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Autore: ChiaraBaroons    30/06/2015    3 recensioni
Maya, fotografa emergente, non ne vuole più sapere del mondo a cui, suo padre, ha sempre cercato di incatenarla: il nuoto. Le piacerebbe viaggiare, vedere il mondo, e invece, per uno scherzo del destino, dopo la laurea si ritrova costretta a convivere con quell'ambiente che poco sopporta, solo per ottenere un lavoro degno di essere chiamato tale.
Ed è qui che spunta fuori Travis, nuova stella del nuoto italiano, bello da far male, ma con un ego talmente grande capace di far concorrenza a quello di Sua Maestà, la Regina Elisabetta II; ed è proprio lui il soggetto che Maya dovrà immortalare per ottenere quel fantomatico lavoro, ma non tutto risulterà semplice quanto sembra. Non sarebbe divertente, almeno per noi lettori.
Due caratteri predominati messi a confronto, due prime donne che, purtroppo oppure per fortuna, non riusciranno a restare nella stessa stanza a causa del loro orgoglio, troppo grande per rendere le cose semplici sin dall'inizio.
Sono solamente esseri umani e, complicarsi la vita nel peggior modo possibile, sembra proprio la loro linea guida.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Maya23




*****


Non è assolutamente vero”, esclamai, cercando di far valere la mia opinione che, in quel momento, era stata accantonata con fin troppa facilità. “Preferirei guardare altro, per quanto riguarda le competizioni di nuoto ne ho avuto abbastanza”.

Erano passate praticamente sei settimane da quando, la notte dell’ultimo dell’anno, mi ero ritrovata a casa mia con Travis a seguito. Non ci frequentavamo, ed era stato messo perfettamente in chiaro dalla sottoscritta già tempo prima, ma quando ne avevamo la possibilità ci incontravamo, per lo più al mio appartamento, e a parte aver testato gran parte delle superfici utilizzabili lì dentro, facevamo ben poco altro. Più che altro film alla tv e chiacchiere vuote, giusto per passare il tempo.

Non mi sembra di averti chiesto chissà cosa e, tanto per cambiare, ti stavi per addormentare, quindi mi è sembrato il minimo cambiare canale”, cercò di giustificarsi, lui, che fregava il telecomando da sotto il naso delle persone.

Non eravamo scesi in particolari riguardo alle nostre vite private, eravamo ancora troppo sconosciuti per poter scendere troppo a fondo, ma ci eravamo confrontati su parecchi argomenti e, spesso, ci trovavamo stranamente d’accordo, ma quando accadeva il contrario finivamo sempre per discutere e, per lo più, per insultarsi senza problemi. Era un’amicizia turbolenza, sempre se amicizia si trattasse perché né io né lui ne eravamo certi. E nemmeno in un’occasione avevamo cercato di dare una seria definizione a quello che eravamo diventati. Perché non eravamo nemmeno friends with benefits – giusto per essere più internazionali – dato che, come nostro solito, tendevamo a complicarci la vita ed a crearci mille problemi; quindici eravamo definiti solamente un grandissimo punto interrogativo.

Si, ma non per del nuoto”, mi lamentai, cercando di afferrare il telecomando che teneva sollevato troppo in alto per me. “Ancora una volta”, specificai, infine.

Travis si affidava sempre più spesso ai centimetri che ci dividevano, divertendosi sempre più spesso a mie spese che, con tutte le mie forze, avevo sempre cercato di farmi valere nonostante, in confronto a lui, fossi sempre stata una nanetta. Così, alla fine della storia, mi ritrovavo sempre a dover combattere contro di lui per recuperare il telecomando e poter cambiare canale dato che, quella, era pur sempre casa mia. Ma raramente ero riuscita a vincere, a discapito suo, ovviamente, che più di un paio di volte di era ritrovato con un mio ginocchio sul petto a comprimergli la cassa toracica. E sarebbe successo anche in quell’occasione, se non fosse stato per Travis che, con un colpo di reni, riuscì a spedirmi per terra senza troppi complimenti, facendomi cadere come una pera cotta.

E lui cominciò a ridere senza ritegno, stringendosi lo stomaco tra le braccia per quanto le sue risa erano sguaiate, e nemmeno il mio sguardo di fuoco riuscì ad intimidirlo, nonostante fossi davvero stizzita per la botta che avevo appena dato. Sembrava non notarmi nemmeno, lui, quasi con le lacrime agli occhi.

Sei il solito idiota, Travis”, esclamai, alzandomi in piedi. “E sei un bambino, tanto per cambiare”.

Lo guardai ancora una volta, mentre cercava di trattenersi a stento, cominciando ad escogitare la mia prossima vendetta, anche se non avevo la minima idea di cosa avrei potuto fare. Così lo lasciai alle sue risate e ai suoi programmi sul nuoto, ignorando il suo tentativo di richiamarmi indietro e dirigendomi verso la mia camera oscura, sperando che potesse darmi quella pace necessaria per stilare il mio piano.

Non avevo la più pallida idea di cosa avrei potuto fargli, ma qualcosa dovevo inventarmi perché, oltre ad una figuraccia di dimensioni epiche, avevo davvero sbattuto il culo per terra e mi aveva fatto male, quindi Travis doveva pagarmela, in qualche modo. Sembravo molto una bambina, in quel momento, stizzita per così poco, ma non potevo farci nulla. E non era la prima volta che, tra noi, accadeva una cosa simile.

Alla fine mi ritrovai a sistemare quelle poche cose che, nella mia camera oscura, erano fuori posto, perdendo tempo e non riuscendo a pensare a come potermi vendicare, così tornai in salotto dopo nemmeno quindici minuti e, stranamente, trovai Travis addormentato sul divano, nonostante alla tv ci fossero ancora le competizioni che tanto aveva agognato guardare.

Mi fermai un momento a fissarlo, e non era nemmeno la prima volta che avevo l’occasione di guardarlo dormire. Più di una volta era rimasto da me più del necessario, ma non avevo insistito più di tanto nel cacciarlo, pensando che non potesse davvero essere una cosa così disastrosa. E, come in quel momento, già in un paio di occasioni mi ero svegliata nel cuore della notte e, per un po’, mi ero bloccata a studiare il suo viso mentre dormiva. Le sue labbra socchiuse, la fronte che si aggrottava di tanto in tanto, regalandogli un’espressione infastidita, come in quel momento.

Poi il lampo di genio. E non attesi un momento a correre in cucina, cercando di fare meno rumore possibile, e recuperare due coperchi di pentole che avevo a portata di mano. Mi avrebbe odiato e, probabilmente, me ne sarei pentita, ma era un’occasione troppo accattivante per lasciarsela scappare. Così mi avvicinai lentamente al bracciolo del divano dove lui aveva deciso di poggiare il capo e, cercando di trattenere le risate, respirai a fondo prima di cominciare a sentirmi come un membro della parata di San Patrizio. Poi cominciai a sbattere tra loro i due coperchi e, lo spettacolo che mi si parò davanti agli occhi, fu a dir poco appagante, nonché da sbellicarsi dalle risate.

Travis, che all’inizio saltò spaventato sul divano, dopo un momento crollò giù dal divano, ancora più impaurito dal caos che creavano quei due pezzi da cucina. Poi, quando decisi di fermare quella tortura, cominciai a ridere senza riuscire a fermarmi, dovendomi poggiare al divano per paura di cadere a terra per mancanza di fiato. E intanto lui mi fissava truce, ancora stordito dalla sveglia che avevo appositamente preparato per lui, ma non era riuscito a spaventarmi per quanto divertente fu quella scena.

Ora… ora mi posso ritenere soddisfatta”, cercai di articolare, tra le risa. “Avresti dovuto vedere la tua faccia”.

E avrebbe dovuto vederla davvero, perché era a dir poco uno spasso, nonostante si notasse perfettamente quanto fosse incazzato. Ma mi importava davvero poco, perché avevo avuto la mia vendetta ed era stata più bella di quanto avessi sperato.

Poi, lentamente, si alzò da terra con una strana espressione in viso, mista a malizia e perfidia, e fu proprio quello a spaventarmi in minima parte e a farmi smettere di ridere all’istante perché avevo la strana sensazione che non sarebbe accaduto nulla di buono, almeno per me.

Che ti prende?”, domandai, ricomponendomi e facendo un passo indietro, intimorita dai suoi occhi famelici.

A me? Nulla”, rispose, lui, con un ghigno sulle labbra, come se fosse davvero convinto che mi bevessi una stronzata simile. “Piuttosto dovresti preoccupare di te stessa”, continuò, avvicinandosi di qualche passo. Ed io cercai di recuperare quella distanza, continuando ad indietreggiare perché, nonostante la sua espressione fosse accattivante, non sapere quel che mi aspettava mi infastidiva e preoccupava al tempo stesso.

Un altro passo avanti ed uno indietro, fino a quando non mi scontrai con il tavolo della cucina, così decisi di aggirarlo, continuando a tenere lo sguardo incollato a quello di Travis che, con estrema tranquillità, sembrava non aspettare altro che un mio momento di distrazione. Ma ormai avevamo il tavolo in mezzo a noi ed era strano, nonché divertente, in un certo senso, tornare bambini in quel modo, facendo finta di giocare al gatto e al topo. Anche se dubitavo che lui stesse fingendo.

Me la pagherai, Maya”, mormorò, lui, con un sorriso divertito, poggiando le mani al piano del tavolo. “Puoi scappare quanto vuoi, in ogni caso prima o poi ti prenderò”.

Scapperò in Brasile”, ribattei, senza pensare, facendolo ridere. “Andrò nella foresta Amazzonica e non mi farò più trovare”, continuai, cercando di restare seria anche se, a dire il vero, si era rivelata un’impresa davvero difficile.

Non avevo via di scampo e lo sapevamo perfettamente entrambi, nonostante io cercassi un modo per raggiungere una qualsiasi altra stanza senza essere acciuffata dal nuotatore che continuava ad osservarmi attentamente.

Maledetti quei suoi occhi.

Nemmeno con lo scatto più fulmineo del mio repertorio sarei riuscita a sfuggirgli, ma ci provai comunque, cominciando a correre come una pazza verso la mia camera oscura, ma a lui bastò allungare un braccio per mettermi in trappola, in un batter d’occhio.

Allora, piccola amazzone, dove vorresti scappare?”, chiese, sbeffeggiandomi, e stringendo la presa sul mio corpo, facendo aderire la mia schiena al suo petto.

Voglio tornare nella mia madre terra”, ribattei, ridendo.

E in un attimo mi sollevò da terra, con fin troppa facilità, non allentando in ogni caso la stretta che continuava ad esercitare sul mio corpo. Poi cominciò ad incamminarsi a passo svelto verso la camera da letto, cominciando a ridere come un idiota – seguito a ruota da me -, ed in quel momento capii che, probabilmente, la mia punizione sarebbe stata più lussuriosa e piacevole di quanto avessi mai pensato.

 

Travis’ POV

 

Dopo la vittoria a Doha e l’euforia che ne seguì non avevo fatto altro che prepararmi per le Olimpiadi. E ad una persona qualunque sarebbe sembrato stupido, cominciare ad allenarsi per un evento che sarebbe arrivato dopo più di un anno, ma non avevo la minima intenzione di lasciarmi scappare un’occasione come quella che rappresentava il Brasile, nel 2016, e inoltre era normale prepararsi con largo anticipo per competizioni simili, nonostante fosse davvero spossante.

Claudio non mi dava tregua ed aveva perfettamente ragione a volermi spronare fino a quel punto, ma molte volte si rivelava essere solamente fin troppo assillante, con i suoi soliti urli alla piscina e le sue ramanzine se qualcosa non era andata per il verso giusto. Il ché, nelle ultime settimane, avveniva più spesso del solito e di quanto avessi sperato. E di questo il mio allenatore se ne era accorto, ma continuava a restarsene buono e calmo e a riprendermi quando ce n’era bisogno.

Se solo avesse saputo la verità, probabilmente, gli sarebbe preso un infarto. Dopo avermi ucciso con le sue mani, ovviamente.

Mi ero immaginato quella scena parecchie volte e, più andavo avanti, più mi rendevo conto che, se fosse successo davvero, avrei dovuto cominciare a correre per trovare rifugio in un nuovo paese. Forse meglio un nuovo continente.

Maya si era presentata alcune volte, alla piscina, mentre ero occupato con gli allenamenti e a parte continui scambi di sguardi tra il divertito ed il timoroso per la situazione in cui ci trovavamo, solamente un paio di volte ci era capitato di rivivere ciò che era accaduto nello stanzino delle scope.

Probabilmente, se qualcuno fosse venuto a conoscenza del nostro tipo di rapporto, ci avrebbero scambiato per ninfomani, ma alla fine sapevamo che quello era l’unico modo per non finire in discussione, con insulti e parolacce a completare il quadretto. Era un rapporto turbolento, il nostro, anche se un rapporto vero e proprio non lo era assolutamente. Sapevamo che, in qualsiasi momento, avremmo potuto scrivere la parola fine a quella cosa, ma finché ci andava bene ne approfittavamo. Beh, certo, forse un po’ troppo e un po’ più spesso di quanto avrei mai pensato, ma restavano dettagli, quelli.

Era passato più di un mese dall’ultima notte dell’anno e, nel frattempo, avevo scoperto alcune cose su di lei, le sue passioni, i suoi gusti, ma quello che più mi premeva sapere restava un mistero. Né io né lei eravamo mai riusciti a trovare il coraggio di parlare del nostro passato, come se fosse troppo brutto o difficile da rimandare, e quello era stato un tacito accordo che avevamo stretto non ricordo nemmeno quando. Forse una delle tante volte che eravamo finiti a letto insieme dopo gli ennesimi insulti.

Non avevo la minima idea di come avrei potuto continuare ad andare avanti perché, in un certo senso, a lei cominciavo ad affezionarmi perché era molto più di quanto lasciasse trasparire quell’espressione da stronza che, spesso e volentieri, metteva su, ma sapevo fin troppo bene che per lei non significava nulla quello che poteva esserci tra noi. Anche se non c’era nulla, e lo sapevo. Bastava proprio lei a ribadirmelo fino allo sfinimento. Ma eravamo entrambi del parere che, finché eravamo giovani e consenzienti, potevamo fare ciò che più ci piaceva.

E quello piaceva ad entrambi. Fin troppo.

Pensi di ricominciare ad allenarti, Travis, o preferisci che ti porti un caffè?”, mi chiese Roberto, quando passò davanti a me e si rese conto della mia espressione annoiata e distratta.

Me ne stavo tranquillamente poggiato al bordo della piscina, con le labbra a pelo d’acqua ad analizzare i comportamenti di quella ragazza che continuavano a mandarmi in panne, perché una volta era la persona più insopportabile ed indisponente sulla faccia di questo pianeta e, il momento, si rivelava essere docile, tranquilla e con la parlantina facile. Cosa che continuava a stupirmi ogni giorno di più.

Le piaceva ritagliarsi i suoi spazi, lo avevo capito, soprattutto quando prendeva un libro tra le mani e metteva le cuffie alle orecchie, ma c’erano volte in cui era proprio lei a venirmi a cercare, con l’ombra di un sorriso sul volto. E di me non restava più nulla, se non un idiota che la seguiva senza battere ciglio.

Mi guardai un attimo intorno e non feci altro che osservare tutti i miei compagni che si ammazzavano di lavoro, continuando a fare vasche su vasche per essere preparati e pronti per le prossime competizioni. Ed erano a dir poco ammirevoli. Poi c’ero io che avevo la voglia di allenarmi sotto i piedi e ci mancava davvero poco che mi addormentassi con la testa poggiata al bordo.

Così ricominciai con il mio lavoro, prima che Roberto potesse tornare a darmi una vera strigliata, o peggio, che facesse venire Claudio con il suo solito cipiglio irritato che cominciava a contraddistinguerlo in quei giorni.

Di certo, l’ultima cosa che volevo, era qualcuno che mi facesse la predica, soprattutto in quel momento in cui avrei mollato tutto e me ne sarei tornato volentieri a letto.

 

Le giornate cominciavano a susseguirsi senza che io me ne rendessi conto, probabilmente colpa del fatto che, oltre a casa mia, nel giro delle ultime settimane avevo visto solamente quella dannata piscina; nemmeno per Doha mi ero allenato ed impegnato tanto, ma quello che mi aspettava era ben diverso da dei campionati mondiali. E faceva molta più paura.

Eravamo agli inizi di marzo e pensare che avrei dovuto continuare in quel modo per più di un anno, mi faceva venire la nausea. Ma continuavo ad andare avanti, era il sogno della mia vita, l’unico vero obiettivo che mi ero sempre posto e, di certo, non potevo deludere Claudio in un momento come quello. Ne avrebbe sofferto troppo, e non avrei potuto sopportare l’espressione di disappunto e la delusione sul suo volto.

Però cominciavo a sentirmi davvero stanco, forse per colpa del fatto che, nemmeno dopo i successi di Doha, non mi ero fermato un attimo, e mi sarebbero bastati solamente un paio di giorni di pausa, per staccare il cervello e per dare un attimo di tregua al mio corpo che, ormai, andava avanti ad inerzia. Ma quello che più di tutto mi bloccava, era la possibile reazione di Claudio perché in quei giorni sembrava un’altra persona, molto più irascibile e nervoso di quanto non fosse mai stato. E vedere come, certe volte, riprendeva alcuni miei compagni per delle piccolezze insignificanti e come si scaldasse, faceva davvero paura. Era strano vederlo in quello stato, nonostante fosse comprensibile.

Così avevo preferito tacere e tenere quel desiderio per me, per evitare che la prossima sfuriata potesse essere indirizzata a me.

Ti vedo parecchio distratto, in questo momento, campione”, disse, una voce alle mie spalle, mentre cercavo di capire come migliorare le mie virate senza dover chiedere consiglio a Claudio. Ed era ovviamente una voce troppo nota perché potessi confonderla con qualcun’altra.

Forse è la tua presenza a distrarmi, Simona”, ribattei, voltandomi a guardarla e sorridendole. E non mi sfuggì il compiacimento che le si annidò in quel mezzo sorriso che mi rivolse, cercando forse di apparire seducente.

Certo, era una gran bella ragazza e sarei stato un idiota a non rendermene conto, ma era vuota ed insipida, nonostante su molti argomenti fosse davvero ferrata, ma avevo avuto già parecchie volte la terribile conferma di quanto a lei importasse solamente la facciata del mondo, e non il suo interno, non i suoi particolari. Forse era questo e la terribile somiglianza a mia madre, nei modi di fare, a farmi innervosire ogni volta che sentivo una qualche parola uscire dalla sua bocca.

Sei troppo signore per dirmi in faccia la verità, caro, ma sono meno stupida di quanto credi”.

Dannazione!

Non che mi aspettassi una risatina stupida e gli occhioni da cerbiatta, ma di certo non mi sarei mai aspettato una frecciatina simile, soprattutto dopo essermi reso conto di quanto fosse vera. Ma era stata la sua sincerità a sorprendermi ed il modo in cui lo disse, sempre con quel sorrisino in faccia come se non le importasse di nulla. E probabilmente era così, perché negli ultimi tempi l’avevo vista parecchie volte in piscina, sempre alla ricerca di Luca e sempre con indosso straccetti che lasciavano scoperti pezzi di pelle più di quanto ne coprivano.

Esibizionista? Chi, Simona!?

Touchè”, mormorai, grattandomi il mento e poggiandomi al bordo della piscina. “Ma ci tengo a precisare che non ho nulla contro di te”, aggiunsi, con il miglior sorriso da bravo ragazzo che riuscii a sfoderare.

Lo so, tutti mi adorano”, replicò, lei, tirando fuori dalla sua borsa il cellulare.

Oltre che esibizionista, aggiungerei anche modesta. Giusto per avere una descrizione più dettagliata di questa ragazza, eh.

Comunque, perché tu lo sappia, ti stavo cercando”, aggiunse, Simona, continuando a guardare il display del suo telefono.

Non vorrei essere ovvio, ma mi hai trovato”.

Lo so, campione, ma non mi hai lasciato finire”, ribatté, poi, lanciandomi un’occhiata infastidita. “Tu ed io andremo a cena insieme”.

Per un momento mi chiesi se stesse parlando seriamente oppure fosse tutto solamente un gioco, uno scherzo, ma disse quelle parole con una convinzione ed una sicurezza tale che quasi mi sconvolse e, probabilmente, se non fossi stato in acqua sarei caduto a terra. Perché non poteva essere seria o, almeno, non poteva pensare che io potessi accettare come se nulla fosse, soprattutto dopo il fiasco che si era rivelata Doha per noi due.

E no, la mia non era una domanda”, continuò, come se mi stesse leggendo nel pensiero. “Tu accetterai ed io dovrò farti qualche domanda per un breve articolo per la rivista. La parte dedicata a te nel numero di gennaio è piaciuta talmente tanto che è stato richiesto qualche piccolo aggiornamento sui preparativi per le prossime Olimpiadi”.

Tutto tornava al suo posto, ovviamente, ma in ogni caso la situazione diventava più piacevole, anzi. Probabilmente sarebbe stata un inferno, quella serata, piena di domande a raffiche e frecciatine che avrebbero colpito in pieno il bersaglio. E, un momento dopo, mi ritrovai terrorizzato dall’ipotesi in cui lei avrebbe voluto scendere nei dettagli della mia vita privata, andando a finire fin troppo vicina a Maya. E non potei non domandarmi se non sapesse già qualcosa, quella specie di arpia in gonnella dal bel faccino.

I giornalisti sono subdoli, falsi e non aspettavano un momento ad infangarti e a tirarti giù per la buona riuscita di un articolo da prima pagina. E quella era la mia più grande paura, soprattutto con una come Simona che aveva vissuto abbastanza a stretto contatto con la mia realtà e con il mio ambiente, che conosceva perfettamente Maya e che sapeva come fosse legata al mio allenatore.

Mi sarei dovuto giocare bene le mie carte, cercando di non scendere in particolari e di non lasciarmi scappare qualche informazione che le sarebbe bastata per tirare su un perfetto castello di carte pieno zeppo di menzogne.

Vedo che hai già organizzato tutta la cerimonia nei minimi dettagli”, commentai, issandomi per poter uscire dall’acqua e smetterla di guardarla finalmente dal basso, nonostante fosse una più che meravigliosa visione. “A quando il grande evento?”. Se doveva giocare con il sarcasmo, non avrei atteso un attimo per farmi avanti, nonostante quella sua espressione soddisfatta metteva un po’ spavento, soprattutto perché ero consapevole del fatto che era lei ad avere il coltello dalla parte del manico.

Claudio mi aveva informato di come, grazie all’articolo pubblicato dalla rivista per cui lavoravano sia Simona che Maya, la piscina riuscì ad ottenere più visibilità, di come la mia storia divenne all’improvviso molto più interessante e di come riuscimmo ad ottenere più sponsor rispetto a prima, e mi aveva anche detto che avrei dovuto mantenere un basso profilo, mostrandomi disponibile e gentile con lo staff della rivista perché se ci fosse stata un’altra possibilità di metterci in mostra – come stava accadendo in quel momento – non me la sarei dovuta lasciare scappare. Ed era meglio obbedire al mio allenatore, in quel periodo.

Domani sera”, rispose, secca. “Ci troviamo qui per le sette e trenta, e non ritardare: odio dover cenare ad orari indecenti, poi non riesco più a digerire”, continuò, rimettendo a posto il telefono, come se nulla fosse. Doveva aver controllato la sua agenda, molto probabilmente fitta di appuntamenti come parrucchiere ed estetista.

Mi fissò per un momento, come incerta delle sue azioni, prima di riprendere il completo controllo delle sue facoltà mentali, tornando la donna tutta d’un pezzo con cui avevo avuto a che fare fino a quel momento. Ed era strana, per certi versi, Simona, perché non sembrava affatto la ragazza con cui avevo passato il tempo a Doha. Sembrava cresciuta, maturata, si era fatta meno svampita e meno stupida, nonostante continuasse a mantenere salda quella sua facciata, ma era più diretta, senza peli sulla lingua e senza paura di dire la cosa sbagliata al momento sbagliato.

E vedi di abbandonare per una sera questa tua divisa da nuotatore sciupa femmine, renditi presentabile perché non voglio che tu mi faccia sfigurare, soprattutto nel locale che ho scelto”, aggiunse, quasi facendomi una risonanza. Poi cominciò ad andarsene da dove era venuta, dirigendosi verso l’uscita.

Carina come sempre, Simona”, le dissi, infine, sapendo bene che avrebbe sentito le mie parole.

Ah dimenticavo, paghi tu!”, esclamò, agitando una mano in aria, senza nemmeno prendersi il disturbo di voltarsi a guardarmi, come se già il fatto che me la sarei dovuta sorbire per un’intera serata non bastasse a gettare la mia voglia di vivere nel cesso.

 

A cena con Simona?”.

Non si scomodò nemmeno a mascherare lo stupore nella sua voce, non ne aveva alcun motivo, e quello sguardo scettico che mi aveva rivolto la diceva lunga su cosa pensasse di quello pseudo appuntamento che avrei avuto il giorno seguente con la bionda. Ma Maya non si lasciò sfuggire altro, era troppo orgogliosa per farlo, si limitò solamente a fissarmi per alcuni istanti come se fossi appena giunto da un altro pianeta, perché lei sapeva quanta poca simpatia nutrivo per l’altra ragazza.

Si, lo so, è assurdo, ma ha detto che è per un piccolo articolo per la vostra rivista”, cercai di giustificarmi, cadendo di peso sul divano.

Mi ero diretto a casa sua subito dopo l’allenamento, non sapendo bene cosa fare, e l’avevo trovata ancora in pigiama intenta a lavorare su alcuni scatti che le erano stati commissionati per un servizio su un giocatore di tennis, una nuova stella nascente, a quanto avevo capito. Mi aveva aperto con la sua solita aria annoiata e un po’ sorpresa, ma quando si rese conto di chi si trovasse davanti a gli occhi non si scomodò nemmeno a dire qualcosa che tornò al computer, lasciandomi la possibilità di entrare.

Faceva sempre così: apriva, si accorgeva che ero io e tornava ai suoi lavori come se nulla fosse.

Ha anche detto che è stato richiesto un aggiornamento sui miei allenamenti per le Olimpiadi, dopo l’articolo di gennaio, così è arrivata, mi ha informato della cosa e se ne è andata”.

Strano, non ne sapevo nulla”, mormorò, continuando a fissare lo schermo del portatile. “Non metteranno nemmeno una tua immagine, come minimo, o ne ricicleranno qualcuna”.

Devi stare davvero sulle palle, a Simona, se non sei stata informata di un’occasione simile”, la punzecchiai, osservandola attentamente al lavoro. Ma sembrava troppo presa anche solo per rendersi conto delle mie frecciate.

O forse è stata più clemente del solito, nei miei confronti, risparmiandomi una serata a tre che sarebbe potuta finire in rissa”, ribatté, lei, con la sua solita delicatezza. “E lasciamelo dire, fotografarti ancora, e magari tutto in tiro e in compagnia di quella ragazza, non è tra le mie migliori aspirazioni”.

Nonostante non sembrasse prestare attenzione a nessuno se non al suo maledetto computer, mi aveva fatto capire fin troppo bene quanto potesse rivelarsi multitasking, soprattutto rispondendo alle mie provocazioni con una tranquillità che quasi metteva i brividi. Continuava a lavorare eppure era abbastanza sveglia da non lasciarsi sopraffare da me o dalle mie parole. Era una continua sfida, lei, ecco cos’era.

Ma non mi era sfuggito ciò che aveva detto, e probabilmente nemmeno si era conto di come il suo discorso potesse venire travisato con semplicità, ma io me ne ero reso conto in quello stesso momento, cercando di capire cosa volesse dire con quelle parole. Sicuramente ero io dalla parte del torno, perché sembrava troppo fredda e distante per preoccuparsi per un’uscita simile, eppure quello era un pensiero che si era rivelato come un tarlo nella mia mente.

Non sarai gelosa, vero?”, le domandai, assottigliando lo sguardo senza riuscire a nascondere quel sorriso divertito che stava facendo di tutto pur si comparire sulle mie labbra.

E finalmente riuscii ad ottenere la sua completa attenzione, tanto che distolse lo sguardo dallo schermo del computer e trovò i miei occhi. Alzò un sopracciglio, guardandomi scettica, perplessa e forse anche un po’ seccata, perché non era la prima volta che tiravo fuori quel discorso. Eppure ogni singola volta andavo a segno, ottenevo la sua completa attenzione e la vedevo rispondere sempre con una tale quantità di sarcasmo da farla apparire irreale. Come in quell’occasione.

Sicuro che il tuo ego riesca a stare in questo appartamento? Forse gli servono spazi più grandi”.

Colpito e affondato!

Di certo, di lei non passava inosservata la semplicità con cui riusciva portare ogni situazione a suo favore con delle semplici parole. Avrebbe dovuto fare lei la giornalista, non Simona: ne aveva la faccia tosta, la parlantina diretta e sincera, la capacità di non trovarsi mai in imbarazzo e a disagio.

E con la stessa tranquillità con cui mi aveva appena rimesso al mio posto, tornò a prestare attenzione al suo lavoro, perfettamente consapevole di come fosse riuscita nel suo intento di zittirmi. Tuttavia, non riuscii a trattenermi e scoppiai a ridere, perché quella situazione aveva un ché di assurdo, ma che ancora sfuggiva alla mia comprensione.

Mi alzai dal divano, avvicinandomi a lei e scorgendo alcuni suoi scatti – meravigliosi, come sempre – e mi fermai un momento ad osservarla attentamente, a notare come i suoi occhi si stringessero davanti ai particolari che solamente lei notava, davanti agli errori che credeva di aver commesso e di come, alcune volte, l’ombra di un sorriso le occupava le labbra se un’immagine riceveva la sua approvazione. Era maledettamente meticolosa in ciò che faceva e non lasciava mai nulla al caso, anzi, era addirittura disposta ad andarsene a letto all’alba pur di rendere perfetta un’immagine per la rivista; a volte era sfiancante vederla sempre davanti a quello schermo, nella sua camera oscura, chiusa in sé stessa perché il suo lavoro le occupava sempre più ore del giorno.

Sapevo che negli ultimi tempi aveva lavorato parecchio, aveva cominciato a farsi conoscere e, ormai, il suo nome era noto tra i corridoi della redazione della rivista per cui lavorava, ma si notava perfettamente anche la stanchezza che le si annidava nel volto, negli occhi assonnati ed arrossati per le troppe ore passate davanti ad uno schermo. Ma era talmente testarda che nemmeno con le forze sarei riuscito a convincerla a desistere e a prendersi un paio d’ore di pausa per riposarsi.

Lascia perdere per un momento il lavoro, Maya”, le dissi, poggiando le mani sulle sue spalle.

Non posso, Travis”, ribatté, lei, convinta. “Domani devo consegnare questi scatti e sono già in ritardo sulla tabella di marcia”.

Ma devi anche dormire, non credi?”.

Avrò abbastanza tempo per dormire quando sarò morta”, rispose, ridendo. “Ora devo finire questo stramaledetto incarico”.

Era irremovibile, come sempre, e sapevo che non avrei potuto dire nulla per farle cambiare idea. Ecco un chiaro esempio di quando, con la sua testardaggine, si dimostrava la persona più irritante sulla faccia della terra. Così presi una sedia dal tavolo della cucina e mi sistemai alle sue spalle che, seduta su quel minuscolo sgabello che utilizzava per la piccola scrivania del computer, se ne stava tutta curva sullo schermo. Mi avvicinai il più possibile a Maya, poi cominciai a massaggiarle lentamente le spalle, sapendo con quale facilità abbassasse ogni sua barriera davanti a tocchi del genere.

Non potevo dire di conoscerla alla perfezione, ma ero stato bravo ad osservare in quelle settimane, ed avevo capito le cose essenziali di lei, cosa potesse piacerle e cosa no. E dei massaggi simili, mentre era sul punto di addormentarsi, li accettava sempre molto volentieri.

Così non mi aiuti, però”, si lamentò, raddrizzando leggermente la schiena ed abbandonando per un attimo il computer, passandosi energicamente le mani sul viso.

Non puoi continuare così, e lo sai”, mormorai, attirando ancora di più il suo corpo al mio, facendole poggiare la schiena al mio petto. Era sul punto di cedere, me lo sentivo, ed avrei dovuto continuare per quella strada solamente per qualche altro momento e sarebbe stata fatta.

Non avrai il mio corpo in cambio, se è questo che credi”, disse poi, lei, quasi leggendomi nel pensiero. Anche se non ero del tutto convinto di ciò che volevo in quel momento.

Mi piaceva quella sensazione di tranquillità che cominciavo a sentire e quella situazione che si era andata a creare non mi dispiaceva affatto. Sembrava una cosa da tutti i giorni: io che tornavo dall’allenamento e trovavo lei al lavoro, stanca dopo una giornata intensa, io che le concedevo un momento di tranquillità e relax e tutto che finiva nel più scontato dei modi. Ma non era quello il caso, perché non eravamo una cosa da tutti i giorni, noi. Eravamo di passaggio, un lampo occasionale che avrebbe occupato le nostre vite per qualche altro tempo, poi sarebbe sparito ed i suoi ricordi li avremmo messe nel cassetto delle cazzate post adolescenza. “Vorrei solamente che rallentassi un momento, Maya, che ti prendessi i tuoi spazi perché si vede lontano un miglio quanto tu sia stanca”.

La sentii abbandonarsi completamente a me, mentre continuavo a passare le mani sulle sue spalle e sulle braccia, entrare quasi in fare rem e chiudere gli occhi, sospirando. “Devo solamente ricontrollare una decina di scatti e scegliere quelli migliori, poi avrò finito; non rendermi le cose più difficili, Travis”, mormorò, poggiando la testa sulla mia spalla, quasi mezza addormentata. Diceva di voler tanto finire di lavorare, eppure non sembrava avere alcuna intenzione di muovere un dito per impedirmi di corromperla in quel modo.

Le spostai i capelli da una parte, avendo così libero accesso alla parte del suo collo più vicina a me , e non attesi un attimo a chinarmi su di lei. “Puoi concederti qualche momento di pausa”, cercai di convincerla, per l’ennesima volta, facendo scorrere le labbra sulla sua pelle, scendendo piano fino alla porzione di pelle lasciata scoperta dalla maglietta che indossava. “Poi potrai tornare a lavorare”.

Maya poggiò le mani sulle mie ginocchia e, se avesse potuto, si sarebbe rannicchiata ancora di più a me, cercando di recepire alla perfezione ogni mio tocco. Sembrava ancora più piccola e minuta, in quel momento, e quasi scompariva.

Continuai per quella strada per non so quanto tempo, e lei si ostinava a non lasciarsi andare, a non voler dormire qualche istante per potersi riprendere. Apriva gli occhi, ogni tanto, giusto per cercare di restare sveglia e controllare che il suo computer fosse ancora davanti a lei. Poi, come se non bastasse, il mio cellulare cominciò a suonare all’improvviso, ancora dentro al borsone da allenamento dove lo avevo lasciato.

Sentii Maya sbuffare sonoramente, perché aveva capito all’istante quel momento di relax era appena giunto al termine, così si staccò da me dandomi la possibilità di alzarmi dalla sedia e correre a recuperare quell’aggeggio infernale che faceva sentire la sua presenza nei momenti meno opportuni. E, solamente quando lessi il nome che occupava il display, mi resi conto di come avrei voluto gettare il telefono fuori dalla finestra.

Mamma”, dissi, rispondendo, cercando di ignorare l’espressione divertita sul viso di Maya.

Ciao amore!”, esclamò, lei, quasi perforandomi un timpano. “Sarà possibile che debba farmi sentire sempre e solo io? Ricordi che hai una madre, vero?”.

Purtroppo sì, me ne ricordo”, ribattei, cadendo ancora una volta di peso sul divano. “Cosa vuoi?”.

Forse ero stato un po’ duro, troppo diretto – e anche Maya sembrava pensarla a quel modo, vista la sua espressione sorpresa -, ma ne avevo davvero abbastanza delle telefonate programmate di mia madre. Se proprio ci teneva a sentire la voce del figlio, ogni tanto, non avrebbe dovuto chiamare solamente una volta al mese, giusto in tempo per chiedermi altri soldi.

Non potei non domandarmi come avessi potuto cadere in un guaio simile.

Tesoro, ma che hai? Sei talmente scontroso, oggi”, continuò, con la sua voce sibillina e quel suo accento che, nonostante gli anni in Italia, sembrava non volerla abbandonare.

Sono solamente stanco”, risposi, esasperato. “Rispondi alla mia domanda, per favore, così potrò tornare a farmi gli affari miei”, continuai, lanciando un’occhiata a Maya che, nonostante il suo sguardo fosse rivolto ancora una volta allo schermo del computer, ascoltava attentamente la conversazione con mia madre.

Oh beh, volevo solamente ricordarti che domani passerò da te, sai”, cominciò, fingendosi imbarazzata. “Sai bene che non vorrei ridurmi a questo, ma mi trovo costretta ancora una volta a chiederti un piccolo aiuto; lo metterò in conto, tesoro, non ti preoccupare. Ti ridarò tutto, parola di mamma”.

 

“Tesoro, non ne ho idea”, esclama, la mia mamma, guardandomi negli occhi. Sono tanto diversi dai miei, quegli occhi, lei è tanto diversa da me.

“Ma io voglio che torni ora”, continuo, io, sempre più deciso. Non voglio passare un’altra serata solo con mamma, voglio il mio papà, voglio giocare al Capitano con lui. “Devi farlo tornare ora, mamma!”.

“Travis, non posso, mi hai capito?”, chiede, abbassandosi al mio livello, con le ginocchia poggiate a terra. “Non posso fare tornare papà adesso, è a lavorare, lo sai bene”.

“Ma io voglio giocare al Capitano”, continuo, pestando i piedi sul pavimento.

Siamo nella mia cameretta e tra poco si mangia, ma la mamma mi ha già detto che papà non riuscirà a tornare per cena. Probabilmente tornerà quando io sarò già a dormire, ma lo voglio aspettare, voglio vedere il mio papà. E voglio giocare al Capitano!

“Giocherai domani al Capitano, va bene? Domani papà sarà a casa dal lavoro e potrai giocare con lui quanto vorrai, parola di mamma!”, mi promette, con un sorriso. “Ma adesso devi smetterla di fare i capricci, Travis”, aggiunge, più severa di prima. Ma non mi fa paura, è la mia mamma e mi vuole bene, quindi non mi spaventa.

Poi si alza dal pavimento e va verso la cucina. Stava cucinando la cena, prima che arrivassi io quasi in lacrime. Sono già un ometto, io, e non posso piangere, ma voglio il mio papà. Voglio giocare con lui.

Saltò sul mio letto, accucciandomi vicino al cuscino e prendo il regalo che papà mi ha fatto qualche giorno fa. Era tanto che non lo vedevo e, quando è tornato dal suo ultimo viaggio, mi ha portato quella piccola ancora in miniatura che tengo sempre sul comodino vicino al letto.

È il regalo più bello che papà mi abbia fatto, è bellissima! Ed è mia, nemmeno la mamma può toccarla, solo io. Di notte mi fa compagnia, la metto sotto il cuscino e sembra quasi che il mio papà sia accanto a me a raccontarmi tutte quelle storie di marinai, mari e imprese eroiche.

Da grande voglio essere un pirata, e quando l’ho detto al mio papà è scoppiato a ridere. Mi prendeva in giro, e non mi è piaciuto. Ma poi mi ha detto che, qualunque cosa voglia fare, sono in grado di farla. Quindi, se lo dice il mio papà deve essere vero!

 

Parola di mamma. Le sembravo ancora il bambino che aveva tentato di crescere, probabilmente, perché era da quando avevo sette anni che non mi diceva così. E faceva male, soprattutto perché sembrava prendersi gioco di me.

Non mi interessa”, mormorai, massaggiandomi le tempie con la mano libera. “L’importante è che mi lasci in pace, mamma, non è il periodo adatto”.

Oh si, lo so”, esclamò, incrinando ulteriormente il mio povero timpano. “Eco perché vorrei chiederti qualche spicciolo in più, tesoro, così per un po’ ti lascio in pace. È un’idea formidabile, non trovi?”.

Formidabile. Aveva davvero una strana concezione della parola formidabile, ma non glielo feci notare, non ne avevo le forze. Volevo solamente che quella telefonata finisse, che mi lasciasse in pace e che sparisse dalla mia vita per un po’. Quella non era mia madre, non più.

La migliore che tu abbia avuto”, esclamai, trasudando sarcasmo da tutti i pori. Cosa che, da lei, non venne affatto recepita. “Sei davvero un genio, mamma”.

Fu il tono che usai ad attirare l’attenzione di Maya. Forse per l’esasperazione troppo evidente, forse per la mia espressione oppure per il sospiro che mi concessi prima che la donna dall’altra parte del telefono ricominciasse a parlare.

Oh tesoro, quanto sei gentile con la tua mamma”, replicò, lei, fingendosi commossa. Era rivoltante. “Allora ci vediamo domani al tuo appartamento, va bene? Non dimenticartene, te ne prego”.

Non mi diede nemmeno il tempo di replicare – nonostante non fosse in vena di farlo – che chiuse la chiamata all’istante, come per paura che potessi cambiare idea. E forse lo avrei fatto, se non fosse stato per il malsano desiderio di levarmela dai piedi, di smettere di dover ascoltare quella sua voce fastidiosa. Lo avrei fatto se ne avessi avuto la forza, se non mi fossi cacciato in un casino simile già tempo prima.

Poggiai la testa alla testiera del divano, chiudendo gli occhi e sospirando, quasi sconfitto da quella telefonata che mi aveva rovinato la giornata. Mi sentivo svuotato, stanco come non mai; nemmeno dopo uno dei più duri allenamenti mi ero ritrovato in quello stato.

Travis”.

Non me ne ero nemmeno reso conto, ma Maya si era alzata dal suo sgabello e mi stava di fronte, con un’espressione preoccupata. I capelli legati alla bell’e meglio, la t-shirt oversize, quei due oceani assonnati; era bella anche così, un po’ trasandata. Ed aveva mormorato il mio nome quasi con paura, come se fosse spaventata dalla mia reazione, come se fossi potuto scattare all’improvviso per la rabbia. Ma come potevo scattare con una come lei davanti agli occhi?

Tutto bene?”, mi chiese, avvicinandosi ancora di qualche passo, quasi raggiungendomi.

Che domande fai?”, le chiesi, sarcastico. “Non ti sembro un bambino a Natale?”.

Smettila di fare l’idiota, per una volta”.

Non sto facendo l’idiota, Maya”, ribattei, allungandomi verso di lei e afferrandole un fianco, così da riuscire a farla sedere a cavalcioni su di me. “Sto semplicemente evitando il problema”.

Beh, non dovresti”, continuò, Maya, incrociando le braccia al petto e lanciandomi un’occhiata saccente.

Senti da che pulpito arriva la predica”, risi, davanti alla sua ostinazione. Perché era assurdo che, proprio una come lei, mi venisse a dire che avrei dovuto risolvere i mie problemi, proprio lei che si privava di ore di sonno per poter terminare un incarico, proprio lei che se ne restava ore davanti al computer.

E la vidi trattenere un sorriso, nonostante sembrasse convinta a non lasciar perdere il mio umore diventato improvvisamente nero. Non si faceva distrarre dagli eventi, semplicemente questo, anche se a volte ero riuscita a darle la spinta giusta per lasciarsi andare. Ma non era quello il caso. “Si può sapere che ti prende?”.

Forse fu quel suo tono quasi sconfitto - neanche fosse lei la vittima delle assidue telefonate di mia madre -, oppure quei suoi occhi che sembravano non voler lasciare i miei o le sua mano che raggiunse la mia mascella e ne segnò il profilo, nel suo solito modo delicato che aveva. Non so cosa fosse stato, ma mi sentii cedere per la prima volta dopo anni, sentii tutte quelle barriere che avevo eretto nel corso degli anni incrinarsi davanti a me, per colpa di quella maledetta ragazza che non faceva altro che prendermi in contropiede e sorprendermi. E continuava a guardarmi come fossi un cucciolo impaurito, lei, e non sopportavo quella sensazione di impotenza che avvertivo quando i suoi occhi incontravano i miei, quando mi guardava in quel modo, quando si ostinava a percorrere le linee del mio viso con una lentezza incredibile, mandandomi al manicomio.

Il problema è mia madre, tutto qui”, cominciai, spostandole uno ciocca di capelli dal viso, sfuggita all’elastico della coda. “L’hai conosciuta, avrai capito com’è; non è semplice starle dietro, soprattutto se si fa viva una volta al mese con un taglio di capelli diverso, una nuova parte del suo corpo rifatta a puntino e la solita richiesta di soldi per mantenersi”.

La vidi strabuzzare gli occhi, incredula, e anche la sua mano si fermò dal percorso che aveva intrapreso sul mio viso; sicuramente non si aspettava una rivelazione simile, nonostante a molti potesse sembrare insignificante.

Non era insignificante, cazzo, era tutt’altro che semplice, soprattutto se la donna in questione aveva una considerazione pari a zero di suo figlio, se non per i soldi del proprio conto corrente o per la notorietà che ne derivava. Ed io ero stanco, mi ero rotto le palle già tempo prima, ma non avevo trovato il coraggio di fare il passo decisivo e darci un taglio per davvero, ponendo la parola fine a tutta quella storia.

Mantenersi?”, chiese, Maya, ancora incredula e con gli occhi fuori dalle orbite. Risaltavano ancora di più, quei suoi mari, con quell’espressione stupita.

Sì, Maya, ogni mese arriva alla mia porta con la sua migliore faccia da mendicante e riesce, sempre, ad estorcermi i soldi sufficienti affinché riesca a campare fino alla richiesta successiva. Ed io da perfetto coglione ci casco ogni volta!”, aggiunsi, incazzato con me stesso. E lo ero davvero, perché parlandone con lei mi rendevo conto di come non avessi un briciolo di spina dorsale, di forza per fermare tutto quello. “Le ho dato un brutto vizio, e adesso sembra non poterne più fare a meno. Vuole essere giovane come lo era anni fa, vuole tornare al fiore degli anni, a mie spese”.

La mano di Maya riprese il suo corso, più titubante rispetto a prima, ma cercò di non darlo a vedere. Non riuscivo a reggere i suoi occhi preoccupati e dispiaciuti, non volevo farle pena e non volevo la sua compassione, e mi pentii all’istante di averle rivelato un particolare simile della mia vita. Particolare che erano davvero in pochi a saperlo.

Non parlò per non so quanto tempo, lei, forse per metabolizzare la notizia, per cercare di capire come potersi muovere nei miei confronti, nervoso com’ero. E la capivo perché anche io, al suo posto, non avrei saputo cosa fare, cosa dire. Ma lei era sempre un passo avanti a me.

Resta comunque tua madre, ecco perché ci caschi ogni volta”, disse, infine, torturando il colletto della mia maglia. “Sarà anche un tipo strano, non lo nego, ma resta la donna che ti ha messo al mondo”.

Lo so, ma non è più la donna che mi ha cresciuto, da bambino”, continuai, imperterrito, studiando il disegno che occupava gran parte della t-shirt di Maya. Tutto pur di non incontrare il suo sguardo. “Non è più la mia mamma”, mormorai, infine, quasi non credendo alle mie orecchie per come mi ero esposto.

Intravidi il sorriso che cercò di nascondere Maya, non so per quale motivo. Non si era mossa, non aveva detto nulla, aveva semplicemente continuato a carezzarmi il viso, non sapendo esattamente cosa fare. Ma apprezzavo il suo silenzio, la calma con cui decideva le parole migliori da dire.

Da quanto va avanti così?”, domandò, poi, rompendo il silenzio che si era creato.

Da un paio d’anni, ma in questi ultimi mesi è diventata più insistente e, ogni mese, è lì a chiedere l’elemosina”, confessai, tornando a guardarla.

Sembrava concentrata a seguire il percorso delle sue dita, assorta nei suoi pensieri, ma sapevo bene che la sua attenzione era rivolta completamente su di me. Sembrava inerme, una bambina occupata a giocare. E forse proprio per quello mi lasciai andare ancora un po’, feci crollare un’altra barriera e ricominciai a parlare.

Quando è ritornata in Italia non era più lei, si faceva vedere una volta l’anno, se mi andava bene, e le bastavano cinque minuti per stancarsi di me, così se ne andava e tornava in California dal surfista che aveva deciso di seguire”, cominciai, concentrandomi su un ricciolo di Maya che le era sfuggito e non sui suoi occhi che continuavano a cercare i miei. “Se ne è andata, la prima volta, quando avevo undici anni ed è stato un colpo incredibile, per me, perché le volevo bene e si era sempre comportata da madre perfetta, con me, ma poi ha fatto crollare tutto con una semplicità disarmante. Sono rimasto con mio padre perché non avevo nessun altro, perché quella che credevo fosse la donna della mia vita aveva lasciato la sua famiglia per un ventenne conosciuto di straforo”.

Il tocco di Maya si era come intensificato, quasi volesse farmi sentire la sua vicinanza tramite le sue mani, e con l’altra mano aveva cominciato a giocare con i miei capelli, alla base della nuca. Sperava di calmarmi, lo avevo capito, sapeva che non era facile per me parlare così apertamente e quello era il suo modo per farmi capire che andava tutto bene. Io, invece, non riuscivo a trovare il coraggio di incontrare i suoi occhi, non ne avevo le forze. Avevo come la netta sensazione che non avrei trovato altro che compassione, nei suoi oceani, ed era l’ultima cosa che volevo vedere.

E tuo padre?”, chiese, in un soffio, insicura se pormi quella domanda o meno.

Mio padre è sempre stato perfetto, troppo signore per mostrarsi ferito dalla decisione che aveva preso Tanya, nonostante sapessi perfettamente quanto ne avesse sofferto”, dissi, cominciando a sentire la gola stringersi per la situazione in cui mi trovavo. Era un tasto ancora dolente, quello, nonostante fossero passati anni. Ma ancora ne soffrivo, ancora mi riusciva troppo difficile parlarne. “Faceva il marinaio, in uno quei vecchi vascelli che attraccano ai porti giusto per il gusto di far vedere al mondo come fossero belle le vecchie navi, e di rado era a casa, ma quando c’era esistevo solamente io, sai? Voleva recuperare il tempo perso”, continuai, avendo perso ogni freno ed ogni filtro possibile. Avevo cominciato ad essere sincero, finalmente, tanto valeva farlo fino in fondo. “Non so bene cosa sia stato a dare l’input a mia madre e a farla scappare, ma mio padre non aveva nulla da invidiare agli altri. Certo, non era la tipica bellezza che noti in mezzo alla folla, ma è sempre stata una persona meravigliosa, di quelle persone che ti fanno sorridere con la loro sola presenza…”.

Aspetta…”, mi interruppe, Maya, confusa. Ma io sapevo perfettamente dove voleva andare a parare e non ero pronto per quel momento, non lo ero affatto. “Era?”, mi chiese, infine, con la stessa insicurezza che l’aveva contraddistinta negli ultimi minuti.

Finalmente riuscii a guardarla negli occhi e non vidi altro che preoccupazione per la risposta che le stavo per dare. Certo, aveva chiesto conferma, ma sapeva perfettamente cosa avrei risposto, aveva solamente bisogno di sentirselo dire.

Si, era, Maya”, dissi, finalmente, con un sorriso amaro, mandando giù il groppo in gola.

Lo stupore nel viso di Maya diceva tutto, parlava da sé ed io continuai, evitando che potesse dire qualcosa, per paura che tutto potesse complicarsi ulteriormente. “Ha continuato a lavorare, qualche volta, dopo che mia madre se ne andò, ma non voleva lasciarmi a casa da solo per tutto quel tempo, così cominciò a lavorare sempre meno e ad essere sempre più stanco, poi… un giorno torno a casa da un allenamento e lo trovo steso a terra, incosciente, così chiamo un’ambulanza, vado insieme a lui in ospedale e, dopo due ore passare a fare avanti e indietro per la sala d’aspetto, mi vengono a dire che è sveglio, che voleva parlarmi, ma che non devo trattenermi per molto perché deve riposare. Avevo sedici anni, cazzo, come potevo non trattenermi? Dove sarei andato?”, esclamai, infine, ponendo quella domanda più a me stesso che a Maya che, come avevo previsto, aveva cominciato ad osservarmi con tristezza, e le sue mani si erano fermate, avevano fermato l’unica cosa che sembrava calmarmi. Si erano posate sulle mie spalle con pesantezza, come se quello non rappresentasse un peso solamente mio, ma anche suo. “Così raggiungo mio padre e ancora ricordo la moltitudine di macchinari che gli stavano attorno, che gli gettavano addosso una luce strana. Sembrava più vecchio di quindici anni, lui, in quel lettino da ospedale, mentre cercava di riposare e di respirare in modo adeguato. Alla fine, dopo aver girato attorno al discorso non so quante volte, mi venne a dire che era malato, gli avevano diagnosticato un cancro al quarto stadio all’intestino e che… era inoperabile, non c’era altro da fare che aspettare”.

Sospirai pesantemente, passandomi le mani sul viso, come per scacciare una stanchezza che in realtà non c’era. Era solamente la forza di ricordi che ancora facevano troppo male, ricordi che venivano rivangati dopo un tempo lunghissimo e che erano stati sepolti fino a quel momento per preservarmi, ma sentirsi così svuotato, così debole dopo aver detto solamente parte della storia era la cosa peggiore. “Certo, abbiamo provato con la chemio e siamo andati avanti per qualche tempo, ma la situazione non migliorava, anzi. Così cominciai a saltare sempre più allenamenti, a chiedere scusa a tuo padre per tutte quelle assenza, ma dovevo occuparmi di mio padre, di quello che avevo creduto fosse l’uomo più potente del mondo, del mio supereroe che tornava a casa la sera solamente per poter giocare con me. Ero diventato improvvisamente adulto, comportandomi come un adolescente non dovrebbe mai fare, ma non avevo altra scelta se non quella: andavo a scuola e correvo a casa per paura che potesse succedergli qualcosa”.

Rivangare nel passato non era mai stato tanto difficile, non aveva mai fatto tanto male, eppure continuavo ad andare avanti, continuavo a raccontare la mia storia a Maya che, quasi con le lacrime agli occhi, non faceva altro che fissarmi con apprensione. “Poi, un giorno, torno a casa in fretta e furia perché avevo sentito che ci sarebbe stato uno di quei vascelli poco lontano da casa mia: avevo già organizzato tutto, pensato ad ogni particolare, avrei preso un taxi sia all’andata che al ritorno perché non volevo affaticare mio padre, nonostante in quegli ultimi giorni si sentisse meglio. Ma quando tornai a casa lo trovai a letto, disteso, che respirava a malapena e non aspettai un attimo di più a chiamare l’ennesima ambulanza. Fu come un flashback, quello, a dir poco terribile”.

Cominciavo ad agitarmi, a non poterne davvero più di tutta quella storia e se avessi avuto la forza necessaria, probabilmente, me ne sarei andato seduta stante, ma il mio corpo non accennava alcun movimento, se non per le mani che avevano ricominciato a giocare con una ciocca dei capelli di Maya, come per distrarmi. Ma se fosse stato così facile, non mi sarei trovato in quella situazione. non accennavo a rivolgerle uno sguardo, quando lo avevo fatto mi ero sentito un perfetto idiota. “Così mi ritrovai sempre nella sala d’aspetto ad andare avanti e indietro, ma le ore da due erano diventate cinque e nessuno si era fatto vivo, nessuno mi aveva dato una minima informazione. Solamente quando fu sera inoltrata un dottore – non ricordo nemmeno che faccia avesse – mi venne a dire che avevano fatto ogni cosa possibile per mio padre, avevano provato a rianimarlo diverse, troppe volte, ma non c’era stato nulla da fare. Il cancro era troppo esteso e lui troppo debole; così a diciassette anni mi sono ritrovato senza una madre, occupata chissà dove con il suo stramaledetto surfista e senza un padre, l’unica vera persona che avesse sempre creduto in me, indipendentemente da quello che ero in grado di fare o meno”.

Maya non disse nulla, non fece nulla, sapeva che non avevo ancora finito e così preferì tacere piuttosto che interrompermi in un momento così delicato.

Mi ha sempre detto che qualunque cosa voglia fare, sono in grado di farla. Ha sempre creduto in me, ha sempre pensato che fossi invincibile, quando il supereroe tra i due era lui, ma nel momento in cui sarei dovuto essere presente, nel momento in cui avrei dovuto salvarlo non c’ero, non ci sono stato nel momento cruciale e mi odio per questo. Non faccio altro che odiarmi ogni mattina, quando mi guardo allo specchio, perché il senso di colpa è troppo grande, pesante e fa male”.

Ed era vero, cazzo se era vero! Ed era stato il tarlo che mi aveva distrutto il cervello nei dieci anni che erano passati, che mi aveva disgregato dall’interno facendomi sentire una nullità. Ed era quella consapevolezza a farmi sentire di merda, senza mezzi termini, perché sapevo di non aver fatto tutto il possibile per salvare l’unica persona che non mi avesse mai remato contro, che avesse sempre creduto in me e nelle mie potenzialità. E il rimorso più grande era quello di non aver avuto la possibilità di dimostrargli quanto il resto del mondo si fosse sbagliato sul mio conto, di renderlo fiero di me e di vedere ancora una volta quell’espressione felice che tanto caratterizzava il suo sguardo. La cosa che mi faceva incazzare maggiormente, poi, era il palese menefreghismo di mia madre, di quella maledetta donna che se ne era sempre lavata le mani, che aveva abbandonato la sua stessa famiglia per un ragazzino abbronzato della California, per una vita migliori e per migliori aspettative.

Travis, non… non devi dire queste cose, non è colpa tua”, mormorò lei, con fare rassicurante.

Come può non essere colpa mia, Maya!?”, esclamai, cercando il suo sguardo. E non lo avessi mai fatto, perché quelli erano due laghi pronti a straripare, ed era stranissimo vederla così scossa, non me la sarei mai immaginata. Ma era bellissima, come sempre. “Come posso non sentirmi in colpa davanti a tutto questo? È colpa mia, lo so, e sono stato un idiota a suo tempo quando credevo che tutto sarebbe andato bene. Ci credevo davvero, cazzo, anche se mia madre non c’era più. Avevo mio padre e lui aveva me, ma poi tutto è andato a puttane, tutto è andato perso”, continuai, quasi sull’orlo di un esaurimento nervoso, sull’orlo delle lacrime. E, dannazione, non potevo crederci perché quello non ero io, non mi riconoscevo più: avevo pianto due volte nella mia vita, e quella era una novità assurda, incredibile e spiacevole. “Come posso non incolpare me stesso per quello che è successo? Perché se l’avessi scoperto probabilmente non sarebbe successo e, ti prego, se hai la soluzione, dimmela e aiutami perché così non riesco ad andare avanti”.

Era diventato tutto insostenibile, tutto quanto, e non faceva altro che peggiorare e quella ne era la prova, perché cominciavo ad essere davvero stanco, spossato. Ed era quella sensazione alla bocca dello stomaco, il rimorso ed il senso di colpa a farmi dormire male la notte, a farmi stare male per una cosa su cui non avrei mai potuto avere potere, ma ero convinto che avrei potuto fare qualcosa, in qualche modo. Eppure avevo fallito miseramente.

Travis, non puoi fartene una colpa, tu non c’entri niente con quello che è successo a tuo padre, non avresti potuto fare nulla: presto o tardi sarebbe successo”, cercò di convincermi, lei, con decisione, prendendomi il viso tra le mani e costringendomi a guardarla. Non avevo scampo. “Non darti colpe che non hai”, aggiunse, con voce più dolce e rotta dall’emozione.

Non riuscirai a farmi cambiare idea, Maya, ci ha provato tuo padre per dieci anni e non ci è minimamente riuscito… e sai cosa mi fa incazzare? Che una persona come mio padre sia metri sottoterra, mentre una sanguisuga come mia madre, quella maledetta donna, invece sia ancora viva e vegeta e in perfetta forma”.

Lei rimase di sasso davanti alla mia affermazione e non me lo sarei aspettato nemmeno io, ma era la verità ed era quasi liberatorio dirlo ad alta voce. Avevo sperato per fin troppo tempo che mia madre cambiasse atteggiamento, che tornasse la donna che mi aveva cresciuto nei primi anni, ma più aspettavo e più mi rendevo conto di come fosse giunta ad un punto di non ritorno.

Parli così perché sei incazzato, adesso”, disse, assottigliando lo sguardo, senza però togliere le mani dal mio viso.

Si, sono incazzato, ma queste cose le penso davvero, Maya, e se sapessi anche solo una minima parte di ciò che ha fatto mia madre mi daresti ragione. E mio padre ti sarebbe piaciuto, non ho dubbi, lui piaceva a tutti”, aggiunsi, abbassando lo sguardo ancora una volta, ricominciando a guardare i disegni sulla maglia di lei, che ancora se ne stava appollaiata sulle mie gambe. “Non è nemmeno venuta al funerale, sai?”.

Quella, probabilmente, fu la cosa che mi fece più male perché, nonostante avessi cercato di mettermi in contatto con lei, non riuscì a farsi sentire. Così mi ero ritrovato da solo, il giorno del funerale, affiancato dalla mia vicina di casa, costretto a stringere la mano e ringraziare decine di sconosciuti che erano venuti per farmi le condoglianze. “Quando tornò in Italia mi disse che aveva avuto un contrattempo e che non era riuscita a prendere l’aereo in tempo, quattro anni dopo la morte di mio padre, Maya. Quattro anni passati da solo, senza sue notizie e senza sapere se anche lei fosse ancora viva o meno”.

Non sarà stata la madre perfetta, ma dire quelle parole è in ogni caso sbagliato, Travis, e non sto cercando di giustificarla, assolutamente: ha sbagliato su tutti i fronti; ma tu devi anche imparare a dimenticare e ad andare avanti. Se continui a convivere con questo peso non vivrai mai davvero”, aggiunse, infine, spostando le mani sui miei capelli e cominciando a giocarci. Era rilassante, il suo tocco, ogni volta che mi sfiorava era come se venissi percorso da scariche al tempo stesso piene di adrenalina, ma anche capaci di tranquillizzarmi.

Come faccio a passarci sopra?”, le chiesi, disperato, avvicinandola ancora di più a me. Avevo bisogno della sua vicinanza, avevo bisogno di lei come non mai. “Mio padre è stato l’unico che abbia creduto davvero in me, senza riserve, l’unico che sia riuscito a farmi sentire qualcuno”, continuai, poggiando la fronte sulla sua spalla.

Non devi dimenticare tuo padre, assolutamente, ma devi smetterla di incolparti per qualcosa che nessuno è in grado di controllare. Purtroppo succede e mi dispiace davvero che sia capitato a tuo padre, ma non puoi farci nulla, non più. E non avresti potuto nemmeno a suo tempo”.

Aveva ragione, lo sapevo perfettamente, ma continuavo ad incolparmi perché non riuscivo ancora ad accettare quella perdita, troppo grande da metabolizzare. Ci aveva provato anche Claudio, quel santo uomo che era addirittura venuto al funerale, dieci anni prima, ma non era riuscito nel suo intento e dubitavo fortemente che potesse riuscirci anche Maya. Ero certo solamente del fatto che avrei dovuto conviverci a vita.

Ma non ho potuto fare nulla per salvarlo; non ricordo nemmeno l’ultima cosa che ci siamo detti, non ricordo nulla”, mormorai, ormai al limite. Stavo per cedere e non volevo, non dovevo perché non sapevo se sarei stato in grado di fermarmi.

 

Oh, Starlight don't you cry
We're going to make it right before tomorrow
Oh, Starlight don't you cry
We're going to find a place where we belong
We're we belong
And so you know
You'll never shine alone
Starlight we'll find a place where we belong
We belong

Slash ft. Myles Kennedy - Starlight

 

Poi Maya mi attirò a sé, circondandomi le spalle con le braccia e stringendomi, e fu quasi istintivo rispondere a quell’abbraccio improvvisato. Istintivo e normale e, per un momento, fu come tornare a respirare regolarmente con il viso immerso nei suoi ricci. Continuò a stringermi, lei, come se fosse questione di vita o di morte ed io non avrei voluto cambiare nemmeno un singolo particolare di quel momento: sembrava perfetto, nonostante fosse ben lontano dalla perfezione. Sapeva che avevo bisogno di quello, di un contatto che mi riportasse alla realtà e che mi tenesse incatenato a me stesso, che mi impedisse di cedere.

E forse era proprio per quel motivo che, alla fine, l’ancora che mi aveva regalato mio padre a sette anni me l’ero tatuata, per avere un modo per restare ancorato a lui, ai ricordi più belli che avevo e agli errori che avevo commesso, all’occasione di salvarlo che mi ero lasciato scappare. Ma avevo come la strana sensazione che, in quel momento, la vera ancora che avevo a disposizione fosse tra le mie braccia.

Respira, Travis”, sussurrò, aumentando la presa e facendosi ancora più vicina. “Respira e smettila di pensarci, adesso”.

Fu quasi semplice dimenticarmi del mondo, in quel momento, di quello che avevo detto e pensato come se non ci fosse altro che quell’appartamento con noi due dentro. Semplice ed efficace, grazie a lei.

 

Maya’s POV

 

Ero rimasta tutta la notte davanti al computer per poter finire il lavoro da consegnare la mattina seguente e, neanche a dirlo, non avevo chiuso occhio. Quei maledetti scatti mi avevano portato via più tempo di quanto avessi immaginato e, a dirla tutta, non avevo fatto tutto questo gran lavoro: quella maledetta pallina da tennis mi sfuggiva prima che riuscissi ad inquadrarla. Sperai solamente che, andando avanti con il tempo, non mi venissero più commissionati servizi su quel dannatissimo sport. E mi sarei dovuta presentare in redazione, alla direttrice tanto per cambiare, in uno stato a dir poco orrendo, con le occhiaie ed i capelli ancora a dir poco scombinati dalla sera prima.

La sera prima… ancora a pensarci mi vengono i brividi.

Non avrei mai immaginato che Travis potesse aver passato un inferno simile, lui che mi è sempre sembrato sicuro si sé e con la coscienza a posto, ma avevo completamente sbagliato su di lui: mi aveva lasciata senza parole, a dir poco, soprattutto per la tragedia a cui aveva assistito quando era poco più che un ragazzino ed era stato brutto, angosciante ascoltare tutto il resoconto della sua vita, di come sua madre si fosse comportata letteralmente di merda, ma non ero riuscita a fermarlo. Volevo sapere di più, e non perché fossi avida di informazioni, ma perché per una volta volevo davvero capire per quale motivo Travis fosse diventato quello che era. Ed era stato anche peggio, probabilmente, vederlo incolpare sé stesso per la morte del padre, per qualcosa che ancora nessuno purtroppo riesce davvero a controllare, a fermare.

Non lo avevo mai visto, sentito così disperato, triste e così bisognoso di qualcuno che gli stesse accanto, e sapere che in quei dieci anni l’unica persona su cui riuscì a fare affidamento fu mio padre, non faceva altro che intristirmi ancora di più. Perché era solo, nonostante sembrasse l’amico di tutti, in palestra, l’atleta che tutti prendono da esempio, ma quella sera era stato solamente Travis, solamente un ragazzo che ancora soffriva per la morte dell’unica persona che lo avesse incoraggiato e spronato, prima che cominciasse davvero ad impegnarsi nel nuoto.

Mi aveva distrutta, quella rivelazione, in un certo senso, forse perché non ero per niente pronta a scoprire un particolare simile della sua vita, perché non me lo aspettavo affatto. E vederlo così indifeso mi aveva fatto sorgere mille dubbi, nella mia testa.

Non ricordo nemmeno quanto tempo passò prima che sciolse quell’abbraccio, tanto stretto da farmi mancare il fiato. Ma non avevo accennato a muovere un muscolo, capivo quanto ne avesse bisogno; così restai lì, con le costole strette dalle sue braccia, il respiro mozzato dalla sua forza e i brividi che sembravano essere passati dal suo corpo al mio. Poi si era distaccato da me lentamente, continuando ad osservare attentamente la prima maglia che ero riuscita ad indossare, quella con una miriade di disegni senza alcun senso; non aveva il coraggio di guardarmi in faccia, lo avevo capito sin da subito, e non ne capivo davvero il motivo, ma forse l’orgoglio maschile rappresentava n ostacolo troppo grande per essere superato così tranquillamente. Così continuai a giocare con i suoi capelli alla base della nuca, studiando tutte le emozioni che passarono sul suo viso, gli occhi assenti e l’espressione triste, e mi resi conto di provare una gran pena nei suoi confronti.

Poi finalmente trovò le forze di alzare gli occhi e di trovare i miei, e tentai inutilmente di sorridergli, di fargli capire che andava tutto bene in un certo senso, ma non sembrava vedermi davvero, lui. Sembrava perso, forse come il ragazzino di diciassette anni che si era occupato del padre malato di cancro e che lo aveva visto morire senza poter davvero fare qualcosa di utile.

Mi chiesi come potesse sembrare Travis, a quell’età, se i suoi occhi fossero stati già vispi e sfrontati già allora oppure se fossero diventati così con il passare degli anni.

Forse dovrei tornarmene a casa”, aveva mormorato, guardandomi negli occhi.

E non me la ero proprio sentita di lasciarlo andare in quello stato, perché si vedeva lontano un miglio quanto fosse ancora scosso da tutto quello che mi aveva detto, che aveva rivangato. Sarebbe stato come sbattere fuori di casa un cucciolo impaurito, e sarebbe stato meschino. Così nemmeno ci avevo pensato su quando, in risposta, gli dissi di restare. Mi era uscito naturale e, in un certo senso, non me ne ero pentita, perché sapevo che era la cosa giusta da fare.

Non era in grado di restare da solo, quella sera, e nonostante mi sembrasse una cosa davvero strana interpretare quella parte, di quella che arriva in salvo dopo una storia strappa lacrime, non avevo potuto fare altrimenti. E non era per fare del perbenismo, non era per mettermi in luce con Travis, era semplicemente perché ormai avevo imparato a conoscerlo e, in quello stato, non lo avevo mai visto e mi preoccupava.

Poi aveva cominciato a baciarmi con una disperazione tale da farmi venire la pelle d’oca sul tutto il corpo e fu come se lui se ne accorgesse, perché tornò a stringermi come aveva fatto poco prima e la miriade si sensazioni che provai quasi mi investirono come un treno in corsa. Era urgenza, quella, urgenza di smetterla di pensare a tutto quello che gli era passato, urgenza di trovare un appiglio a cui aggrapparsi per paura di sprofondare in un luogo che avrebbe spaventato chiunque. E lui ne era terrorizzato, aveva una tale paura del suo passato che fu palese anche a me, che lo conoscevo a malapena sotto molti aspetti. Era urgenza e necessita di sentire il suo corpo attaccato al mio, di sentirsi una sola persona, di sentire qualsiasi altra cosa che non fosse il dolore in cui aveva vissuto negli ultimi dieci anni; e faceva male anche a me, che ero rimasta solamente spettatrice per pochissimo tempo.

Neanche a dirlo che anche il più ingombrante degli indumenti sparì e, Travis ed io, finimmo come eravamo abituati a finire quando si presentata una situazione troppo difficile per essere affrontata. Finivamo a sotterrare i pensieri ed i dubbi tra le lenzuola, tra i cuscini, li scacciavamo via per paura che tornassero a tormentarci.

Molto bene, Maya”, disse la direttrice, facendomi tornare con la mente al presente, nel suo ufficio. “Te la sei cavata anche questa volta e sono felice di vedere quanto tu possa essere versatile”.

Ed io che pensavo di essere stata un disastro su tutti i fronti, in quell’incarico che mi aveva portato via più forze e sanità mentale di quanto avesse fatto il servizio a Doha. Ed era tutto dire.

Cerca di non rilassarti troppo, però, ho già in mente qualcosa che potrà pesare parecchio sul tuo curriculum e che ti renderà ancora più nota di quanto tu non sia già ora”, continuò, lei, lanciando un ultimo sguardo alle fotografie che aveva sparso per la scrivania. Il fatto che lei credesse che fossi nota in quell’ambiente mi rendeva nervosa perché, sì, avevo preso parte ad alcuni servizi ed articoli che erano andati molto bene e, il più delle volte, i miei scatti non erano affatto male, ma non credevo di essere arrivata tanto lontano e, soprattutto, di essermi già fatta un nome, se non negli uffici della rivista. “Abbiamo in mente un articolo sul compagno di squadra di Travis, Luca, per il prossimo numero. Alla fine, dopo i mondiali a Doha, ci sono arrivate alcune richieste per avere una storia su di lui e su come sia arrivato fino a quel punto dato che, in fin dei conti, resta ancora un po’ sconosciuto; così abbiamo pensato di accontentare quelle richieste e di puntare su di lui, giusto per un breve articolo per ora, ma le tue fotografie dovranno essere fondamentali”.

Non mi sembrava vero. Ero riuscita finalmente a distaccarmi dal nuoto – nonostante mi riuscisse molto più naturale immortalare quello sport –, a sentirmi quasi indipendente e lontana da quell’ambiente  e sentirmi dire che mi era stato commissionato un altro servizio del genere mi faceva venire la nausea. Soprattutto se il soggetto in questione era Luca, per cui non nutrivo una particolare simpatia. Mi sarei fatta andare bene addirittura un altro servizio fotografico a Travis e con Michele sarei stata la donna più felice sulla faccia del pianeta, ma con lui proprio no. “Posso sapere per quale motivo avete scelto proprio me?”, mi azzardai a chiedere, stringendo i pugni.

Perché, Maya, ti sai muovere bene con quello sport, perché conosci già il soggetto da quanto mi han detto e perché conosci anche l’ambiente a cui è legato”, rispose, lei, palesemente seccata. “Inoltre, comporterà un compenso niente male, soprattutto per essere una trasferta”.

Una trasferta?”, domandai confusa.

Sì; dato che i nostri lettori vogliono conoscere la storia di Luca, abbiamo deciso di ambientare il servizio fotografico in un luogo che potesse richiamare le sue origini, ecco perché tu andrai, insieme ad una piccola equipe e al nostro soggetto, in Puglia, nel paesello sul mare dove è cresciuto Luca”.

Mi sarebbe caduta a terra la mascella, probabilmente, se non fosse stata attaccata alla testa e non ci avrei visto nulla di sbagliato. Perché, davvero, quella notizia era tutt’altro che piacevole, oltre che inaspettata.

Avevo intravisto qualche volta Luca, in piscina, e lo avevo visto spesso e volentieri intento a pavoneggiarsi in giro e, quando Simona rallegrava tutti quanti della sua presenza, lo avevo visto interpretare la figura del marpione in un modo del tutto naturale, oltre che sfacciato. E Michele me ne aveva parlato, varie volte, ed avevo scoperto che era diventato anche di Travis, dopo i mondiali a Doha. Che si fosse montato la testa era palese, ormai, ma che si sentisse così padrone di sé stesso da permettersi distrazioni e comportamenti simili era assurdo. “In… in Puglia?”.

Ero terrorizzata, ed il fatto che saremmo stati in una cerchia ristretta a viaggiare non mi faceva stare per niente tranquilla. Avrebbe potuto comportarsi con me nello stesso modo con cui aveva fatto con Simona, lui, e non mi sarebbe andato affatto giù, soprattutto perché lo vedevo come il perfetto pallone gonfiato da rivista patinata e sapevo che, con quel servizio fotografico, non avrebbe fatto altro che montarsi ulteriormente la testa.

Si, Maya, hai capito bene. Luca è cresciuto in un paesino delizioso, davvero, a Torre dell’Orso ed è incredibile che, per i pochi abitanti che ha, proprio uno di loro si stia facendo strada a livello internazionale”, continuò, lei, guardandomi come se non capissi il colpo di fortuna che mi era capitato, ma se avesse saputo tutti i particolari, probabilmente, avrebbe capito lei, la verità su quella situazione. “Sarà una settimana emozionante, te lo posso assicurare, soprattutto perché lo vedo come una location molto interessante e caratteristica e spero che tu riesca a farti valere anche in questa occasione”.

Che fosse una notizia catastrofica, quella, lo avevo capito al volo, ma venire a sapere che avrei dovuto passare un’intera settimana dispersa chissà dove con un soggetto come quello che ero costretta a fotografare era davvero troppo. E la consapevolezza di non poter far nulla per risparmiarmi qualcosa, di quella specie di punizione, era la notizia peggiore, perché avrei tanto voluto scappare da quel posto e da quell’incarico che incombeva come un’ombra sulle mie spalle. Una settimana con il provolone per eccellenza. Poteva anche essere paradisiaco, il luogo in cui saremmo dovuti andare, che non mi sarebbe importato gran ché, era la compagnia a lasciare davvero a desiderare.

Fu come rivivere un flashback, come quando venni a sapere della trasferta a Doha e mi resi conto di come le cose fossero cambiate, da quel momento, perché adesso riuscivo a sopportare la presenza di Travis quasi senza problemi, Simona me la sarei fatta andare bene in ogni caso, avrei evitato di ascoltare i suoi discorsi vuoti e di considerarla, ma la tenacia e la testardaggine di Luca mi spaventavano. Soprattutto quando si trattava di donne.

E quando dovrei partire, esattamente?”, domandai, cercando di regolare la mia voce che continuava a tremare.

Tra dieci giorni, così avrai tutto il tempo necessario per prepararti”, rispose, secca, lei, controllando qualcosa al computer. Fu come se non esistessi, in quella stanza, con quella donna glaciale che si faceva gli affari suoi e mi rispondeva a stento. Certo, era dannatamente brava nel suo lavoro, ma aveva una capacità di relazionarsi amichevolmente con gli altri pari a zero. “E quando uscirai da questo ufficio, fermati nella hall a ritirare tutta l’attrezzatura che ti ho assegnato per l’incarico. Portala a casa e fai alcune prove, giusto per tenerti in allenamento”.

Aveva già pensato a tutto e sapeva che non avrei potuto dire di no a quell’opportunità che mi stava proponendo su un piatto d’argento, sapeva che non avrei avuto il coraggio perché capiva quanto tenessi alla mia carriera e al mio lavoro. Così me ne andai a testa bassa da quel posto che cominciavo a detestare, per tutte le botte nei denti che continuava riservarmi. Ancora non capivo se fossero più le delusioni o le gratificazioni che mi regalava.

Ritirai i borsoni con l’attrezzatura che mi era stata assegnata e me ne tornai a casa senza dire una parola, ero troppo scioccata per poter anche solo parlare. Improvvisamente, la voglia di passare una serata carina, diversa dalle altre, mi era improvvisamente passata, sotterrata chissà quanti metri sottoterra. E il ricordo di ciò che aveva detto Travis non aiutava affatto, l’idea che lui dovesse andarsene in giro con Simona per chissà quale articolo era a dir poco assurda, oltre che fastidiosa. E non poteva essere fastidiosa, quell’idea, dannazione! Perché avrebbe implicato un qualche tipo di legame che, ovviamente, non esisteva affatto, ma forse era stata la sera precedente a cambiare le carte in tavola.

No, non cambiava nulla! Eravamo abbastanza grandi per decidere di divertirci come più ci piaceva e quello era il risultato; che poi la sera prima fosse degenerata in qualcosa di inaspettato, era assolutamente superfluo.

Mi ero ritrovata a casa, per il resto della giornata, a provare l’attrezzatura, a mangiarmi le mani per colpa del nervosismo che si ostinava a non lasciarmi andare e a chiedermi, verso sera, come stesse procedendo la cena tra Simona e Travis. E mi sarei presa a schiaffi nel momento stesso in cui mi resi conto di come la mia mente finisse a pensare certe cose con una semplicità disarmante, perché non mi doveva importare affatto, dovevo fregarmene come lui faceva con me, la maggior parte delle volte.

Però non riuscivo a smettere di pensare a quello che era successo la sera prima, quando lui aveva finalmente deciso di aprirsi con me. Non che ne fossi particolarmente contenta, ma avevo capito che gli aveva fatto bene in un certo senso, nonostante non dovesse essere stato facile rivangare in quel modo un passato simile. E mi era sentita una privilegiata, più o meno, perché non poteva raccontare una storia del genere al primo che gli passava accanto, no? Insomma, per quanto potesse essere strano quel nostro rapporto, quello era stato un gran passo avanti, la dimostrazione che oltre al sesso non più tanto occasionale e le discussioni, eravamo in grado anche di resistere ad argomenti seri e, soprattutto, se uno aveva un problema l’altro era lì pronto ad ascoltarlo. Più o meno.

Era successo tutto così improvvisamente, dal nulla, che nemmeno io sapevo più cosa pensare e la testa cominciava a farmi male, per i troppi dubbi che erano nati in quelle ultime ventiquattro ore.

Mi chiusi nella mia camera oscura per non so quanto tempo, sperando di riuscire a prendere sonno grazie al buio pesto e alla tranquillità di quella stanza, nonostante fossi seduta per terra, con la schiena contro la porta. Ma la mia mente non ne voleva sapere di lasciarmi stare, di placarsi per potermi dare un attimo di tregua e, se nemmeno quella stanza in particolare riusciva a darmi pace, dovevo davvero essere messa male.

Ma non potevo, non potevo davvero, perché avrebbe significato troppe cose che mi spaventavano in un modo incredibile.

Solamente dopo che riuscii a decidermi ad uscire di lì mi resi conto che era quasi notte fonda, troppo tardi perché potesse esserci qualcosa di decente in tv o perché potessi mettermi a leggere qualcosa; così presi uno dei dischi della mia “collezione” e misi su un po’ di musica, sperando che potesse calmarmi. Insomma, se nemmeno del buon jazz riusciva a placare l’oceano in tempesta che era diventato la mia mente avrei dovuto preoccuparmi seriamente.

 

Il giorno dopo mi ero risvegliata uno straccio. Ancora una volta, e non ne potevo davvero più di quella catena che sembrava non avere fine; sembravo un’anima in pena che girovagava per il proprio appartamento senza un fine vero e proprio e nemmeno la massiccia dose di caffeina che decisi di concedermi mi aiutò a darmi una sonora svegliata.

Ero rimasta per tutta la sera precedente sdraiata sul letto ad arrovellarmi cervello e fegato, in una sorta di battaglia bipolare della mia mente che, a seconda dei momenti, si dava addosso con pensieri e punti di vista differenti. Ero patetica, fine della storia.

Quel giorno, poi, sarei dovuta andare alla piscina per avvisare mio padre delle novità, ma la prospettiva di incontrare Luca e, quindi, finire a parlare della settimana che avremmo passato insieme in Puglia oppure Travis, mi faceva venire il voltastomaco. Però mi sembrava davvero assurdo e stupido riferire tutto a Claudio con una semplice telefonata. Così, anche di prima mattina, mi ritrovai a combattere contro me stessa in una battaglia che avevo già perso in partenza.

Misi su altra musica, rock ‘n roll anni cinquanta per riuscire a smuovere un po’ l’ammasso di tristezza ed occhiaie che ero diventata, ma sembrava non esserci nulla da fare. E, in un momento di incredibile noia, durante il tardo pomeriggio mi ritrovai a telefonare a Travis, quasi senza rendermene conto.

Ma che cazzo sto facendo!?

Ehi”, rispose, dopo alcune squilli, lui. E avrei tanto voluto che non lo facesse, perché ero una codarda senza precedenti, la persona che avrebbe immediatamente chiuso quella dannatissima telefonata se non fosse passata per una perfetta idiota.

Silenzio. Mi sentivo bloccata da chissà quale sensazione, imbambolata com’ero seduta sul divano, non sapevo che dire.

Maya, tutto bene?”, chiese, poi, dopo altri istanti passati in assoluto mutismo.

Sì, cioè… credo di sì”, biascicai, in risposta. “In realtà non lo so”.

Mi fa piacere sentirti sempre così decisa”, rise, prendendomi in giro, l’idiota. Perché era un idiota fatto e finito se credeva di abbindolarmi con le sue frasi ad effetto, perché se davvero pensava che mi sarei lasciata distrarre da quattro parole incastrate alla perfezione si sbagliava di grosso.

Allora”, cominciai, animata da chissà quale coraggio. “Deduco che dall’allegria della tua voce la cena di ieri sera sia stata un successone”.

Mi sarei voluta scavare la fossa con le mie mani, dopo quelle parole, perché mi erano uscite di getto e senza che ci potessi pensare su. Ed ero una stupida, una vera stupida, perché sapevo che comportandomi in quel modo non avrei risolto assolutamente nulla, non avrei fatto passare i mille dubbi che continuavano ad affollarmi la mente e, di certo, non avrei fatto passare le ondate di rabbia e nervosismo che mi investivano ogni volta che tornavo a pensare alla serata precedente, quando io vagavo senza motivo per il mio appartamento, mentre lui se ne stava bello in tiro in un ristorante con Riccioli d’Oro. E sentivo di non dover provare tutte quelle emozioni, quel misto di sensazioni che mi mandava il sangue alla testa, perché avevo la netta sensazione che non avrebbero portato nulla di buono, nulla di concreto, nulla che avrebbe potuto soddisfarmi davvero.

Ieri sera?”, domandò, il finto tonto, come se fosse davvero sorpreso dalla mia domanda. “Ah sì, beh non è stato niente male; la cena un po’ banale, ma… diciamo che poi la situazione è migliorata nettamente”.

Era uno stronzo.

Ed io avevo avuto la conferma di come avessi sbagliato a riporre in lui anche solo un briciolo di speranza, quella che era nata quando avevo rimuginato per ore sul fatto che lui avesse raccontato del suo passato, di come avesse sofferto. Ma più di tutto era stato il suo comportamento a destabilizzarmi completamente, ad annientarmi, perché mi era sembrato davvero sconfitto, quella sera, davvero distrutto e si era lasciato abbracciare da me come mai aveva fatto, come se avesse davvero bisogno di quel contatto.

Ma mi ero sbagliata, completamente, perché era tale e quale a Luca, lui. Se non peggio, perché almeno l’altro lo faceva solamente per un puro piacere fisico, mentre lui aveva messo in gioco troppo ed aveva lasciato che, spesso e volentieri, io giocassi le mie carte, perdendo troppo di me stessa.

Non avevo dubbi, sai”, sputai, inviperita. Forse più con me stessa che con lui, perché alla fine non aveva fatto nulla di male, lui, ad andarci a letto, con Simona. Ce lo eravamo ripetuto non so quante volte che, tra noi, non c’era alcun legame, alcun vincolo. Avevamo deciso di restare come sospesi nell’aria, senza doverci dare una vera e propria definizione, per puro divertimento. E mi faceva davvero incazzare la rabbia che sembrava volermi divorare viva, perché non avevo il diritto di provarla e perché era sbagliato. “Almeno, prima di tornare da me la prossima volta, va in ospedale a fare qualche test. Sai, non vorrei dovermi beccare una qualche malattia venerea”.

E non sapevo più cosa stavo dicendo, cosa stavo pensando. Ero completamente andata, fottuta da quella sensazione terribile che mi faceva tremare le mani.

Certo che no ti smentisci mai, tu”, ribatté, la voce innervosita dal mio comportamento.

E lo sarei stata anche io, cazzo, perché mi stavo comportando come una bambina, quando mi ero sempre ripromessa di cercare di non cadere troppo in basso, di non lasciarmi coinvolgere dagli eventi ed avevo sbagliato su tutti i fronti.

Almeno, per quanto riguarda la finezza, da una come Simona potresti imparare davvero tanto, sai?”.

Quello era davvero troppo perché, se io avevo sbagliato senza rendermene conto, lui stava davvero esagerando venendomi a dire quelle cose. Perché sapeva quanto non sopportassi quella ragazza ed i suoi atteggiamenti da prima donna, come se fosse lei l’unica al mondo. Lei non era nessuno e neppure Travis, tanto per cambiare, per venire a dirmi cose del genere.

Penso che una come lei sia ferrata su argomenti tutt’altro che fini, se vogliamo dirla tutta”, continuai, cominciando a camminare avanti e indietro per il salotto come una forsennata. “E comunque non ti ho chiamata per parlare di quella… di lei; volevo avvisarti che nei prossimi giorni non sarò molto presente: tra nove giorni devo partire per una trasferta in Puglia con il tuo caro amico Luca”.

Silenzio. Ancora una volta, ma almeno in quell’occasione non ero io ad essere rimasta senza parole. E fu quasi una sorta di rivincita sentire come, con una notizia del genere, fossi riuscita a zittire quel pallone gonfiato che era in realtà Travis. Per una volta era rimasto senza parole, senza le sue solite frecciate con cui controbattere.

Una trasferta? Con Luca?”, domandò, poi, incerto, con la voce che mi risuonò quasi disgustata quando pronunciò il nome del suo compagno di squadra.

Le ore sott’acqua ti hanno rovinato l’udito oppure hai fatto urlare Simona troppo a lungo?”, gli chiesi, ironica. Nonostante in me, di ironico, in quel momento ci fosse davvero molto poco. “Sì, la rivista vuole un servizio su Luca e lo vogliono ambientare da dove è partito, quindi nel suo paese d’origine ed ecco perché per una settimana me ne andrò in Puglia con lui e qualche membro dello staff”.

Lasciai perdere il fatto che, la permanenza in luogo completamente sconosciuto, con uno come Luca mi spaventava a dir poco, non meritava di saperlo ed io non volevo assolutamente mostrarmi più debole di quanto già non mi sentissi. Lasciai perdere il fatto che mi spaventasse quell’incarico in sé, perché improvvisamente mi sentii una perfetta incapace pronta ad alzare bandiera bianca.

Ti sento parecchio entusiasta”, mormorò, lui. E non seppi come interpretare quel suo tono di voce, se sconfitto oppure infastidito, ma mi imposi di non pensarci troppo su perché avevo ben altro a cui pensare e, quella facciata da stronza che avevo ritirato su, doveva restare in bella mostra. Almeno per il tempo di quella telefonata.

Certo, cosa credi?”, cominciai, passandomi una mano tra i capelli. “Un’opportunità del genere non me la lascio scappare e poi avrò la possibilità di visitare la Puglia, e per fortuna che ci sarà uno come Luca che, almeno, mi farà da guida”.

Attenta che il suo itinerario non finisca in qualche letto”, sputò, lui, decisamente più infastidito di quanto non fosse già prima.

E anche se fosse?”, azzardai.

Avevo paura della sua reazione, in un certo senso, perché sapevo quanto si potesse scaldare alcune volte, soprattutto se si cominciava a parlare dell’altro ragazzo che, tanto per cambiare, non sopportava.

Sei libera di fare e di farti chi cazzo ti pare, Maya, esattamente come lo sono io, ma almeno a me questo particolare mi è sempre stato ben chiaro in mente”, disse, infine, con voce piatta. E fu come una stilettata allo stomaco, quel suo tono indifferente, menefreghista; ed ebbi ancora una volta la conferma di come mi fossi sbagliata sul suo conto, perché stava tornando fuori lo stesso Travis dei primi tempi in cui lo avevo conosciuto, lo stronzo che se ne frega altamente degli altri e cammina pestando tutto ciò che trova sul suo cammino. Avrei dovuto saperlo, ma avevo sperato che fosse una persona diversa ed avevo preso un abbaglio colossale.

Lo è anche per me, idiota, infatti cercherò di vivermi ogni momento di quest’esperienza”, ribattei, sentendomi velenosa come non mai. “Vorrai scusarmi, ma ora ho altro da fare piuttosto che continuare a discutere con te al telefono”.

Sia mai che sprechi minuti preziosi a parlare con uno stupido come me, mi sentirei troppo in colpa”, rispose, Travis, con una risata ironica prima di riattaccare il telefono, lasciandomi un attimo interdetta.

Aveva avuto anche il coraggio di privarmi di quel privilegio, di poter porre fine a quella malsana conversazione che avevamo appena avuto. Che poi, quando mai noi siamo riusciti a parlare in modo civile, come due persone normali? Mai, ecco quando e quella era solamente un’altra occasione che andava ad ammucchiarsi al resto.

E mi sentii improvvisamente svuotata, senza forze e priva della benché minima briciola di intelligenza, perché mi ero appena comportata come una perfetta e completa idiota, io che avevo sempre cercato di essere sempre giusta, sincera. Avevo appena dato un immenso calcio nel culo a tutti quelli che erano stati i miei principi, e per cosa poi!? Per non sentirmi inferiore a Travis che, come sempre, riusciva a superare ogni sua situazione, poco importava come ne uscivano quelli che cercavano di combattere contro di lui. Per non sentirmi una bambina a mostrarmi indifesa ed impaurita per una cosa che non avrebbe dovuto spaventarmi affatto, ma che avrebbe dovuto farmi crescere solamente la voglia di combattere per far vedere al mondo intero chi sono e cosa valgo.

E non potevo davvero scoppiare a piangere, non in quel momento e non dopo quello che era successo. Nemmeno una singola lacrima sarebbe dovuta crollarmi dagli occhi, altrimenti quella a crollare sarei stata io, poi. E non potevo permetterlo, non a pochi giorni da un’impresa che mi sembrava a dir poco titanica.

Doha, in confronto, era niente!

Fu quasi istintivo alzare il volume del giradischi e chiudermi nella mia camera oscura. Istintivo ed assurdo perché, fondamentalmente, non aveva alcun senso quel mio comportamento, ma avevo bisogno di un attimo di pace, di momento di calma e tranquillità che non mi sembrava di scorgere da alcuna parte, solo nella quotidianità che pareva farsi sempre più lontana, divertita dal fatto che la avessi praticamente appena mandata a puttane senza alcun ripensamento.

*****

Buonasera, bellezze!
Incredibile, ma vero.. questa volta sono riuscita a non ridurmi all'ultimo a pubblicare e - momento epico - non vi ho fatto aspettare più di un mese per il seguito. Mi sento un po' più fiera di me..
Allora, allora: capitolo pesantuccio, questo! Oltre che lunghissimo come gli ultimi (se non di più) lo reputo pesante per ciò che tratta, soprattutto nel POV di Travis, ma era ora che il suo passato venisse fuori e.. TA DAAN! Ecco il significato del tatuaggio!
E' davvero molto importante, per lui, e spero di aver fatto trasparire questo particolare perchè, a questo momento della storia, tengo davvero tantissimo. E spero davvero con tutta me stessa di averlo descritto al meglio.
Poi.. dolcezze, novità, disastri (tanto per cambiare). Un capitolo bello denso di eventi!
Che ne pensate, voi? Vi prego, fatemi sapere qualsiasi cosa, dal semplice commento alla recensione infinita. Mi sembra di essere una bambina a Natale ed ho bisogno di sapere se, almeno per questa volta, ho fatto un buon lavoro!

PICCOLA, GRANDE NOVITA'..
Dato che mi è stato chiesto, ed ammetto che già da tempo ci stavo pensando su, ho creato un gruppo chiuso su Facebook per chi volesse rimanere aggiornato su come procedono i vari capitoli, su novità, qualche spoiler, i volti dei nostri personaggi.. insomma, tutto! Lo vedo molto come un buon mezzo per tenermi in contatto con voi!

Mi trovate qui: Born to Run. Mi raccomando, entrate così avrò la possibilità di conoscervi meglio e di lasciarmi conoscere!

Detto questo, voglio ringraziare tutte voi come sempre! Chi lascia recensioni, chi si limita a mettere la mia storia tra le proprie seguite/preferite e chi legge soltanto! Grazie davvero perchè, probabilmente, andrei avanti davvero a fatica senza di voi!
Alla prossima, un abbraccio,
Chiara

p.s: Poi arriverà il momento in cui vi spiegherò il motivo del nome del gruppo! :)
  
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