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Autore: vali_    01/07/2015    5 recensioni
Dean non si sente a suo agio negli ultimi tempi: beve senza trarne i benefici sperati, dorme poco e sta sempre da solo e questo non è un bene per uno come lui, che mal sopporta la solitudine, convinto che riesca solo a portare a galla i lati peggiori del suo carattere.
Il caso vuole che un vecchio amico di suo padre, tale James Davis, chieda aiuto al suo vecchio per una “questione delicata”, portando un po’ di scompiglio nelle loro abituali vite da cacciatori. E forse Dean potrà dire di aver trovato un po’ di compagnia, da quel giorno in poi.
(…) gli occhi gli cadono sui due letti rifatti con cura, entrambi vuoti. Solo due.
Sam è ormai lontano, non ha bisogno di un letto per sé. Dean non lo vede da un po’ ma soprattutto non gli parla da un po’ e il suono della sua voce, che era solito coprire tanti buchi nella sua misera esistenza, di tanto in tanto riecheggia lontano nella sua mente. A volte pensa di non ricordarsela neanche più, la sua voce. Chissà se è cambiata in questi mesi (…)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bobby, Dean Winchester, John Winchester, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Prima dell'inizio
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Some things are meant to be'
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Note: Eccomi qua, anche oggi ad un orario stranamente decente. Forse diventerà una buona abitudine, o magari la perderò presto, chissà XD
Questo e il prossimo capitolo erano stati concepiti come uno solo, ma ovviamente ho dovuto dividerli in due per evitare che chi leggesse si addormentasse sulla tastiera visto che si sono allungati in modo spropositato XD
Ne approfitto ancora una volta per ringraziarvi dal profondo del cuore per tutto il calore che mi dimostrate ogni settimana e per salutare le nuove “reclute” (posso chiamarvi così? XD) che hanno deciso di seguire e addirittura preferire (!!! *lancia cuori*) la mia storia. Il numero di visite questa settimana è stato altissimo e ogni volta che entro nel sito e vedo il contatore salire mi vengono gli occhi a cuore dalla felicità. Quindi potete immaginare come rimango quando leggo i vostri commenti, ecco! *.*
Vi lascio al capitolo… a presto! 

 

Capitolo 8: All she wanted was to make you proud
 

You weren't there, distant, far away
It's like this every day, they see you in their heads
Wonder if you'll come
Afraid to close their eyes, and miss you once again.

 
(You weren’t there – Lene Marlin)

 

Se ne sta sdraiata a pancia in giù sul suo letto in quel motel di Rochester, nel Minnesota. Le sembra di stare da sola tanto è il silenzio che la circonda; l’unica cosa che fa rumore – per così dire – è la matita che tiene tra le dita della mano destra, che si muove e graffia sul foglio del taccuino – le piace chiamarlo così, ma in realtà è qualcosa di più simile a un grosso diario o un’agenda – sul quale sta disegnando.
 
E’ una cosa che piace molto ad Ellie. La rilassa, un po’ come leggere o ascoltare la musica. Quando non riesce a spostarsi per cercare una libreria o qualcosa di nuovo da sfogliare si diverte a fare degli schizzi, ma poi non li mostra a nessuno, perché sono qualcosa solo suo. Sa che potrebbe imparare a fare di meglio, che a livello di tecnica potrebbe migliorare, ma quando il volto che disegna le viene abbastanza simile a quello che è in realtà si accontenta. In fondo il suo è solo un hobby. 
 
La maggior parte delle volte si ritrova a ritrarre sua madre. Cerca di riprodurre il suo volto fedelmente, ricordando il suo sorriso e i suoi occhi, la sua espressione felice quando la guardava e sembrava che Ellie fosse tutto il suo mondo. La stessa cosa valeva per lei, che non aveva altro che la mamma nella sua vita.
 
Ha sempre avuto pochi amici – una in particolare –, una specie di fidanzato ai tempi del liceo, ma sua madre era la sua unica ancora di salvezza, e quando si è ammalata Ellie ha sentito il suo mondo sgretolarsi in mille pezzi.
 
Ricorda con estrema precisione – non riuscirà mai a dimenticarlo, qualcosa di così importante e così vivo nella sua memoria – l’ultima volta che le ha parlato di papà. E’ successo qualche mese prima che lei morisse; era ricoverata già da un po’ e se ne stava lì, sdraiata su quel letto, gli occhi stanchi che si spegnevano giorno dopo giorno. «Ho chiamato tuo padre» la voce era sempre più bassa, sempre più frammentata «Lo incontrerai tra qualche giorno» ed Ellie l’aveva guardata con le lacrime agli occhi. Non tanto di commozione, ma di rabbia. Per tutta la vita aveva desiderato incontrarlo, ma la mamma non le aveva mai dato la speranza che fosse vivo e quello era davvero il momento meno opportuno per scoprirlo, con lei morente in un letto d’ospedale.
 
Tutto quello che sapeva sua madre era anche di sua conoscenza, perché non le aveva mai nascosto nulla su di lui, voleva che sapesse. Ellie ha sempre pensato che fosse un modo per non farglielo cercare, perché sapendo che tipo di uomo era forse avrebbe represso il desiderio di volerlo conoscere, ma la cosa aveva ottenuto l’effetto contrario su Ellie, da sempre affascinata dagli uomini forti e leali.
 
Di suo padre sapeva che era un cacciatore, che i demoni e i mostri se li mangiava a merenda e che salvava le persone, proprio come aveva fatto con la mamma. Se l’era vista brutta quella volta, quando un mostro con uno strano nome – un Wendigo, nome che Ellie ha associato per molto tempo a quello dell’amichetta di Peter Pan – aveva cercato di ucciderla ed Ellie si era immaginata suo padre come un eroe, un uomo dall’armatura scintillante, come un prode cavaliere, che aveva preso la mamma e l’aveva salvata e lei, passando del tempo con lui, ci aveva visto un bagliore forse, o una scintilla, qualcosa che l’aveva attirata a tal punto da finirci a letto insieme, pur sapendo che non l’avrebbe più visto.
 
Ellie ha fantasticato su una storia così chissà quante volte, pensandola come la più bella delle fiabe, nonostante conoscesse a memoria com’era andata veramente. Da bambina, però, era bello sognare, immaginare l’incontro tra i suoi genitori il più romanzato possibile, ma soprattutto dopo aver incontrato suo padre e averci passato del tempo si era accorta di quanto quei sogni e quelle fantasie fossero sbagliate.
 
Jim Davis non aveva nessuna armatura. Non era un cavaliere o un prode scudiero, era solo un uomo e come tale aveva il maledetto vizio di lasciarsi dei casini alle spalle. Quello lasciato a Buckley, però, era diverso dagli altri, perché aveva un nome e una data di nascita: una figlia.
 
Ellie continua a disegnare, ripensando al passato, agli ultimi momenti di vita di sua madre. La rivede in quel letto, gli occhi chiusi e la mano stretta alla sua ed Ellie piangeva silenziosamente, asciugandosi le lacrime ogni tanto e cercando di fare meno rumore possibile. La mamma dormiva e non sarebbe riuscita a sentirla, ma Ellie voleva fare piano lo stesso per non disturbarla.
 
Era da sola in quella stanza fredda e c’era tanto silenzio. L’unico rumore che lo intaccava era il bip delle macchine attaccate alla mamma, che per quanto fosse un suono orribile – ormai era in coma da giorni e non c’era più niente da fare se non aspettare il peggio –, aveva un qualcosa di rassicurante. C’era la speranza che le cose sarebbero andate diversamente, che quel piccolo suono avrebbe preso un ritmo diverso, più vitale, e che la mamma si sarebbe risvegliata e l’avrebbe guardata con un sorriso, come faceva sempre.
 
Ma niente di tutto questo è accaduto ed Ellie non era pronta quando i macchinari hanno cominciato ad impazzire – il bip che è diventato un suono continuo, assordante e definitivo -, perché non si è mai preparati quando si perde qualcuno, soprattutto quando quel qualcuno è tutto il tuo mondo.
 
Ellie aveva alzato lo sguardo verso il monitor, le lacrime ancora fresche sulle guance e non aveva neanche fatto in tempo ad asciugarle, tanta era la frenesia di stringere la mano della mamma, quasi fosse in grado di tenerla viva con quel gesto. Si era alzata in piedi in fretta per controllare meglio – la sedia di plastica era caduta a terra con un tonfo sordo dopo il suo gesto –, perché proprio non riusciva a credere che quella linea costante accanto allo zero fosse la vita della mamma che si era spenta – e non c’era più rimedio, la mamma era finita in quel letto d’ospedale tante volte ma stavolta era finita, non c’era più niente a cui aggrapparsi –, ma Ellie non aveva nessuna intenzione di arrendersi e dopo aver premuto il pulsante di emergenza per chiamare il dottore con un gesto nervoso aveva cominciato a scuoterla forte e a chiamarla, ma la mamma non rispondeva e non l’avrebbe più fatto.
 
Nessuno ha idea di quanto ci abbiano messo i dottori – due o tre, Ellie era troppo scossa per capacitarsi di quanti fossero – a farla uscire, afferrandola per le braccia e tirandola via mentre si dimenava e urlava e chiamava la mamma in preda alle lacrime e al dolore. Era ancora scossa dai singhiozzi quando uno di questi – Ellie non si ricorda il suo nome ma non dimenticherà mai il suo viso, mentre si toglieva la cuffia chirurgica e la guardava, un accenno di barba sulle guance, i capelli corti neri e gli occhi buoni – è uscito scuotendo la testa. Si è stretta di più in se stessa sentendosi sola come mai prima di allora, lo sguardo vuoto fisso verso il basso e il cuore a pezzi al pensiero che la mano della mamma non l’avrebbe più stretta e che i suoi occhi – blu, così belli e profondi – non si sarebbero aperti più.
 
Il dottore è rimasto con lei qualche minuto, sedendosi lì accanto. Le ha appoggiato una mano sulla spalla, cercando di darle un po’ di conforto – lo aveva incrociato più volte e lei era sempre da sola vicino a quel misero letto su cui era sdraiata la mamma –, ma Ellie non rispondeva, tanto era sconvolta, e dopo un po’ si era alzato, lasciandola da sola con la sua sofferenza.
 
Erano già passate un paio d’ore da quando avevano portato la mamma in obitorio quando suo padre si è fatto vedere. Ellie era seduta su una sedia, a pezzi. Non riusciva a smettere di tremare né a staccare gli occhi dal corpo ormai esanime della sua mamma. Non l’avrebbe lasciata da sola fino a che le sarebbe stato concesso, perché lei non l’aveva mai fatto con Ellie. Aveva sacrificato tutta la vita per lei, per crescerla, cercando di darle tutto l’amore possibile ed Ellie non sarebbe uscita da quella stanza fino a che non l’avrebbero portata via con la forza.
 
Suo padre era lì vicino, appoggiato al muro con le braccia conserte. Era entrato silenziosamente ed era rimasto lì a lungo, forse incapace di dire o fare qualsiasi cosa e quando si è deciso ad avvicinarsi e le ha appoggiato una mano sulla spalla, Ellie si è stretta in se stessa, provando a percepire del calore da quel gesto, cercando di vederci del vero affetto, qualcosa di profondo e sincero, quello che dovrebbe trasmettere un padre ad ogni figlio, ma non ha sentito niente. Nessun conforto, né allora né mai dopo.
 
Non è solito abbracciarla o toccarla in qualche modo, in realtà. Si limita a darle degli ordini ed Ellie li esegue senza fiatare, portandogli il massimo rispetto e cercando di assecondarlo in tutto e per tutto, facendo del suo meglio.
 
Non si lamenta mai, neanche con il pensiero, perché per diciassette anni non ha avuto nessun padre ed ora è meglio averne uno che ritornare a come era prima.
 
Non dà nessuna colpa alla mamma per non averlo cercato in “tempo utile”, per non avergli dato modo di essere una famiglia. Conoscendolo adesso, non sarebbero mai riusciti ad esserlo. Quello che vorrebbe, però, è che lui si comportasse da papà qualche volta. Che la chiamasse Ellie anziché Elisabeth, che non usasse quel tono di voce freddo e distante, che le volesse bene. Ellie non è sicura che gliene voglia.
 
La mamma era solita mostrarle affetto in molti modi. Non solo a parole – perché la mamma le parlava tanto e la sua voce era sempre pacata e gentile, a volte quasi un sussurro ed era il suono più dolce e rassicurante che Ellie avesse mai sentito –, ma anche attraverso dei piccoli gesti.
 
A volte la sera, prima di andare a dormire, si mettevano davanti allo specchio e si raccontavano le proprie giornate. Non c’erano segreti tra loro, parlavano liberamente di tutto e la mamma era simpatica in un modo tutto suo, riusciva sempre a farla ridere. Le pettinava i capelli lunghi e le faceva le trecce e ad Ellie piacevano così tanto che ci andava anche a dormire, avvolta tra le coperte e da quella lunga maglietta con l’elefante, una delle tante che la mamma le aveva regalato. Ne ha di più colori: quella verde, una rossa con uno scoiattolo che legge un libro e una blu su cui è disegnato un panda steso a pancia all’aria che guarda le stelle. Le aveva comprate al mercato ed Ellie aveva apprezzato così tanto il gesto che le era corsa addosso e l’aveva abbracciata forte, come tutte le volte in cui le faceva un regalo.
 
E’ consapevole del fatto che per suo padre – cacciatore da sempre, per quanto ne sappia, e fedele all’arte della guerra e delle battaglie di sangue – dimostrare di voler bene a qualcuno non è così semplice, soprattutto se quella a cui devi farlo capire è una ragazza ed è tua figlia, una persona che non conoscevi fino a qualche anno fa, ma ormai dovrebbe aver preso confidenza con lei e potrebbe cercare un punto di contatto, qualcosa. Invece se ne sta lì impalato, a leggere un giornale ed Ellie si chiede che ci sarà mai scritto di così interessante da concentrarlo a tal punto da non poter affrontare un qualsiasi discorso con lei.
 
Torna al suo taccuino e al suo disegno, la mano sinistra chiusa a pugno sotto il mento e l’altra a sfumare i contorni della sagoma. Tira su col naso e stringe forte le palpebre per ricordarsela ancora: i capelli biondi, le piccole rughe intorno agli occhi che le spuntavano quando sorrideva e le guance piene. Sfuma con le dita anche quei particolari quando un paio di colpi di tosse la riportano alla realtà.
 
«Io devo andare» suo padre si alza, prende la giacca appesa alla sedia dietro di lui e se la infila. «Ho trovato qualcosa di interessante giù nel Nebraska».
Ellie non è sicura di aver capito le sue intenzioni. «Mi lasci qui?» credeva che qui stesse seguendo un caso.
«Sì, puoi finire tu il lavoro. Dean ti ha insegnato qualcosa, no?»
 
Negli ultimi mesi, si sono rivisti – l’ultima volta un paio di settimane fa – ed hanno seguito un paio di casi insieme. E sì, qualcosa le ha insegnato – i punti precisi dove colpire un avversario quando devi farci a calci o pugni, per esempio, o come si fanno le pallottole di sale –, ma Ellie è sicura non sia abbastanza.
 
Si tira su di scatto, mettendosi seduta e incrociando le gambe. «Sì, ma—»
«E’ un lupo mannaro questo qui, niente di che. Devi ucciderlo con questo» gli passa un fucile e un sacchetto pieno di proiettili d’argento. «Ci sarà la luna piena domani sera e per i due giorni successivi ed io non ho il tempo di aspettare che questo bastardo si faccia vivo, ho altre questioni di cui occuparmi». Ellie non risponde, guardandolo perplessa. «Ah, e queste» gli porge un paio di chiavi «Sono della stanza qui accanto. E’ una singola, ti verrà a costare di meno» Ellie le afferra esitante, ancora incredula sulle reali intenzioni di suo padre.
«E il mio lavoro? Avevo detto che sarei restata per tutta la settimana» ha trovato un piccolo impiego come cameriera in una tavola calda e si trova bene; ha anche fatto amicizia con una sua collega, una ragazza di nome Susan.
«Ti licenzi. Non vedo dove sia il problema».
 
Ellie annuisce, per niente convinta. Forse è l’unico modo per dimostrargli che vale qualcosa, forse così riuscirà a stimarla almeno un po’. E’ questa una delle più grandi paure di Ellie, che lui non l’apprezzi, che la veda come un dannato sacco ricoperto di peli e capelli da portare in giro senza nessuno scopo, nessun valore. E’ per questo che fa tutto quello che fa senza mai lamentarsi. Vuole solo che lui la veda, la veda davvero.
 
Jim si avvicina alla porta dopo averle lasciato altre armi e si volta a guardarla. «Mi raccomando, Elisabeth. Non mancarlo».
Ellie annuisce e lo guarda sparire oltre l’uscio, emettendo un lieve sospiro.
 
Non ha una macchina o un altro mezzo di trasporto, solo un dannato fucile e nessuna idea su come trovare un lupo mannaro in una città tanto grande. La cosa buona è che almeno le ha lasciato il fascicolo con i suoi appunti.

*

La radura è un posto decisamente troppo silenzioso di notte. Ogni minimo movimento può essere fatale ed Ellie l’ha constatato solo dopo, quando si è sentita prendere da quella cosa grossa e pelosa, con un fetore addosso indescrivibile, i suoi artigli addosso e la carne strappata via di netto, prima su un fianco e poi su una spalla. Ha piegato la testa all’indietro urlando e non sa neanche come ha fatto a scappare, afferrando il fucile che le era caduto poco più avanti e sparando al lupo ad una zampa, riuscendo a ferirlo. Ha indietreggiato più che ha potuto, la ferita sanguinante e il dolore lancinante che si espandeva in tutto il corpo in una fitta continua.
 
Ci ha messo due giorni a trovarlo, l’ha seguito fino a qui ed ora non può lasciarselo scappare, ma non vuole neanche rimetterci la pelle.
 
Ha riflettuto molto sul fatto che quel maledetto è un essere umano, una persona, ma gli ordini sono ordini e se suo padre è stato tanto categorico significa che per quel poveretto non c’è più nulla da fare. Non c’è niente da salvare in lui ed Ellie non può fare altro che pensare alla sua di sopravvivenza. Non c’è tempo per i sensi di colpa durante una caccia, la propria pelle è troppo importante per rischiare di sacrificarla rimanendo a pensare troppo a lungo.
 
Mira ancora con fatica, il dolore tale da offuscarle la vista, e spara di nuovo, colpendolo in pieno petto dopo un paio di tentativi, stavolta al posto giusto. Il lupo cade a terra, privo di vita ed Ellie tira un sospiro di sollievo.
 
Appoggia una mano sulla ferita e, quando la porta all’altezza degli occhi, la vede ricoperta di sangue; cerca di non svenire alla vista di quel liquido rosso vivo e pensa solo ad arrivare il prima possibile all’unico mezzo di trasporto che è riuscita a trovare in quei giorni di ricerche e di sonno mandato a farsi benedire, quando l’unica cosa da fare era sbrigarsi e rintracciare quel mostro prima che il ciclo lunare finisse e si estinguesse l’unica possibilità di beccarlo.
                                                       
Cerca di sbrigarsi, che la radura è grande e silenziosa e chissà quale altro figlio del demonio ci vive e fa un bel po’ di passi a piedi, ma poi non riesce più, troppo stanca e sfinita per camminare ancora e si ritrova a strisciare quasi. Tutto è lecito pur di arrivare alla macchina in tempo utile e quando la vede le sembra un miraggio, tanta è la stanchezza e il dolore e la voglia di fermarsi a riprendere fiato.
 
Si siede lì accanto, la schiena appoggiata sulla portiera e respira forte, cercando di concentrare tutte le forze rimaste. Sfila il cellulare dalla propria tasca con nessuna intenzione di chiamare suo padre – non in quelle condizioni – e si appresta a fare il numero dell’unica persona che, in questo preciso momento, potrebbe darle un aiuto concreto.

*

Dean è nel bel mezzo di un pedinamento insieme a suo padre quando sente il telefono squillare. Lo prende dalla tasca della giacca e risponde senza guardare chi è. «Sì?» L’unica cosa che sente è il respiro ansante e affannato di qualcuno venire dall’altra parte, così guarda il mittente e sgrana gli occhi quando legge il nome che compare sullo schermo. «Ellie? Che è successo?»
«P-puoi venirmi a prendere? Sono ferita» lo dice quasi con naturalezza nonostante la voce rotta da sospiri di dolore.
«Ferita quanto?»
«T-tanto, Dean, dovrei avere il sangue anche nei capelli o nelle mutande».
 
Dean si trattiene dal ridere per poi tornare assolutamente serio, ma proprio non capisce come qualcuno tanto ferito possa fare del sarcasmo, ma se quel qualcuno è Ellie forse dovrebbe smettere di stupirsi.
«Dove sei?»
«Dalle parti di Rochester, nel Minnesota. Lascio acceso il GPS così puoi tro-trovarmi, è l’unica cosa che posso fare. S-sono in mezzo al nulla, appoggiata a-alla mia macchina. E’ una ve-vecchia Ford blu».
«Macchina? Da quando ne hai una?»
«Dio, non è importante! Te lo racconto d-dopo! Vieni o no?»
«Sì, sì, farò il possibile».
«Fai presto».

Dean riattacca e spiega velocemente la situazione a suo padre. Non può lasciare Ellie in quelle condizioni mentre lui può cavarsela, non solo perché è suo padre ed è un genio, ma perché è una caccia semplice e da solo non dovrebbe avere alcun problema.
 
Scende dal pickup nero di John per poi salire nella sua amata Impala e prendere a guidare a tutta velocità. Per fortuna non è così distante dal punto indicato da Ellie e viaggia per due ore abbondanti, premendo forte il piede sull’acceleratore – i limiti per stanotte possono anche andare a farsi fottere, ha altri casini da risolvere. Si ferma solo quando arriva a destinazione e finalmente vede la macchina.
 
Parcheggia lì accanto e scende rapidamente; gira intorno alla vettura e trova Ellie seduta a terra, la testa appoggiata alla portiera, gli occhi chiusi e una mano posata sul ventre, mentre con l’altra impugna un fazzoletto sporco di sangue che Dean spera con tutto il cuore non sia suo. Si precipita su di lei e la scuote appena, chiamandola. Ellie apre gli occhi lentamente e gli sorride.
«C-ciao Dean».

Dean la prende in braccio senza dire una parola e quasi corre fino all’Impala; lei non oppone alcuna resistenza, le dita che afferrano forte il lembo della sua camicia e la testa appoggiata contro la sua spalla. Trema come una foglia e respira piano e Dean non sa neanche descrivere la paura che sente a vederla tanto impaurita, così piccola e fragile raggomitolata tra le sue braccia. Si fa forza perché è quello che ha sempre fatto in questi casi, è quello che gli hanno insegnato, e la adagia piano sul sedile per poi mettere in moto come una furia.
«Dove alloggi?»
Ellie ci mette un po’ a rispondere «Sei a-arrabbiato».
La sua è una constatazione più che una domanda e ci ha preso – perché a volte è con la rabbia che Dean nasconde la paura e questo è sicuramente uno dei casi –, ma non ha tempo di discutere adesso. «Rispondi».
«Motel Creek, stanza 108».

Dean dà gas alla sua piccola e si precipita verso il luogo indicato da Ellie. Una volta arrivato, parcheggia, la aiuta a scendere e si dirige all’interno della stanza.
«Hai messo il sale alle finestre?» Ellie annuisce e Dean la aiuta a sedersi sul letto e le sposta le mani dal fianco alzandole poi la maglietta impregnata di sangue.
 
Ellie stringe i denti e fa una smorfia di dolore, ma Dean non la guarda neanche, troppo impegnato ad imprecare mentalmente e a pensare a come curare quel brutto taglio.
«Ne ho uno anche sulla schiena, da… da qualche p-parte». Dean si limita a riservarle uno sguardo di fuoco; prende la cassetta del pronto soccorso e tira fuori bende, garze e tutto il necessario per medicarle la ferita. Poi penserà a quella dietro. «La prossima volta che devo farmi soccorrere da qua-qualcuno chiamo un infermiere vero, magari lui me lo fa un sorriso».
 
Dean alza gli occhi di nuovo per un secondo solo per guardarla male e poi torna a concentrarsi sulla ferita. «Non sei divertente».
«Ho capito, sei arrabbiato p-perché ti ho chiamato, ma—»
«No, sono arrabbiato perché sei andata a caccia da sola! Sei impazzita?» Ellie non risponde e lui si sente libero di continuare ad inveire contro di lei. «Ti è andata bene che ero ad un paio d’ore da qui, ma che sarebbe successo se fossi stato più lontano? Potevi morire dissanguata, sei un’incosciente! Hai poca esperienza, non sei mica Xena!»
«E tu non sei mio padre». A quelle parole, Dean si morde la lingua. Non l’ha mai vista tanto arrabbiata – o meglio, non l’ha proprio mai vista arrabbiata – e da come lo guarda teme di aver toccato un nervo scoperto. In fondo poteva almeno aspettare un po’ prima di aggredirla… dannato caratteraccio d’un Winchester. «Non ti ho chiamato per sentire la predica, ma per farmi aiutare. Quindi se vuoi farlo, b-bene, sennò quella è la porta».
Dean sospira, si inginocchia davanti a lei e si appresta a fare quello per cui è stato chiamato.
«Quello che voglio dire è che… » fa un lungo respiro e cerca di trovare le parole giuste «Potevi farti male sul serio. Hai perso parecchio sangue ed è rischioso, non sei ancora pronta per andare sul campo da sola. Tutto qui». Ellie tiene la testa bassa e non risponde, il suo viso si muove solo per esprimere dolore. «Perché non hai chiamato tuo padre?»

Ellie fa un grosso sospiro. «Per lo stesso motivo per cui tu non chiami tuo fratello» lo guarda negli occhi e Dean si sente rabbrividire, come ogni volta che sente quella dannata parola, ma non è mai stato colto tanto sul vivo «Per orgoglio. Volevo pensasse che sono brava a cavarmela da sola».
 
Ellie non aggiunge altro; nella stanza cala uno strano silenzio e Dean riflette sulle sue parole. Non hanno più parlato di Sam dopo quella lunga chiacchierata. Dean non l’ha chiamato e tutto è rimasto come sempre, per questo Ellie dice così. Forse pensa che se fosse cambiato qualcosa glielo avrebbe detto. Probabilmente è vero, perché Dean non parla mai delle cose brutte, ma a volte gli piace condividere quelle belle.
 
Sta di fatto che, anche se non lo dirà mai apertamente, Ellie ha ragione. E’ l’orgoglio a fregarlo, ma Sam se n’è andato e qualcosa gli dice che non hanno più niente da spartire a parte il sangue che è lo stesso, ma non ha né tempo né voglia di pensarci o di pensare a Sam adesso, quindi preferisce spostare il discorso su di lei.
«Che cos’era?»
«Cosa?»
«Qualsiasi cosa ti ha attaccata».

Ellie tiene le mani aperte sul materasso e le braccia tese a sostenere il busto e stringe il copriletto ogni volta che sente dolore.
 
«Un lupo mannaro. Mi ha afferrata prima che potessi ucciderlo, maledetto bastardo… ma almeno è morto, quel coso merdoso. Non pensavo fossero tanto brutti. Questo era spelacchiato e puzzava di pipì di mostro». Dean sorride dopo la descrizione buffa di Ellie e sa che probabilmente glielo ha detto solo per sciogliere un po’ la tensione. Non che i lupi mannari siano profumati, ma di certo non puzzano di pipì. «Oh, il mio infermiere mi ha fatto un sorriso! Quale onore!»
 
Dean la guarda e la voglia di prenderla a schiaffi per la sua dannata imprudenza forse gli è passata. Per ora. Prende una grossa benda e le fa alzare le braccia per poi avvolgergliela addosso. Ellie prova a togliersi la maglietta per permettergli di dare uno sguardo anche all’altra ferita, ma quella al fianco le fa troppo male. Dean si avvicina per poterle dare una mano, ma lei scuote la testa «Posso farcela». Lui fa spallucce e la guarda mentre – con non poca difficoltà – si alza in piedi e si impegna a togliere prima una manica e poi l’altra, facendosi male ad ogni movimento «Non mi sono mai sentita tanto vecchia».
Dean le sorride appena. «Ti passerà» si avvicina e, quando riesce nell’impresa, Ellie si volta di scatto, forse per nascondere il suo viso e le gote colorate appena di rosso, sicuramente per l’imbarazzo che sente a farsi vedere così.
 
Dean sorride tra sé; le sposta i capelli e la piccola spallina del reggiseno delicatamente, lasciandola scivolare lungo il suo braccio mentre Ellie incrocia le braccia sul petto. La ferita è meno profonda di quella sul fianco e Dean la medica con attenzione e con la dovuta cura, cercando di non farle troppo male e di fare più in fretta possibile per non farla sentire a disagio più del dovuto. Appiccica tutti i lati del cerotto sulla sua pelle chiara ed Ellie si allunga appena per prendere qualcosa da sotto il cuscino. E’ una lunga camicia rossa chiara, più grande della sua misura, ed Ellie la infila con cautela, abbassando la testa per abbottonarla con attenzione. Probabilmente è un’alternativa alla maglietta con cui è solita dormire, ma Dean non gliel’aveva mai vista.
 
«Questa da dove spunta?»
La sente sorridere «Era della mamma» infila l’ultimo bottone nella rispettiva asola «Ho tenuto un po’ delle sue cose».
Dean annuisce ed Ellie si volta a guardarlo. «Per ora può andare, ma credo ti ci vorrà un po’ di riposo e qualcuno di più esperto di me con queste cose, la ferita davanti è abbastanza profonda».
«A chi pensi?»
«Bobby Singer» Ellie lo guarda perplessa «Anche lui è un cacciatore, un amico di—»
«No, non ci vado da un amico di papà, ho chiamato te per questo, perché tu mantenga il segreto».
«Anche Bobby starà zitto, fidati. Mi ha praticamente cresciuto, non farà la spia, te lo prometto». Ellie annuisce poco convinta. «Adesso riposati».
 
Dal suo borsone Dean prende degli antidolorifici e glieli passa. Ellie afferra la scatolina da cui estrae un paio di pillole che manda giù con l’aiuto di un bicchiere d’acqua, sperando che le allevino il dolore almeno per poterle permettere di dormire qualche ora.
 
Si siede sul letto, lasciando il bottone dei jeans aperto e provando a sfilarseli da sola, ma le braccia non le arrivano dove dovrebbero tanto è il dolore alla spalla ma soprattutto al fianco e Dean si accorge della sua difficoltà, così si inginocchia di nuovo davanti a lei e la aiuta, tirandoli giù con le mani e lasciandoli scivolare lungo le sue gambe nel modo più clinico possibile, come ha fatto con Sam per buona parte della sua vita, senza un minimo di malizia. Ellie lo guarda e gli sorride e Dean sa benissimo che quello è lo sguardo di chi non ha parole per dirti grazie ma ci sta provando con tutto il cuore a farti capire quanto ti è grato. Si alza e le bacia la fronte con tenerezza, cercando di trasmetterle un po’ di tranquillità – vuole che Ellie si senta al sicuro ed è davvero convinto del fatto che Bobby non dirà niente se glielo chiederanno –, per poi spostarle le coperte per farla mettere lì sotto.
 
Ellie si accomoda meglio e si sdraia – con un po’ di difficoltà ma ci riesce e quasi si congratula con se stessa. Si mette di lato, nella posizione che le permette di sentire meno dolore possibile, e appoggia le mani sotto il cuscino, guardando Dean che osserva le sue cose piegate sopra il tavolo.
«Dean?» lui si volta a guardarla «Puoi prendermi l’iPod? Lo tengo dentro lo zaino, nella tasca davanti».
 
Dean obbedisce e lo trova subito. Il viso di Ellie è rivolto verso la finestra e così gira intorno al letto e si appoggia con un ginocchio su di esso per allungarsi e porgerglielo.
La guarda mentre lei srotola le cuffiette «Che ci fai?»
«Ci ascolto la musica».
Lo dice con un tono ovvio e Dean non sa se mettersi a ridere o darle dell’idiota. «Intendevo adesso».
«Ah… mi fa male la ferita, la musica mi aiuta a rilassarmi».

Dean annuisce e fa per allontanarsi; c’è un divano, può dormire lì, ma Ellie lo blocca capendo le sue intenzioni e gli fa cenno di stendersi accanto a lei. «Posso solo immaginare quanto hai guidato e quanto sei stanco. Non mordo e poi c’è posto per entrambi».

Dean non può fare altro che acconsentire; effettivamente è molto stanco ed ha bisogno di riposare come si deve almeno per qualche ora. Si siede e toglie le scarpe e la camicia per poi infilarsi sotto le coperte; prende una cuffietta ad Ellie per sentire cosa sta ascoltando e fa una smorfia schifata quando sente la voce di Christofer Cross.
 
«Andiamo, non puoi fare sul serio».
«Ho bisogno di rilassarmi, se volessi un eccitante ascolterei i Metallica».
«A me i Metallica calmano».
Ellie sorride e chiude gli occhi. «Poi sono io quella strana».
 
Dean si accomoda meglio; rimane in silenzio, un braccio sotto la testa e l’altra mano appoggiata sul petto e gli occhi che gli si chiudono da soli tanta è la stanchezza che ha accumulato in quelle ultime ore.
 
«Dean?»
Al sentire quella vocina li riapre di nuovo, sospirando. Ma non ha mai sonno? «Che c’è?»
«Ho… ho ucciso una persona, non è così?» Dean si volta appena per guardarla negli occhi, in silenzio. Non è sicuro di dove voglia arrivare. «Quel lupo puzzolente. Era un essere umano».

Dean prende un respiro, incerto su come rispondere. «L’ultimo che ho visto è stato una vita fa, ero un ragazzino, ma… sì, sono esseri umani» Ellie si muove piano, le mani più all’altezza della sua testa. «Però non c’è più niente di buono in loro. Voglio dire, uccidono le persone. Stava per fare a pezzi anche te».

«Ma sono principalmente esseri umani. Solo quando cambia la luna diventano lupi, giusto?» Dean annuisce in silenzio.
«Quindi ho ucciso un uomo».
Dean si morde il labbro inferiore. «Non era un uomo, era—»
«Sì, invece».
«Ma era malvagio».

Ellie sbatte le palpebre un paio di volte e poi scuote la testa decisa. «Era comunque una persona ed io gli ho sparato solo perché… » Dean la guarda aspettando che termini la frase, ma lei non lo fa; abbassa per un attimo il capo e stringe le labbra. «Esiste una cura per queste persone?»
«Non che io sappia» Ellie annuisce pensierosa. «Tu hai comunque fatto il tuo lavoro. Era giusto così».
 
Ellie punta gli occhi nei suoi, osservandolo con attenzione. «Tu sei felice di tutto questo?» Dean la guarda senza capire. «Voglio dire… pensi che sia giusto uccidere qualcuno se non puoi più salvarlo?»

Dean non ha bisogno di pensarci più di tanto «Se serve a salvare altre persone, sì» gli è chiaro che lei vorrebbe aggiungere qualcos’altro, ma la blocca prima che possa farlo «Hai fatto quello che dovevi, Ellie» e a quelle parole lei annuisce, poco convinta, ma non pronuncia più una parola.
 
Dean non ci aveva mai riflettuto, in fondo ha sempre vissuto nello stesso modo ed è disposto ad uccidere qualunque cosa se poi ne va della salvezza di qualcun altro. Ha sempre visto le cose in questo modo, è cresciuto così, con un odio smisurato per queste creature e non vede come altro avrebbe potuto fare Ellie, come sarebbe riuscita a cavarsela senza ucciderlo. Piuttosto non si aspettava che da questa sua esperienza ne nascesse un discorso etico – filosofico.
 
Ellie rimane in silenzio e Dean chiude gli occhi. Riesce a rilassarsi completamente solo quando la sente dormire e in pochi secondi la segue nel sonno. 
 

  
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