Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Amaya Lee    02/07/2015    2 recensioni
[ Jean x Armin | past!JeanMarco implied | Future!Fic ]
"Jean, vorresti farti tagliare i capelli da me?" gli chiese, il primo giorno che la neve cominciò a sciogliersi.
"Sono così terribili? Va bene, comunque. Quando vuoi."
And if you're still bleeding, you're the lucky ones.
"A chi pensi?" Armin lo interruppe bruscamente, senza più curarsi di ammorbidire il tono di voce. "A chi ho ucciso per te? Mi sembra improbabile. Chi rappresenta un simile peso sulla tua anima?"
'Cause most of our feelings, they are dead and they are gone.
La bocca di Jean si curvò in un sorriso mesto. "Ancora non riesco a capire se sei felice."
Si guardarono. Un breve momento di prossimità; poi di nuovo il nulla e il freddo e l'incertezza. "Non lo capisco nemmeno io."
We're setting fire to our insides for fun.
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Armin Arlart, Jean Kirshtein
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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NA: Risalve, fandom. Non ho scuse per questa one-shot. Okay, forse 1) la Jearmin è davvero troppo rara su efp e bisogna rimediare, specialmente alla luce degli ultimi capitoli del manga (perché insomma, Isayama sta facendo di tutto per farli rientrare nella Canon-Non-Canon Zone), e 2) posso dire che è nata come una one-shot di poco meno di 1000 parole. Poi non so cos'è successo, okay, mi sono ritrovata con questo mostro per le mani. Avevo in realtà pensato di dividerlo in parti ma sono troppo pigra per farlo e non avevo la minima idea di dove tagliare. Quindi ecco, vi lancio sta roba e fatene quello che volete, leggetelo in una volta o a dosi omeopatiche. Sia chiaro, per stendere questa futurefic ho bellamente ignorato gli ultimi sviluppi del manga perché non mi andava di tirare a indovinare una possibile fine per Attack on Titan, e nemmeno di rivelare una delle settantamila strepitose teorie che già si vedono in giro: di conseguenza non preciso le circostanze della vittoria dell'Umanità (coff, Legione, coff) e vi basti sapere che il trio Annie, Bertl e Reiner è stato arrestato per crimini di guerra(?) e che i nostri eroi sono pronti per esplorare il mondo. Ya hoo!
I lyrics sono della canzone Youth di Daughter. Meravigliosa. Ascoltatela e commuovetevi. Intanto godetevi un po' di Jearmin (angst? fluff? hurt/comfort? WHO KNOWS) e ovviamente le opinioni sono accolte con il massimo della gratitudine, winkwink see ya

 

The Lucky Ones
(one will die before he gets there)



We are the reckless, 
We are the wild youth
Chasing visions of our futures
One day we'll reveal the truth
That one will die before he gets there.

I gradini innevati slittavano sotto le suole umidiccie degli stivali producendo cigolii e schiocchi scivolosi, mentre il freddo di metà stagione trovava il modo di insinuarsi tra le sciarpe, i cappotti, persino le ciglia, increspando la pelle e arrossando guance, nocche e polpastrelli.

Armin era costretto a leggere nella torre dove alloggiava insieme ad un ridotto gruppo di compagni da quando era caduta la prima neve. Di libri glie n'erano stati procurati a sufficienza per svernare in quella fortezza distante poche miglia dal Wall Maria, aspettando che le temperature si risollevassero. Non c'era più niente da temere là fuori ma l'inverno non era più affabile di una fine violenta. Gli avevano solamente raccomandato di non utilizzare troppe candele – i rifornimenti della Legione dovevano essere usati con parsimonia.
Jean sorrideva di rado, e non lo fece quando gli sfilò senza preavviso il volume dalle mani per riporlo sulla superficie rugosa del tavolo. Lo guardò dritto negli occhi con quell'aria stanca che non abbandonava mai realmente nessuno di loro, e ad impedire che le loro schiene si inclinassero come fuscelli per gli oneri di ciò a cui avevano voltato le spalle era semplicemente il saluto militare; il pugno sul cuore una coltellata che faceva meno male ogni volta, finché non rimase altro che il torpore, come quando si stringe forte la neve in una mano.

"Non hai sentito cos'ha detto Jaeger?" chiese Jean. Probabilmente per la tosse, aveva la voce un po' rauca. "Certo che quando sei assorto in quella roba non ti si può parlare."
"Eren ha detto qualcosa?" replicò. 
"Se ti andava di uscire da questo buco. Poi è sceso nel cortile con Connie e Mikasa." Jean aveva tutta l'aria di qualcuno che si è svegliato dal lato sbagliato del materasso. Inclinò la testa, studiando fuggevolmente il biondo. "Allora vieni?"
Armin si era ormai rassegnato. E poi in quella stanza non si respirava più. "Ti seguo, Jean."


*

 
Li videro che ridevano come dei folli nel cortiletto interno della rocca; Connie lanciava palle di neve a tutti con le mani nude e queste avevano assunto una colorazione ecchimosa, ma non sembrava importare a nessuno, finchè persino Mikasa si lasciava andare a quel momento di infantile buonumore. La risata di un Ackerman era forse anche più rara delle rondini in quel periodo dell'anno. 
Armin si era fermato a metà della scalinata, esposta alla neve che continuava a cadere lentamente. Cadeva sul tetto trapezoidale e sul muro di pietre che circondavano la struttura per intero, e su quelle mura più lontane ed incommensurabilmente più alte– cadeva sulle spalle di Jean coperte dal giaccone, sui suoi capelli che si erano fatti visibilmente più lunghi  e non erano più stati tagliati (ad Armin stesso non sarebbe dispiaciuto prendere una forbice e farlo, con tanta cura e pazienza).

"Qualcosa non va?"
Lo sguardo di Armin era fisso sui compagni di Legione, sui visi distesi e sull'angelo di neve che Sasha aveva impresso nel terreno, agitando braccia e gambe. Si sforzò di sorridere per rassicurare l'amico. "Dici che mi verrebbe una brutta febbre a fare una cosa del genere?"
Jean ci mise un poco a rispondere, dopo aver inquadrato a cosa si riferisse la domanda – piccole iridi caramello che rullavano sulla veduta come le biglie con cui giocava da bambino. "Io non ci tengo a ritrovarmi con quintali di neve nei pantaloni, ma se a te va non sarò io a fermarti" disse con una smorfia. 
Armin non lo disse ad alta voce, ma considerava gli angeli di neve una delle cose più belle dell'inverno. Credere agli angeli era difficile, perciò quello era una specie di ripiego. Si morse l'angolo del labbro asciutto per non ridere – a Jean, a se stesso, alla neve che cadeva assolutamente noncurante di qualunque dolore e qualunque rimorso e cancellava così facilmente ogni goccia di sangue versata sotto i loro occhi.
Si soffermò sull'altro adolescente che, pur con un dislivello di pochi gradini, riusciva a guardare negli occhi senza abbassare la testa. Jean si grattò il retro del capo e poi dimenticò lì la mano, a mezzaria, forse senza neppure accorgersene e il percorso delle biglie si arrestò d'un tratto, trattenuto, incantato, nel gelo dell'inverno. Quei pochi gradini divennero una distanza infinitamente stretta e tesa tra due poli tiepidi, magnetici.
Di cose ne avevano viste molte. Alcune avrebbero preferito dimenticarle. Altre...

I capelli chiari s'intromisero quando una folata di vento percorse l'intero cortile. Armin inspirò l'aria gelida e i polmoni si contrassero acutamente.
Scesero per unirsi agli altri; Eren si rivolse all'amico d'infanzia per coinvolgerlo in una sfida contro Connie, il sorriso ampio e fiero, gli occhi brillanti come soli che mancavano in mezzo al cielo opalescente. Si sentiva che qualcosa non quadrava; tre persone mancavano all'appello ma cercavano tutti di non pensarci. Era meglio così.
Armin volle fare un'angelo di neve e si posizionò proprio accanto a quello di Sasha. Le sue spalle erano rilassate mentre si inginocchiava e Jean non esitò ad approcciarlo, senza dire una parola. 
Gli offrì la propria sciarpa, mettendogliela tra le mani con un cenno secco e sbrigativo e andandosene prima che Armin potesse contestare. 
La sciarpa di Jean era ruvida ma confortevole. Gli impedì di buscarsi un raffreddore.


*

 
Armin ormai sapeva che Jean era capace di tante cose; poteva restare appeso al bordo del muretto di pietra solo con le dita per più di trenta minuti filati e, dopo, aveva ancora fiato per gridare a Connie per averlo sfidato in qualcosa di così stupido. Era in grado di riempirsi la bocca con sei castagne, di quelle grosse, che avevano messo da parte durante l'autunno, mentre persino Sasha arrivava solamente a quattro.
Maneggiava le pistole con agilià, passandosele, mentre cambiava e ricambiava continuamente le munizioni almeno tre volte al giorno, da una mano all'altra. (Quelle mani giovani ma ben definite, nei tratti, perfino nelle piccole cicatrici, testimoni di una storia breve ma significativamente intensa; mani magre, mani forti, mani che avrebbero potuto sostenere il mondo pur non avendolo mai creduto possibile; mani di un uomo onesto, Armin lo sapeva, che ha visto tante cose.)
Ma soprattutto, Jean era stato capace di cambiare per un ragazzo dal sorriso come un fiume in piena dopo la siccità, occhi scuri e incorrotti dalla viltà, guance cosparse di affabili lentiggini che Armin non aveva. Di certo, Armin non aveva nulla di simile. 
Tendeva a guardare la faccenda razionalmente, però; e ricacciava il dubbio e la mestizia di non avere alcun merito nel Jean che vedeva in un punto che, anche tendendo la mano, lui stesso non avrebbe raggiunto.


*

 
Una mattina che Eren era già sceso per consumare una povera ma ben accolta colazione, Connie russava sonoramente nel letto dal lato opposto della stanza e lui non dormiva ma al contempo non voleva accettare di essere sveglio, Jean era l'unico in piedi nella torretta. 
Lui, sdraiato su un fianco, aprì gli occhi cerulei così poco che la luce schiva dell'ennesimo giorno di neve si imbatté contro le sue ciglia; ma un frammento di stanza entrò nella sua visuale e vi rimase.
Prima furono solo i piedi del ragazzo che gli dava la schiena, quei piedi nudi che scricchiolavano sulle assi del pavimento. E poi furono le gambe longilinee coperte dai pantaloni, il dorso tangibilmente da soldato e sempre più sù; pelle oleosa, fredda perché era mattino, marcati muscoli delle spalle, braccia allenate, realtà palpabili. Il ruvido corpo di un uomo. Armin lo trovava bello in quella mattiniera estasi, e non osò chiudere gli occhi. 


*

 
"Jean, vorresti farti tagliare i capelli da me?" gli chiese, il primo giorno che la neve cominciò a sciogliersi.
"Sono così terribili? Va bene, comunque. Quando vuoi."

And if you're still breathing, you're the lucky ones.
'Cause most of us are heaving through corrupted lungs.
Setting fire to our insides for fun
Collecting names of the lovers that went wrong
The lovers that went wrong.

Jean Kirschtein era sempre stato un uomo onesto.
Una delle prime cose che Armin seppe di lui era stata proprio questa, e risaliva a quella sera da reclute a cui nessuno aveva tempo nè voglia di pensare più, quando si era assicurato di sbatterlo in faccia a quel masochista bastardo di Eren Jaeger.
Era onesto, disinvolto, cinico, diffidente, apertamente orgoglioso, e perfettamente consapevole che chiunque avrebbe potuto concordare, persino metterci una mano sul fuoco. Ma Armin non si era mai fatto la premura di rivolgergli un'occhiata bieca, e Jean aveva dedotto silenziosamente che, dopotutto, fosse uno di quei ragazzi un poco strani, immancabili riservati, troppo ragionevoli e calcolatori fino all'osso; magari addirittura più cinico di lui. Francamente, non era un'attraente prospettiva; non sarebbe stato intelligente prendere gli strateghi per compagnie lusinghiere.
Sarebbe stato onesto, Jean Kirschtein, se avesse mai dovuto dire di non aver neppure una volta davvero guardato Armin, ai tempi dell'addestramento.

"Vuoi sederti?" 
Aveva atteso quella domanda, in piedi sulla soglia di quella stanza vuota e priva di utilià. In un caminetto mai pulito di recente continuava ad essere alimentato un piccolo fuoco, quel tanto che bastava per scaldare, da una mano che a vederla non poteva appartenere ad un soldato.
Jean si fece avanti e, quando fu abbastanza vicino da guardare il viso dell'altro ragazzo rischiarato dalle fiamme oscillanti, si acquattò lì accanto, a due buone spanne di distanza, un braccio a circondare le magre ginocchia. Rilasciò di malavoglia un sospiro – le palpebre stanche, e come se non bastasse di fuori tutto calmo e faceva male, fa male lui non ce la faceva più. "La guerra è finita."
Armin non era mai stato più sveglio in tutta la sua vita, ma aveva la stessa espressione di quando stava alzato a tarda notte con una candela in mano, talmente concentrato su un libro da non accorgersi che la cera gli ustionava le dita. (Jean lo guardava con angoscia per qualche ora, poi si girava nel letto e cercava di non pensarci più.) "Si. È finita."
"Se solo potessimo partire subito–"
"Ma vogliamo?" chiese Armin, senza guardarlo. Il fuoco era solo un riflesso di movimento nelle sue iridi curiose, ghiotte, fredde– assolutamente prive di giudizio o di biasimo o di colpa, tanto che Jean ultimamente le trovava spaventose. Erano rivolte alle fiamme ma, veramente, erano rivolte a ciò che permetteva la loro esistenza e tentavano di decifrarlo.

"No, in realtà."
"Fa paura."
"Non parlare di una paura che non conosci. Non questo tipo di paura."
Il ragazzo biondo lo guardò come se si stesse chiedendo quanti boccali si fosse scolato. Per la cronaca; nessuno. "Sono stato spaventato nella mia vita, Jean."
"Spaventato?"
Armin annnuì.
"Quando i giganti hanno attaccato casa tua?"
"Esatto."
"Quando hai sparato ad una persona a sangue freddo?" domandò con acre ironia. Si rese conto un attimo più tardi di aver appena compiuto un passo falso, quando Armin sgranò gli occhi come l'avesse schiaffeggiato. Ma era stato peggio.

"Resta, Armin" lo chiamò. L'altro si era alzato e aveva preso la direzione della porta; se non obbedì alla richiesta di Jean, perlomeno si fermò. Gli dava la schiena e Jean poteva distinguere ogni muscolo tendersi sotto la fibrea stoffa della camicia immacolata, che giù, più giù, gli copriva i polsi e metà dei palmi. "Resta. Mi dispiace."
Armin tornò indietro. Non andava di nuovo tutto bene, ma da un bel po' di tempo e per quanto chiunque tentasse di dimenticarlo – alcuni fingendo così bene, con tale maestria, da riuscirci davvero e credere alle proprie menzogne – cervelli e cuori non si potevano semplicemente spegnere a piacimento. Quelli erano fatti per smettere di funzionare in momenti imprevedibili, purtroppo. "Ho agito, questo è l'importante, altrimenti tu non saresti qui." Le parole del Caporale ricorrevano nelle loro menti più spesso di quanto a entrambi facesse piacere ammettere. 

"Sì." Jean non aveva mai propriamente ringraziato Armin. Sarebbe stato crudele. "Mi hai salvato la vita."
"Non parliamone più." Ed erano tornati sulle braci, gli occhi blu. Replica ben dosata, niente da aggiungere. 
Jean aspettò che il silenzio li mettesse di nuovo a loro agio. "Tutti hanno paura di quello che accadrà quando le nevi si scioglieranno. Perché tu no?"
"Hai mai guardato il volo dei corvi, Jean? Guardato davvero?"
"No..."
"A volte quasi l'invidio, ma poi ricordo" disse Armin. "Ricordo che la cosa peggiore è non sapere se tu sei tu o solo uno dei tanti copioni dell'uomo immolato per la causa, morto, vivo o libero non ha importanza. Allora diventi la continuazione di te stesso perché non lo sai. È la peggiore cattiveria di cui non si può dare la colpa a nessuno. Se solo avessi la possibilità di..."
"L'avrai. Hai aspettato per tutta la vita."

Si guardarono a vicenda, senza dire nulla. Le labbra screpolate composero parole fiere, soverchianti persino per la stoica ambizione di uno stratega. "Ecco perché non ho paura dell'ignoto, Jean. Lo supererò e a quel punto non ne esisterà più neppure l'ombra."


*

 
Jean tornò la sera successiva. Non poteva essere da molto passata l'ora di cena e il Sole cominciava a capitolare sempre più tardi, ma fuori si distinguevano già intere costellazioni.
E Armin era di nuovo lì, di fronte al camino, più pallido ed inarrivabile di tutte. Lontano, troppo lontano. Dove Jean poteva sfiorarlo con una mano ma non con l'anima o con le parole. 

Non fu uno scambio molto lungo. "Sei felice?"
"No" rispose Armin, scrollando le spalle. "No."
E nemmeno lui lo era, davvero; ma aveva cominciato a dimenticarsi della felicità, a scordarsi che "forse" esisteva e che "forse" era da qualche parte fuori dalle Mura perché, se prima ne dubitava, ora sapeva per certo che fosse andata perduta insieme alle ceneri disperse di un falò in quella notte di folle dolore, lontana nei mesi, che aveva segnato irrevocabilmente il suo destino. Sentirlo dire da Armin, però, non faceva meno male.


*

 
"La nostra ultima spedizione, hm?"
Avevano ripreso a parlare davanti al fuoco. Stavolta tutti dormivano – erano passate ore da quando nel castello tutte le luci si erano spente (ad eccezione di una, nell'ufficio di Hanji, la quale con tutta probabilità era rimasta a sminuzzare i preparativi per il giorno successivo. Non ci si sarebbe potuto aspettare niente di diverso dalla Comandante).

"Non sarà come le altre. Stavolta è per sempre" fu la risposta di Armin, un po' assente e che ancora non si spingeva ad incrociare il suo sguardo.
"Non torneremo mai più."
"Non ne abbiamo bisogno."
Jean invece lo guardava, eccome se lo faceva. Sembrava non saper fare altro. "Tu dici così perché ti porterai dietro tutto ciò che conta."
"Sai, è strano." Armin fece un vuoto tentativo di sorridere, che Jean trovò terrificante e gli fece scorrere un brivido gelido lungo la schiena. "Sono sempre stato io a seguirli perché... perché mi sentivo al sicuro e incapace di fare a meno di loro. Ma ora Eren, e Mikasa... è come se stiano seguendo il mio sogno insieme a me."
"Non sei mai stato dietro di loro."
"Jean..."
"Ti faccio la stessa domanda; sei felice quando pensi a ciò che sta per accadere?"
Armin esitò. Ma magari stava solo inciampando sui propri sentimenti, ragionandoli come ingranaggi di un sistema complesso.

"Perché partiremo, ci lasceremo alle spalle la gabbia e saremo liberi. E tutti abbiamo una paura fottuta che, non so, l'orizzonte si sfracellerà sotto i nostri piedi."
Il volto dell'adolescente non si contrasse, come se stesse soppesando quell'ipotesi in maniera razionale, come se non gli importasse dell'istinto di soppravvivenza che aveva costretto per interi secoli l'Umanità a nascondersi, a rinchiudersi. "Alla fine è vero" sussurrò. Jean non capì cosa ci fosse di vero in tutta quella situazione.

"Sta succedendo perché sono morti." I giganti, coloro che volevano negargli la libertà, i loro compagni, gli amici e–
"Ma noi siamo vivi." La voce di Armin stavolta era limpida, più forte, più stabile, ma non arrogante com'era stata sere prima. Si voltò verso Jean. "Ma noi siamo vivi."

E faceva male, insensatamente, vergognosamente male.


*

 
Si era chiesto più volte, quell'inverno, se si sarebbe voltato una volta giunto il momento.
E il momento arrivò per davvero e fu così inaspettatamente reale e magnifico che gli sembrò che gli fossero cresciute spontaneamente le ali, nell'esatto momento in cui partì al galoppo e il suo occhio catturò la linea impossibile dell'orizzonte. 

Ma certo che si voltò. Per dire addio.
Vide anche che Armin non lo fece, cavalcando al fianco di Eren e Mikasa, ed ebbe l'impressione che per lui le Mura da allora non sarebbero mai più esistite.


*

 
Erwin fu uno dei pochi di loro a restare.
Si rassomigliavano per pochi, significativi tratti, l'ex-Comandante della Legione e il soldato Armin Arlert, ma essi non includevano la ragione per cui combattere e per la quale, un tempo, credevano che avrebbero incontrato la propria morte. La ragione di Erwin non era affatto esplorare il mondo esterno, e Jean non credeva che l'avrebbe mai saputa. 
Il Caporale Levi raramente usciva dalla propria tenda, e quando lo faceva non si lasciava avvicinare facilmente – tutt'altro che una novità. Hanji, però, era una presenza palese e Moblit scarabocchiava tutto ciò che lei, con entusiasmo, indicava.

"La popolazione è ancora troppo scossa dagli avvenimenti dell'anno trascorso. Non possiamo certo sgombrare le Mura tutte in un colpo, non credi?" Hanji era capace di bisbigliare, se voleva, ma Jean orecchiò ugualmente mentre raccoglieva legna per il fuoco nei dintorni. "Potremmo dare il via libera prima alle famiglie dei soldati... e poi sai, in qualche anno potrebbe anche risolversi tutto, con un po' di buona volon– Ah! Guarda lì! Non avevo mai visto una farfalla simile, accipicchia." Jean aggrottò la fronte. Il tono della Comandante si era fatto più leggero quando riprese. "Dunque, dunque... Erwin d'altra parte vorrà sapere come ce la stiamo cavando, se ancora non è occupato a cercarsi una moglie e produrre mocciosi. Facciamo partire un paio di messaggeri domattina?"

Sasha comparve accanto a lui in un battito di ciglia. O forse c'era stata per un bel po', non era quella la sua attuale preoccupazione. "Ehi, Jean... tienine un po'" disse, e gli versò nel palmo una discreta manciata di piccole bracche rosse, estirpate dalle sue stesse mani – poco femminili, callose, un po' sporche e sudate, ma comunque generose. Jean le accettò con un cenno che sperava esprimesse abbastanza riconoscenza. Allora lei disse una cosa che lo fece rabbrividire. "Di un po'... sembra quasi che non ci siamo lasciati un bel niente alle spalle. Trovi anche tu?"


*

 
Tutto era diverso. Tutto. Anche ciò che Jean non avrebbe voluto cambiare.
Era una di quelle rare occasioni in cui lui e Armin potevano parlare in solitudine, con tranquillità, senza l'impiccio di strabilianti scoperte o interventi da parte di Eren e Mikasa o cieli illimitati da osservare in silenzio. Ora c'era solo il fuoco, e le scintille cracchianti che svanivano nella notte. Tra di loro.

"E adesso? Adesso hai ancora paura?" disse Armin, gli occhi fissi nei suoi attraverso le fiamme.
"Un po'. Ma non più del mondo di fuori: ho visto cos'è e cosa non è."
"Di cosa, quindi?"
Prese un sospiro fiacco. "Di non riuscire ad apprezzarlo."
Armin lo scrutò a lungo. "Potrebbero aiutarti le cose– le persone a cui tieni."

Per qualche ragione, tale semplice constatazione aprì violentemente qualcosa nel suo petto, ma lui indossò un'espressione vagamente scettica e sostenne il contatto visivo senza tremare. "Le persone a cui tengo non fanno altro che ricordarmi cosa ho ancora da perdere." E detto questo si alzò in piedi e si allontanò, nella propria tenda. 

 
And if you're still bleeding, you're the lucky ones.
'Cause most of our feelings, they are dead and they are gone.
We're setting fire to our insides for fun.
Collecting pictures from the flood that wrecked our home, 
It was a flood that wrecked this.

Ricordava indistintamente di essere stato molto vicino ad Armin, mesi addietro. Erano accadute molte cose, e in mezzo a trame politiche, seccessioni al trono e vittorie dell'Umanità Jean era riuscito a dimenticare almeno un po' quella parte di sè ancora legata ad un passato in cui tutto era stato terrificante e pericoloso oltre ogni immaginazione, ma perlomeno prevedibile. Come un frammento di quadro visto dall'angolatura sbagliata.
Era un passato che Jean non rimpiangeva ma non poteva evitare di richiamare, un passato di... calore. Un passato in cui non si era ancora arreso sulla propria anima e non avrebbe mai pensato di farlo, per affetto di quel ragazzino che sognava egoisticamente la vita agiata da soldato nel Distretto Interno, che sognava la Gendarmeria.
E pensare che a portarsi via quel ragazzino era stata sufficiente una morte, una singola morte...

Si mise le mani nei capelli e tirò. Si tenne dentro il corpo tutto il fiato con cui avrebbe voluto urlare – urlare finché non bruciava ogni cosa, dentro di lui, attorno a lui, per sempre, perché che cazzo di senso aveva tutto questo? Quale appagamento perverso? Quale arte – farfalla  bizzarra, cielo immenso, distesa d'acqua "salata" che fosse – poteva cancellare...
Respirò lentamente, a fatica, perché sentiva la propria faccia intorpidirsi e l'ossigeno mancargli. Si domandò se stesse per diventare matto, dopo tutto ciò che aveva passato, dopo che ce l'avevano fatta. Non gli piaceva l'idea.

Connie russava accanto a lui come se non chiudesse occhio da giorni. Non era Armin; Armin non leggeva nello spazio alla sua destra, finché la candela non si consumava completamente, da numerose settimane. Non sapeva se l'avrebbe sopportato per una singola ora in più, con quella luce negli occhi che tutto poteva essere fuorché rimorso. Era solo nella tenda. Con Connie, certo.


*

 
"Jean."

Sentiva il ragazzo alle proprie spalle. Non l'aveva visto, nè udito, poiché le foglie morte turbinavano rumorosamente molto spesso. Semplicemente lo sentiva. 
Da quando avevano lasciato le Mura, quella era la terza luna piena.

"Jean." La voce non era più di un pacato mormorio.
"Torna all'accampamento" rispose il giovane, seduto con le gambe divaricate sull'erba alta e asciutta. Non ricordava quanto avesse camminato e quanto fossero lontani dalle tende.
L'altro lo ignorò. "Cosa ti turba?" chiese.
"Armin, parlo sul serio. Capisco che non ti va a genio di non sapere le cose, ma le persone non sono libri che puoi sfogliare quando vuoi, come vuoi." Forse si stava comportando in maniera un po' troppo dura, ma si sarebbe fatto una ragione anche di quello.
Armin non si fece intimidire, com'era prevedibile – sapeva essere davvero testardo nelle necessità. Si sedette al suo fianco come Jean soleva fare sempre al castello, davanti al camino. Il paragone riuscì quasi a strappargli un sorriso. "Va bene. Io però me ne sto qui, ci stai?"
"Sei il peggiore di tutti." Jean proprio non ce la fece a rimangiarsi quelle parole, neppure quando Armin gli rivolse un'occhiata più confusa che altro. "Sei il peggiore e non riesco a capirti. Hai del sangue sulle tue mani" proseguì, guardandolo in viso, "per me. Come se me lo meritassi, ma non è questo il punto. Hai del sangue sulle tue mani e io no, e allora come fai a... a dormire?" Jean era senza fiato.
Il ragazzo biondo parve umiliato, mentre bisbigliava "non dormi più, Jean?"
"...So che è passato del tempo, ma ora siamo qui fuori. Qui, noi, vivi, e tutto questo–"
"A chi pensi?" Armin lo interruppe bruscamente, senza più curarsi di ammorbidire il tono di voce. "A chi ho ucciso per te? Mi sembra improbabile. Chi rappresenta un simile peso sulla tua anima?" E poi– la realizzazione lo colpì con violenza e Jean lo vide nel mutare evidente del suo viso. Anche se l'unica illuminazione era quella della luna. Non c'era spiegazione, Jean lo sentì. "...Lui. Vero?"
Il ragazzo strinse le labbra per non farne uscire neanche un suono.

"Jean, io–" Ma cambiò idea senza concludere. "Non so che dire. È un fardello che io... Ho capito, ti lascio solo." Freddo.
"Perché noi?" avrebbe voluto dire, Jean, mentre Armin si alzava e si strofinava i pantaloni, per poi tenere fede alle proprie parole e andarsene. E fece tanto male che il freddo non fu assolutamente comparabile.


*

 
"Ti piace?" Era un dono elegantemente prevedibile, un fiore; un dono da uomo onesto. Jean non poteva aspettarsi null'altro da se stesso. Non attese una risposta e, con un gesto di quella che poteva interpretarsi come contentezza, imbrigliò il piccolo gambo dietro l'orecchio del giovane, tra i biondi capelli. "Addosso a te fa uno strano effetto" ridacchiò, strofinandoseli delicatamente tra i polpastrelli.
Gli occhi di Armin sorridevano, la bocca si guardava bene dal farlo.

"Strano in senso buono" chiarì Jean.
"Vorrei sperare."
"Stai ancora leggendo quello lì?"
"Sono fermo a pagina ottantasei."
"Come mai?"
"Ogni giorno trascrivo gli appunti di Hanji. Credo che potrei farli divenire un atlante."
Jean diede un'occhiata più attenta al libro tra le mani del ragazzo. "È un mondo enorme, non è così?"
I grandi occhi azzurri si infoschirono. "Più di quanto immaginavamo. È straordinario, ma..."
"Frustrante?"
Armin si umettò le labbra. "Niente... niente." E con quello tornò alla propria lettura.


*

 
Aveva una mente non comune, Armin. Per questo era uno stratega.
La sua mente era bella. Accattivante, brillante, complicata. Bella nello stesso modo in cui impugnava una spada, sfogliava un libro, guardava il cielo quando sembrava che anche il cielo guardasse di rimando. Jean avrebbe voluto che avvolgersi i fili di una mente così alle dita fosse come impigliare quest'ultime tra quei capelli dorati. O facile come donare un fiore selvatico. Sì, sarebbe stato romantico.
Un fiore per una mente, e poi ancora un bacio per un cuore. Poteva farlo; un bacio. Anzi, non uno solo.

Erano di nuovo davanti al fuoco, una sera. Eren si era appena alzato e probabilmente era intento o a coricasi o ad accarezzare il corpo di un altro soldato.
Non tutte le scoperte erano specie sconosciute e panorami mozzafiato, per degli adolescenti in un mondo come quello.

"Non vedo l'ora che cada la neve qua fuori" intavolò Armin con leggerezza. 
"È appena cominciata l'estate."
"Lo so, ma voglio vedere la neve da uomo libero." Il ragazzo inclinò la testa, come se stesse rimuginando sulla propria ultima affermazione. "Forse ho detto una cosa un po' stupida, vero? La neve è sempre uguale."
"Non lo trovo stupido" rispose in fretta Jean, squadrando il biondo con quella che sperava somigliasse ad un'espressione severa. "E stavolta sarà indubbiamente diverso. Ma prima godiamoci il caldo finché dura, eh?"
Armin annuì osservando il fuoco. E malgrado gli sforzi, era ancora troppo distante. Inumanamente distante.

La bocca di Jean si curvò in un sorriso mesto. "Ancora non riesco a capire se sei felice."
Si guardarono. Un breve momento di prossimità; poi di nuovo il nulla e il freddo e l'incertezza. "Non lo capisco nemmeno io."
Jean smise di trattenersi, allora, perché il male nel suo cuore non si sarebbe acquietato comunque e forse, forse non c'era davvero più speranza che tornasse senza peso, com'era giusto, come appena un anno addietro; forse gli serviva un altro cuore che gli battesse vicino almeno per il momento, per ricordargli che bastava solo quello. Sangue, energie, un cuore che batte. Non gli serviva altro, in fin dei conti. Permise al proprio corpo di avvicinarsi ad Armin, proprio alle sue spalle, cosicché la sua sagoma rannicchiata campeggiasse davanti alle fiamme. "Vieni qui" sussurrò. Una supplica ben mascherata. 
Armin lo fece e le braccia di Jean non esitarono a cingerlo protettivamente. Nulla smise di fare male ma fu un po' più facile dimenticarsene, con quel cuore vivo e pieno di meraviglia che, poteva illudersene, per ora gli apparteneva. 


*

 
Sasha era china su di lui, gli tamponava la coscia con uno straccio disinfettato che per dieci minuti aveva lasciato a mollo in acqua bollente. Era concentrata e non le servì coprirsi le orecchie per ignorare i carichi grugniti di dolore che Jean cercava di stringere i denti per ricacciare indietro. Non funzionava. 
Il fiume era gelido malgrado il sole picchiasse forte, e le rocce sul fondo avevano lasciato ferite poco gentili quand'era scivolato maldestramente su una pietra prominente in superficie, nel tentativo di pescare qualcosa per la cena. Eren, insieme a lui designato per il compito, gli aveva prestato il primo soccorso. Poi era arrivata Sasha, a caccia nei pressi della riva, ed era parso subito chiaro che lei avesse un'idea più precisa su cosa fare.

"Eren, presto, vai a chiamare qualcuno" aveva intimato; la voce si era stabilizzata di un'ottava in confronto a quando si lamentava per la scarsità di pane, rendendola piuttosto autoritaria e senza dubbio urgente.
E ora era lì, che puliva via il sangue strofinando la scabra lacerazione che pulsava a partire dal ginocchio fino al fianco, ma con tutta probabilità era considerevolmente più ridotta. Quanto ai pantaloni; strappati. Gettabili. "Tieni duro, Jean."
"Santo cielo" si sentì esclamare da qualche metro più in là, ancora nel bosco. "Jean!"
Jean stava giusto allora riemergendo dalle fitte di dolore persistenti, e si sollevò sui gomiti per vedere con i propri occhi il ragazzo che scavalcava radici e toglieva di mezzo rami scomodi dalla propria faccia in modo da raggiungerlo più rapidamente. Gli fu accanto in meno di un secondo, per ciò che poté contare. 

"Ma diamine." Jean imprecò quando Sasha sfiorò soltanto un punto particolarmente sensibile. "Stai attenta!"
"Se volevi un'infermiera potevi trascinarti tu stesso fino all'accampamento, sai" ribatté lei, ma senza aggressività. Tornò contentrata a curare la ferita, borbottando che sarebbe servito ricucirla, alla fine, prima che Armin posasse delicatamente una mano sul panno fradicio e le rivolgesse poche parole che Jean non ascoltò. Si premeva le mani sull'attaccatura della gamba, nel tentativo piuttosto vano di bloccare parzialmente l'affluvio di sangue. 
Era tardi; i ciottoli della riva inghiottivano il rosso liquido appiccicoso in un modo che l'avrebbe fatto vomitare, se non avesse ricevuto l'educazione severa di un soldato. E se non avesse visto di molto peggio in vita sua. 
E un battito di ciglia dopo Sasha raccoglieva l'arco e la faretra e si allontanava corricchiando, e a tamponare la sua coscia c'era il giovane dai capelli d'oro come il sole del mezzogiorno. Le mani pallide non tremavano nemmeno un po' mentre il sangue veniva via e i contorni della ferita si delineavano come brutti lembi zigrinati.

"Non... Non si vede l'osso. È un'ottima cosa." Poi si voltò e chiamò l'amico. "Ehi, Eren! Qui me la cavo per un po'. Porto io Jean all'accampamento, non appena ho finito di bendarlo."
Il ferito non si stupì affatto del tono fermo e controllato con cui Armin soleva parlare da un po' di tempo. Quello era lui in tutto e per tutto – poi gli occhi serafici si rivolsero nuovamente al suo viso e lui non potè fare altro che reggere il loro sguardo. Si era calmato e tentò di non pensare alle ultime strofinate, per quanto gentili. 
"Va tutto bene" mormorò Armin. 
"Lo so" rispose. "Grazie."

Il resto, Armin lo fece in silenzio. Avvolse la gamba del compagno finché non si videro più fastidiose macchie vermiglie affiorare sulle stoffe bianche, asciutte. Poi fece un nodo stretto. 
"Fortunatamente c'era Sasha" disse. E senza dargli il tempo di replicare, "Cerca di stare più attento, ti prego."
"Non vuoi parlarmi di questo." Jean lo scrutò senza una particolare espressione, asciugandosi il sudore dalle tempie e dal collo con il lembo della maglia. "Hai quell'espressione di quando vuoi dire qualcosa ma non sai come farlo."
Armin serrò istintivamente la bocca. Ma poi si decise a parlare, riposando una mano sulla coscia dell'altro. "Volevo comprendere cosa ti trattiene laggiù."

Questo, Jean non avrebbe potuto aspettarselo. Si accorse solo vagamente del sudore che gli inumidiva i lati del volto, per il caldo e per qualcos'altro, che gli faceva ribollire gli organi interni. Non si sarebbe mai potuto abituare ad una sensazione del genere. Tossì, solo una scusa per distogliere lo sguardo. "Armin –"
"Ma penso di averlo sempre saputo, anche se non volevo vederlo." Il suo era il tono di qualcuno che si è arreso dopo tanto tempo. Scosse la testa. "Ciò che avrei dovuto cercare di capire è cosa ti spinge ad uscire dalla tenda, salire a cavallo, e seguire la Legione, ogni giorno. E non parlo del dovere. Siamo tutti stanchi, per una ragione o per l'altra, siamo sopravvissuti ad una guerra, maledizione. Ed io ho desiderato per tutta la mia vita vedere il mondo. Ma tu cosa stai inseguendo?"
Il ragazzo si sentì sprofondare sempre di più sotto lo sguardo terso, sinceramente curioso, perché non poteva offrirgli nulla; le sue mani, il suo cuore non poteva. Mise a tacere la colpevolezza con una scrollata di spalle. "La pace, come tutti." Ma non era vero; stava fuggendo, ancora e ancora. 
Armin annuì, in un modo che non lasciava intuire se avesse scorto la menzogna nelle parole del compagno– dell'amico. La sua voce tuttavia era fievole e onesta e Jean si sentì uno schifoso bastardo, quando disse "Hai perso delle persone e posso capirlo. Credo però che ciò che il tempo non guarisce dobbiamo guarirlo noi, in un modo o nell'altro." Annullò il contatto tra la propria mano e il corpo di Jean troppo presto. "Funziona così. Non aspettare troppo per poi rimanere a mani vuote."

Se quelle parole fossero un avvertimento o un'esortazione Jean non l'avrebbe mai capito. Ignorò lo stesso i propri palmi sudati e l'onerosa incertezza che non svaniva dal petto né dalla mente. Vuoi il gelo dei vestiti fradici contro la pelle, vuoi le fitte di dolore che molto probabilmente gli impastavano il giudizio, guardò il viso di Armin e si decide che in vita sua non avrebbe voluto fare altro. "Puoi baciarmi, per favore? Non riesco ad alzarmi più di così" chiese a mezza voce, perché la stanchezza gli strisciava dentro come una febbre e non era proprio dell'umore per essere più accomodante.

Armin rise lo stesso, mentre si sporgeva e faceva rumore muovendosi sulla ghiaia. E fu come tornare a respirare, finalmente, in una sorta di folle e disperata ottica che poco aveva a che fare con la guerra. Non un bacio esplorativo, che si preoccupa di testare limiti e distanze. Fu più intelligente di così, più innocuo e riservato, come se per il momento andasse bene soltanto sfiorarsi, perché l'avevano sperato entrambi per talmente tanto tempo che sarebbe altrimenti stato un guasto, un'indecenza bearsi eccessivamente l'uno dell'altro e scordare che i primi a dover guarire fossero proprio loro stessi.
Jean non volle chiudere gli occhi neppure un attimo, per non dimenticarsi di chi fossero quelle labbra e con quanta delicatezza meritassero di essere accompagnate.

 
Well I've lost it all, I'm just a silouhette, 
A lifeless face that you'll soon forget, 
My eyes are damp from the words you left, 
Ringing in my head, when you broke my chest.

Non si guardarono in modo diverso, dopo quel giorno. Non proprio.
Jean si disse che ciò che doveva succedere da un po' (non ricordava con esattezza la prima volta che aveva sognato le labbra di Armin, le mani di Armin) era accaduto, e tanto gli bastava; non sarebbe tornato indietro per annullare quel bacio, mai. 
Eppure, per quanto avesse preso a desiderare con insitenza che ce ne fossero degli altri (dapprima semplicemente come trasporti casuali, discreti, che gli davano la pelle d'oca pur facendolo sorridere), non poteva evitare di percepire quanto in realtà il suo sentimento fosse diverso dalla prima infatuazione. 
Per Marco aveva provato qualcosa di immaturo, troppo vicino all'affetto di un amico per poter già essere chiamato "amore", ma al contempo carico di sguardi e nodi alla bocca dello stomaco e promesse che non era riuscito a vivere appieno. Invece, ciò che sentiva per il compagno di viaggio era totalmente incomparabile, ed assomigliava più ad un connaturato senso di appartenenza che ad  una passione puerilmente inesperta.
Rendeva meno terrificanti gli incubi su ciò che aveva perso, meno amari quelli su ciò che aveva ancora. 


*
 

Camminavano. 
Verso dove, non se lo chiesero, e neppure quanto si fossero allontanati dagli altri. Non sarebbero stati raggiunti comunque, perché ormai era buio e nessuno dei due diceva un parola. 
Qualcuno che aveva bevuto troppo o che non voleva pensare era già crollato nella propria tenda. Jean, invece, aveva sentito una stretta fredda e umida alla mano sinistra e l'ultimo viso illuminato dalle braci accese era stato quello di Armin. Di notte camminavano e basta, raramente andavano a dormire senza aver trascorso del tempo insieme. E due mesi equivalevano a parecchie notti.

Jean teneva un braccio attorno alle spalle del compagno, con una stretta non troppo esigente ma presente, che voleva dire tutto ciò che provava molto meglio delle parole e persino degli sguardi che riuscivano a scambiarsi nelle ore di Sole. 
Si fermarono sulla sponda di un fiume, che forse era lo stesso su cui Jean si era ferito, forse no. Fecero per sedersi. "Non lasciarmi" sussurrò Armin allora. "Non lasciarmi, si sta bene."
Jean strinse il ragazzo a sè un po' più forte, riposando una mano sulla sua vita. Avrebbe sul serio potuto addormentarsi così, semplicemente così. Gli sfiorò la tempia con le labbra, ma a quel gesto Armin voltò il capo e raggiunse la sua bocca.
Amava quei baci e amava quel corpo, e amava poter avere quella mente tutta per sè, amava sentirsi spaesato e toccare con sensibilità diversa l'erba sotto di sé e persino sentire un canto differente di cicale, amava dimenticare di essere vivo sotto le dita esitanti che si perdevano tra i suoi capelli. Amava dare con qualcuno un senso al tempo quando questo aveva smesso di possederne, e lo spingeva sul limite della pazzia.

"Armin, non ho tutto il tempo del mondo," gli disse, quando si sdraiarono con il viso rivolto alla volta notturna, "ma quello che ho è tuo. Se lo vuoi."
Armin chiuse gli occhi e annuì brevemente. "E il mio tempo è tuo. Se sei pronto."


*

 
Raggiunsero la costa poco tempo dopo. Il libro di Armin la chiamava "scogliera".

"Eren mi ha sempre detto che rischiavo l'arresto per sapere queste cose" disse a Jean, sedendosi sul margine a picco sull'oceano. Sotto non c'era sabbia. L'acqua si abbatteva sulle rocce liscie con tonfi sonori e gorgoglii di schiuma.
Il resto della Legione si era allineatoo poco distante, e osservava l'orizzonte con nuova solennità.
"Odio ammetterlo, credimi. Ma se ti avessi conosciuto allora non ti avrei detto niente di diverso."
Armin rise, e Jean ebbe l'impressione che quella reazione non fosse dovuta semplicemente alla sua risposta. "Dovresti scrivere a tua madre che siamo arrivati all'oceano" suggerì.
Lui si corrucciò appena. "Sì, lo farò." Poi la sua attenzione venne richiamata da capelli biondi spostati con furia dal vento, alla sua sinistra, e lo scosse un profondo brivido d'affetto per quel ragazzo che per così tanto tempo aveva sognato di vedere l'oceano insieme alle persone a lui più care, e che ora, per quanto insopportabile fosse l'idea, avrebbe anche potuto annegarcisi. "Le farà piacere sapere anche di te" aggiunse.
"Di me?"
"Sei l'unico argomento delle mie lettere ormai. Si è abituata."

Armin sollevò gli angoli della bocca in un timido sorriso, muovendosi in direzione di Jean cosicché le loro spalle, sotto i mantelli, aderissero l'una con l'altra. "Anche se tu non ne sei felice... Io sono grato che tu sia vivo, Jean. Così tanto grato che a volte non riesco a dormire."
Jean mantenne il contatto dei loro corpi e tentò di non pensare a quanto quelle parole fossero oneste e a quanto si sentisse triste, lasciandosi silenziare dal suono delle onde.


*

 
Occhi blu, labbra salmastre, bellezza rotonda e schiva; gli ricordava, per antitesi, la stagione primaverile. Per i colori, forse, o per il modo in cui il sole sfiorava la sua pelle come pietre sul fondo di un fiume, o, ecco, come il vento trascinava via i brutti pensieri. Armin poteva essere detto questo e altro ancora. Ma erano solo ragazzini in un mondo troppo grande e danneggiato.

"Sei felice?"

Erano solo ragazzini, capaci di amare le stelle ma incapaci di raggiungerle o persino di rischiare, poiché si sa cosa succede a chi tenta di volare troppo in alto. E le ali sulle loro schiene potevano fare ben poco.
Erano liberi come poteva esserlo un reduce di guerra. 
"Sono passati anni da quando me l'hai chiesto l'ultima volta."

 
And if you're in love, then you are the lucky one, 

"Qualcuno una volta mi ha detto che ciò che il tempo non guarisce dobbiamo guarirlo noi."
'Cause most of us are bitter over someone.

"Forse all'essere felici noi possiamo solo avvicinarci."
Setting fire to our insides for fun,

"Sei bello lo stesso, lo sai?"
To distract our hearts from ever missing them.

"Vuoi un bacio?"
But I'm forever missing him.

"Uno per ogni onda dell'oceano che abbiamo visto."





 
  
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