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Autore: Aoboshi    04/07/2015    4 recensioni
Cassandra è ormai prigioniera nella reggia del deserto. Il suo tentativo di fuga viene però interrotto dall'affascinante richiamo della biblioteca della magione, la ragazza si ritrova a vagare tra gli antichi volumi del suo misterioso ospite, il quale la sorprende in quel luogo. Dopo il breve scambio di battute, Cassandra capisce che il breve equilibrio, conquistato dopo anni di tormenti, è stato incrinato e sarà proprio Kuja a condurla verso quel destino a cui lei è sfuggita per troppo tempo. Gli spiriti nella sua mente si sono risvegliati e la reclamano, il loro canto popola imbattuto i suoi incubi e, dopo anni, Cassandra non sa se sarà ancora capace di resistergli.
Genere: Fantasy, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kuja, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Frammenti perduti di Gaya'
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-Cassida, Cassida!- la voce severa le arrivò distante. Cassandra fece una smorfia, non aveva alcuna intenzione di svegliarsi.
-Mmm- gemette riavvolgendosi nelle coperte ruvide. Tela, tutto di tela in quel posto, tela e roccia, roccia e tela, e a svegliarsi non ci avrebbe guadagnato nulla. Tra l’altro, quello non era neanche il suo nome, se avesse solo pronunciato quello vero, avrebbe aperto almeno un occhio. Continuò a fingere di dormire.
Finì malamente giù dal letto, rotolò sul pavimento (di pietra) e si massaggiò il nascente bernoccolo sulla testa.
-Oh mamma… andiamo!- la figura della donna si stagliava scura e altera davanti a lei.
La madre era di una bellezza senza pari, minuta, ma dalla forte presenza. Lungo le braccia ed il collo, la vernice colorata disegnava rune e simboli sinuose,  spiccando vivida su quella tela bruna, striandola come il manto dei kwaul. I folti capelli scuri le cadevano ribelli sulla schiena; portava un grande copricapo piumato, un oggetto che Cassandra avrebbe sempre voluto provare, ma che ovviamente non poteva neppure sfiorare. Tra le piume di quel copricapo, faceva capolino il corno color avorio della donna. Cassandra si toccò involontariamente la fronte, lei  non lo aveva, c’era solo l’accenno del bernoccolo.
Il fisco della donna era asciutto, come si indovinava attraverso le poche parti lasciate libere dal vestito di pelli di mostri. Gli occhi viola erano infossati in quel viso sempre troppo severo e rigido. Aveva un aspetto selvaggio e regale, ma troppo distante.
 La donna picchiò impaziente il terreno con la sua asta piena di anelli e pendagli, il tintinnio dei decori si diffuse nella camera
-Sono il Sari, Cassida, devi chiamarmi con il mio nome!-
E allora tu chiamami Cassandra…
Serrò i pugni, non avrebbe mai avuto il coraggio di dirglielo. Abbassò lo sguardo sui suoi piedi nudi, alle caviglie e ai polsi brillavano cupi i braccialetti di ottone e di legno smaltato.
Manette…
-Devi prepararti, Cassida!- continuò la donna marciando fino alla porta, o meglio, all’apertura nella parete che spacciavano per porta. Il mantello di pelle strisciò, accompagnato dal tintinnare dei pendagli
-Tra poco avrà inizio la cerimonia – disse in tono altero senza voltarsi. Cassandra l’ascoltò passiva
-Cerca di presentarti in tempo, ne va della tua ammissione nella nostra comunità!- la donna uscì fuori facendo scampanellare le tende. Cassandra percepì il tonfo sommesso dell’asta di sua madre appoggiarsi al terreno, mentre si allontanava. Serrò i pugni, le nocche erano diventate bianche, i singhiozzi erano venuti prepotentemente fuori.
Dove sei, papà…
Lei non avrebbe mai fatto parte di quella stupida comunità- le lacrime le annebbiarono la vista, puntuali come sempre- che avesse voluto o meno. Camminò mogia verso l’unico specchio della casa, se casa si poteva chiamare quella stanzetta ricavata dalla roccia, piena di insetti, tappeti e impregnata di incenso. Si asciugò il naso e fissò il suo riflesso. La ricevettero i suoi stessi occhi gonfi e rossi, scuri e non viola, come quelli di sua madre.
Non aveva più di otto anni, aveva lo stesso sguardo infossato della madre, torvo, ma per fortuna non aveva quello stramaledetto corno. Era l’unica, l’unica aspirante sciamana senza corno. Non che fosse effettivamente un grande problema, c’erano diverse leggende legate ad abili sciamani sprovvisti, ma lei non era una grande sciamana, era solo una bambina e di spiriti non ne sapeva davvero nulla. Sospirò alla sua faccia tonda, lei non doveva neppure essere lì, odiava quel posto: Madain Sari, il villaggio degli evocatori. Abbassò lo sguardo  sul tappeto;  sua madre, il “Sari”, aveva lasciato una bacinella di creta piena d’acqua. Almeno in quello l’aveva accontentata
“Non capisco perché questa diffidenza, il momento della purificazione è una celebrazione giornaliera importante nella nostra comunità!”
Sbuffò, non si sarebbe lavata tra loro per niente al mondo. I  bagni comuni, puff... Non avrebbe fornito altre ghiotte occasione per lasciarsi insultare dagli sciamani. Almeno sua madre aveva il buon gusto di disprezzarla di nascosto. Forse le avrebbe voluto più bene, se magari non le avesse ricordato suo padre. Cassandra alzò gli occhi furenti sullo specchio: lei era fiera, di ricordare suo padre!
L’alieno, il mostro, lo avevano chiamato in ogni modo e maniera possibile, lui e quelli della sua gente. Peccato che gli sciamani non li avessero offesi prima che la gente di suo padre insegnasse loro ad ascoltare la voce di Gaya; prima, di scoprire i flussi di energia;  prima, di capire come costruire il loro villaggio, dopo la distruzione del precedente; prima ancora che quella semplice sciamana si innamorasse del misterioso forestiero proveniente dalle stalle. Le lacrime le bruciarono gli occhi, si sciacquò il viso, l’acqua fredda le pizzicò le guance. Sarebbe voluta tornare a quei tempi, quando gli sciamani e i terani vivevano insieme, quando sua madre e suo padre si amavano e loro erano una famiglia. Il pianto venne fuori più forte di prima, la bambina prese a tremare e si accovacciò contro il muro.
Se sua madre non fosse stata così fredda, se sua madre non fosse stata un mostro, loro sarebbero stati ancora tutti insieme. Invece, lei aveva preferito la carica di Sari alla sua famiglia. Cassandra si chiese se avesse mai davvero amato suo padre o se era tutta una farsa per lasciarsi rivelare i segreti di quella gente. Di sicuro, quando l’avevano cacciato, lei non aveva battuto ciglio, era rimasta altera e imperturbabile, mentre lui attraversava i cancelli di Madain Sari per non farvi più ritorno. Le sfuggì un singhiozzo a quel ricordo. Rivide suo padre, nell’aria rossiccia e calda del pomeriggio, voltarsi verso di lei, con gli occhi colmi di dolore, a chiudere la gruppo di terani. Lei aveva cercato di correre da lui, di raggiungerlo, di implorarlo di rimanere, o di portala con sé, ma la mano di sua madre le si era arpionata sulla spalla. Cassandra aveva cercato di divincolarsi.
“Lasciami andare, lasciami andare con lui!” l’aveva urlato con tutta la sua disperazione, quell’urlo le bruciava ancora la gola,  ma la donna l’aveva fermata;  i suoi occhi, viola e gelidi, l’avevano trafitta
“Tu appartieni alla comunità degli evocatori, Cassida!”
Bugie, erano solo bugie; lo sapevano tutti che lei non apparteneva agli sciamani, non era capace di ascoltare le voci degli spiriti neppure per sbaglio. I suoi maestri la vessavano ogni volta, perché incapace di richiamare anche il più semplice spirito o incantesimo.
“E il sangue avvelenato che ha avuto la meglio…” aveva commentato Adihiro Carol, il prodigioso dodicenne capace di ascoltare la voce di Madein. La evitavano tutti e, anche quando cercava di passare inosservata, sentiva gli sguardi pesanti della “comunità”. Sapeva bene che l’unica ragione per cui non era stata esiliata anche lei era il suo rapporto diretto con il Sari, ma ancora si chiedeva perché sua madre fosse ostinata a tenerla lì. Magari era per una qualche specie di orgoglio, dopotutto anche in minima parte, il sangue di sciamano scorreva in lei; o forse era una punizione per suo padre, separandolo da ciò che amava più al mondo. Cassandra si alzò, aveva gli occhi spenti, tanto valeva andare al muro dell’evocazione ed essere umiliata per l’ennesima volta, non solo davanti ai suoi maestri e coetanei, ma davanti a tutti gli sciamani. Tirò su col naso, magari, dopo una cosa del genere, sua madre si sarebbe convinta a lasciarla andare per la vergogna.   



NdA: spero che questo capitolo non dispiaccia, volevo scendere un po' più nel dettaglio con la storia del mio personaggio originale e anche lanciare le basi per spiegare come è nata la faida tra Tera e Gaya, l'idea mi è venuta leggendo del boss nascosto Ozma... Scusate per gli errori, per i coraggiosi che si arrischieranno a leggere, lasciatemi pure qualche opinione, giuro che non mordo ^.^
   
 
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