalato mio padre a sette anni me l’ero tatuata, per
avere un modo per
restare ancorato a lui, ai ricordi più belli che avevo e
agli errori che avevo
commesso, all’occasione di salvarlo che mi ero lasciato
scappare. Ma avevo come
la strana sensazione che, in quel momento, la vera ancora che avevo a
disposizione fosse tra le mie braccia.
“Respira, Travis”,
sussurrò,
aumentando la presa e facendosi ancora più vicina.
“Respira e smettila di pensarci,
adesso”.
Fu
quasi semplice dimenticarmi del mondo, in quel momento, di quello che
avevo detto e pensato come se non ci fosse altro che
quell’appartamento con noi
due dentro. Semplice ed efficace, grazie a lei.
Maya’s
POV
Ero
rimasta tutta la notte davanti al computer per
poter finire il lavoro da consegnare la mattina seguente e, neanche a
dirlo,
non avevo chiuso occhio. Quei maledetti scatti mi avevano portato via
più tempo
di quanto avessi immaginato e, a dirla tutta, non avevo fatto tutto
questo gran
lavoro: quella maledetta pallina da tennis mi sfuggiva prima che
riuscissi ad
inquadrarla. Sperai solamente che, andando avanti con il tempo, non mi
venissero più commissionati servizi su quel dannatissimo
sport. E mi sarei
dovuta presentare in redazione, alla direttrice tanto per cambiare, in
uno
stato a dir poco orrendo, con le occhiaie ed i capelli ancora a dir
poco
scombinati dalla sera prima.
La
sera prima… ancora a pensarci mi vengono i
brividi.
Non
avrei mai immaginato che Travis potesse aver
passato un inferno simile, lui che mi è sempre sembrato
sicuro si sé e con la
coscienza a posto, ma avevo completamente sbagliato su di lui: mi aveva
lasciata senza parole, a dir poco, soprattutto per la tragedia a cui
aveva
assistito quando era poco più che un ragazzino ed era stato
brutto, angosciante
ascoltare tutto il resoconto della sua vita, di come sua madre si fosse
comportata letteralmente di merda, ma non ero riuscita a fermarlo.
Volevo
sapere di più, e non perché fossi avida di
informazioni, ma perché per una
volta volevo davvero capire per quale motivo Travis fosse diventato
quello che
era. Ed era stato anche peggio, probabilmente, vederlo incolpare
sé stesso per
la morte del padre, per qualcosa che ancora nessuno purtroppo riesce
davvero a
controllare, a fermare.
Non
lo avevo mai visto, sentito così disperato,
triste e così bisognoso di qualcuno che gli stesse accanto,
e sapere che in
quei dieci anni l’unica persona su cui riuscì a
fare affidamento fu mio padre,
non faceva altro che intristirmi ancora di più.
Perché era solo, nonostante
sembrasse l’amico di tutti, in palestra, l’atleta
che tutti prendono da
esempio, ma quella sera era stato solamente Travis, solamente un
ragazzo che
ancora soffriva per la morte dell’unica persona che lo avesse
incoraggiato e
spronato, prima che cominciasse davvero ad impegnarsi nel nuoto.
Mi
aveva distrutta, quella rivelazione, in un certo
senso, forse perché non ero per niente pronta a scoprire un
particolare simile
della sua vita, perché non me lo aspettavo affatto. E
vederlo così indifeso mi
aveva fatto sorgere mille dubbi, nella mia testa.
Non
ricordo nemmeno quanto tempo passò prima che
sciolse quell’abbraccio, tanto stretto da farmi mancare il
fiato. Ma non avevo
accennato a muovere un muscolo, capivo quanto ne avesse bisogno;
così restai
lì, con le costole strette dalle sue braccia, il respiro
mozzato dalla sua
forza e i brividi che sembravano essere passati dal suo corpo al mio.
Poi si
era distaccato da me lentamente, continuando ad osservare attentamente
la prima
maglia che ero riuscita ad indossare, quella con una miriade di disegni
senza
alcun senso; non aveva il coraggio di guardarmi in faccia, lo avevo
capito sin
da subito, e non ne capivo davvero il motivo, ma forse
l’orgoglio maschile
rappresentava n ostacolo troppo grande per essere superato
così
tranquillamente. Così continuai a giocare con i suoi capelli
alla base della
nuca, studiando tutte le emozioni che passarono sul suo viso, gli occhi
assenti
e l’espressione triste, e mi resi conto di provare una gran
pena nei suoi confronti.
Poi
finalmente trovò le forze di alzare gli occhi e
di trovare i miei, e tentai inutilmente di sorridergli, di fargli
capire che
andava tutto bene in un certo senso, ma non sembrava vedermi davvero,
lui.
Sembrava perso, forse come il ragazzino di diciassette anni che si era
occupato
del padre malato di cancro e che lo aveva visto morire senza poter
davvero fare
qualcosa di utile.
Mi
chiesi come potesse sembrare Travis, a
quell’età, se i suoi occhi fossero stati
già vispi e sfrontati già allora oppure
se fossero diventati così con il passare degli anni.
“Forse dovrei
tornarmene a casa”, aveva mormorato, guardandomi
negli occhi.
E
non me la ero proprio sentita di lasciarlo andare
in quello stato, perché si vedeva lontano un miglio quanto
fosse ancora scosso
da tutto quello che mi aveva detto, che aveva rivangato. Sarebbe stato
come
sbattere fuori di casa un cucciolo impaurito, e sarebbe stato meschino.
Così
nemmeno ci avevo pensato su quando, in risposta, gli dissi di restare.
Mi era
uscito naturale e, in un certo senso, non me ne ero pentita,
perché sapevo che
era la cosa giusta da fare.
Non
era in grado di restare da solo, quella sera, e
nonostante mi sembrasse una cosa davvero strana interpretare quella
parte, di
quella che arriva in salvo dopo una storia strappa lacrime, non avevo
potuto
fare altrimenti. E non era per fare del perbenismo, non era per
mettermi in
luce con Travis, era semplicemente perché ormai avevo
imparato a conoscerlo e,
in quello stato, non lo avevo mai visto e mi preoccupava.
Poi
aveva cominciato a baciarmi con una
disperazione tale da farmi venire la pelle d’oca sul tutto il
corpo e fu come
se lui se ne accorgesse, perché tornò a
stringermi come aveva fatto poco prima
e la miriade si sensazioni che provai quasi mi investirono come un
treno in
corsa. Era urgenza, quella, urgenza di smetterla di pensare a tutto
quello che
gli era passato, urgenza di trovare un appiglio a cui aggrapparsi per
paura di
sprofondare in un luogo che avrebbe spaventato chiunque. E lui ne era
terrorizzato,
aveva una tale paura del suo passato che fu palese anche a me, che lo
conoscevo
a malapena sotto molti aspetti. Era urgenza e necessita di sentire il
suo corpo
attaccato al mio, di sentirsi una sola persona, di sentire qualsiasi
altra cosa
che non fosse il dolore in cui aveva vissuto negli ultimi dieci anni; e
faceva
male anche a me, che ero rimasta solamente spettatrice per pochissimo
tempo.
Neanche
a dirlo che anche il più ingombrante degli
indumenti sparì e, Travis ed io, finimmo come eravamo
abituati a finire quando
si presentata una situazione troppo difficile per essere affrontata.
Finivamo a
sotterrare i pensieri ed i dubbi tra le lenzuola, tra i cuscini, li
scacciavamo
via per paura che tornassero a tormentarci.
“Molto bene,
Maya”, disse la direttrice, facendomi tornare con
la mente al presente, nel
suo ufficio. “Te la sei cavata anche
questa volta e sono felice di vedere quanto tu possa essere versatile”.
Ed
io che pensavo di essere stata un disastro su
tutti i fronti, in quell’incarico che mi aveva portato via
più forze e sanità
mentale di quanto avesse fatto il servizio a Doha. Ed era tutto dire.
“Cerca di non
rilassarti troppo, però, ho già in mente qualcosa
che potrà pesare parecchio
sul tuo curriculum e che ti renderà ancora più
nota di quanto tu non sia già
ora”, continuò, lei, lanciando un ultimo
sguardo alle fotografie che aveva
sparso per la scrivania. Il fatto che lei credesse che fossi nota in
quell’ambiente mi rendeva nervosa perché,
sì, avevo preso parte ad alcuni
servizi ed articoli che erano andati molto bene e, il più
delle volte, i miei
scatti non erano affatto male, ma non credevo di essere arrivata tanto
lontano
e, soprattutto, di essermi già fatta un nome, se non negli
uffici della
rivista. “Abbiamo in mente un
articolo
sul compagno di squadra di Travis, Luca, per il prossimo numero. Alla
fine,
dopo i mondiali a Doha, ci sono arrivate alcune richieste per avere una
storia
su di lui e su come sia arrivato fino a quel punto dato che, in fin dei
conti,
resta ancora un po’ sconosciuto; così abbiamo
pensato di accontentare quelle
richieste e di puntare su di lui, giusto per un breve articolo per ora,
ma le
tue fotografie dovranno essere fondamentali”.
Non
mi sembrava vero. Ero riuscita finalmente a
distaccarmi dal nuoto – nonostante mi riuscisse molto
più naturale immortalare
quello sport –, a sentirmi quasi indipendente e lontana da
quell’ambiente e
sentirmi dire che mi era stato
commissionato un altro servizio del genere mi faceva venire la nausea.
Soprattutto se il soggetto in questione era Luca, per cui non nutrivo
una
particolare simpatia. Mi sarei fatta andare bene addirittura un altro
servizio
fotografico a Travis e con Michele sarei stata la donna più
felice sulla faccia
del pianeta, ma con lui proprio no. “Posso
sapere per quale motivo avete scelto proprio me?”,
mi azzardai a chiedere,
stringendo i pugni.
“Perché,
Maya, ti sai muovere bene con quello sport, perché conosci
già il soggetto da
quanto mi han detto e perché conosci anche
l’ambiente a cui è legato”,
rispose, lei, palesemente seccata. “Inoltre,
comporterà un compenso niente male, soprattutto per essere
una trasferta”.
“Una
trasferta?”, domandai confusa.
“Sì; dato che
i nostri lettori vogliono conoscere la storia di Luca, abbiamo deciso
di
ambientare il servizio fotografico in un luogo che potesse richiamare
le sue
origini, ecco perché tu andrai, insieme ad una piccola
equipe e al nostro
soggetto, in Puglia, nel paesello sul mare dove è cresciuto
Luca”.
Mi
sarebbe caduta a terra la mascella,
probabilmente, se non fosse stata attaccata alla testa e non ci avrei
visto
nulla di sbagliato. Perché, davvero, quella notizia era
tutt’altro che
piacevole, oltre che inaspettata.
Avevo
intravisto qualche volta Luca, in piscina, e
lo avevo visto spesso e volentieri intento a pavoneggiarsi in giro e,
quando
Simona rallegrava tutti quanti della sua presenza, lo avevo visto
interpretare
la figura del marpione in un modo del tutto naturale, oltre che
sfacciato. E
Michele me ne aveva parlato, varie volte, ed avevo scoperto che era
diventato
anche di Travis, dopo i mondiali a Doha. Che si fosse montato la testa
era
palese, ormai, ma che si sentisse così padrone di
sé stesso da permettersi
distrazioni e comportamenti simili era assurdo. “In… in Puglia?”.
Ero
terrorizzata, ed il fatto che saremmo stati in
una cerchia ristretta a viaggiare non mi faceva stare per niente
tranquilla.
Avrebbe potuto comportarsi con me nello stesso modo con cui aveva fatto
con
Simona, lui, e non mi sarebbe andato affatto giù,
soprattutto perché lo vedevo
come il perfetto pallone gonfiato da rivista patinata e sapevo che, con
quel
servizio fotografico, non avrebbe fatto altro che montarsi
ulteriormente la
testa.
“Si, Maya,
hai capito bene. Luca è cresciuto in un paesino delizioso,
davvero, a Torre
dell’Orso ed è incredibile che, per i pochi
abitanti che ha, proprio uno di
loro si stia facendo strada a livello internazionale”,
continuò, lei,
guardandomi come se non capissi il colpo di fortuna che mi era
capitato, ma se
avesse saputo tutti i particolari, probabilmente, avrebbe capito lei,
la verità
su quella situazione. “Sarà
una settimana
emozionante, te lo posso assicurare, soprattutto perché lo
vedo come una
location molto interessante e caratteristica e spero che tu riesca a
farti
valere anche in questa occasione”.
Che
fosse una notizia catastrofica, quella, lo
avevo capito al volo, ma venire a sapere che avrei dovuto passare
un’intera
settimana dispersa chissà dove con un soggetto come quello
che ero costretta a
fotografare era davvero troppo. E la consapevolezza di non poter far
nulla per
risparmiarmi qualcosa, di quella specie di punizione, era la notizia
peggiore,
perché avrei tanto voluto scappare da quel posto e da
quell’incarico che
incombeva come un’ombra sulle mie spalle. Una settimana con
il provolone per eccellenza.
Poteva anche essere paradisiaco, il luogo in cui saremmo dovuti andare,
che non
mi sarebbe importato gran ché, era la compagnia a lasciare
davvero a
desiderare.
Fu
come rivivere un flashback, come quando venni a
sapere della trasferta a Doha e mi resi conto di come le cose fossero
cambiate,
da quel momento, perché adesso riuscivo a sopportare la
presenza di Travis
quasi senza problemi, Simona me la sarei fatta andare bene in ogni
caso, avrei
evitato di ascoltare i suoi discorsi vuoti e di considerarla, ma la
tenacia e
la testardaggine di Luca mi spaventavano. Soprattutto quando si
trattava di
donne.
“E quando
dovrei partire, esattamente?”, domandai, cercando
di regolare la mia voce
che continuava a tremare.
“Tra dieci
giorni, così avrai tutto il tempo necessario per prepararti”,
rispose,
secca, lei, controllando qualcosa al computer. Fu come se non
esistessi, in
quella stanza, con quella donna glaciale che si faceva gli affari suoi
e mi
rispondeva a stento. Certo, era dannatamente brava nel suo lavoro, ma
aveva una
capacità di relazionarsi amichevolmente con gli altri pari a
zero. “E quando uscirai da questo
ufficio, fermati
nella hall a ritirare tutta l’attrezzatura che ti ho
assegnato per l’incarico.
Portala a casa e fai alcune prove, giusto per tenerti in allenamento”.
Aveva
già pensato a tutto e sapeva che non avrei
potuto dire di no a quell’opportunità che mi stava
proponendo su un piatto
d’argento, sapeva che non avrei avuto il coraggio
perché capiva quanto tenessi
alla mia carriera e al mio lavoro. Così me ne andai a testa
bassa da quel posto
che cominciavo a detestare, per tutte le botte nei denti che continuava
riservarmi. Ancora non capivo se fossero più le delusioni o
le gratificazioni
che mi regalava.
Ritirai
i borsoni con l’attrezzatura che mi era
stata assegnata e me ne tornai a casa senza dire una parola, ero troppo
scioccata per poter anche solo parlare. Improvvisamente, la voglia di
passare
una serata carina, diversa dalle altre, mi era improvvisamente passata,
sotterrata chissà quanti metri sottoterra. E il ricordo di
ciò che aveva detto
Travis non aiutava affatto, l’idea che lui dovesse andarsene
in giro con Simona
per chissà quale articolo era a dir poco assurda, oltre che
fastidiosa. E non
poteva essere fastidiosa, quell’idea, dannazione!
Perché avrebbe implicato un
qualche tipo di legame che, ovviamente, non esisteva affatto, ma forse
era
stata la sera precedente a cambiare le carte in tavola.
No,
non cambiava nulla! Eravamo abbastanza grandi
per decidere di divertirci come più ci piaceva e quello era
il risultato; che
poi la sera prima fosse degenerata in qualcosa di inaspettato, era
assolutamente superfluo.
Mi
ero ritrovata a casa, per il resto della
giornata, a provare l’attrezzatura, a mangiarmi le mani per
colpa del
nervosismo che si ostinava a non lasciarmi andare e a chiedermi, verso
sera,
come stesse procedendo la cena tra Simona e Travis. E mi sarei presa a
schiaffi
nel momento stesso in cui mi resi conto di come la mia mente finisse a
pensare
certe cose con una semplicità disarmante, perché
non mi doveva importare
affatto, dovevo fregarmene come lui faceva con me, la maggior parte
delle
volte.
Però
non riuscivo a smettere di pensare a quello
che era successo la sera prima, quando lui aveva finalmente deciso di
aprirsi
con me. Non che ne fossi particolarmente contenta, ma avevo capito che
gli
aveva fatto bene in un certo senso, nonostante non dovesse essere stato
facile
rivangare in quel modo un passato simile. E mi era sentita una
privilegiata,
più o meno, perché non poteva raccontare una
storia del genere al primo che gli
passava accanto, no? Insomma, per quanto potesse essere strano quel
nostro
rapporto, quello era stato un gran passo avanti, la dimostrazione che
oltre al
sesso non più tanto occasionale e le discussioni, eravamo in
grado anche di
resistere ad argomenti seri e, soprattutto, se uno aveva un problema
l’altro
era lì pronto ad ascoltarlo. Più o meno.
Era
successo tutto così improvvisamente, dal nulla,
che nemmeno io sapevo più cosa pensare e la testa cominciava
a farmi male, per
i troppi dubbi che erano nati in quelle ultime ventiquattro ore.
Mi
chiusi nella mia camera oscura per non so quanto
tempo, sperando di riuscire a prendere sonno grazie al buio pesto e
alla
tranquillità di quella stanza, nonostante fossi seduta per
terra, con la
schiena contro la porta. Ma la mia mente non ne voleva sapere di
lasciarmi
stare, di placarsi per potermi dare un attimo di tregua e, se nemmeno
quella
stanza in particolare riusciva a darmi pace, dovevo davvero essere
messa male.
Ma
non potevo, non potevo davvero, perché avrebbe
significato troppe cose che mi spaventavano in un modo incredibile.
Solamente
dopo che riuscii a decidermi ad uscire di
lì mi resi conto che era quasi notte fonda, troppo tardi
perché potesse esserci
qualcosa di decente in tv o perché potessi mettermi a
leggere qualcosa; così
presi uno dei dischi della mia “collezione” e misi
su un po’ di musica,
sperando che potesse calmarmi. Insomma, se nemmeno del buon jazz
riusciva a
placare l’oceano in tempesta che era diventato la mia mente
avrei dovuto
preoccuparmi seriamente.
Il
giorno dopo mi ero risvegliata uno straccio.
Ancora una volta, e non ne potevo davvero più di quella
catena che sembrava non
avere fine; sembravo un’anima in pena che girovagava per il
proprio appartamento
senza un fine vero e proprio e nemmeno la massiccia dose di caffeina
che decisi
di concedermi mi aiutò a darmi una sonora svegliata.
Ero
rimasta per tutta la sera precedente sdraiata
sul letto ad arrovellarmi cervello e fegato, in una sorta di battaglia
bipolare
della mia mente che, a seconda dei momenti, si dava addosso con
pensieri e
punti di vista differenti. Ero patetica, fine della storia.
Quel
giorno, poi, sarei dovuta andare alla piscina
per avvisare mio padre delle novità, ma la prospettiva di
incontrare Luca e,
quindi, finire a parlare della settimana che avremmo passato insieme in
Puglia
oppure Travis, mi faceva venire il voltastomaco. Però mi
sembrava davvero
assurdo e stupido riferire tutto a Claudio con una semplice telefonata.
Così,
anche di prima mattina, mi ritrovai a combattere contro me stessa in
una
battaglia che avevo già perso in partenza.
Misi
su altra musica, rock ‘n roll anni cinquanta
per riuscire a smuovere un po’ l’ammasso di
tristezza ed occhiaie che ero
diventata, ma sembrava non esserci nulla da fare. E, in un momento di
incredibile noia, durante il tardo pomeriggio mi ritrovai a telefonare
a
Travis, quasi senza rendermene conto.
Ma
che cazzo sto facendo!?
“Ehi”,
rispose, dopo alcune squilli, lui. E avrei tanto voluto che non lo
facesse,
perché ero una codarda senza precedenti, la persona che
avrebbe immediatamente
chiuso quella dannatissima telefonata se non fosse passata per una
perfetta
idiota.
Silenzio.
Mi sentivo bloccata da chissà quale
sensazione, imbambolata com’ero seduta sul divano, non sapevo
che dire.
“Maya, tutto
bene?”, chiese, poi, dopo altri istanti passati in
assoluto mutismo.
“Sì, cioè…
credo di sì”, biascicai, in risposta.
“In
realtà non lo so”.
“Mi fa
piacere sentirti sempre così decisa”,
rise, prendendomi in giro, l’idiota.
Perché era un idiota fatto e finito se credeva di
abbindolarmi con le sue frasi
ad effetto, perché se davvero pensava che mi sarei lasciata
distrarre da
quattro parole incastrate alla perfezione si sbagliava di grosso.
“Allora”,
cominciai, animata da chissà quale coraggio. “Deduco che dall’allegria della tua voce
la cena di ieri sera sia stata
un successone”.
Mi
sarei voluta scavare la fossa con le mie mani,
dopo quelle parole, perché mi erano uscite di getto e senza
che ci potessi pensare
su. Ed ero una stupida, una vera stupida, perché sapevo che
comportandomi in
quel modo non avrei risolto assolutamente nulla, non avrei fatto
passare i
mille dubbi che continuavano ad affollarmi la mente e, di certo, non
avrei
fatto passare le ondate di rabbia e nervosismo che mi investivano ogni
volta
che tornavo a pensare alla serata precedente, quando io vagavo senza
motivo per
il mio appartamento, mentre lui se ne stava bello in tiro in un
ristorante con
Riccioli d’Oro. E sentivo di non dover provare tutte quelle
emozioni, quel
misto di sensazioni che mi mandava il sangue alla testa,
perché avevo la netta
sensazione che non avrebbero portato nulla di buono, nulla di concreto,
nulla
che avrebbe potuto soddisfarmi davvero.
“Ieri sera?”,
domandò, il finto tonto, come se fosse davvero sorpreso
dalla mia domanda. “Ah
sì, beh non è stato niente male; la cena
un po’ banale, ma… diciamo che poi la situazione
è migliorata nettamente”.
Era
uno stronzo.
Ed
io avevo avuto la conferma di come avessi
sbagliato a riporre in lui anche solo un briciolo di speranza, quella
che era
nata quando avevo rimuginato per ore sul fatto che lui avesse
raccontato del
suo passato, di come avesse sofferto. Ma più di tutto era
stato il suo
comportamento a destabilizzarmi completamente, ad annientarmi,
perché mi era
sembrato davvero sconfitto, quella sera, davvero distrutto e si era
lasciato
abbracciare da me come mai aveva fatto, come se avesse davvero bisogno
di quel
contatto.
Ma
mi ero sbagliata, completamente, perché era tale
e quale a Luca, lui. Se non peggio, perché almeno
l’altro lo faceva solamente
per un puro piacere fisico, mentre lui aveva messo in gioco troppo ed
aveva
lasciato che, spesso e volentieri, io giocassi le mie carte, perdendo
troppo di
me stessa.
“Non avevo dubbi,
sai”, sputai, inviperita. Forse più con
me stessa che con lui, perché alla
fine non aveva fatto nulla di male, lui, ad andarci a letto, con
Simona. Ce lo
eravamo ripetuto non so quante volte che, tra noi, non c’era
alcun legame,
alcun vincolo. Avevamo deciso di restare come sospesi
nell’aria, senza doverci
dare una vera e propria definizione, per puro divertimento. E mi faceva
davvero
incazzare la rabbia che sembrava volermi divorare viva,
perché non avevo il
diritto di provarla e perché era sbagliato. “Almeno, prima di tornare da me la prossima volta,
va in ospedale a fare
qualche test. Sai, non vorrei dovermi beccare una qualche malattia
venerea”.
E
non sapevo più cosa stavo dicendo, cosa stavo
pensando. Ero completamente andata, fottuta da quella sensazione
terribile che
mi faceva tremare le mani.
“Certo che no
ti smentisci mai, tu”, ribatté, la voce
innervosita dal mio comportamento.
E
lo sarei stata anche io, cazzo, perché mi stavo
comportando come una bambina, quando mi ero sempre ripromessa di
cercare di non
cadere troppo in basso, di non lasciarmi coinvolgere dagli eventi ed
avevo
sbagliato su tutti i fronti.
“Almeno, per
quanto riguarda la finezza, da una come Simona potresti imparare
davvero tanto,
sai?”.
Quello
era davvero troppo perché, se io avevo
sbagliato senza rendermene conto, lui stava davvero esagerando
venendomi a dire
quelle cose. Perché sapeva quanto non sopportassi quella
ragazza ed i suoi
atteggiamenti da prima donna, come se fosse lei l’unica al
mondo. Lei non era
nessuno e neppure Travis, tanto per cambiare, per venire a dirmi cose
del
genere.
“Penso che
una come lei sia ferrata su argomenti tutt’altro che fini, se
vogliamo dirla
tutta”, continuai, cominciando a camminare avanti e
indietro per il salotto
come una forsennata. “E comunque non
ti
ho chiamata per parlare di quella… di lei; volevo avvisarti
che nei prossimi
giorni non sarò molto presente: tra nove giorni devo partire
per una trasferta
in Puglia con il tuo caro amico Luca”.
Silenzio.
Ancora una volta, ma almeno in quell’occasione
non ero io ad essere rimasta senza parole. E fu quasi una sorta di
rivincita
sentire come, con una notizia del genere, fossi riuscita a zittire quel
pallone
gonfiato che era in realtà Travis. Per una volta era rimasto
senza parole,
senza le sue solite frecciate con cui controbattere.
“Una
trasferta? Con Luca?”, domandò, poi,
incerto, con la voce che mi risuonò
quasi disgustata quando pronunciò il nome del suo compagno
di squadra.
“Le ore sott’acqua
ti hanno rovinato l’udito oppure hai fatto urlare Simona
troppo a lungo?”,
gli chiesi, ironica. Nonostante in me, di ironico, in quel momento ci
fosse
davvero molto poco. “Sì,
la rivista vuole
un servizio su Luca e lo vogliono ambientare da dove è
partito, quindi nel suo
paese d’origine ed ecco perché per una settimana
me ne andrò in Puglia con lui
e qualche membro dello staff”.
Lasciai
perdere il fatto che, la permanenza in
luogo completamente sconosciuto, con uno come Luca mi spaventava a dir
poco,
non meritava di saperlo ed io non volevo assolutamente mostrarmi
più debole di
quanto già non mi sentissi. Lasciai perdere il fatto che mi
spaventasse quell’incarico
in sé, perché improvvisamente mi sentii una
perfetta incapace pronta ad alzare
bandiera bianca.
“Ti sento
parecchio entusiasta”, mormorò, lui. E
non seppi come interpretare quel suo
tono di voce, se sconfitto oppure infastidito, ma mi imposi di non
pensarci
troppo su perché avevo ben altro a cui pensare e, quella
facciata da stronza
che avevo ritirato su, doveva restare in bella mostra. Almeno per il
tempo di
quella telefonata.
“Certo, cosa
credi?”, cominciai, passandomi una mano tra i
capelli. “Un’opportunità
del genere non me la lascio
scappare e poi avrò la possibilità di visitare la
Puglia, e per fortuna che ci
sarà uno come Luca che, almeno, mi farà da guida”.
“Attenta che
il suo itinerario non finisca in qualche letto”,
sputò, lui, decisamente
più infastidito di quanto non fosse già prima.
“E anche se
fosse?”, azzardai.
Avevo
paura della sua reazione, in un certo senso, perché
sapevo quanto si potesse scaldare alcune volte, soprattutto se si
cominciava a
parlare dell’altro ragazzo che, tanto per cambiare, non
sopportava.
“Sei libera
di fare e di farti chi cazzo ti pare, Maya, esattamente come lo sono
io, ma
almeno a me questo particolare mi è sempre stato ben chiaro
in mente”,
disse, infine, con voce piatta. E fu come una stilettata allo stomaco,
quel suo
tono indifferente, menefreghista; ed ebbi ancora una volta la conferma
di come
mi fossi sbagliata sul suo conto, perché stava tornando
fuori lo stesso Travis
dei primi tempi in cui lo avevo conosciuto, lo stronzo che se ne frega
altamente degli altri e cammina pestando tutto ciò che trova
sul suo cammino. Avrei
dovuto saperlo, ma avevo sperato che fosse una persona diversa ed avevo
preso
un abbaglio colossale.
“Lo è anche
per me, idiota, infatti cercherò di vivermi ogni momento di
quest’esperienza”,
ribattei, sentendomi velenosa come non mai. “Vorrai
scusarmi, ma ora ho altro da fare piuttosto che continuare a
discutere con te al telefono”.
“Sia mai che
sprechi minuti preziosi a parlare con uno stupido come me, mi sentirei
troppo
in colpa”, rispose, Travis, con una risata ironica
prima di riattaccare il
telefono, lasciandomi un attimo interdetta.
Aveva
avuto anche il coraggio di privarmi di quel
privilegio, di poter porre fine a quella malsana conversazione che
avevamo
appena avuto. Che poi, quando mai noi siamo riusciti a parlare in modo
civile,
come due persone normali? Mai, ecco quando e quella era solamente
un’altra
occasione che andava ad ammucchiarsi al resto.
E
mi sentii improvvisamente svuotata, senza forze e
priva della benché minima briciola di intelligenza,
perché mi ero appena
comportata come una perfetta e completa idiota, io che avevo sempre
cercato di
essere sempre giusta, sincera. Avevo appena dato un immenso calcio nel
culo a
tutti quelli che erano stati i miei principi, e per cosa poi!? Per non
sentirmi
inferiore a Travis che, come sempre, riusciva a superare ogni sua
situazione,
poco importava come ne uscivano quelli che cercavano di combattere
contro di
lui. Per non sentirmi una bambina a mostrarmi indifesa ed impaurita per
una
cosa che non avrebbe dovuto spaventarmi affatto, ma che avrebbe dovuto
farmi
crescere solamente la voglia di combattere per far vedere al mondo
intero chi
sono e cosa valgo.
E
non potevo davvero scoppiare a piangere, non in
quel momento e non dopo quello che era successo. Nemmeno una singola
lacrima
sarebbe dovuta crollarmi dagli occhi, altrimenti quella a crollare
sarei stata
io, poi. E non potevo permetterlo, non a pochi giorni da
un’impresa che mi
sembrava a dir poco titanica.
Doha,
in confronto, era niente!
Fu quasi istintivo alzare il volume del giradischi e chiudermi nella mia camera oscura. Istintivo ed assurdo perché, fondamentalmente, non aveva alcun senso quel mio comportamento, ma avevo bisogno di un attimo di pace, di momento di calma e tranquillità che non mi sembrava di scorgere da alcuna parte, solo nella quotidianità che pareva farsi sempre più lontana, divertita dal fatto che la avessi praticamente appena mandata a puttane senza alcun ripensamento.
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Buonasera, bellezze!Incredibile, ma vero.. questa volta sono riuscita a non ridurmi all'ultimo a pubblicare e - momento epico - non vi ho fatto aspettare più di un mese per il seguito. Mi sento un po' più fiera di me..
Allora, allora: capitolo pesantuccio, questo! Oltre che lunghissimo come gli ultimi (se non di più) lo reputo pesante per ciò che tratta, soprattutto nel POV di Travis, ma era ora che il suo passato venisse fuori e.. TA DAAN! Ecco il significato del tatuaggio!
E' davvero molto importante, per lui, e spero di aver fatto trasparire questo particolare perchè, a questo momento della storia, tengo davvero tantissimo. E spero davvero con tutta me stessa di averlo descritto al meglio.
Poi.. dolcezze, novità, disastri (tanto per cambiare). Un capitolo bello denso di eventi!
Che ne pensate, voi? Vi prego, fatemi sapere qualsiasi cosa, dal semplice commento alla recensione infinita. Mi sembra di essere una bambina a Natale ed ho bisogno di sapere se, almeno per questa volta, ho fatto un buon lavoro!
PICCOLA, GRANDE NOVITA'..
Dato che mi è stato chiesto, ed ammetto che già da tempo ci stavo pensando su, ho creato un gruppo chiuso su Facebook per chi volesse rimanere aggiornato su come procedono i vari capitoli, su novità, qualche spoiler, i volti dei nostri personaggi.. insomma, tutto! Lo vedo molto come un buon mezzo per tenermi in contatto con voi!
Mi trovate qui: Born to Run. Mi raccomando, entrate così avrò la possibilità di conoscervi meglio e di lasciarmi conoscere!
Detto questo, voglio ringraziare tutte voi come sempre! Chi lascia recensioni, chi si limita a mettere la mia storia tra le proprie seguite/preferite e chi legge soltanto! Grazie davvero perchè, probabilmente, andrei avanti davvero a fatica senza di voi!
Alla prossima, un abbraccio,
Chiara
p.s: Poi arriverà il momento in cui vi spiegherò il motivo del nome del gruppo! :)