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Autore: Dusky Doll    30/06/2015    3 recensioni
Questa è la storia di Astreya, una giovane donna dal carattere forte e dal cipiglio severo, nata in un mondo corrotto, un mondo dove bisogna crescere in fretta. Il suo mistero si cela dietro i suoi capelli neri e i suoi occhi indagatori, un segreto talmente intrigante da aver attratto le mire della casta militare e di un soldato oltremodo speciale. Ma è tutto oro ciò che luccica? E cosa deciderà Astreya: si venderà all' Esercito o deciderà di combattere da sola la sua battaglia, come un lupo solitario?
NdA: Storia illustrata... da me:) Spero vi piaccia!
Genere: Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 1

Era autunno. Il sole stava tramontando all’orizzonte infuocando il cielo e imbrunendo la vallata. Colsi gli ultimi fiori dal giardino e ritornai sui miei passi, tenendo la lunga veste sollevata. L’aria era ancora calda, ma una lieve brezza serale cominciava a soffiare sulla pelle ardente delle Custodi che come me affollavano il Tempio. Salii rapidamente gli scalini e varcai l’imponente arco. All’interno la polla d’acqua purificatrice scintillava e si increspava leggermente al tocco delicato del vento. Aspettai le altre Custodi e poi adagiammo i fiori sul pelo dell’acqua. Ci sedemmo in cerchio osservando il placido scorrere della vita mescolarsi con il misterioso galleggiare e affogare delle primizie colte. E quando anche l’ultimo petalo fu inghiottito dall’acqua, rompemmo il silenzio e ci dirigemmo a mani giunte verso le nostre celle. Le mie compagne indossavano il loro solito sorriso calmo e meditabondo e camminavano leggiadre come farfalle, mentre io avanzavo spedita senza alcuna espressione, nemmeno il benché minimo segno di vita sul volto. Qualcuna delle mie Sorelle, quando giunse di fronte alla sua stanza, mi salutò docilmente, qualche altra mi ignorò, finché non rimanemmo soltanto io e Aracne, la più anziana del gruppo, entrambe immobili nel mezzo del corridoio. Aracne mi fece un cenno con il capo, mantenendo la sua espressione serena, e assieme ci dirigemmo, attraverso il chiostro, alle sale che conducevano alle cripte.
-Come ti senti, Aracne? – le domandai quando fummo inghiottite dall’oscurità della Terra. Flebili luci danzavano pigre aggrappate alle lanterne.
- Sono ancora indolenzita, ma la colpa è soltanto della mia salute cagionevole-, disse, massaggiandosi la base del naso. Nonostante i suoi trent’anni e la sua salute precaria, Aracne era una delle donne più belle e abili che avessi mai conosciuto. Era Maestra delle Tele, un’arte che nemmeno io, cresciuta in quel luogo, conoscevo fino in fondo. I suoi occhi blu elettrico erano profondi e misteriosi come il potere che albergava nelle sue abili dita. Era stata creata per questo, lo sapevamo tutte, ma ogni volta non potevamo fare a meno di stupirci.
-E tu come stai, Astreya? -, mi domandò di rimando, gentile. Sorrisi flebilmente, il volto ricoperto da un sottile strato di sudore che lentamente mi scivolava negli occhi.
-Combatto la mia battaglia, come sempre-, ribattei e lei mi pose delicatamente una mano sulla spalla.
-Un giorno le tue sofferenze verranno ripagate e riceverai in dono il potere più glorioso di tutti-
Le sorrisi con più convinzione, nonostante i miei innumerevoli dubbi. Giungemmo alla sala d’aspetto e lì ci inginocchiammo sulle panche in pietra attendendo con altre venti Custodi il nostro turno. Era proibito parlare, perciò gli unici rumori che si udivano erano le urla lontane delle pazienti e il ticchettio dell’acqua che picchiettava il pavimento. A prima vista quello sembrava un luogo di torture e sevizie, ma in realtà si trattava banalmente di stanze di Cura. Erano, cioè, piccole celle dove i medici del Tempio ci iniettavano dei farmaci in grado di sviluppare quelle capacità peculiari e uniche che albergavano in noi fin dalla nascita. Era un modo come un altro per sbloccare i nostri talenti, allenarli, domarli e poi utilizzarli per gli scopi del Tempio. Era un onore essere iniziate alla magia, un privilegio che veniva consentito a poche e dotate persone. Mi ero sentita bene la prima volta che mi ero inginocchiata sulla panca in attesa del mio turno, certa di essere speciale e curiosa di scoprire cosa il Tempio avesse visto in me. E solo dopo aver realizzato quale fosse il mio talento, capii il grave errore che avevo commesso nel lasciarmi trasportare in fondo a quell’abisso. Ma ormai era troppo tardi, e la brama di avvicinarmi sempre più alla potenza di una Divinità aveva fatto il resto. Un medico alto e con un lungo naso curvo chiamò il mio nome e io, come al solito, mi alzai e mi diressi nella stanza che mi indicava. Dentro mi attendevano la solita poltrona e il solito ago appuntito. Mi sedetti e attesi che il medico mi desse nuove istruzioni.
-Mi chiamo Iatro e sarò il tuo nuovo medico, come ben sai. Ora che il tuo potere sta crescendo e si sta espandendo, la Sacerdotessa ha ritenuto opportuno affidarti a me. Sono il Guaritore del Tempio-, disse. Sobbalzai sulla poltrona. Il Guaritore del Tempio solitamente compariva soltanto quando qualche fedele giungeva al cospetto della Sacerdotessa posseduto, ferito a morte, straparlante o in preda a qualche malattia sconosciuta, ma mai per trattare una Custode. In più in pubblico il suo ruolo gli imponeva di indossare una maschera e una veste nera, cosicché nessuno del mio misero rango aveva mai avuto fin a quel momento l’onore di conoscere il suo volto e la sua identità. Ora con indosso solo un saio e un paio di sandali, pareva un uomo normale. Mi inchinai doverosamente e lo salutai con reverenza, ma lui mi fece subito sollevare e con un gesto deciso mi respinse sulla poltrona.
- Lasciamo i convenevoli per la prossima volta-, disse. Annuii distrattamente e sollevai la manica destra della veste. L’uomo osservò il colore bluastro dell’incavo del gomito, dove da anni mi iniettavano i farmaci. Scosse la testa mestamente e si voltò per preparare la siringa. Lo osservai mentre abilmente armeggiava con gli strumenti e con quale concentrazione si preparava. Infilò i guanti dopo essersi preventivamente lavato le mani, poi espulse l’aria dalla siringa e si avvicinò a me. Sistemò il laccio emostatico così da evidenziare le vene più facilmente e poi con un rapido gesto mi iniettò il liquido nel sangue. Immediatamente percepii il forte bruciore e la sensazione di rabbia che solitamente mi invadevano, poi sopraggiunse il dolore cieco e il pizzicore al cranio. Lottai contro il desiderio di strapparmi i capelli e l’insana voglia di attaccare Iatro.
-Bene così, bene così…- mormorò lui, mentre mi legava mani e piedi alla poltrona. Strinse le cinghie all’inverosimile, quasi temendo che potessi scappare o fare del male a qualcuno. Non lo avevano mai fatto con me e inizialmente pensai si trattasse di una precauzione. Solo quando vidi una nuova siringa infilzarmi la pelle, capii. Il liquido che mi scivolò denso fra le vene mi costrinse a una visione caleidoscopica e oblunga in cui colori e forme si accavallavano impazzite. Cominciai a gridare, desiderando strapparmi gli occhi. Strillai disperata cercando di liberarmi, ma Iatro non faceva caso a me e al contrario annotava paziente le mie reazioni. Mi ripresi dallo stato di shock solamente dopo circa dieci minuti di totale agonia e perdita di me, per ritrovarmi stremata e aggrappata con le unghie alla poltrona. Ansimavo e sudavo freddo. La vista non era migliorata e al contrario avevo cominciato a vedere delle strane ombre longilinee ondeggiarmi attorno come giunchi al vento. Mi bruciavano gli occhi e avevo le pupille dilatate.
-Cosa vedi? -, mi domandò Iatro con una voce distorta e squillante. Deglutii un paio di volte e sbattei le palpebre guardandomi attorno.
-Ombre-, biascicai.
Iatro annotò anche questo fatto, annuendo. Sembrava che avessi soddisfatto le sue aspettative perché un largo sorriso gli si dipinse sul volto. Per un minuto mi parve di vedere più fila di denti aguzzi fra le sue labbra, ma poi la visione scomparve, così come scomparvero lentamente anche le ombre. Mi slegò frettolosamente e mi aiutò ad alzarmi.
-Benissimo. Oggi è un grande giorno, mia cara Astreya. Ci vediamo settimana prossima alla stessa ora, proporrei-.
 Annuii.
-Certamente, la ringrazio, molto-, dissi.
-Ti prego, dammi del tu. Sono almeno cinquant’anni che mi danno del lei e ora sono stanco delle onorificenze-.

Si carezzò la barba lunga e ispida e poi mi porse la mano nodosa. La afferrai debolmente e la strinsi per quanto potei. Poi, accompagnata da un medico minore, mi fecero tornare nella mia cella. Non era niente di spettacolare e a malapena ci stava il letto, ma ogni volta che poggiavo la testa sul cuscino ruvido mi sentivo sempre un po’ più a casa.  Feci una doccia fredda, così da liberarmi completamente del sudore e del dolore, poi indossai la vestaglia da notte e mi infilai sotto le coperte. Impiegai ore ad addormentarmi e anche quando lo feci, dormii sogni agitati.
   
 
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