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Autore: Calliope49    04/07/2015    2 recensioni
*COMPLETA*
«Avete anche un nome, monsieur?»
«D’Artagnan».
Lei strinse appena le labbra. «Ah, siete quel d’Artagnan».
«Prego?»
«D’Artagnan, Athos, Porthos e Aramis. Treville vi nomina spesso - quando parla dei rischi per la sua salute, ad esempio».

Una calma insolita è piovuta su Parigi, ma la situazione non è destinata a durare. Strani incidenti, un omicidio e la comparsa di un misterioso bandito daranno filo da torcere agli uomini del re. Nel mezzo, una ragazza e troppe cose che non sono quello che sembrano…
[AthosXNuovoPersonaggio; Accenni Constagnan e Annamis]
[N.B. La storia non tiene conto degli sviluppi della seconda stagione perché è stata ideata prima che ne cominciassero gli episodi]
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Athos, Captain Treville, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'On the side of the angels '
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XXI
Il cardinale
 
 
«Francamente, Treville, io non riesco a comprendere» disse de Leroux.
In effetti, la comprensione non sembrava una delle sue migliori attitudini.
«Non c’è niente da comprendere, duca»
«Avete mandato nostra nipote a vivere in casa di un mercante»
«Dovreste smettere di parlare di Diane come se fosse priva di una volontà propria. Desiderava vivere in maniera indipendente, secondo voi avrei dovuto rinchiuderla?».
De Leroux arricciò le labbra. «Dovevate provare a farla ragionare» sibilò. «Mi ci sono voluti dieci anni per rimetterla in riga, se non fosse una ragazza impegnata mi importerebbe meno, ma voi dimenticate che deve sposare Cesare Corsini. Non voglio nemmeno pensare cosa abbia combinato da sola a Parigi».
Le frasi di quella discussione arrivavano in soffi rochi, come il verso di un gatto arrabbiato, ai due moschettieri in piedi accanto alla finestra.
Dai giardini del palazzo del re filtrava una luce calda, la prima remota speranza di primavera.
«Mi sto sentendo male» sussurrò Porthos, facendosi aria col cappello.
In una qualche maniera assurda e contorta, Athos trovava divertente l’idea che il duca non avrebbe mai immaginato cosa aveva combinato sua nipote. Ma la bolla di ilarità si dissolse in un attimo, inghiottita da tutto il resto, perché Diane doveva proprio farlo, doveva proprio andare a letto con lui e tradirlo anche in quel modo, doveva dimenticarsi di avere un fidanzato - o comunque un tizio che si credeva tale. E poi… doveva beccarsi una pallottola tra le spalle per salvare lui.   
Un rumore di passi pesanti dall’altro lato del corridoio rimescolò i pensieri del moschettiere e li dissolse come fumo.
Richelieu stava arrivando scortato da due guardie rosse e dal conte Legrand.
Ora mi sto sentendo male anche io, pensò Athos.
Il conte incarnava tutto ciò che aveva imparato a disprezzare. E l’idea che delle persone a cui teneva avessero rischiato la vita per le sue macchinazioni gli fece correre la mano all’elsa della spada, ma la lama restò nel fodero, le dita mollemente appoggiate all’impugnatura.
Richelieu e la sua scorta si fermarono accanto al duca e al capitano.
Anche Treville rimase impassibile davanti al responsabile della morte di sua sorella, solo un lampo impercettibile guizzò nei suoi occhi chiari, una scintilla che solo chi lo conosceva bene avrebbe potuto scorgere.
«Caro duca de Leroux» salutò Richelieu con squisita cortesia. «Ah, faccio sempre fatica a ricordare che voi e il capitano siete parenti»
«In un certo qual modo» disse Treville a denti stretti.
«Suvvia, cosa importa avere qualche contrasto di idee quando si è accomunati da quella deliziosa ragazza di vostra nipote» esclamò bonario il cardinale. I suoi occhi infossati in solchi lividi di occhiaie marcate riuscivano ancora a essere taglienti come lame. «Un gioiello prezioso da preservare da tutti i pericoli e le tentazioni a cui sono esposte le giovani donne al giorno d’oggi».
Athos sentì lo scricchiolio del cuoio quando Porthos accanto a lui strinse a pugno le mani guantate. Lui invece avvertì una sensazione fredda e pungente trafiggergli i muscoli, un’ombra di qualcosa che somigliava alla paura o al rammarico.
Che in qualche modo lo sguardo d’acciaio di Richelieu fosse arrivato così lontano? Che sapesse di Diane e di tutto quello che era successo?
No, impossibile. Il cardinale non aveva motivo di interessarsi alla ragazza, forse stava solo cercando di mettere in difficoltà Treville. Dopo tanto tempo, lo trovava ancora dilettevole.
«Ho insegnato l’onestà a mia nipote molto tempo fa» ribatté de Leroux.
«Non lo metto in dubbio. Un peccato che la vostra Diane si sia trovata sola a Parigi, passare tanto tempo alla guarnigione dei moschettieri dev’essere stato noioso per lei».
Il duca si voltò verso Treville guardandolo come se avesse commesso qualche orrendo crimine.
«Oh, ti prego…» borbottò Porthos, irritato.
Il capitano sollevò la testa. «Diane ha passato il suo tempo dove preferiva. Se qualche pomeriggio alla guarnigione dei moschettieri fosse cosa da rimproverare, allora dovremmo riconsiderare tutto il nostro sistema penale» disse. «Ad ogni modo, immagino che Vostra Eminenza non sia qui per parlare di mia nipote».
Il duca de Leroux sembrava furioso. Doveva essere davvero difficile per lui immaginare che, uscita dalla sua orbita, Diane avesse fatto quello che le pareva e in tutto questo tempo lei gli fosse sfuggita di mano.
«No, capitano, avete ragione» disse il cardinale. «Vogliamo fare due passi? È una splendida giornata per godere di una così illustre compagnia».
Porthos sbuffò e si cacciò il cappello in testa. I due moschettieri seguirono a qualche metro di distanza Richelieu e i gentiluomini che erano con lui.
«Comunque, Diane non sposerebbe mai quel damerino» disse Porthos all’improvviso all’orecchio del compagno.
Athos sospirò facendo appello a tutta la sua pazienza. «La cosa non riguarda né me né te».
L’altro fece un verso sordo e scosse il capo, poi, per fortuna smise di parlare.
Il corridoio era una striscia di rettangoli di luce di ombra. I ritratti dei vecchi sovrani di Francia guardavano con occhi fissi il piccolo corteo che passava sotto di loro.
«Il conte Legrand si è rivolto a me, per una questione di una certa pregnanza» disse il cardinale, guardando Treville. «I vostri moschettieri non hanno ancora fatto progressi nelle indagini. Sono passati tre mesi dagli incidenti dell’inaugurazione dell’ospedale».
«Non voglio accusare i vostri uomini di negligenza, capitano» intervenne il conte Legrand. «Ma voi capite, vorremmo delle risposte e mi seccherebbe dover riportare nuovamente la questione all’attenzione di sua maestà»
«Cosa suggerite, dunque?»
«Che voi e i vostri uomini vi facciate da parte».
Athos e Porthos si scambiarono un’occhiata obliqua. Certo che voleva che si facessero da parte: Legrand doveva aver intuito che, di questo passo, sarebbero giunti al bandolo della matassa.
Non ci fermeremo fino a quando non ti vedremo pendere da una forca.
«Molto bene» disse Treville, perfettamente tranquillo.
Athos e Porthos si fermarono di colpo, quasi inciampando per lo stupore. Da quando il loro capitano era così remissivo? Abbandonare quell’indagine era una resa che non potevano concedersi.
Persino Richelieu parve sorpreso dall’arrendevolezza di Treville.
«Sì, ecco…» disse il cardinale, rimasto un attimo senza parole. «Già che siamo qui a parlare con il conte, vorrei invitare voi, duca, a visitare le strutture di cui Legrand ha fatto dono alla città di Parigi, credo che vi sarà utile per la vostra relazione»
«Quale relazione, se posso chiedere?» domandò Legrand con una mossa del capo che faceva tremolare ogni volta il suo generoso doppio mento.
«Una relazione sulle opere di bene in Francia richiesta dalla Santa Sede».
Il conte sorrise in quel suo modo assolutamente amabile. «Oh, allora ne avrete di cose da dire, monsieur. Sarete un ospite molto gradito nelle mie strutture, quando vorrete. E anche voi, Eminenza, del resto il vostro contributo è stato prezioso per la loro realizzazione».
Treville sorrise come a voler dare il suo di contributo a quel delizioso scambio di ciarle e cortesie, ma quel sorriso aveva altre ragioni e non era indirizzato ai suoi interlocutori.
«Il capitano ha in mente qualcosa» disse Porthos.
Dopotutto Diane doveva pur averla presa da qualcuno, quella sua testolina machiavellica.
Treville si fermò a osservare il panorama da una delle grandi finestre della galleria, mentre il corteo si allontanava di qualche metro.
«Athos, va’ a cercare mia nipote, era qui a palazzo stamattina» ordinò. «Porthos, vai a prendere Aramis e d’Artagnan, c’è del lavoro da fare. Ci vediamo nel mio ufficio il prima possibile».
I due moschettieri lasciarono il capitano nel corridoio. C’era un certo entusiasmo nelle parole del loro superiore, come di qualcuno che ha preso all’amo un pesce molto grosso ed era una soddisfazione contagiosa: Athos, come i suoi compagni, aveva fatto propria quella missione. Non si trattava semplicemente della vendetta di Diane, si trattava di fare giustizia. Dopo tanti rischi e dopo tanti pessimi quarti d’ora, ogni passo avanti, ogni singolo spiraglio era una notizia che bastava a migliorare la giornata. Di sicuro era quello di cui avevano bisogno in quel momento, dopo il fallimento della loro missione al porto.
 
***
 
Il vento scuoteva le chiome degli alberi nell’aranceto.
Diane al braccio di Cesare continuava a camminare con il naso per aria, guardando il cielo come se qualcosa dovesse caderle addosso da un momento all’altro.
Il tempo stringeva. Presto avrebbe dovuto tornare a Roma e non aveva ancora ottenuto niente.
Quel senso di attesa la soffocava, o forse era solo la presenza del duca. Nei pochi giorni che lui aveva trascorso a Parigi, la ragazza non aveva avuto un solo minuto per sé, de Leroux l’aveva trascinata a corte, a pranzo con il re, nei suoi incontri con i dignitari di palazzo e con una sequela di uomini fedeli al cardinale che non sembravano avere molta simpatia di quella ragazza che era ormai conosciuta come la nipote del capitano dei moschettieri. 
A salvarla da mattinate e pomeriggi noiosi era intervenuta la regina che, quando poteva, allontanava Diane da quel crocchio di uccellacci imbellettati e la portava con sé in qualche passeggiata o in qualche salotto a bere cioccolata e giocare a carte.
Diane era stata più volte tentata di raccontare ad Anna la sua storia e il motivo per cui era tornata a Parigi, ma si era trattenuta per gli stessi motivi per cui si era trattenuta con Treville: non voleva rischiare di non essere creduta, ma soprattutto non voleva rischiare che qualcuno si compromettesse per aiutarla e la regina era troppo felice - e troppo delicata - a causa della sua gravidanza per venire turbata da qualche pensiero cupo ed esporsi ad altri problemi.
«Sei riuscito a visitare Parigi?» domandò la ragazza, smettendo di fissare il viavai di nuvole sopra la sua testa.
Cesare scosse il capo. «Affatto. Non ho nessuno che mi faccia da guida, chiederei al duca di lasciarti libera più spesso, ma non vorrei apparirgli sfacciato».
Diane sorrise. Figlio di una ricchissima famiglia italiana, Cesare aveva un concetto molto chiaro di cosa fosse sconveniente, e cercava di attenersi a quelle idee in maniera quanto mai scrupolosa. A suo modo era l’antonomasia del bravo ragazzo.
«Sarei contenta di poterti accompagnare»
«Ho avuto l’impressione che tu sia sempre impegnata a pensare ad altre cose. C’è qualcosa che ti preoccupa?»
«Mio zio»
«Posso assicurarti che il duca sta benissimo e non vede l’ora di riaverti a casa»
«Non lui, l’altro».
Il ragazzo annuì comprensivo. «Hai paura che il capitano Treville possa sentirsi solo dopo la tua partenza? Potrebbe venire a stare da noi a Roma per un po’»
«Non sai quello che stai dicendo. Lui non lascerebbe mai la guarnigione, nemmeno per un giorno»
«Nemmeno per il matrimonio della sua unica nipote?»
«L’Italia è lontana, Cesare»
«Allora dovremmo sposarci a Parigi».
Diane ebbe un sussulto, si figurò la scena e le parve tremenda come un incubo. «No!» esclamò fermandosi di colpo.
«Era un’idea. Pensavo potesse farti felice… non mi ero mai reso conto di quanto la tua città ti mancasse e di quanto vi fossi legata».
Oh, dolce, caro Cesare. Si conoscevano da quando lei era arrivata a Roma. Quel ragazzo era una compagnia piacevole nelle rare settimane che Diane trascorreva a casa quando non era in collegio. Il duca voleva assicurare un futuro agiato alla sua unica erede, i genitori di Cesare volevano crearsi legami con qualcuno che vantasse anche solo mezza spanna di nobiltà e c’era sempre stata una tenerezza complice tra i due ragazzi, un affetto che aveva lasciato intendere che un futuro matrimonio non sarebbe stata affatto una sgradevole imposizione. Per un po’ anche Diane l’aveva pensato, negli anni in cui il mondo era una visione da contemplare a distanza e l’amore era un concatenarsi di rime in qualche libro di canzoni.
Era partita da Roma convinta di poter amare quel ragazzo con poche briciole di cuore, che fosse così che andavano le cose. Aveva imparato presto che era in errore ma adesso la vicinanza di Cesare le aveva fatto tornare in mente che avrebbero potuto farcela, rendersi felici a vicenda e nascondere come polvere sotto al tappeto la restante parte di infelicità che ogni vita si trascina dietro.
«In questi mesi a Parigi ho imparato a conoscermi meglio» disse al ragazzo, scrollando appena le spalle.
«E permetterai anche a me di conoscere quelle cose che hai scoperto stando qui?»
«E se non ti piacessero?»
«Ne dubito».
Quando era successo che i loro visi si erano fatti così vicini?
Cesare la baciò con la stessa tenera esitazione con cui l’aveva baciata la prima volta, quando lei aveva diciotto anni ed era un’altra persona. Il cuore di Diane si spezzò a quel tocco e la ragazza provò l’intenso desiderio di essere la giovane donna che lui si aspettava e la malinconia di rendersi conto di non esserlo mai stata, di non essere in grado di diventarlo. Eppure era bello, era piacevole credere che da qualche parte nel suo futuro ci fosse un rifugio comodo, una casa e un paio di braccia dove dimenticare Parigi e tutto quello che era successo, un luogo dove la cicatrice a forma di V tra le scapole avrebbe smesso di bruciare.
Un rumore secco di rami spezzati strappò i due giovani al loro idillio.
«Perdonatemi…». Athos sembrava una statua emersa dal terreno, una di quelle cose che ritrovi quando non ti aspetti e che ti fanno capire di esserti smarrito.
Se Diane fosse stata capace di odiarlo, quello sarebbe stato il momento adatto per cominciare a farlo.
«Che cosa c’è?» sibilò la ragazza.
Il moschettiere rivolse a Cesare un cenno garbato prima di voltarsi verso di lei. «Il capitano Treville vorrebbe vederti, se non sei troppo impegnata».
Cos’era quella, una frecciatina? Si sentiva davvero in diritto di potersi permettere una tale sfacciataggine?
Ma forse non c’era nessuna nota di impertinenza nelle sue parole, forse Diane si stava attribuendo troppa importanza. Anche se lei e Athos non avevano mai più parlato di quello che era successo tra loro, non occorreva: era finita e lui non voleva neppure crederlo importante dal momento che lei era stata così indifferente da riuscire a mentirgli per tutto quel tempo.
«Sono certa che mio zio abbia delle buone ragioni per mandarmi a cercare» rispose.
«Sì, credo anche io»
«Vuoi che ti accompagni?» si intromise Cesare.
Athos parve divertito da tanta solerzia. Diane si voltò verso il ragazzo stupita che lui si mostrasse così ansioso di seguirla.
«Credimi, la guarnigione dei moschettieri non è il primo posto da visitare per qualcuno che non ha mai visto Parigi» gli disse.
«È che mi piacerebbe conoscerlo meglio, il capitano Treville. Non riesco a… inquadrarlo, mi sembra che non ti somigli per niente, faccio fatica a credere che sia tuo zio»
«Sì, d’accordo, ma tu non dire mai una cosa del genere davanti a lui. O a qualcuno dei suoi uomini».
Cesare dovette prendere quella frase come una battuta perché guardò Diane con aria sorniona, poi si voltò verso Athos.
Dio, ti prego…
«Non ve ne vorrete a male, monsieur, se il mondo militare e gli uomini che ne fanno parte mi risultano un po’ estranei» concluse il ragazzo nel suo francese un po’ stonato.
«Niente affatto» replicò Athos, cordiale. «Ognuno ha le sue attitudini, confido che anche voi abbiate le vostre, monsieur».
«Immagino che mio zio mi stia aspettando» tagliò corto Diane, la voce che suonava leggermente stridula. «Ci vediamo a cena, Cesare. Grazie della passeggiata».
Il ragazzo le prese la mano e gliela strinse tra le dita prima di lasciarla andare. Mentre si allontanava per raggiungere Athos, Diane sentì le gambe pesanti e legnose, come se i suoi muscoli la stessero implorando di mettersi a correre e scappare.
Affiancò il moschettiere e insieme sparirono dietro a una siepe.
«Un tipo sveglio» commentò Athos in tono piatto.
«Sta’ zitto»
«Sei fortunata che io non sia Porthos»
«Stai. Zitto»
«Ci mancherebbe»
«Ecco, bravo». 
 
Quando raggiunsero l’ufficio del capitano, Aramis, Porthos e d’Artagnan erano già lì.
«Il cardinale» disse Treville, dal nulla.
«Che ha fatto?»
«Ha fatto delle donazioni per le opere del conte Legrand. Il duca. La relazione per la Santa Sede. Non capite?».
I moschettieri e la ragazza si scambiarono occhiate perplesse. Treville li fissava aspettandosi che cogliessero la genialità della sua intuizione, ma nessuno sembrava in grado di dargli soddisfazione.
Infine il capitano si arrese e sbuffò, rassegnandosi a spiegare tutto dal principio.
«Il duca de Leroux è qui per scrivere una relazione sulle opere di bene per la Santa Sede, lo abbiamo appreso poco fa» esordì. «Il cardinale vorrà certamente fare bella figura e questa è l’occasione di smascherare Legrand»
«Non capisco» mormorò Diane, dato che i quattro moschettieri non sembravano in animo di contraddire l’euforia del loro superiore. «Cosa c’entra il cardinale, in che modo può esserci utile tutto questo?»
«Dite che Richelieu potrebbe essere coinvolto nei traffici di Legrand?» domandò d’Artagnan, confuso.
«No, tutt’altro. L’azione del conte è qualcosa di losco e sovversivo, e Richelieu non prenderebbe mai parte a qualcosa che può compromettere la sicurezza della città - se non è lui a gestirlo, almeno».
Treville strinse le labbra, congiunse le mani e le appoggiò sul piano dello scrittorio. Sembrava che le parole faticassero a uscirgli di bocca, adesso.
«Dobbiamo - e Dio solo sa quanto mi costa dirlo - chiedere al cardinale di aiutarci».
I moschettieri fecero un’espressione sdegnata. Porthos si lasciò scappare una risata nasale e cavernosa ma il capitano lo fulminò con uno sguardo che lo costrinse a ingoiare quello sprizzo di ilarità.
«Perché dovrebbe aiutarci?» chiese Athos, cercando di ritrovare il filo del discorso.
«Perché sta perdendo la presa, non è più potente come una volta e ha bisogno di fare colpo. Devo solo convincerlo che le accuse contro Legrand sono fondate e che ha tutto da guadagnare nell’aiutarci a smascherarlo»
«Buona fortuna…» bofonchiò Aramis.
«Continuate a non capire: non vi siete chiesti dove sono le armi arrivate due settimane fa?» insistette il capitano
«Potrebbero essere ovunque».
In quel momento Diane comprese il ragionamento di suo zio. Era un’intuizione geniale, anche se non c’era modo di provare che avesse ragione.
«Le armi sono all’ospedale» mormorò la ragazza.
Quadrava: Legrand aveva fatto uccidere Morice perché non poteva più fidarsi di lui, ma gli serviva ugualmente un posto dove nascondere le armi e quale posto migliore e più insospettabile di un ospedale per i poveri?
Dovevano essere quelle arrivate quindici giorni prima, partite dal porto prima che loro arrivassero. Di sicuro, dopo il trambusto di quella sera, il conte e i suoi scagnozzi non si sarebbero azzardati a smerciarle in giro: dovevano tenerle nascoste da qualche parte, in attesa che si calmassero le acque. 
Probabilmente costruire l’ospedale aveva fatto parte fin dal principio del piano del conte per gestire meglio i suoi traffici.
«E cosa dovremmo fare? Intrufolarci per andare a cercarle?» domandò d’Artagnan.
«No, se le troviamo e loro se ne accorgono, le sposteranno prima che si riesca a denunciare il conte» insistette Diane. «Dobbiamo coglierlo con le mani nel sacco»
«Durante la visita che farà il duca» indovinò Porthos.
«Esattamente» confermò Treville. «Ed è per questo che ci serve l’aiuto del cardinale»
«Ah, bene, non ci resta che convincere sua Eminenza» sbuffò Aramis.
«Ci andrò a parlare io» sbottò la ragazza.
Porthos scosse energicamente la testa. «Tu sei praticamente un mezzo moschettiere». 
«Be’, c’è più probabilità che ascolti un mezzo moschettiere che un moschettiere intero».
 
Diane non era sicura che Richelieu l’avrebbe ricevuta tanto presto, ma quando le porte del suo ufficio si aprirono dopo solo mezz’ora di anticamera, la ragazza capì che sua Eminenza doveva essere quanto meno incuriosito: nel mondo della politica di palazzo, con bianchi e neri senza sfumature, lei doveva rappresentare un caso singolare, contesa tra Treville e il duca.
Probabilmente Richelieu si era chiesto a quale ramo della sua famiglia la ragazza fosse fedele, senza capire che non era una questione di fedeltà, solo di affetto, di affinità naturali.
Diane non aveva mai scelto tra il duca e il capitano, ma la sua natura la faceva propendere per un certo stile di vita invece che un altro. Uno stile di vita che avrebbe dovuto lasciarsi alle spalle, ad ogni modo.
L’ufficio di Richelieu era una stanza immensa con il soffitto a cassettone di legno scuro. Nonostante lo spazio enorme, sembrava che nessuno si fosse mai preoccupato di riempire il vuoto. Era come se il cardinale volesse riflettere la propria grandezza attraverso quella stanza piena di nient’altro che lui e la sua scrivania di mogano.
Era curvo su dei fogli, scriveva velocemente righe di parole fitte e appuntite, senza curarsi della sua ospite. Anche questa doveva essere una dimostrazione di potere.
Molto bene: se sua Eminenza capiva l’importanza dei gesti e dei dettagli, avrebbe capito senz’altro la richiesta che Diane intendeva fargli.
Fece cenno alla ragazza di avvicinarsi, flettendo le dita, senza alzare lo sguardo dalla lettera.
Non c’erano sedie in quella stanza, oltre a quella occupata dal cardinale. Nessuno era un ospite lì dentro.
Diane decise che non si sarebbe lasciata intimorire, anche se le sembrava che il soffitto fosse fatto apposta per abbassarsi e schiacciare chiunque mettesse piede in quell’ufficio.
Richelieu la lasciò ancora qualche minuto ad attendere, solo quando ebbe riempito il foglio di pergamena fino all’ultima riga si decise a metterlo via e a sollevare lo sguardo sulla giovane donna.
Accennò un sorriso indecifrabile, una smorfia come un taglio storto sulla faccia rinsecchita.
«Medemoiselle Leroux, non mi sarei mai aspettato una vostra visita. Vostro zio sa che siete qui?»
«Quale dei due?» domandò la ragazza, ostentando una certa disinvoltura.
Il cardinale parve persino divertito da quella piccola dimostrazione di spirito.
«Vi ringrazio per avermi ricevuta» continuò la giovane. «So che siete un uomo molto impegnato»
«Allora confido che non mi farete perdere tempo e verrete al dunque: cosa volete?».
Diane sapeva che occorreva scegliere le parole con cautela. Una virgola in più o in meno segnava la differenza tra venire ascoltata fino in fondo o venire scacciata.
Constance le aveva detto di stare in guardia col cardinale. Constance ormai sapeva ogni cosa: glielo avevano raccontato come lo avevano raccontato a suo zio la notte che Aramis l’aveva portata a casa Bonacieux in fin di vita. Il cuore di quella donna era grande ed era forte, uno scrigno per i segreti e gli affetti e per un amore troppo grande e difficile.
«Ho delle accuse da fare, accuse molto serie, Eminenza».
Richelieu si umettò le labbra pallide e fissò la sua interlocutrice con fare canzonatorio. Il serpente nel giardino dell’Eden doveva avere quella stessa fisionomia.
«Per questo ci sono le autorità competenti. Siete la nipote del capitano dei moschettieri, diamine!»
«E so che questo mi rende poco amichevole ai vostri occhi»
«Francamente, mademoiselle, vi ho osservata e non riesco a capire chi siete: la fanciulla soave e devota che vi mostrate con il duca o la ragazza sfrontata che frequenta la guarnigione dei moschettieri»
«Vi importa?»
«Se non vi conosco, non posso fidarmi di voi. E voi mi avete sempre fatto pensare a qualcuno che nasconde dei segreti».
Diane sorrise, sarcastica. «È dei miei segreti che sono venuta a parlarvi, in un certo senso».
«Non nego di essere in parte intrigato ma, come avete osservato voi stessa, sono un uomo impegnato, perché dovrei perdere tempo ad ascoltarvi?»
«Perché avete qualcosa da guadagnarci. Non sono così ingenua da venirvi a trovare senza niente da offrirvi».
Richelieu si gettò con le spalle contro l’alto schienale della sedia, un lampo da fiera famelica passò nei suoi occhi chiarissimi. Sorrise di nuovo in quel suo modo un po’ sardonico e un po’ crudele.
«Forse comincio a capirvi meglio, mademoiselle» disse.
«Avete fatto delle donazioni per la costruzione dell’ospedale del conte Legrand, non è vero?»
«Sì. Molti nobili le hanno fatte, tutti per la stessa ragione: il nostro rango ci impone di essere buoni, ostentare il nostro spirito elevato. E poi un ospedale per i poveri fa felici tutti, meno moribondi per le strade, e così via, così via»
«Ma il vostro nome è sicuramente quello più influente. Se si scoprisse qualcosa di poco gradevole sulle attività del conte, sarebbe un bello scandalo per voi»
«Mia cara, argino scandali da tutta la vita»
«Ma in tutta la vostra vita non siete mai stato così vulnerabile».
Il cardinale guardò la ragazza con astio: non sopportava di vedersi sbattere in faccia le proprie debolezze, e probabilmente ora era curioso davvero, o persino ansioso di sapere cosa ci fosse di così importante da dire su quel pallone gonfiato del conte Legrand.
«Il conte Legrand traffica armi, e Dio solo sa cos’altro. Riteniamo che stia usando l’ospedale come copertura. È responsabile della morte di Luc Morice, suo vecchio socio in affari poco raccomandabili, e di Robert Bourell, l’uomo trovato morto il giorno dell’inaugurazione dell’ospedale. Non so cosa ci faccia con le armi e il ricavato dei suoi traffici ma credo sia qualcosa che vi converrebbe scoprire e, soprattutto, fermare».
Richelieu si alzò di scatto dalla sedia, quasi facendola ribaltare. Diane pensò di aver sbagliato qualcosa, che ora il cardinale l’avrebbe scacciata e tutto sarebbe andato perduto.
«Se è vero, e dico se, mi state rendendo un grosso favore, mademoiselle, non riesco a capire come mai i vostri amici moschettieri non abbiano fatto niente in proposito» disse l’uomo. Si mosse rapido per la stanza, la mantella del suo abito scuro si gonfiava dietro la sua schiena come le ali di un pipistrello.
Richelieu era un uomo troppo sagace, probabilmente doveva aver sospettato di Legrand molto tempo prima e di certo si rendeva conto che lei non avrebbe mai mosso accuse tanto gravi a vuoto, che non si sarebbe azzardata a scomodare il primo ministro di Francia senza essere sicura di quello che stava dicendo.  
«Non abbiamo prove» ammise Diane. «Vi sto chiedendo di aiutarci a trovarle»
«Parlate al plurale. Ora capisco in chi e in cosa riponete la vostra fede»
«Quando vorrò parlare della mia fede verrò al vostro confessionale»
«Potreste trovarlo illuminante. Ma, ditemi, in che modo credete che io possa aiutarvi - voi e i vostri amici dalle cappe azzurre?»
«La visita all’ospedale che avete organizzato per mio zio il duca. Direte a Legrand che andrete solo voi e lui con una piccola scorta, invece porterete anche me, il capitano e i moschettieri. Cercheremo le armi: se le troviamo potete prendervi il merito di aver smascherato un falso benefattore. Se foste presente anche voi e riuscissimo a incastrare Legrand, la sua dimostrazione di colpevolezza a un eventuale processo sarebbe garantita».
Richelieu avanzò verso la finestra e si appoggiò al davanzale spoglio.
«Date per scontato che io vi creda» disse senza voltarsi a guardare Diane ancora in piedi accanto alla scrivania.
«Lo state facendo. Ho l’impressione che il conte non sia simpatico a tutti come gli fa piacere credere» osservò lei.
«E se vi foste sbagliati? Se non ci fossero quelle armi?»
«Chiederò il vostro perdono per avervi importunato»
«Potrei pretendere molto di più»
«Allora ne riparleremo».
Richelieu annuì. «E sia. Domani portate Treville e i vostri amici all’ospedale. Spero troviate tutto di vostro gusto».
Diane sorrise soddisfatta. Non si diede il disturbo di salutare il cardinale e si voltò sentendo sulla schiena i suoi occhi glaciali.
«Non capisco il vostro accanimento, però» disse lui quando la ragazza era già sulla porta. «Siete un cuore puro come vostro zio il capitano, ma ho l’impressione che non siate mossa solo da senso civico».
Non sono un cuore puro, pensò la ragazza. Richelieu non era un ministro di Dio a cui fare quel genere di confessioni ma i segreti non le sarebbero serviti più a nulla. 
«Legrand ha fatto uccidere i miei genitori, dieci anni fa» concluse sull’uscio, senza ricambiare lo sguardo di sua Eminenza.
«Ah, vendetta» sospirò lui.
«Giustizia»
«Delizioso quando trovano il modo di coincidere. Sentirsi assolti per l’odio che si prova aiuta a dormire meglio la notte, non trovate? Immagino che voi dormiate come una bambina».
«Ho smesso di dormire da quando sono tornata a Parigi» disse Diane.
Lasciò la stanza con l’orlo della gonna di raso che spazzava il pavimento di cotto.
Voleva uscire da lì e respirare.








  
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