Capitolo
1
Era
autunno. Il sole stava tramontando all’orizzonte infuocando
il cielo e
imbrunendo la vallata. Colsi gli ultimi fiori dal giardino e ritornai
sui miei
passi, tenendo la lunga veste sollevata. L’aria era ancora
calda, ma una lieve
brezza serale cominciava a soffiare sulla pelle ardente delle Custodi
che come
me affollavano il Tempio. Salii rapidamente gli scalini e varcai
l’imponente
arco. All’interno la polla d’acqua purificatrice
scintillava e si increspava
leggermente al tocco delicato del vento. Aspettai le altre Custodi e
poi
adagiammo i fiori sul pelo dell’acqua. Ci sedemmo in cerchio
osservando il
placido scorrere della vita mescolarsi con il misterioso galleggiare e
affogare
delle primizie colte. E quando anche l’ultimo petalo fu
inghiottito dall’acqua,
rompemmo il silenzio e ci dirigemmo a mani giunte verso le nostre
celle. Le mie
compagne indossavano il loro solito sorriso calmo e meditabondo e
camminavano
leggiadre come farfalle, mentre io avanzavo spedita senza alcuna
espressione, nemmeno
il benché minimo segno di vita sul volto. Qualcuna delle mie
Sorelle, quando
giunse di fronte alla sua stanza, mi salutò docilmente,
qualche altra mi
ignorò, finché non rimanemmo soltanto io e
Aracne, la più anziana del gruppo,
entrambe immobili nel mezzo del corridoio. Aracne mi fece un cenno con
il capo,
mantenendo la sua espressione serena, e assieme ci dirigemmo,
attraverso il
chiostro, alle sale che conducevano alle cripte.
-Come
ti senti, Aracne? – le domandai quando fummo inghiottite
dall’oscurità della
Terra. Flebili luci danzavano pigre aggrappate alle lanterne.
-
Sono ancora indolenzita, ma la colpa è soltanto della mia
salute cagionevole-,
disse, massaggiandosi la base del naso. Nonostante i suoi
trent’anni e la sua
salute precaria, Aracne era una delle donne più belle e
abili che avessi mai
conosciuto. Era Maestra delle Tele, un’arte che nemmeno io,
cresciuta in quel
luogo, conoscevo fino in fondo. I suoi occhi blu elettrico erano
profondi e
misteriosi come il potere che albergava nelle sue abili dita. Era stata
creata
per questo, lo
-E
tu come stai, Astreya? -, mi domandò di rimando, gentile.
Sorrisi flebilmente,
il volto ricoperto da un sottile strato di sudore che lentamente mi
scivolava
negli occhi.
-Combatto
la mia battaglia, come sempre-, ribattei e lei mi pose delicatamente
una mano
sulla spalla.
-Un
giorno le tue sofferenze verranno ripagate e riceverai in dono il
potere più
glorioso di tutti-
Le
sorrisi con più convinzione, nonostante i miei innumerevoli
dubbi. Giungemmo
alla sala d’aspetto e lì ci inginocchiammo sulle
panche in pietra attendendo
con altre venti Custodi il nostro turno. Era proibito parlare,
perciò gli unici
rumori che si udivano erano le urla lontane delle pazienti e il
ticchettio
dell’acqua che picchiettava il pavimento. A prima vista
quello sembrava un
luogo di torture e sevizie, ma in realtà si trattava
banalmente di stanze di
Cura. Erano, cioè, piccole celle dove i medici del Tempio ci
iniettavano dei
farmaci in grado di sviluppare quelle capacità peculiari e
uniche che
albergavano in noi fin dalla nascita. Era un modo come un altro per
sbloccare i
nostri talenti, allenarli, domarli e poi utilizzarli per gli scopi del
Tempio. Era
un onore essere iniziate alla magia, un privilegio che veniva
consentito a
poche e dotate persone. Mi ero sentita bene la prima volta che mi ero
inginocchiata sulla panca in attesa del mio turno, certa di essere
speciale e
curiosa di scoprire cosa il Tempio avesse visto in me. E solo dopo aver
realizzato
quale fosse il mio talento, capii il grave errore che avevo commesso
nel lasciarmi
trasportare in fondo a quell’abisso. Ma ormai era troppo
tardi, e la brama di
avvicinarmi sempre più alla potenza di una
Divinità aveva fatto il resto. Un
medico alto e con un lungo naso curvo chiamò il mio nome e
io, come al solito,
mi alzai e mi diressi nella stanza che mi indicava. Dentro mi
attendevano la
solita poltrona e il solito ago appuntito. Mi sedetti e attesi che il
medico mi
desse nuove istruzioni.
-Mi
chiamo Iatro e sarò il tuo nuovo medico, come ben sai. Ora
che il tuo potere
sta crescendo e si sta espandendo, la Sacerdotessa ha ritenuto
opportuno
affidarti a me. Sono il Guaritore del Tempio-, disse. Sobbalzai sulla
poltrona.
Il Guaritore del Tempio solitamente compariva soltanto quando qualche
fedele
giungeva al cospetto della Sacerdotessa posseduto, ferito a morte,
straparlante
o in preda a qualche malattia sconosciuta, ma mai per trattare una
Custode. In
più in pubblico il suo ruolo gli imponeva di indossare una
maschera e una veste
nera, cosicché nessuno del mio misero rango aveva mai avuto
fin a quel momento
l’onore di conoscere il suo volto e la sua
identità. Ora con indosso solo un
saio e un paio di sandali, pareva un uomo normale. Mi inchinai
doverosamente e
lo salutai con reverenza, ma lui mi fece subito sollevare e con un
gesto deciso
mi respinse sulla poltrona.
-
Lasciamo i convenevoli per la prossima volta-, disse. Annuii
distrattamente e
sollevai la manica destra della veste. L’uomo
osservò il colore bluastro
dell’incavo del gomito, dove da anni mi iniettavano i
farmaci. Scosse la testa
mestamente e si voltò per preparare la siringa. Lo osservai
mentre abilmente
armeggiava con gli strumenti e con quale concentrazione si preparava.
Infilò i
guanti dopo essersi preventivamente lavato le mani, poi espulse
l’aria dalla
siringa e si avvicinò a me. Sistemò il laccio
emostatico così da evidenziare le
vene più facilmente e poi con un rapido gesto mi
iniettò il liquido nel sangue.
Immediatamente percepii il forte bruciore e la sensazione di rabbia che
solitamente mi invadevano, poi sopraggiunse il dolore cieco e il
pizzicore al
cranio. Lottai contro il desiderio di strapparmi i capelli e
l’insana voglia di
attaccare Iatro.
-Bene
così, bene così…- mormorò
lui, mentre mi legava mani e piedi alla poltrona.
Strinse le cinghie all’inverosimile, quasi temendo che
potessi scappare o fare
del male a qualcuno. Non lo avevano mai fatto con me e inizialmente
pensai si
trattasse di una precauzione. Solo quando vidi una nuova siringa
infilzarmi la
pelle, capii. Il liquido che mi scivolò denso fra le vene mi
costrinse a una
visione caleidoscopica e oblunga in cui colori e forme si accavallavano
impazzite. Cominciai a gridare, desiderando strapparmi gli occhi.
Strillai
disperata cercando di liberarmi, ma Iatro non faceva caso a me e al
contrario
annotava paziente le mie reazioni. Mi ripresi dallo stato di shock
solamente dopo
circa dieci minuti di totale agonia e perdita di me, per ritrovarmi
stremata e
aggrappata con le unghie alla poltrona. Ansimavo e sudavo freddo. La
vista non
era migliorata e al contrario avevo cominciato a vedere delle strane
ombre
longilinee ondeggiarmi attorno come giunchi al vento. Mi bruciavano gli
occhi e
avevo le pupille dilatate.
-Cosa
vedi? -, mi domandò Iatro con una voce distorta e
squillante. Deglutii un paio
di volte e sbattei le palpebre guardandomi attorno.
-Ombre-,
biascicai.
Iatro
annotò anche questo fatto, annuendo. Sembrava che avessi
soddisfatto le sue
aspettative perché un largo sorriso gli si dipinse sul
volto. Per un minuto mi
parve di vedere più fila di denti aguzzi fra le sue labbra,
ma poi la visione
scomparve, così come scomparvero lentamente anche le ombre.
Mi slegò
frettolosamente e mi aiutò ad alzarmi.
-Benissimo.
Oggi è un grande giorno, mia cara Astreya. Ci vediamo
settimana prossima alla
stessa ora, proporrei-.
Annuii.
-Certamente,
la ringrazio, molto-, dissi.
-Ti
prego, dammi del tu. Sono almeno cinquant’anni che mi danno
del lei e ora sono
stanco delle onorificenze-.