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Autore: RandomWriter    04/07/2015    17 recensioni
Si era trasferita con il corpo, ma la sua mente tornava sempre là. Cambiare aria le avrebbe fatto bene, era quello che sentiva ripetere da mesi. E forse avevano ragione. Perchè anche se il dolore a volte tornava, Erin poteva far finta che fosse tutto un sogno, dove lei non esisteva più. Le bastava essere qualcun altro.
"In her shoes" è la storia dai toni rosa e vivaci, che però cela una vena di mistero dietro il passato dei suoi personaggi. Ognuno di essi ha una caratterizzazione compiuta, un suo ruolo ben definito all'interno dell storia che si svilupperà nel corso di numerosi capitoli. Lascio a voi la l'incarico di trovare la pazienza per leggerli. Nel caso decidiate di inoltrarvi in questa attività, non mi rimane che augurarvi: BUONA LETTURA
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'In her shoes'
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51.
TWIN TOWERS

 
« ziaaa! Dove hai messo la spazzola? »
« sul lavandino! »
« non c’è! »
« allora sarà là attorno! »
« non c’è » ripeté Erin iniziando a spazientirsi. In quell’appartamento tutto al femminile, quel genere di scene erano di ordinaria quotidianità; tra le tante qualità di Pam non spiccava il senso dell’ordine, mancanza che veniva per contro accentuata dalla sua irritante tendenza a depositare gli oggetti in ogni angolo della casa. Toccava poi a sua nipote partire alla ricerca del phon, della piastra o, come stava accadendo in quel tardo pomeriggio di fine febbraio, della spazzola.
In tale circostanza però, prima che Erin abbandonasse il bagno per andare in perlustrazione, sua zia la anticipò, materializzandosi sulla soglia della stanza. I voluminosi bigodini viola erano saldamente ancorati ai capelli, costruendo un intricato percorso tubulare sulla testa della donna. Tuttavia non fu la ridicola capigliatura della zia a destare l’attenzione della ragazza, quanto la spazzola che la donna le passò davanti agli occhi:
« scuuusa » miagolò Pam. Erin afferrò l’oggetto e cominciò a passarlo delicatamente sui lunghi capelli umidi, lasciando trasparire qualche smorfia di mal sopportazione a causa dei nodi sulle punte.
« vuoi una mano con il trucco tesoro? »
Quell’offerta era sorta dopo un’attenta osservazione dell’aspetto di sua nipote: la ragazza, poco avvezza a un maquillage più complicato di una passata di mascara e matita, aveva sperimentato l’uso di un fondotinta che, però, risultava troppo scuro per il suo incarnato. Lo stacco cromatico con il collo era talmente evidente da risultare ridicolo, così come la scelta dell’ombretto, decisamente sbagliata per il colore degli occhi di Erin:
« sto facendo un lavoro così pessimo? » domandò la mora, guardando dubbiosa la zia.
Quella sera due famiglie si sarebbero riunite attorno al tavolo di uno dei locali più chic di Morristown: i Travis e i Joplin. Jason aveva prenotato in un ristorante della torre Nord delle Twin Towers, le torri gemelle di Morristown. Il locale, tanto per lui quanto per Pam, aveva un significato speciale: era lo stesso in cui, mesi prima, l’aveva soccorsa dopo una disastrosa serata. Quell’inconveniente, pur testimoniando l’esistenza di un lato vulnerabile della donna, era interpretato da entrambi come l’evento da cui era decollata la loro relazione. Era stato il pretesto affinchè Pam si accorgesse di quanto il veterinario potesse essere premuroso e affidabile, il genere di uomo che aveva sempre sognato di incontrare. Dal canto suo, Jason aveva ricevuto quell’occasione che stava aspettando, quella in cui aveva dimostrato qualità altrimenti insospettabili. Era a causa di quei teneri sentimenti che quella sera Pam non riusciva a smettere di sorridere, accantonando il nervosismo di conoscere quella che un giorno sperava sarebbe diventata sua suocera. Il padre di Jason era morto un anno prima, lasciando alla moglie una bella tenuta in campagna e due figli meravigliosi, Jason e Rebecca.
L’allegra trepidazione di Pam, all’idea di rivedere quella donna di cui era così amica, si trasformava in sua nipote nella disagevole e snervante attesa di incontrare fuori dalle mura scolastiche, una sua professoressa. Miss Joplin era sì la sua insegnante preferita, ma rimaneva l’incarnazione di quel ruolo che, da secoli, si afferma come nemico di uno studente. Si vergognava talmente tanto all’idea di cenare con la sua professoressa, che solo a Rosalya ed Iris aveva rivelato di quell’incontro, guardandosi bene dall’informare il suo migliore amico; Castiel infatti non avrebbe perso il pretesto per canzonarla con qualche nomignolo come “cocca della prof” e lei preferiva evitare una simile circostanza.
Nonostante i suoi sforzi di apparire al meglio, l’inesperienza di Erin in fatto di trucchi la penalizzava parecchio; Pam allora afferrò un dischetto di cotone e lo inumidì di stuccante:
« diciamo che non hai un futuro come make-up artist » sdrammatizzò passando delicatamente l’impacco sulle palpebre della giovane. Il disco si tinse di celeste e Pam mostrò ad Erin:
« l’ombretto azzurro non dona a nessuno, meno che meno ai tuoi occhi verdi »
La ragazza si sottrasse a quella premura e passò a legarsi sbrigativamente i capelli dietro la nuca, per poi accucciarsi all’altezza del lavandino e inondare il viso con dell’acqua:
« pulisciti bene la faccia che poi ci penso io » la tranquillizzò la zia. Lanciò un’occhiata all’abbigliamento della nipote, sorridendo compiaciuta: Erin aveva indossato l’abito che lei le aveva regalato per il compleanno, un delizioso abitino nero con ricami in pizzo e maniche a tre quarti. Le donava particolarmente, del resto in fatto di buon gusto nel vestire, Pam non era seconda a nessuno; conosceva bene il fisico della ragazza e sapeva come valorizzarne al massimo i fianchi stretti e il ventre piatto.
Sua nipote era bellissima ma, come la maggior parte delle adolescenti della sua età, era cieca e ipercritica di fronte ai suoi pregi estetici. Fissandosi allo specchio infatti, non solo Erin non riusciva a vedere tutta quell’eleganza di cui sua zia era così orgogliosa, ma si concentrava su piccoli dettagli denigranti: i capelli le sembravano piatti e senza volume, lo scollo a barchetta dell’abito non calzava giusto e cominciarono a venirle dei complessi anche sulla sua seconda, messa in evidenza dall’aderenza della stoffa.
Finì di acconciarsi i capelli, raccogliendoli verso l’alto con uno chignon disordinato ma, controllando la sua immagine riflessa, disfece la pettinatura. Quella sera niente sembrava soddisfarla, ogni soluzione o tentativo di apparire più bella le risultava fallimentare, schiacciata dal nervosismo di conoscere l’intera famiglia di Miss Joplin. Non spettava a lei essere così sulle spine, era come se si fosse invertita le parti con la zia che invece trotterellava da una stanza all’altra dell’appartamento, eccitata dalla serata imminente.
Invidiò la sorella, che dietro la scusa della sua lontananza da Morristown, aveva declinato con facilità l’invito. Lei e Sophia non si parlavano da settimane, durante le quali Erin fingeva di non sentire quella vocina dentro di lei che la supplicava di cercare una riconciliazione; aveva scoperto un nuovo lato di sé, quello più orgoglioso e testardo, un aspetto che non pensava appartenesse alla sua personalità.
La questione del quadro e il muro che aveva eretto la gemella rappresentavano per Erin la motivazione più valida che avesse mai avuto per mettere da parte il suo buonismo; lei, la ragazza che era sempre la prima a cedere in una discussione, quella che non serbava mai rancore, non riusciva a perdonare l’atteggiamento di Sophia. Più passavano i giorni, e più si convinceva che fintanto che non sarebbe riuscita a svelare la verità dietro il bizzarro comportamento della rossa, il loro rapporto non poteva tornare ad essere quello di prima.
Era una constatazione amara, ma non poteva fare a meno di impuntarsi a rispettarla.
« eccomi qui! » esordì Pam, presentandosi nuovamente in bagno e facendola trasalire dai suoi pensieri « ora ci penso io a te! »
 
Non aveva ancora chiuso la portiera della macchina, che già il suo sguardo era proiettato verso l’alto: ogni volta che si trovava di fronte le Twin Towers, Erin ne rimaneva affascinata. Non erano paragonabili a quelle che, ormai molti anni fa, aveva visto a New York, ma forse proprio per una vista digiuna di grattacieli, quelle di Morristown le sembravano imponenti. Le torri svettavano nel manto nero del cielo, in un tentativo eroico ed impossibile di grattarne la superficie, toccandone le luminose e minuscole stelle.
Il ristorante si trovava nella torre Nord, al trentaquattresimo piano e offriva una vista spettacolare sulla città, come del resto aveva avuto modo di appurare la ragazza qualche mese prima.
Doveva tornare indietro di più di quattro mesi per ricordare l’amore fittizio che la legava a Nathaniel, che solo nel tempo si era rivelato una tiepida infatuazione. Ora che poteva confrontare quei sentimenti con quelli che provava per Castiel, non solo si era resa conto della superficialità dei primi, ma era ancora più consapevole di quanto fossero profondi i secondi; ciò che provava per l’amico era qualcosa che era nato in silenzio, ma che era cresciuto con l’inesorabilità e la determinazione, di un fiore tra le rocce.
« sei bellissima stasera »
Si voltò, e vide Jason baciare la guancia di Pam, dopo averla attirata a sé.
« papà e mamma quando arrivano? » li interruppe Erin.
« a momenti » le rispose la zia « avevano perso tua nonna »
« cosa vuole dire che l’avevano persa? » ridacchiò il veterinario.
« non ne ho idea » convenne la ragazza « ma sono all’altezza delle piscine, tra un po’ saranno qui »
« anche Beck e mia madre stanno arrivando… aspetta » si bloccò, allontanandosi di qualche metro dalle due donne « credo siano loro » confermò infine.
Una Chrysler blu aveva appena superato il cancello del parcheggio, appostandosi a poca distanza dal trio. Erin deglutì nervosamente, mentre un paio di gambe lunghe e affusolate, uscivano dal posto del guidatore.
Avvolta da un pesante cappotto, che le lasciava scoperta solo la pelle dal ginocchio in giù, Miss Joplin sfoderò un sorriso cordiale, soffermandosi in particolare sulla sua studentessa.
Dall’orlo inferiore della giacca, si intravedeva un tessuto con una fantasia bizzarra, assolutamente non in tinta con il soprabito. Il cespuglio di capelli non era stato domato, addirittura in Erin sorse il sospetto che fosse più disordinato del solito.
Eppure, per quanto quella capigliatura selvaggia le conferisse un’aria trasandata e sciatta, Rebecca Joplin avanzava con fierezza, come solo una donna sicura di sè può fare; avvicinandosi, a Pam non sfuggì un unico tentativo da parte della professoressa di curare la propria immagine, ma l’effetto era addirittura controproducente: la linea nera della matita, passata sopra l’attaccatura delle ciglia, risultava troppo distanziata da esse, come se Rebecca non avesse avuto uno specchio mentre si truccava.
Di aspetto molto più dignitoso e curato, faceva seguito Cindia, la madre. Era una donna di mezza età, più vecchia di Amanda, ma più giovane di nonna Sophia. Aveva optato per un tailleur semplice, tinta unita e raccolto la chioma rada in una crocchia. Non c’era un accenno di trucco sul suo viso e ciò le conferiva un’aria ancora più genuina e gentile:
« piacere di conoscerti, tu devi essere Pam » esordì, allungando una mano verso la ragazza di suo figlio.
« sì, molto piacere »
« io sono Cindia… mentre mia figlia Rebecca la conosci già »
« come stai? » chiese per l’appunto la professoressa.
« molto bene, sono così contenta che siamo riusciti a organizzare questa cena! » replicò la donna, per cercare poi Erin con lo sguardo.
Ne lesse tutto il disagio e, sorridendo intenerita, ufficializzò le presentazioni:
« lei è mia nipote Erin, figlia di mio fratello Peter »
« oltre che una mia studentessa » aggiunse Miss Joplin, con soddisfazione. Rivolse un sorriso incoraggiante alla ragazza, che si limitò ad arrossire leggermente ed abbassare il capo in imbarazzo.
« che bella ragazza » commentò Cindia compiaciuta, aumentando l’imbarazzo dell’interessata.
Si morse il labbro, aspettando che qualcuno dicesse qualcosa per distogliere l’attenzione generale; quell’aiuto insperato arrivò dal rombo familiare di un motore: la macchina di suo padre.
Alzò lo sguardo e vide il pick-up di Peter entrare nello spiazzo, parcheggiando con poche e nervose manovre. Il guidatore uscì accigliato dall’abitacolo e, prima ancora di curarsi del quintetto che lo osservava, sbottò:
« insomma mamma! Se c’è il semaforo rosso, non si passa. Discorso chiuso! » tuonò Peter, rivolgendosi ad uno dei due passeggeri.
« che noioso che sei! » gracchiò una voce.
Pam ed Erin inorridirono sgomente appena riuscirono a mettere a fuoco il voluminoso cappello piumato che l’anziana sfoggiava con orgoglio. Come se quel vistoso accessorio non fosse sufficientemente appariscente, Sophia gli aveva abbinato un orrendo vestito verde acido, troppo attillato per le sue forme non più giovani e fin troppo morbide.
L’unico elemento a salvaguardia dell’ordine, Amanda, si limitava a sorridere a quello scambio di battute tra la suocera e il marito. Salutò da lontano i presenti, con garbo e cortesia, riuscendo con quel semplice gesto, a rasserenare un po’ la figlia che riponeva in lei, l’unica speranza per dimostrare che la sua famiglia, in fondo, non era poi così imbarazzante.
 
Le porte metalliche dell’ascensore si aprirono in sincrono, permettendo all’intera comitiva che vi era all’interno, di avere accesso al trentaquattresimo piano. La claustrofobia di Jason gli aveva impallidito il viso, accentuata dalla numerosità di persone che affollavano quella scatola in movimento.
Ad accoglierli all’entrata del ristorante, dietro un bancone laccato di legno, c’era lo stesso concierge che Erin e Jason avevano incontrato mesi prima: quella sera però l’uomo si dimostrò molto più accondiscendente e rispettoso verso i clienti, guidandoli all’interno del locale.
La ragazza ridacchiò amara tra sé e sé: quello non era un ristorante economico e, con i soldi che avrebbe sborsato Jason per la cena, non potevano che ricevere un trattamento da VIP.
Appena varcarono l’atrio, la mora rimase impressionata dall’eleganza del posto, il più romantico e raffinato che avesse mai visto: il pavimento era in marmo lucido mentre le pareti erano tinteggiante di un caldo rosa salmone, con affreschi nei punti più strategici. I tavoli migliori erano disposti lungo la vetrata del grattacielo, offrendo agli ospiti una delle viste più spettacolari di Morristown. Pregò che Jason, oltre che claustrofobico, non soffrisse anche di vertigini, e avesse prenotato proprio uno di quei coperti.
Con sua somma gioia, il concierge li accompagnò proprio accanto alle vetrate, invitandoli ad accomodarsi attorno ad un tavolo circolare con due elaborati candelabri precedentemente accesi.
« loro sono Gary e Mariam, i vostri camerieri » spiegò l’uomo, indicando due ragazzi accanto a lui. Fu così che Erin scoprì cosa significasse ricevere un trattamento da stella Michelin; i due sostavano a poca distanza dal loro tavolo ma appena un bicchiere si fosse svuotato, erano pronti a riempirlo. Erin non aveva neanche fatto a tempo a mettersi il tovagliolo sulle ginocchia, che già Mariam l’aveva afferrato e gliel’aveva posto sulle gambe.
Guardò confusa la zia, che si limitò a ridacchiare per la sua ingenua perplessità. Poiché la sua curiosità non era ancora completamente appagata, Erin sollevò lo sguardo verso l’alto, incrociando un luminoso lampadario di cristallo che pendeva proprio al centro del tavolo. In cuor suo, pensò che fosse quasi uno spreco tutta quella bellezza per una cena di famiglia: quello era il ristorante perfetto per una coppia, lo sfondo ideale per un’atmosfera romantica e tenera.
I due camerieri porsero a ciascuno dei conviviali un listino, preparandolo già aperto sugli antipasti. Cominciarono a interagire con i clienti, suggerendo loro alcuni piatti, mentre la più giovane della compagnia affondava il naso sui prezzi esorbitanti, sbiancando per lo stupore. Sbirciò l’espressione di suo padre che aveva insistito con Jason affinché fosse non pagasse il conto della sua famiglia, ma il veterinario era stato irremovibile. Ciò, unito all’ingenza della spesa, fece sentire l’uomo ancora più in colpa; con rammarico, Peter doveva riconoscere di non potersi permettere una simile spesa.
« Ninì, tu cosa prendi?» squittì nonna Sophia.
Imbarazzata da quel nomignolo, che in Cindia e Miss Joplin strappò un sorriso, Erin mugolò di non aver ancora deciso.
« forse dovremo assecondare quello che ci consigliano i camerieri » sussurrò l’insegnante. Solo allora Erin si accorse che la donna era seduta accanto a lei e si maledì per non aver prestato più attenzione alla disposizione dei posti. Per sua fortuna, accanto a lei c’era Jason, probabilmente l’elemento presente a quella cena, con cui aveva più argomenti di conversazione.
« è la prima volta che vengo qui » esclamò Miss Joplin a voce alta, per rendere partecipi tutti della sua constatazione.
« è un posto molto chic » aggiunse Amanda con ammirazione. Non le sfuggì lo sguardo pensieroso del marito e, sorridendo intenerita, gli passò una mano sulla gamba: se Jason aveva insistito per pagare lui, a loro non restava altro che ringraziare e godersi una cena come poche. Del resto, dal suo punto di vista, quella era solo la dimostrazione che, oltre all’amore, sua cognata Pamela avesse anche trovato una sicurezza economica in Jason.
Quasi avesse letto nella mente della moglie, Peter incalzò:
« allora Jason, gli affari come procedono? »
Sua sorella non permise al ragazzo di rispondere e sbuffò:
« cominciamo già a parlare di lavoro? »
« beh, se volete decidervi a dirci il perché siamo qui… » tentò l’uomo, giocando con il cinturino dell’orologio. I due si guardarono complici e Pam ridacchiò imbarazzata. La videro piegarsi verso la borsa appoggiata dietro la sedia ed estrarre una scatolina quadrata, di velluto blu. La aprì in silenzio, stando attenta a non far sbriciare l’ovvio contenuto al resto dei commensali, mentre armeggiava sotto la tavola.
Distese infine le dita della mano e mostrò con orgoglio un bellissimo anello mentre con quella rimasta libera, cercò il contatto con il suo ragazzo:
« ci siamo fidanzati ufficialmente »
Le donne presenti al tavolo squittirono contente, mentre Peter si limitava a congratularsi con il futuro cognato, con una vigorosa pacca sulla spalla.
Mentre Amanda e Cindia insistevano per ammirare con scrupolosità il gioiello, Miss Joplin si chinò verso Erin:
« a quanto pare non sono l’unica che non ha un interesse smodato per gli anelli »
La studentessa ridacchiò in difficoltà e ammise sottovoce:
« la verità è che io l’avevo già visto: zia non stava più nella pelle all’idea di mostrarlo, così me l’ha fatto vedere »
« ah, quindi sono davvero l’unica donna che non si commuove alla vista di un gioiello » commentò quasi dispiaciuta la donna. Vide Erin sogghignare imbarazzata, che poi obiettò, da brava romantica qual era:
« beh, a qualunque donna fa piacere ricevere un regalo, specie se così impegnativo, dall’uomo che ama no? »
« allora mi sa che sono troppo cinica per apprezzare queste cose » le sorrise la donna, assaporando del vino rosso. 
Era surreale chiacchierare in modo così confidenziale con la sua insegnante, in un contesto così familiare e intimo. Non era semplice esorcizzare da quella figura, il ruolo di Miss Joplin e vestirla con i panni di Rebecca, la sorella di Jason, nonché futura cognata di sua zia.
Nonna Sophia cominciò a raccontare che aveva previsto che la fatidica notizia riguardasse il fidanzamento tra i due ma dal canto suo sperava che Pam fosse incinta:
« quindi Jason, vedi di darti da fare! » lo spronò, battendogli più volte una mano sulla spalla.
Amanda e Miss Joplin ridacchiarono e fu proprio quest’ultima a calamitare l’attenzione di nonna Sophia:
« e tu Rebecca? Sei sposata? »
La donna si torturò il lobo dell’orecchio e bofonchiò:
« no, vivo da sola »
« ah » commentò semplicemente la vecchietta, mentre la nipote la implorava mentalmente di non farla vergognare con qualche uscita indelicata:
« è difficile trovare la persona giusta di questi tempi » mediò Amanda, guadagnandosi un’occhiata grata dalla figlia.
« specie per me che non la sto cercando » convenne Rebecca con diplomazia. Poche persone sono dotate del dono di dominare all’interno di una conversazione e la donna era una di queste: aveva messo un punto a quell’argomento, lasciando intendere chiaramente ai presenti che non era di suo gradimento approfondirlo.
Calò il silenzio, durante i quali gli invitati assaporarono il vino, che si rivelò intenso e profumato. Nonostante la fermezza e serenità che traspariva all’esterno, dentro di sé Miss Joplin rifletteva sulla sua condizione che, seppur non l’avesse mai rimpianta, le rendeva difficile spiegarla agli altri: lei era semplicemente fiera della sua indipendenza e libertà. Si definiva una donna felicemente sola, priva di ogni condizionamento affettivo ed emotivo ma agli occhi dei più quelle apparivano delle consolazioni di una persona che non era riuscita a trovare l’amore.
« Demon è in piena forma » se ne uscì Jason d’un tratto, lanciando un’occhiata di sbiego ad Erin. Sentendo nominare il cane di Castiel, la mora scattò in allerta, iniziando a fissare il veterinario con un’espressione interessata:
« è venuto da te Castiel? »
Quanto quelle sette lettere riuscissero a calamitare la sua attenzione lo sapeva solo lei; mentre il resto dei presenti si guardava confuso e incuriosito, Jason confermò:
« sì ieri. Si vede che l’hai portato regolarmente a spasso, non ha il fisico di un animale che è rimasto sedentario per due mesi »
« e come mai te l’ha portato allora? »
« per scrupolo. Voleva che dessi un occhio a quel cagnone, per controllare che fosse tutto ok. Se tratta così un cane, figuriamoci quando si troverà una ragazza »
Erin finse di non sentire quella dichiarazione, perché con essa sarebbe scaturita una sorta di amarezza. L’aveva sempre pensato anche lei che in fondo, l’amico sapesse essere molto dolce e protettivo, lati che sicuramente Debrah aveva avuto la fortuna di conoscere e che lei, Erin, doveva rassegnarsi solo ad immaginare.
« hai visto come è diventato mansueto Demon? Ormai io e lui siamo diventati amici » disse, per scacciare quei pensieri malinconici.
« in realtà era mansueto anche prima, solo con te si arrabbiava » puntualizzò il veterinario.
« infatti non ho mai capito il perché »
Jason ridacchiò, mentre il resto dei presenti iniziò una conversazione sul discorso tenuto dal presidente Obama il giorno precedente, isolando l’uomo e la ragazza.
« perché ridi? » si incuriosì Erin.
« beh, anche se non può definirsi scientifica, ho una mia teoria a riguardo » le spiegò Jason, avvicinandosi « secondo me i cani, specie quelli con cui il padrone ha un rapporto molto stretto, riescono a sentire quando lui è a disagio »
Erin non metabolizzò subito il senso di quella frase, così Jason precisò:
« forse il cane sentiva che, in tua presenza, Castiel era nervoso »
Quella rivelazione la spiazzò, lasciandola interdetta: in che senso nervoso? Era la sua migliore amica, non aveva motivo per sentirsi in difficoltà in sua presenza. Eppure, era stato proprio quando Castiel se n’era andato che Demon aveva iniziato ad accettare Erin.
Stava per aggiungere qualcos’altro, quando s’intromise nonna Sophia:
« oh, ma Castiel è quel ragazzo che sei corsa ad abbracciare, Ninì? » esclamò prontamente, con gli occhi che le luccicavano dalla gioia. Avrebbe potuto trovare altri riferimenti a cui appigliarsi, ma aveva scelto decisamente il più imbarazzante; passando in rassegna i volti degli adulti attorno a lei, Erin notò gli sguardi maliziosi delle donne e quello severo di suo padre, che appena era stato nominato il rosso, aveva interrotto il discorso che lo teneva impegnato.
« sì è lui… ma quando arriva il cibo? » sviò, guardandosi attorno.
Per sua fortuna, tenendo in mano degli spaziosi vassoi neri, stavano giungendo Mariam e Gary, che distrassero i clienti dall’argomento di conversazione.
 
« e quindi Armin lavora? » riepilogò Gustave, squadrando la figlia.
« certo » mentì Ambra, tamponandosi il tovagliolo di cotone sulle labbra morbide « è un ragazzo molto impegnato, te l’ho detto »
« e che lavoro fa di preciso? »
« cameriere »
Ambra riabbassò lo sguardo sul piatto, non era la prima volta che suo padre le chiedeva di incontrare l’amico e quelle ripetute richieste cominciavano a metterla sempre più sottopressione.
Gustave era imperscrutabile, non manifestava né un atteggiamento sospettoso né fiducioso delle parole della figlia. Era abituato a ottenere tutto dai suoi sottoposti e non solo, esercitando un’autorevolezza e sicurezza tali da metter chiunque in soggezione. Per sua sfortuna, quelle stesse qualità erano state ereditate da Ambra che, giocando una strategia analoga alla sua, riusciva a resistere ai suoi attacchi.
Poiché quel tergiversare, oltre che essere inutile, cominciava ad infastidirlo, optò per una dichiarazione diretta:
« ho l’impressione che tu non voglia farmelo incontrare, Ambra » la sfidò, allineando perfettamente il calice davanti al piatto. La misura e sicurezza di quel movimento, ricordò una mossa degli scacchi: in fondo, il dialogo tra i due, rievocava l’ostilità e la diffidenza tra due avversari.
« l’hai già conosciuto, non vedo la necessità di farlo venire qui » replicò placida la ragazza.
Ingrid assisteva impotente a quello scambio di battute, irritata dall’indifferenza che le riservavano suo marito e sua figlia. Poco prima se n’era uscita con un commento sgradevole sul ragazzo, ma aveva ricevuto una risposta piccata da Ambra e uno sguardo freddo da Gustave. Nemmeno lei sapeva perché il marito si fosse tanto incaponito su Armin Evans, era dalla serata di gala che desiderava un colloquio a quattr’occhi con lui. A quelli spietati e gelidi della svedese, Armin appariva solo come una minaccia per il buon nome della sua famiglia e decisamente un partito sbagliato per sua figlia.
« lo so io » concluse Gustave risoluto.
Ambra emise un verso stizzito e tornò a concentrarsi sul suo gâteau di patate. Era stata Molly a cucinarlo, su esplicita richiesta della bionda, che lo preferiva alla versione preparata dalla cuoca di casa Daniels.
« allora? » incalzò il padre « abbiamo detto che invitarlo a cena è fuori discussione perché lavora, durante la settimana avete scuola, il sabato pomeriggio fa scout… »
Ambra dovette trattenersi dal ridergli in faccia: la bugia dello scout era troppo assurda, ma si era divertita a raccontarla a suo padre che, se avesse conosciuto meglio il moro, avrebbe capito quanto quell’attività fosse incompatibile con le sue attitudini.
« ... ma deve farlo in qualche organizzazione al di fuori del New Jersey, evidentemente » completò suo padre, con un sorrisetto provocatore.
La figlia sbiancò e lo fissò perplessa.
Scacco matto.
Suo padre aveva vinto la partita e si apprestava a darle pure una lezione di vita:
« non ti ho insegnato Ambra che se proprio devi raccontare una bugia, almeno che sia credibile? » sottolineò « ho richiesto alla mia segretaria di consultare l’elenco dei capi scout e, guarda caso, il tuo amico non configura in nessuna delle liste statali »
La bionda deglutì quel boccone amaro mentre lui si alzava dal tavolo in silenzio, per raggiungere un ripiano in marmo sopra il caminetto; recuperò il proprio cellulare e, dopo qualche gesto con le dita, se lo portò all’orecchio. Nell’attesa di ricevere una risposta dall’altra parte dell’apparecchio, si rivolse alla figlia:
« parlerò con Armin Evans con o senza la tua approvazione »
Abbandonò la stanza, chiudendosi la porta alle spalle, mentre il pezzo di sformato che era in bilico sulla forchetta di Ambra si era appena sfracellato contro il piatto.
 
Space sollevò gli occhi al cielo, sbuffando frustrato:
« e adesso chi sarebbe questa tizia? »
Sophia indugiò lo sguardo sull’amico, prima di replicare:
« avevi promesso di non farmi domande »
« ma ti ho promesso di aiutarti e se non capisco nulla di questa storia, come faccio? »
La rossa sorrise arrendevole, guardandosi poi attorno. La stazione di San Francisco era stranamente poco affollata quel giorno, lasciando a lei e all’amico la tranquillità per conversare.
Era un giorno importante per l’amico: sarebbe tornato a casa sua, a Mountain Wiew.
La fuga di Space in California era giustificata da una difficile situazione familiare e scolastica, che l’aveva portato a chiudersi sempre più in sé stesso. Un giorno, stanco di quella situazione, aveva deciso di partire, raggiungere un suo zio a San Francisco, ed era lì che aveva conosciuto Sophia Travis, una delle ragazze più eccentriche e misteriose della sua vita.
Si era aperto con lei quasi subito, forse per l’estremo bisogno di un orecchio amico che ascoltasse tutti quei tormenti che aveva tenuto dentro di sé troppo a lungo. Le aveva raccontato del suo sogno di lavorare come ingegnere spaziale per la NASA che, coincidenza o meno, aveva uno dei suoi centri di ricerca proprio nella sua città natale. Il soprannome Space era quindi sorto spontaneo, tanto che a volte Sophia dimenticava quale fosse il suo nome di battesimo.
« sbrigati, il treno sta per partire »
Il ragazzo però, scostando un ciuffo di capelli, insistette:
« sul serio So’, se questa faccenda ti angoscia tanto, dovresti raccontarmi qualcosa in più di quello che sai, così posso aiutarti »
« me la caverò »
« non abbiamo scoperto un tubo insieme, figurati tu da sola che hai la capacità di ragionamento di una medusa »
« fossi così spigliato anche quando sei in mezzo agli altri, la gente non penserebbe che tu sia strano » lo provocò Sophia.
« ha parlato quella normale: ti tieni alla larga dalla zona universitaria solo perché hai paura di incontrare Nathaniel » la sfottè.
« non ho paura! »
Space scrollò le spalle, poco convinto e insistette:
« per essere uno studente liceale selezionato per il programma della HSP, significa che quel tizio ha una bella testa. Dovresti farti aiutare da lui, anche se non mi sta particolarmente simpatico »
« è l’ex di mia sorella! »
« e allora? » sbottò Space, avvicinandosi all’obliteratrice per convalidare il biglietto « Erin non ti aveva detto che non lo sente più? Ti conviene approfittarne finché è a San Francisco »
« ci penserò » mentì Sophia.
Entrambi sapevano quanto fosse radicata quella bugia. Erano settimane che faceva scongiuri affinché quel ragazzo non comparisse alla sua vista, aveva persino saltato gli eventi universitari ai quali normalmente si imbucava, proprio per evitare di trovarselo davanti.
Nathaniel Daniels era diventato la sua ossessione, non c’era giorno che non dedicasse almeno tre secondi del suo tempo a chiedersi che cosa stesse facendo, dopo i quali cominciava a insultare sé stessa per quella fissa. Non solo il ragazzo era già sentimentalmente impegnato, ma lo era pure con la migliore amica di sua sorella; di certo, Erin non aveva bisogno di un altro pretesto per odiare la gemella. Doveva quindi continuare a puntare sulla lontananza, perseverare nel restargli alla larga, sperando che il tempo avrebbe intiepidito quei sentimenti così pericolosi.
« piuttosto Space, quando andrai a New York… » iniziò, seguendolo verso la porta del treno.
« passa per casa mia a prendere il quadro » recitò a memoria il ragazzo « sì, lo so, ma ci andrò più avanti »
« cerca di non tardare troppo, sono stata una scema a lasciarlo ad Allentown »
« se vuoi chiedo a mia sorella se può anticipare di un mese la data del matrimonio a New York, apposta per te » ironizzò, guadandosi un’occhiata glaciale ed irritata:
« sul serio Space, sei tutt’altra persona quando ti si parla a quattrocchi: hai una doppia personalità inquietante »
Il futuro ingegnere sorrise, caricando i bagagli sul vagone. Prima che le porte automatiche si chiudessero, salì e volse un sorriso dolce all’amica:
« mi raccomando, non combinare guai »
« ricordati che mi hai promesso un giro sulla Luna » lo salutò lei con allegria.
Partì un fischio soffocato e si accese una luce rossa: da quel momento in poi non era più possibile scendere dal treno. La porta si chiuse, e Sophia rimase a fissare l’amico oltre la trasparenza del vetro.
Dopo qualche secondo, l’imponente massa del mezzo cominciò a spostarsi. La rossa rimase immobile, a fissare il convoglio che si allontanava da lei, lentamente ma inesorabilmente.
Space era stato il suo primo amico una volta arrivata in California molti mesi prima. Non le aveva mai fatto domande, era un tipo chiuso e riservato e la ragazza aveva apprezzato particolarmente quei lati della sua personalità. Le era stato vicino in un momento difficile, in cui non voleva vedere nessuno ed era riuscito a farlo con una discrezione che non aveva pesato sull’orgoglio della ragazza.
Con il tempo, forse contagiato dall’esuberanza di Sophia, era sensibilmente migliorato nei rapporti sociali, ma per lei rimaneva il solito enigmatico e taciturno ragazzo che, durante le partite in spiaggia, si sedeva in un angolo a leggere libri di fantascienza.
« ti auguro il meglio, Tim »
 
Erano passate due ore da quando la cena alle Twin Towers era iniziata e ormai i conviviali erano a loro agio, immedesimatisi perfettamente nell’atmosfera generale: Amanda e Cindia conversavano amabilmente, nonostante la loro differenza di età, Pam era rapita da Miss Joplin mentre i due uomini, insieme a nonna Sophia, parlavano di politica. Le idee dell’anziana risultavano alquanto buffe in merito, poiché ancorata agli utopici ideali hippy che avevano caratterizzato la sua anarchica giovinezza.
Mentre suo padre era impegnato a tenere a freno l’esuberanza della nonna, Erin si alzò dal tavolo, con la scusa di dover andare in bagno.
Era l’occasione per staccarsi un po’ da loro e ammirare il paesaggio notturno dalla sala principale del ristorante, quella in cui un bravissimo pianista, stava suonando una ballata romantica.
Sfilò accanto agli altri tavoli, senza accorgersi di aver attirato su di sé l’attenzione di un paio di ragazzi, poco più grandi di lei; complice anche la sua ingenua modestia, Erin non aveva realizzato che quella sera, era davvero bellissima.
 
Quando uscì dal bagno, notò la presenza di un acquario poco più avanti, che nel viaggio di andata era sfuggito alla sua attenzione. Più si guardava attorno e più quel ristorante le sembrava magnifico: i tavoli vicino alle vetrate avevano una vista magnifica, i muri portanti avevano un rivestimento ligneo che donava calore all’ambiente e la musica del pianoforte rendeva romantica e disincantata l’atmosfera generale.
Si avvicinò ai pesci, riconoscendone delle varietà tropicali molto rare e colorate. Proprio mentre era accucciata ad analizzare il colore delle scaglie di un pesce pagliaccio, intravide oltre le pareti di vetro dell’acquario, una figura familiare. L’acqua rendeva l’immagine traballante e incerta, così Erin tornò dritta e cercò di mettere a fuoco la sagoma di un uomo seduto poco lontano.
Non era molto alto, anche se sicuramente più di lei e, come la prima volta che l’aveva incontrato, pensò che non fosse particolarmente bello. Tuttavia, anche in quell’occasione, rimase incantata dal magnetismo del suo sguardo, che nonostante la distanza, riusciva a inchiodarla al suolo.  
Lui infatti sembrò averla notata qualche secondo prima, perché aveva un sorriso leggero stampato in volto, quasi a volerla rassicurare circa la sua identità.
Si avvicinò, incredula per quella coincidenza, ma quando fu a pochi metri da lui, non ebbe più dubbi:
« dottor Wright! » lo salutò con eccessivo entusiasmo.
L’uomo che aveva salvato sua sorella da morte certa.
Nessuno sarebbe riuscito a quantificare il debito di riconoscenza che legava la sua famiglia a quel chirurgo.
Frank Wright era entrato nell’ospedale di Allentown, due mesi prima, come l’incarnazione dell’unica speranza che aveva impedito ai Travis di crollare e ne era uscito come un eroe. Si era trattenuto in città per pochi giorni, dopo i quali la famiglia non l’aveva più rivisto ma, Erin ne era certa, quella sera quell’incontro fortuito sarebbe stato particolarmente gradito dai suoi genitori.
« sono… » iniziò la ragazza.
« … Erin Travis » completò l’uomo, con un sorriso misurato « mi ricordo di lei, signorina. Ho operato sua sorella Sophia a dicembre »
La memoria del chirurgo la sorprese, considerando che erano passate settimane e con esse, un discreto numero di casi, dal quell’operazione. Eppure il dottor ricordava perfettamente il suo nome e quello della gemella. Quella circostanza però non era solo da attribuirsi alle indiscutibili capacità intellettuali dell’uomo: Frank Wright non poteva dimenticare quella giovane ragazza e il motivo, era destinata a scoprirlo proprio quella sera:
« come sta? » gli chiese, dopo un’iniziale sbigottimento.
« bene grazie, e lei? »
Era molto formale nel modo di approcciarsi alla ragazza e questo la mise un po’ a disagio:
« non c’è male, sono qui con la mia famiglia, manca solo Sophia »
« capisco » soppesò l’uomo « io invece sono a cena con mio figlio… è andato a fare discussioni con il pianista »
Dopo quella dichiarazione, la ragazza ridacchiò confusa:
« discussioni? »
« sì, dice che quell’uomo stava massacrando lo strumento e le nostre orecchie »
« a me sembrava molto bravo invece »
« è quello che gli ho detto, ma ha la tendenza a non ascoltare mai nessuno, e poi la musica per lui è una faccenda seria »
Erin sorrise, con quella dolcezza come solo il ricordo di una certa persona riusciva a scaturire in lei:
« mi ricorda molto un mio amico » ammise.
Vide Wright trattenere un ghigno, quasi astuto e annunciò:
« ah eccolo, sta arrivando »
Erin si voltò immediatamente, preparandosi psicologicamente a mostrare la propria cordialità e affabilità a quel nuovo ragazzo ma ogni sentimento allegro si spense all’istante sul suo bel viso, sostituito dal più completo sgomento: anche se non era abituata a vederlo agghindato elegante, l’unico individuo di sesso maschile che stava giungendo nella loro direzione in quel momento era Castiel.
Il ragazzo si pietrificò a pochi metri da lei, che lo vide deglutire nervosamente.
Appena Erin si era voltata, aveva sentito mancare due battiti: il primo per lo shock di incontrarla lì, accanto a suo padre, il secondo per quanto era bella quella sera. L’abito nero le fasciava il corpo sottile, mettendo in risalto le sue curve femminili e sensuali, che i vestiti di tutti i giorni celavano allo sguardo. Le ciglia, già lunghe e folte di natura, erano ulteriormente allungate dall’applicazione del mascara nero, rendendo più profondo il colore delle iridi verdi. Nemmeno quando l’aveva vista dal rientro della gita, o con l’abito di scena cucito da Rosalya, Castiel ricordava di essere rimasto tanto affascinato da quella ragazza.
Lei continuava a fissarlo incredula e la sua vicinanza con il padre lasciarono intuire al rosso che ormai la sua parentela fosse stata svelata.
Dal canto suo, Erin capì solo allora perché era rimasta tanto incantata dagli occhi del dottor Wright: erano gli stessi di Castiel, suo figlio.
Quest’ultimo colmò la distanza che li separava, cercando di darsi un contegno per non lasciare intuire ai due l’imbarazzo che tentava di dominarlo.
« t-tu… sei il figlio del dottor Wright? » balbettò Erin. Quella frase era più un’accusa che una constatazione, ed era solo per la presenza del chirurgo che si tratteneva dall’aggredire l’amico.
Il rosso emise un grugnito d’assenso, poi aggiunse:
« tu che ci fai qui? »
In quella frase, Erin si sentì come un’intrusa, come se quella situazione imbarazzante e spiazzante fosse colpa sua.
« sono a cena con i miei… ma… »
Non solo era in difficoltà per la presenza del chirurgo e per lo shock di scoprire che Castiel fosse suo figlio, ma era anche distratta dal ragazzo, vestito con un completo scuro elegante.
Un chitarrista rock come lui, in giacca e cravatta, era un’immagine insolita e, forse anche per questo, decisamente affascinante. Arrossì, abbassando lo sguardo mentre lui, che aveva una certa urgenza nel liquidarla, se ne uscì con:
« non ti conviene tornare da loro? Ti avranno data per dispersa »
Erin mise il broncio, combattuta e disorientata: aveva troppe cose da chiedergli, prima tra tutte, perché le avesse tenuto nascosta quella parentela. Era impossibile che Castiel non sapesse che suo padre aveva operato Sophia. Tuttavia non poteva nemmeno bisticciare davanti al chirurgo, pertanto stava vivendo quel momento come uno dei più combattuti della sua vita. Fu proprio dall’uomo però che le arrivò quell’opportunità che le serviva:.
« signorina Travis, io rimango qui un’altra mezz’oretta, poi se vuole ha tutto il tempo per parlare con mio figlio »
Castiel si irritò sia per quella formalità che per quella proposta ma, prima che avesse il tempo per obiettare, Erin lo anticipò:
« la ringrazio » e, rivolgendo un’occhiata intimidatoria all’amico, lo minacciò sottovoce « poi questa me la spieghi »
 
Mentre Erin si riuniva al resto della famiglia, Castiel si accomodò al suo posto.
« ti togli quel ghigno divertito dalla faccia? » farfugliò, sfidando il padre. Lo innervosiva terribilmente quel modo beffardo e canzonatorio con cui il genitore lo stava fissando, anche se era stato proprio da quest’ultimo che aveva ereditato quella smorfia.
« forse ha ragione tua madre, io e te ci assomigliamo troppo, abbiamo addirittura gli stessi gusti in fatto di donne »
Castiel lo ignorò, ma l’uomo era determinato a non far cadere il dialogo tra di loro:
« cosa hai detto al pianista? »
« se poteva suonare qualche pezzo con pochi virtuosismi »
« pensavo fossi andato lì a dirgli che era un incompetente »
« se tu l’avessi pensato realmente, avresti cercato di fermarmi no? »
Frank ghignò e, soddisfatto di aver trovato un argomento sul quale intavolare un dialogo, insistette:
« quindi in altre parole, gli ha chiesto di suonare dei pezzi più semplici »
« meglio dei pezzi facili e suonati bene, che massacrare dei capolavori » concluse il compositore.
Guardò schifato il bicchiere davanti a lui e commentò:
« la birra è troppo da poveracci? Perché diavolo servono solo vino? »
Di avviso decisamente opposto a quello del figlio, il medico assaporò di buon grado il proprio calice, sorseggiandolo con lentezza. Il colore del liquido era leggermente più scuro di quello dei capelli del figlio, che giusto il giorno prima, aveva recuperato il suo rosso innaturale. Il dottor Wright non aveva fatto alcun commento su quel “ritorno di fiamma”, interpretandolo più come un infantile e non dichiarato tentativo di provocare una sua reazione, che una vera e propria scelta di stile.
Mentre suo figlio si stava scostando un ciuffo ribelle, lo rimproverò bonariamente:
« potevi anche darti una pettinata prima di venire »
« non so come farli stare. Prima quando erano più lunghi stavano giù da soli, invece ora ho i ciuffi che vanno ovunque »
« ti lamenti come una donna »
Castiel sollevò il sopracciglio e sbottò irritato:
« sei tu che mi hai tirato in ballo l’argomento »
« sono tuo padre, è mio dovere assicurarmi che tu sia una persona rispettabile »
« e incontrare tuo figlio tre volte l’anno rientra nei tuoi inappuntabili metodi pedagogici? » lo provocò il musicista, guadagnando come prima risposta un sorriso divertito:
« questa te la sei preparata in anticipo? Inappuntabili metodi pedagogici? » lo schernì il padre, apparentemente indifferente a quell’accusa. Non ottenendo una risposta diversa da un grugnito, il medico proseguì:
« sai Castiel, qualcuno ti definirebbe acido »
Il rosso replicò con una smorfia mentre il padre continuò:
« … e permaloso… del resto tua madre lo dice sempre che hai preso tutto da me il carattere, quand’ero giovane per lo meno »
Per tutta la sera, in più occasioni, suo padre aveva nominato la donna e la cosa era strana, dal momento che di solito, durante le sue visite al figlio, Frank non parlava mai dell’ex moglie. Era ormai palese il suo tentativo di stuzzicare la sua curiosità, di portarlo ad interessarsi a quell’argomento e fu per questo che Castiel decise di assecondarlo.
Lasciò passare qualche secondo di silenzio, poi chiese con finto disinteresse:
« come sta? »
« è di lei che volevo parlarti » ammise finalmente l’uomo, guardando direttamente in faccia il ragazzo. Le sopracciglia leggermente aggrottate e le labbra serrate traducevano una preoccupazione che attendeva di essere sfogata:
« siamo qui da un’ora e mezzo e me lo dici solo ora? » sbottò il figlio, risentito. L’uomo non replicò, né mutò la sua espressione che per contro, divenne più greve.
Sconfitto dalla propria curiosità e ansia, Castiel cambiò strategia e cercò di dimostrarsi più conciliante:
« c’è qualcosa che non va? »
Frank sospirò e si grattò per un attimo le folte sopracciglia, suo tic caratteristico quando doveva affrontare un discorso che gli creava una certa tensione:
« quando l’hai vista l’ultima volta? »
« a novembre »
Se il padre era visibilmente nervoso e recalcitrante nell’andare dritto al punto, il rosso non batteva ciglio, preparandosi mentalmente al peggio. Non poteva considerarsi un figlio modello, non lo era mai stato neanche da bambino, quando all’apparenza erano una famiglia felice. Era sempre troppo distratto e vivace per le sue maestre, troppo indisciplinato per i professori, troppo artista per suo nonno, che vedeva nel suo unico nipote, il futuro erede del patrimonio dei Black.
Se Castiel era cresciuto con la consapevolezza di aver deluso la sua famiglia, nemmeno Tyra, sua madre, poteva dirsi orgogliosa della sua persona: dopo il divorzio, si era lasciata vincere facilmente dai tentativi del figlio di tenerla lontana, senza avvalersi del suo ruolo genitoriale per imporgli un riavvicinamento.
Le sue visite erano diventate sempre più sporadiche e tristi, durante le quali si intratteneva al massimo per ventiquattr’ore a casa di Castiel per poi abbandonare l’abitazione con la sensazione sgradevole di essere stata un’ospite indesiderata.
« e sentita? Se non sbaglio ti telefona una volta a settimana » insistette Frank.
« mi ha chiamato ieri »
« e non ti ha detto niente di particolare? »
A quel punto la pazienza di Castiel aveva quasi prosciugato l’ultima goccia di carburante ed era andata in riserva:
« senti, se non la pianti con questo giri di parole, me ne vado » lo minacciò.
« sta’ calmo, perché devi essere sempre così irruento? » si scaldò a sua volta il chirurgo « comunque sia, prima voglio sentire cosa sai tu della situazione della mamma »
Con quell’ultima dichiarazione, Frank Wright era tornato ad essere il chirurgo di fama nazionale, a cui bastava uno sguardo per zittire e mettere in soggezione gli altri. Castiel odiava quando suo padre usava quel tono con lui, trattandolo come un suo sottoposto, schiacciandolo con la sua ferma autorevolezza; aveva sempre odiato ricevere ordini, era qualcosa che innescava una scintilla di ribellione in lui, ma di fronte al dottor Wright era costretto a sopirla:
« che si è sposata l’estate scorsa con un tizio di nome Cody, ma non l’ho ancora conosciuto »
« e mai lo conoscerai » concluse Wright con voce bassa.
Il busto di Castiel si avvicinò di qualche centimetro verso il suo interlocutore, tirando il collo in avanti come se quella posa lo aiutasse a metabolizzare quello che aveva sentito:
« perchè? »
« Cody è morto il mese scorso, incidente d’auto mentre tornava da un viaggio di lavoro »
Sembrava la descrizione di una cartella clinica: voce piatta e fredda, quasi metallica e atona. Il dottore non lasciò trapelare alcuna emozione, si limitò ad aggiornare Castiel e osservarne la reazione; la gola del musicista si seccò e in un primo tentativo di dire qualcosa, riuscì solo a masticare una frase insicura:
« p-perché non me l’ha detto? »
Era una notizia troppo grave e importante per essere taciuta. Era successo mentre lui era a Berlino, ma per sua madre sarebbe corso in America. Era ironico che le donne più importanti della sua vita, in quei due mesi, gli avessero fornito dei validi pretesti per tornare. Tuttavia, mentre Erin non aveva esitato a cercare il suo conforto, Tyra si era tenuta tutto dentro. Capiva il perché avesse reagito così, lui avrebbe fatto lo stesso al posto suo, del resto era un lato del carattere che aveva ereditato dalla madre.
Cominciò a sentirsi in colpa per non aver mai cercato la donna mentre era a Berlino, per essersi fatto assorbire completamente dalla sua musica e dal suo, ridicolo e fallimentare, tentativo di dimenticare Erin. Se solo avesse provato a chiamarla almeno una volta, avrebbe forse colto nel suo tono di voce quella punta di dolore che la dilaniava?  
« Tyra non te l’ha detto perché non voleva che ti preoccupassi, oltre a trovarlo un gesto egoistico da parte sua: sosteneva di non avere alcun diritto di cercare la tua compassione Castiel »
« avresti dovuto dirmelo tu allora. Perché hai aspettato tutto questo tempo? »
« è stata lei a chiedermelo. Così abbiamo pattuito che te l’avrei detto una volta tornato da Berlino e fortunatamente hai anticipato il rientro »
« dovevi dirmelo » ripetè Castiel « non sono un ragazzino »
« gliel’ho detto, ma sai come è fatta la mamma… è testarda » sospirò Wright, scuotendo il capo.
« senti chi parla » pensò tra sé e sé il figlio, sollevando il sopracciglio.
Scrutò suo padre, che sembrò assentarsi mentalmente dalla sala: aveva uno sguardo perso nei propri pensieri, un’espressione serena, che era da tempo che non addolciva i tratti sul suo viso. Una volta, solo il pensiero di Tyra riusciva a evocarla, unita ad un sorriso innamorato e tenero. Che suo padre amasse ancora sua madre, era un sospetto fin troppo fondato, ma si univa all’amarezza del figlio nel sapere che quei sentimenti non erano corrisposti.
« vedi Castiel, il fatto è che tua madre teme il tuo giudizio. È convinta che, dopo che avrai saputo come stanno le cose, la odierai ancora di più di quanto tu già non faccia »
« ma io non la odio! » sbottò istintivamente il figlio. Tanto lui quanto suo padre, si sorpresero per quell’uscita così spontanea; certo, gli atteggiamenti del ragazzo avevano sempre tradito insofferenza e rancore verso quella donna che non era stata abbastanza forte da restargli accanto; del resto, lei era riuscita a disintegrare l’unica cosa che per il rosso contava più della sua musica: la famiglia. Eppure, il Castiel che era tornato dalla Germania sentiva che quei sentimenti si stavano affievolendo e desiderava solo tentare una riconciliazione. 
« lo so » gli sorrise il padre, quasi con gratitudine « è per questo che te ne sto parlando io e non lei. C’è un’altra cosa che non ha avuto il coraggio di dirti e a questo punto, mi prendo io la responsabilità di farlo »
Castiel soppesò quelle parole senza battere ciglio, cominciando a vagliare una serie di ipotesi su quella possibile rivelazione, in modo da incassare bene un eventuale colpo:
« quando sposò Cody, lui era vedovo e aveva una figlia »
Non aveva avuto sufficiente preavviso per contemplare una simile possibilità, per cui appena la parola “figlia” raggiunse i suoi timpani, gli occhi del ragazzo si dilatarono per lo stupore. Era scontato che sua madre avesse paura a raccontargli quel dettaglio della sua vita e non era necessario chiamare in causa un qualche potere collegato all’istinto materno, per prevederlo.
Mentre il musicista cercava di nascondere al meglio il proprio turbamento, il dottor Wright proseguì:
« sposandolo, tua madre è diventata la tutrice legale di questa bambina, rimasta ora orfana dei suoi genitori biologici. Ha appena nove anni e anche se sa di non avere un legame di sangue con Tyra, la chiama comunque mamma »
« quindi ho una specie di sorellastra? »
« è una sorellastra a tutti gli effetti » confermò Wright, annuendo con gravità « tua madre teme che, ora che sai la verità, tu possa avercela con lei perché, paradossalmente, sta crescendo un figlio non suo quando non è riuscita a crescere te, che sei sangue del suo sangue »
Era una sintesi efficace della preoccupazione principale di Tyra e, sicuramente, suo figlio non poteva che comprenderla: non era stata capace di restare accanto all’essere che aveva partorito, ma stava tentando di farlo con una bambina con cui non condivideva nessun legame biologico. Nonostante comprendesse a pieno la logica sottostante il senso di colpa di sua madre, non era la rabbia a dominare Castiel: era basito.
Era abituato ad essere figlio unico, talmente unico che da qualche anno viveva in completa solitudine, senza genitori e libero da condizionamenti. Anziché offendersi per il silenzio di Tyra, anziché interpretarlo come indifferenza nei suoi confronti, il rosso lesse la sofferenza della donna, il terrore che con quella rivelazione, avrebbe reciso anche l’ultimo debole legame con lui. Sicuramente era un ragazzo orgoglioso e scontroso, ma sua madre doveva credere in quella bontà d’animo che aveva sin da bambino, la stessa che lui cercava di celare agli altri e che solo lei e Nathaniel erano riusciti a scorgere. Castiel non odiava sua madre, né le serbava acrimonia. Ne aveva solo pena. Avvertì che qualcosa era scattato in lui, non era più un ragazzino rancoroso e ferito dalle decisioni dei suoi genitori, era in grado di affrontare quella notizia con la dovuta maturità. Se sua madre era troppo fragile per sopportare la sua reazione, lui sarebbe stato abbastanza forte da alleviare quel peso che le gravava sulle spalle, rendendole tutto più facile.
Frank non aveva staccato gli occhi di dosso da suo figlio per un istante, interpretandone con scrupolo ogni battito di ciglia e smorfia delle labbra. Castiel era pensieroso e taciturno, imperscrutabile.
« ma come? Non dici nulla? » domandò infine, esasperato da quel mutismo.
Il rosso sollevò finalmente lo sguardo e, con tono neutro, gli chiese semplicemente:
« come si chiama? »
« Hailey »
Annuì pensieroso, mentre il genitore lo fissava con crescente perplessità e timore, giustificato dall’imprevedibilità per cui il figlio era famoso. Era convinto che si sarebbe inalberato, che avrebbe accusato lui e sua madre di fregarsene di lui eppure Castiel sembrava tranquillo.
« e l’altra condizione? »
Il chirurgo aggrottò le sopracciglia, preso in contropiede da quel cambio di argomento, così il musicista precisò:
« mi hai detto che saresti venuto in America ad operare Sophia solo se accettavo un paio di condizioni: la prima era la cena e questa l’ho rispettata… l’altra? »
Il viso dell’uomo si distese, anche se non riusciva ad accantonare la sua perplessità di fondo: suo figlio era cambiato profondamente ma al contempo impercettibilmente. Era sì rimasto burbero e scontroso, ma aveva imparato a reagire con più maturità e diplomazia quando il contesto richiedeva queste qualità.
« va’ a trovare tua madre, Castiel »
Doveva aspettarselo. In realtà, sin da quando Frank gli aveva accennato a due condizioni da rispettare, il ragazzo aveva intuito che c’entrasse sua madre, ma alla luce delle confessioni di quella sera, quell’incontro si sarebbe rivelato completamente diverso dai precedenti. Incontrare sua madre significava entrare nella vita di quella bambina sconosciuta, con la quale non aveva alcun legame che non fosse di natura burocratica. Ignaro dell’importanza che da quel momento in poi, avrebbe avuto Hailey Thomas nella sua vita, Castiel si limitò a sospirare e chiedersi quanto sarebbe stato difficile per lui relazionarsi a quella nuova sorellina.
 
« non c’erano altri pub migliori di questo? » commentò Kim guardandosi attorno indispettita.
Le passò accanto un’avvenente cameriera, vestita con una divisa in stile maid molto succinta, tipica del locale. La clientela infatti era per lo più rappresentata da maschi, facendo sentire la velocista a disagio.
L’arredamento ricordava un pub inglese, ma le cameriere che vi lavoravano indossavano un grembiule bianco su un vestito nero che ricordava i maid cafè del Giappone.
« è stata un’idea di Wes » si giustificò Dajan, che non era mai stato prima in quel posto. Tanto lui quanto Trevor ne erano rimasti piacevolmente sorpresi, ma la presenza delle rispettive compagne impedì loro di godersi la vista delle attraenti ragazze in divisa.
« perché Erin non è venuta? » domandò Trevor, seguendo con lo sguardo una gonnella nera. Brigitte lo scrutò con gelosia, mentre Kim rispondeva:
« ha detto che aveva un appuntamento »
« un appuntamento? » le fece eco il ragazzo « anche Black mi ha detto la stessa cosa! Non è che sono usciti insieme e non ce l’hanno detto? »
« saranno fatti loro » lo zittì Brigitte, irritata da quell’argomento.
Lei e Trevor stavano insieme da più di due mesi, nell’arco dei quali la comprensione dell’inglese da parte della quebecchese era notevolmente migliorata. Ormai non le sfuggiva nessuna frase, nessuna battuta del suo ragazzo ma quel progresso, anziché rappresentare una svolta positiva al loro rapporto, sembrava sortire l’effetto contrario. Spesso i commenti del cestista la irritavano, li trovava superficiali e frivoli e, paradossalmente, Trevor pensava la stessa cosa di quelli della ragazza. Tra i due tuttavia non c’era mai stato un dibattito in merito, continuavano a far finta di nulla, come in attesa che uno dei due facesse il primo passo. Trevor non si curò della freddezza di Brigitte e proseguì:
« allora, chi è che non viene alle Bahamas? »
Dajan strinse le palpebre, nello sforzo di ricordare e tamburellò le dita sul tavolo in legno massiccio:
« eh parecchi: Steve, Clinton, Gordon e Liam »
« come mai? » si interessò Kim.
« Steve ha sua mamma in ospedale, Clinton e Gordon in quei giorni sono in gita con la loro classe e Liam non si sa »
« e con i loro quattro posti che facciamo? » soggiunse la cestista.
« potremo chiamare qualcuno. Erin vorrebbe chiedere ad Iris e Rosalya »
« ottimo, siamo a corto di ragazze! »
Quella di Trevor voleva essere una battuta leggera e senza malizia, ma Brigitte non era dello stesso avviso:
« come sarebbe a dire? » si infuriò, mentre la sua voce diventata più acuta.
« stavo scherzando » borbottò il ragazzo infastidito « perché devi sempre scaldarti per niente? »
Kim e Dajan si scambiarono un’occhiata fugace, sentendosi a disagio. Non era la prima volta che Brigitte era di pessimo umore, nelle ultime settimane non c’era uscita serale in cui non discutesse con il loro amico. In quelle occasioni Trevor, anziché tentare di sopire la sua irritazione, sembrava voler fomentarla.
La ragazza sbuffò indispettita e si alzò di scatto:
« vado in bagno »
Si allontanò velocemente, lasciando i tre perplessi per la scontrosità del suo atteggiamento.
Fu Kim la prima a spezzare il silenzio e a rivolgersi direttamente all’amico:
« ehi Trev, tutto a posto tra di voi? Ultimamente mi sembra un tantino… nervosa? »
« ma che ne so! La infastidisce tutto » minimizzò, evidentemente disinteressato alla questione.
« a me sembra che sia tu a infastidirla » obiettò Dajan.
Il ragazzo sollevò le spalle e, sospirando rassegnato, confessò:
« non funziona più vecchio. Più capisco quello che dice, e più la trovo superficiale e vuota »
Sorpresi da quell’uscita, Kim e Dajan si guardarono sorpresi; conoscevano entrambi il cestista da parecchio tempo e nessuno dei due era abituato a leggere tanta serietà ed amarezza in quegli occhi color caramello. Sia il capitano della Atlantic che la sua ragazza, in realtà, non avevano mai creduto a fondo nella relazione tra Trevor e Brigitte, giudicandola improntata solo su una grande attrazione fisica, destinata a esaurirsi con il tempo. Eppure, il ragazzo sembrava sinceramente dispiaciuto per la piega che aveva preso il suo rapporto, più di quanto avrebbero mai immaginato. Lo videro sfogliare sovrappensiero il menù cartaceo, finché una voce familiare li distrasse tutti e tre:
« ehi » li salutò Steve. Il rosso era seguito da Liam, che aveva appena riposto il cellulare nella tasca dei jeans.
« e gli altri? » domandò il capitano.
« Wes è rimasto senza benzina, ma stanno arrivando » spiegò il biondo, sedendosi accanto a Trevor.
« ma non doveva esserci anche Brigitte? » chiese Steve, fissando quest’ultimo.
« è in bagno » replicò piatto l’ala.
« Castiel viene? » incalzò Liam.
« ha un appuntamento con Erin » borbottò Trevor, con mezzo sorriso.
« maddai! Quindi escono insieme? » esclamò Steve, sorpreso che Erin non l’avesse aggiornato su una simile notizia. Del resto il centro era uno dei cestisti con cui la ragazza aveva legato di più e quasi si risentì di non essere a conoscenza di una simile evenienza.
« è solo una sua supposizione » chiarì Kim, raffreddando gli animi.
« beh, prima o poi succederà » sentenziò l’ala grande « ci scommetto la mia raccolta di soldatini »
Nonostante fosse un hobby un po’ strano, Trevor, era fiero della sua collezione di statuine di piombo, alcuni dei quali avevano un valore economico ingente:
« io non scommetto più nulla con te » farfugliò il capitano.
« ma come? Se sono stato così gentleman da non pretendere la riscossione del premio, l’ultima volta! »
Dajan fece una smorfia, mentre Kim si incuriosì, desiderosa di approfondire quella questione di cui era completamente all’oscuro:
« di che sta parlando? »
« ah, è quella scommessa che avete fatto in autobus? »
I cinque si voltarono, vedendo giungere Wes, assieme a Clinton e Gordon.
Dopo un rapido scambio di saluti, costituito principalmente da cenni e grugniti, Dajan spiegò a Kim:
« il giorno di San Valentino, Trevor ha scommesso che se non ti avessi dato il regalo che ti avevo comprato, si sarebbe preso il titolo di capitano »
Gli occhi della velocista diventarono due fessure e si irritò:
« e voi mi usate per le vostre scommesse idiote? »
Lanciò quell’accusa anche all’amico Trevor, che scrollò le spalle, indifferente al risentimento della ragazza.
« beh, in palio c’era Kiki con la cresta » rise Wes « dai Trevor, l’ultimo giorno di scuola, dobbiamo farlo! Quel cagnaccio se lo merita »
Ignorando la proposta della guardia, l’ala disse:
« beh ma alla fine non se n’è fatto nulla Kim: la mia era solo una provocazione perché Dajan si desse una mossa, non mi interessa essere il capitano della squadra »
« come vedi, me la sono cavata anche senza di te » replicò l’amico, avvicinando Kim a sé. Le cinse le spalle, facendola sorridere teneramente sotto gli occhi dei ragazzi e dimenticarsi della leggera irritazione che l’aveva colpita. Sentiva un formicolio alla pancia quando Dajan, incurante della presenza degli amici, cercava il suo contatto: se in un primo momento i due erano in imbarazzo per quelle piccole manifestazioni di affetto, con il passare dei giorni ogni gesti diventava sempre più naturale e spontaneo.
« sì, ma quanto ci hai messo? Era da un anno che le sbavavi dietro » lo punzecchiò Trevor. La velocista sgranò gli occhi, arrossendo stupefatta: si voltò verso il suo ragazzo, cercando una conferma che, seppur indiretta, non tardò ad arrivare:
« smettila di sputtanarmi Trev »
« non ti vergognare boss » lo esortò Wes « tu almeno la tipa ce l’hai adesso. A proposito di ragazze, è vero che verrà anche Rosalya alle Bahamas? »
« Erin glielo deve chiedere lunedì » spiegò Steve « e poi scusa Scottdale, perché ti sei tanto incaponito con Rosalya? L’ultima volta in palestra ti ha mandato a cagare »
« perché ho sbagliato l’approccio » non demorse la guardia « con lei bisogna avvicinarsi quatti quatti, come un gatto che fiuta una farfalla »
« e tu saresti il gatto? » lo schernì Gordon.
« se lui è il gatto, Rosalya è la pantera che se lo mangia » aggiunse Clinton.
Mentre i cestisti si divertivano a deridere il compagno, Kim s’intromise:
« e se ti dicessi che Rosalya sta con Nathaniel? »
Videro la bocca della guardia deformarsi dallo stupore e le pupille dilatarsi. Quella notizia investì Wes con la potenza di un tornado, lasciando dietro di sé uno scenario desolante:
« mi stai prendendo per il culo? » mormorò tra l’incredulo e l’offeso.
« no, me l’ha detto Erin » replicò Kim tranquilla.
« da quando? »
« qualche settimana »
In quel momento un bicchiere era caduto da un tavolo, andando in frantumi e producendo un rumore molto simile al frantumarsi delle speranze romantiche, e non solo, del ragazzo.
Rosalya White, la ragazza più bella della scuola, era già occupata.
Anziché dar prova di solidarietà e cameratismo, i compagni scoppiarono a ridere, sottovalutando quanto quella notizia avesse ferito il poveretto.
Prima la delusione con Dake e poi Rosalya.
« eddai, non fare il melodrammatico… e poi, senza offesa amico, ma non era alla tua portata » sdrammatizzò Trevor, dandogli una portentosa pacca sulla spalla.
« stai dicendo che sono brutto? » mugolò il ragazzo, risultando alquanto comico.
« mica ti aspetti che venga a dirti io che sei un figo » ribatté Trevor.
« eh-eh »
Ad interromperli era stato un colpo di tosse secco, verso decisamente sforzato a sottolineare un tentativo irritato di attirare l’attenzione. Il gruppo di amici alzò gli occhi all’unisono verso la cameriera che aspettava, evidentemente spazientita, di ricevere gli ordini.
« se voi due avete finito di scambiarvi moine, che ne direste di ordinare? » annunciò seccata.
Trevor e Wes, che erano i più vicini alla ragazza, bloccarono lo sguardo all’altezza del prosperoso seno che si trovava a pochi centimetri dai loro visi. Non solo la natura era stata particolarmente generosa con quella ragazza, ma anche la divisa che le era imposta dal luogo di lavoro contribuiva a solleticare le fantasie e le pulsioni dei due diciannovenni, in piena tempesta ormonale. I due non furono gli unici a notare quel ben di Dio, ma se non altro il resto della squadra ebbe la decenza di guardare in faccia la cameriera; aveva un viso ovale, reso ancora più magro dai lunghi capelli color caramello che le incorniciavano il volto. Le labbra a bocciolo erano decorate da un tratto di rossetto, leggermente sbavato agli angoli della bocca. La fronte era tesa, nell’evidente e malriuscito sforzo di non far trasparire l’irritazione di una persona che viene ignorata: erano venti secondi buoni infatti che sostava davanti a quel tavolo e nessuno di quei coetanei si era accorto della sua presenza. 
« intendete prendere qualcosa, o facciamo notte? » incalzò bruscamente.
« Jordan! »
Il rimprovero era giunto alle spalle della ragazza, che non si voltò nemmeno a controllare chi ne fosse l’autore. Sollevò gli occhi al cielo, cercando di trattenere il nervosismo e sfoderò un sorriso talmente innaturale da risultare brutto:
« sorry » borbottò senza la minima convinzione. Sapeva di avere Lucy, il suo capo, con il fiato sul collo, ma quel giorno in particolare non ce la faceva a fingere di essere servizievole e consenziente. Aveva altro per la testa e dover sopportare dei ragazzi irrispettosi come quelli che aveva davanti, metteva a dura prova la sua buona volontà. Detestava quando i clienti, specialmente i più giovani, la ignoravano, come se fosse una parte del mobilio del locale. Era quasi peggio di quando si imbatteva nei pervertiti che le fissavano le tette.
Conosceva di vista Liam, pertanto immaginava che quelli seduti al tavolo fossero tutti studenti della scuola più esclusiva della città, la Atlantic High School, conosciuta dai più come il Dolce Amoris. Il liceo privato più finanziato e ammirato di Morristown.
« un giro di birre medie per tutti » ordinò Kim, prendendo in mano la situazione, e guardando glaciale gli amici attorno al suo tavolo.
« abbiamo la Kona, Adams, Redhook, Sierra Nevada… » cominciò ad elencare Jordan con voce metallica e atona.
« va bene la Redhook. Ordiniamo più tardi per il cibo »
La cameriera si liquidò in fretta e furia, seguita a poca distanza dall’ombra di Lucy, che aspettava solo il momento giusto per rimproverarla.
« oddio, mai viste due tette così! » commentò Wes sconvolto, sollevato di poter esternare il suo stupore. Era bastata quella visione paradisiaca per fargli dimenticare di Rosalya e della sua infatuazione non corrisposta.
« questa è l’ultima volta che vengo qui con voi! » si innervosì Kim « che figura di merda che ci avete fatto fare! »
« tu Kim non puoi capire… » sentenziò serafico Trevor, ancora inebetito.
« siete due pervertiti, ecco cosa capisco »
« perché? » si indispettì una voce inacidita.
Brigitte era rientrata dal bagno, di umore anche peggiore di quando aveva lasciato il tavolo.
« c’è una qui con due tette così! » esclamò stupidamente Wes, imitando la forma di un seno.
« parla piano almeno! » lo rimproverò Kim, sempre più a disagio.
Il sopracciglio di Brigitte si sollevò, e passò a squadrare in cagnesco il suo ragazzo; tornò ad occupare il posto accanto a lui, sibilandogli piccata:
« non dovresti guardare le altre »
« che cosa posso farci se non sono cieco? »
« in certi momenti vorrei che fossi muto » rimbeccò l’altra, infastidita da quella risposta.
« e io sordo »
Persino per un ragazzo spensierato e paziente come lui diventava difficile far fronte all’acidità della canadese: Brigitte era sempre più suscettibile e permalosa, non prendeva niente alla leggera e sembrava che la sola vicinanza del suo ragazzo le provocasse fastidio; scattò in piedi, lasciando senza parole i presenti e dichiarò:
« me ne torno a casa! »
« fa’ come ti pare » biascicò lui, mentre un’altra cameriera stava distribuendo dei boccali di birra.
Mentre Brigitte si allontanava, Kim calciò la gamba dell’amico, esortandolo:
« Trevor, non fare il coglione! » e inclinò la testa verso la fidanzata in fuga, che si stava facendo strada tra i tavoli. Ci fu uno scambio di sguardi tra lui e l’amica e alla fine vinse la determinazione di Kim: sbuffando scocciato, l’ala si alzò, accingendosi a raggiungere Brigitte.
« permalosa la canadese » scherzò Wes, trangugiando una sorsata di birra.
« diciamo che Trevor un po’ la provoca » si schierò la velocista, mossa dalla solidarietà femminile.
« le ha solo guardato le tette Kim » intervenne a sua volta Dajan « non mi sembra un dramma »
La cestista corrucciò le labbra e, prima che il cervello avesse il tempo materiale per ponderare le parole che si accingeva ad usare, sbottò:
« quindi per te non c’è nessun problema se mi mettessi a fissare il pacco di Wes? »
I ragazzi scoppiarono in una risata goliardica e grassa, mentre la ragazza stessa che aveva pronunciato quella battuta avvampava per la sua mancanza di pudore.
Dajan arrossì e, lanciando un’occhiata truce alla sua ragazza, borbottò in difficoltà:
« se la metti su questo piano, preferirei evitassi… e poi ti sei scelta proprio un pessimo soggetto »
« guarda pure quanto ti pare Kim! » rise sguaiato Wes, gesticolando platealmente in direzione del suo inguine, ma in quel mentre ricevette un calcio sia dalla diretta interessata che dal suo ragazzo.
 
« io vado » mormorò il dottor Wright. Si alzò dalla sedia con un sorriso compiaciuto, che tuttavia cercò di non palesare troppo al figlio: ormai la sua serata si era conclusa e non poteva che dirsi soddisfatto. Era riuscito a parlare a Castiel della morte di Cody e dell’esistenza di Hailey, senza che andasse in escandescenze. Apparentemente, sembrava aver metabolizzato bene la notizia, più di quanto il medico osasse sperare.
« non aspetti il dolce? Perché l’hai ordinato scusa? »
« ma per la tua amica, ovvio » replicò Frank con un ghigno sornione.
« non farti strane idee » arrossì irritato il musicista. Determinato ad approfondire la questione, il padre insistette:
« allora mi dici come dovrei interpretare la tua telefonata, mentre in Germania era notte fonda, in cui mi hai chiesto di prendere il primo volo per New York e raggiungere l’ospedale di Allentown? »
Castiel dapprima si irrigidì, poi spostò lo sguardo verso il panorama alla sua sinistra:
« io rispetterò i patti e andrò da mamma, ma tu evita di fare troppe domande » bofonchiò infine.
Il chirurgo non si scompose e sistemò la sedia sotto il tavolo. Fissò per un’ultima volta quel ragazzo cresciuto troppo in fretta e da cui si era allontanato per troppo tempo. Negli ultimi anni, Castiel era cresciuto molto in altezza, superandolo di svariati centimetri. Il viso paffuto e imberbe di ragazzino, aveva ormai i connotati di un giovane uomo, fisionomie che il dottor Wright stentava ad attribuirgli: i suoi occhi di padre lo vedevano ancora come un bambino vivace e chiassoso, con una vocina acuta e polemica. Con gli anni, aveva accentuato tratti del carattere che solo suo padre poteva capire, poiché li condividevano, come l’orgoglio e la riservatezza. Il rosso non gli avrebbe parlato di Erin Travis, per lo meno non quella sera.
« l’avrei operata comunque Castiel, anche se non avessi accettato le mie condizioni »
Disse quella frase senza guardarlo in faccia, sapendo che comunque non avrebbe incrociato gli occhi grigi del figlio. Quest’ultimo infatti, senza distogliere la sua attenzione dalle luci della città, borbottò apatico:
« perché sei un medico »
« no » lo corresse Wright « perché me l’hai chiesto tu »
 
Nonna Sophia fu la prima ad accorgersi della figura che stava giungendo ma poiché non aveva mai visto prima il dottor Wright, lo etichettò come un comune cliente. Per tale motivo, si sorprese non poco quando quell’uomo dall’aria così distinta si fermò al loro tavolo, rivolgendo ai presenti un cenno cordiale:
« buonasera signori »
La reazione più violenta fu quella di Amanda, da sempre molto emotiva e sensibile, che si portò una mano alla bocca sconvolta:
« dottor Wright! »
Anche suo marito strabuzzò gli occhi incredulo, per poi balzare in piedi, come se si fosse presentato davanti il presidente Obama.
« non voglio disturbare la vostra cena » li freddò il chirurgo, facendo cenno a Peter di mettersi comodo « ma avendovi visti qui, volevo solo farvi un saluto »
« è qui per lavoro? » domandò Pam.
« no, sono qui con mio figlio »
« Castiel è ancora qui? » intervenne Erin, calamitando l’attenzione dei presenti, che la squadrarono interdetti.
« è-è il padre di Castiel? Il tuo amico? » chiese la zia.
Pam non era l’unica ad essere rimasta spiazzata da quella notizia. Peter era come sbiancato e aveva iniziato a fissare l’uomo, nel tentativo di ravvedere nel suo viso una qualche somiglianza con il rosso.
Erin aveva annuito orgogliosa, alzandosi in piedi proprio nel momento in cui suo padre tornava a sedersi.
« se non le dispiace, vado da suo figlio » si scusò, senza curarsi dei parenti.
« dov’è che vai? » ripetè Peter, recuperando un po’ di autorità e colore.
« da Castiel. È seduto nell’altra sala. Tanto qui abbiamo finito no? » lo liquidò la figlia, ansiosa di abbandonare il tavolo per raggiungere quello del ragazzo.
« tra mezz’ora torniamo a casa » chiarì l’uomo.
« allora prenderò un taxi »
Pam e Amanda sorridevano divertite tra sé e sé nel constatare i goffi tentativi di Peter di impedire ad Erin di restare da sola con il ragazzo; del resto, erano in uno dei ristoranti più chic e romantici della città, a centinaia di metri dal suolo, con uno skyline da mozzare il fiato.
A perorare la causa della studentessa, intervenne la seconda figura paterna presente al tavolo, il dottor Wright, che diversamente da Peter, appoggiava e sperava in una futura relazione tra i due ragazzi:
« non si preoccupi signor Travis, ho lasciato la mia macchina a Castiel, si arrangerà lui a dare un passaggio a sua figlia »
Ci fu uno scambio silenzioso di sguardi tra i due uomini, come se l’uno fosse impegnato nel leggere la mente dell’altro: pur avendo solo un figlio maschio, Frank comprendeva l’istinto protettivo di Peter, che per contro sentiva che doveva mettere da parte la propria gelosia paterna. Il chirurgo lo fissava con intensità, abituato ad imporre agli altri la sua volontà con una diplomatica fermezza.
Quando più di due mesi prima suo figlio l’aveva contattato, Frank era rimasto piacevolmente sorpreso: non era da Castiel rivolgersi a lui in caso di necessità, pertanto non intendeva lasciarsi sfuggire la possibilità di aiutarlo. Il suo stupore mutò ben presto in una piacevole perplessità nello scoprire che il favore andava fatto ad un’amica del figlio, la cui sorella era rimasta vittima di un violento incidente.
« non mi stai chiedendo una cosa da poco Castiel » aveva ammesso suo padre, nel soppesare la responsabilità che si sarebbe assunto « da quello che intuisco si potrebbe trattare di un’operazione molto delicata. Posso informarmi e sentire i dettagli, ma prima di allora non me la sento di promett- »
«-ntante »
Dall’altra parte della cornetta una frase era stata pronunciata come un sussurro, tanto che il dottore stava per chiedere al musicista di ripetere, quando lui ribadì con voce leggermente incrinata:
« Erin è importante per me »
Wright non aveva voluto sentire altro. Aveva un solo rammarico: non poter vedere l’espressione di suo figlio mentre, per la prima volta in vita sua, ammetteva di aver trovato una persona che gli stesse a cuore.
Il caso aveva voluto che, poche ore dopo, il dottor Hogan, suo ex collega, lo avesse contattato proprio per interpellarlo sul caso di Sophia Travis, scoprendo che in realtà Frank ne era già a conoscenza. Il dottor Wright spiegò sommariamente la situazione, chiedendo all’ex compagno di università di non riferire alla famiglia della ragazza che suo figlio l’avesse contattato, come gli era stato chiesto da Castiel.
Nonostante la tragicità delle circostante, Frank vedeva nell’operazione che aveva affrontato, quel ponte per ricongiungersi al ragazzo; da tempo ormai il suo pessimismo l’aveva convinto che il loro rapporto si fosse deteriorato e corroso fino ad un punto di non ritorno. Mese dopo mese, Castiel appariva sempre più cinico e schivo nei suoi confronti e nemmeno la presenza di Debrah nella sua vita, era riuscita ad alleviare un po’ della sua scontrosità. Con la rottura di quella relazione poi, il caratteraccio del musicista era addirittura peggiorato, poiché si era chiuso ancora di più in se stesso.
« Erin è importante per me »
Faticava ancora a credere che quelle parole fossero realmente uscite dalla bocca di suo figlio.
Era lo stesso ragazzo che, anzichè chiedergli i soldi per la vacanza a Cuba due anni prima, aveva preferito lavorare tutto l’anno in un ristorante come lavapiatti?
Quanto doveva essere centrale la presenza di quella ragazza, se aveva accantonato l’orgoglio e gli aveva chiesto aiuto? Quanto poteva averlo cambiato, se era davvero di Castiel la voce accorata e combattuta che aveva udito?
« Erin è importante »
Con quella sorta di mantra che riecheggiava nella sua mente, il dottor Wright aveva raggiunto l’ospedale di Allentown e, dopo un equivoco all’accettazione, era stato condotto nella stanza di Sophia.
Aveva visto una ragazza giovane, troppo per permettersi un fallimento nell’operazione. Non aveva dato dimostrazione del suo turbamento, ma aveva preferito allontanarsi dallo staff per poter riflettere in solitudine.
Ed era in quei corridoi deserti che l’aveva vista.
Un viso uguale a quello che si era appena lasciato alle spalle, con la differenza che la ragazza davanti a lui era cosciente e piena di vita. La vide interessata a fissare dei poster, elementi considerati più d’arredo che d’informazione dai pazienti. Eppure lei leggeva ogni riga con interesse, senza accorgersi della sua presenza.
Aveva un fisico minuto e un’espressione curiosa e attenta. Faceva quasi tenerezza per il modo in cui si allungava sulle punte per leggere la parte alta di quei manifesti.
Era lei Erin.
Se non fosse stato per la somiglianza con la gemella, Frank non avrebbe mai potuto individuare in lei la ragazza di cui era innamorato suo figlio.
Erin infatti emanava un’aurea di candore e innocenza che la facevano apparire quasi serafica. Non aveva nulla di quello spirito di ribellione e anarchia che caratterizzavano la precedente ragazza di Castiel, Debrah.
Erin Travis era semplicemente dolce ed educata e quando incrociò il suo sguardo gentile ma vivace, Frank non ebbe più dubbi: era quella la ragazza che aveva sempre desiderato per suo figlio. Parlandole poi, lei non fece che confermargli l’ottima impressione che aveva avuto, rammaricandosi di non poterle dire chi fosse il suo mandante.
Quella sera a cena, aveva cercato di rispettare il riserbo di suo figlio, anche se avrebbe voluto indagarne la situazione sentimentale e capire qualcosa in più sul suo rapporto con Erin. Sapeva che non sarebbe riuscito a scucirgli alcuna indiscrezione, così si era rassegnato a fornire ai due ragazzi l’opportunità per stare un po’ da soli. Indagando l’espressione felice di Erin, Frank ricevette la gratificazione che aspettava: la ragazza era scattata in piedi e, dopo essersi scusata con i suoi ospiti, era trotterellata via.Via, verso Castiel.
 
Brigitte aveva spinto la pesante porta di vetro del locale, urtando una ragazza dall’altra parte; non si era scusata e aveva continuato ad allontanarsi in fretta, lasciandosi alle spalle il borbottio dell’offesa.
Non voleva essere seguita, ma sapeva che Trevor l’avrebbe raggiunta di lì a pochi minuti. Era ancora troppo nervosa, troppo irritabile per affrontarlo, ancora troppo confusa per accettare con razionalità quella snervante condizione.
Tre settimane di ritardo, lei che era sempre puntuale come un treno giapponese.
L’eventualità di una gravidanza, l’aveva portata a riconsiderare la sua relazione con l’americano da un altro punto di vista, diverso dalla spensieratezza che l’aveva spinta a mettersi con lui: avere un bambino significava chiedersi se fosse davvero lui l’uomo con cui passare il resto della sua vita, costruire quella famiglia che, a vent’anni, non rientrava tra i suoi progetti imminenti. Era troppo giovane per essere madre, e troppo poco innamorata di Trevor per pensare a sposarlo.
Era stata superficiale a sottovalutare i rischi che correvano ogni volta che si lasciavano trascinare dalla passione, del resto il suo rapporto con il ragazzo era basato soprattutto su quell’incontenibile attrazione fisica che con il tempo si era affievolita. Se ne era resa conto da poche settimane, mentre all’inizio pensava davvero di poter chiamare amore il sentimento che la legava a lui.
« si può sapere che ti è preso? » le abbaiò contro il coresponsabile della sua pena.
Brigitte si voltò di scatto, rabbiosa:
« vattene »
Trevor corrugò ulteriormente la fronte e la provocò:
« hai le tue robe? »
« magari! » urlò quasi lei, sollevando gli occhi al cielo.
Il ragazzo non colse immediatamente il senso di quella risposta, ma poiché lei non aggiungeva altro, cominciò a scrutarla attentamente: Brigitte aveva gli occhi tristi e resi lucenti da lacrime di amarezza accusatoria. Qualcosa era cambiato in lei negli ultimi tempi ma, dalla risposta che aveva appena ricevuto, Trevor sospettò che non si trattasse solo di un mutamento psicologico:
« s-sei incinta? » dedusse, sentendosi mancare un battito.
I secondi che seguirono furono interminabili: lei perpetuava il suo silenzio, mentre lui non aspettava altro che una risposta:
« non lo so »
« come sarebbe a dire? »
« non lo so va bene?! Ho fatto il test due giorni fa, ma non ha funzionato, non sono riuscita a capire se è sì o no »
Il cestista rimase basito, boccheggiando nell’attesa di trovare una qualche replica a quella spiazzante dichiarazione. Serrò le labbra e deglutì, ma per quanto cercasse di prendere tempo, era incapace di trovare le parole più giuste da dire.
Era da qualche giorno che era entrato nell’ottica di troncare la loro relazione, ormai andata alla deriva, ma quella notizia rimetteva tutto in discussione, una discussione che nessuno dei due avrebbe mai voluto affrontare.
Improvvisamente, Brigitte gli sembrò così piccola e indifesa, soverchiata dal peso di una responsabilità che non si era ancora materializzata, ma che incombeva su di lei con un’ombra minacciosa:
« ho paura… » gli sussurrò con voce roca.
Tutto ciò che Trevor riuscì a fare quella sera, fu abbracciare in silenzio quella ragazza, sperando che in quella stretta non vi fosse inclusa una terza persona, che per metà era sua.
 
Erin camminò a passo svelto tra i tavoli del salone, mossa dal timore di non trovare più l’amico: era uno specialista nello sparire di punto in bianco e lei non avrebbe accettato di buon grado un simile comportamento. Era da qualche giorno che aspettava l’occasione giusta per raccontargli di Sophia e del mistero del quadro, voleva che fosse il primo tra i suoi amici a venirne a conoscenza.
Aggirò l’acquario e, appena lo individuò, sorrise contenta: Castiel aveva una mano appoggiata sul mento e guardava annoiato il profilo notturno della città. Sembrava assorto nei suoi pensieri, con lo sguardo fisso oltre l’enorme vetrata del grattacielo. La ragazza allora tardò il loro incontro di qualche secondo, rimanendo impalata a deliziarsi lo sguardo di quella figura così affascinante: nonostante i capelli rossi, il musicista aveva un’aria insospettabilmente matura dentro la giacca nera.
Sorrise istintivamente, avvicinandosi quatta quatta. Lui non si era accorto della sua presenza, poiché non reagì minimante a quell’agguato; stuzzicata dall’idea di farlo trasalire, Erin esclamò, a pochi passi da lui:
« BU! »
Purtroppo però il suo tentativo non sortì l’effetto sperato, poiché l’amico si voltò pigramente verso di lei, guardandola apatico:
« ah-ah che scherzone » commentò sarcastico. Intorno a lui però, una coppia che era impegnata a scambiarsi moine, sussultò spaventata, per poi lanciare un’occhiata glaciale ad Erin.
« come hai fatto a vedermi arrivare? » replicò lei delusa.
Occupò la sedia davanti a lui, il cui rivestimento in velluto era ancora tiepido per la precedente presenza del dottor Wright.
« riflesso » rispose laconico il ragazzo, indicando la riflettenza della vetrata.
Rimasero in silenzio per un po’, tempo nell’arco del quale Castiel non sembrava minimamente interessato ad interagire con l’amica.
C’era qualcosa che teneva impegnata la sua mente, al punto che nemmeno la mora sapeva con quale argomento rompere quella chiusura:
« finalmente ti conosco Castiel! »
Con quella battuta, sia lui che Erin sobbalzarono, sorpresi da quella figura che sembrava essersi appena materializzata al loro tavolo: nonna Sophia scrutava entrambi con un sorriso birichino, che sul suo volto rugoso risultava quasi caricaturale.
« n-nonna » borbottò Erin a disagio. Dopo la parentesi del torneo, era convinta che l’anziana non avrebbe più avuto pretesti per parlare con il ragazzo, ma aveva scordato di considerare che proprio quella sera, i due erano a pochi metri l’uno dall’altra.
Pregò affinché non la mettesse in imbarazzo, ignara del fatto che, con l’ingresso in scena di sua nonna, la serata avrebbe preso di lì a pochi secondi, una svolta improvvisa:
« ‘sera » mormorò Castiel, sforzandosi di apparire spontaneo.
« ho sentito tanto parlare di te » sorrise la nonna, mentre Erin avvampava e, in preda al disagio più totale rimediò:
« tanto? Ma cosa dici? »
L’amico le lanciò un’occhiata maliziosa e beffarda, destinata a spegnersi non appena la vecchietta dichiarò:
« tuo padre mi ha parlato così bene di lui, visto che tu non mi racconti mai niente, Ninì »
A quell’affermazione il viso di Erin si contrasse in un’espressione confusa, mentre Castiel, dapprima perplesso, rilassò la fronte e, con tono conciliante, osservò:
« mi dispiace deluderla, ma probabilmente suo figlio si riferiva a Nathaniel »
Proprio quando il ragazzo era convinto di essersi sottratto alla conversazione, nonna Sophia obiettò:
« non sei tu quello che è venuto dalla Germania apposta per mia nipote, quando sua sorella era in ospedale? »
E quella fu la domanda che sconvolse Castiel, anche se non tanto quanto la ragazza che gli sedeva di fronte.
Lui era tornato in America per lei.
Da quel momento, il tempo sembrò fermarsi ed Erin rivisse quella scena nella sua mente annebbiata dai ricordi: quel giorno era stremata, le sembrava ancora di percepire quel senso di pesantezza e la sua debolezza nel restare vigile. La notte precedente all’operazione non era riuscita a dormire e l’angoscia le aveva torturato ogni fibra nervosa.
Una sonnolenza incontenibile si era così impadronita del suo fisico spossato, che aveva cominciato a crollare sotto il peso della tensione… finché il contatto con un corpo solido ma morbido ne aveva frenato la caduta. Solido e rassicurante.
« andrà tutto bene Erin…  fidati di me »
Quando aveva riaperto gli occhi, si era scontrata con l’amarezza di realizzare l’inconsistenza di quella realtà. C’era suo padre al suo fianco, non Castiel.
Era stato un sogno.
Così almeno aveva creduto.
A distanza di due mesi invece, quella certezza era appena andata in frantumi, assieme alla tristezza che la legava a quell’episodio: non era una sua fantasia, Castiel aveva realmente preso un aereo per raggiungerla in America.
La mascella di Erin si era irrigidita e gli occhi erano puntati sul ragazzo davanti a lei, che per contro, non osava incrociare il suo sguardo.
« n-no, deve aver capito male » balbettò insicuro.
Con quella giustificazione pronunciata con così scarsa credibilità, la mora ricevette la conferma che aspettava. Lo stupore venne così rimpiazzato dalla perplessità, non capiva per quale motivo non fosse rimasto lì con lei, o per lo meno, perché non le avesse mai parlato di quell’episodio.
Continuava a sfuggire alla questione, negandone l’evidenza e cominciando ad alimentare in Erin sentimenti contrastanti: rabbia, commozione, risentimento, tenerezza.
Abbassò lo sguardo, mentre il ciuffo le scivolava davanti alla fronte e, con voce flebile, lo accusò:
« perché non me l’hai detto? »
Nonna Sophia, osservando quanto sua nipote fosse sconvolta, cominciò a sentirsi di troppo. Sapeva di aver appena sganciato una bomba, ma il suo obiettivo era proprio quello di smuovere una situazione altrimenti fin troppo statica. Doveva lasciare che fossero i due giovani a disinnescarla:
« oh, caspita è vero! Era un segreto! Oh, ma cosa vuoi farci caro, sai com’è… alla mia età! » si scusò, con un sorriso ipocrita verso Castiel.
Era da tempo che voleva conoscere quel ragazzo e, non appena Peter le aveva raccontato quell’aneddoto, specificando che il rosso preferiva che Erin non ne sapesse nulla, l’anziana si era indignata; non solo non capiva il senso di tenere la nipote all’oscuro di quel fatto, ma la trovava un’ingiustizia che non avrebbe reso merito alla generosità del ragazzo.
Visto che suo figlio non intendeva violare la promessa fatta al musicista, toccava a lei trovare l’occasione giusta per parlare con Erin e quella cena si era rivelata tale.
Si allontanò dopo aver salutato allegramente Castiel che, quasi non la calcolò: era Erin a calamitare e preoccupare la sua attenzione.
Lei non aveva ancora sollevato il capo, così lui ne approfittò per recuperare il coraggio per affrontarla.
« perché non me l’hai detto? » ripetè Erin con più forza e rabbia.
Alzò finalmente gli occhi e il rosso vide un’espressione che gli rimase indelebile nella memoria: era ferita.
Gli occhi erano arrossati, le guance imporporate e il viso contratto nello sforzo di non scoppiare a piangere.
Riuscì a leggere in quelle iridi lucide tutto quel rancore, quella nostalgia e risentimento che aveva provato durante la sua assenza, e che aveva soffocato con il suo ritorno.
« non so di cosa parlasse tua nonna… »
« non prendermi in giro Castiel! Eri tu, davanti alle macchinette, mentre Sophia… »
Era doloroso ricordare quella scena, così le parole le morirono in gola; d’altronde il ragazzo non aveva bisogno di conoscerne i dettagli, dal momento che ne era stato testimone.
Se solo Erin avesse saputo che lui realmente le era accanto, che quella spalla era davvero lì a sostenerla, l’attesa di conoscere l’esito dell’operazione non sarebbe stata così logorante.
sei l’unica spalla su cui vorrei piangere” gli aveva scritto, e così era stato.
Più cercava di trovare una giustificazione al perché lui non gliel’avesse detto, e più sentiva crescerle una irritazione indescrivibile; se anche l’intento di Castiel fosse stato quello di celare il lato più premuroso e buono della sua personalità, lei sentiva di non riuscire a sopportare di stargli davanti un secondo di più.
Aveva preso un aereo per lei.
Solo per lei, che dentro di sé, l’aveva accusato più volte di svalutare la loro amicizia. Quella dimostrazione di generosità le aveva inumidito gli occhi dalla commozione e l’aveva portata a serrare le palpebre per trattenere delle lacrime altrimenti inarginabili.
Lottando contro la furia di sentimenti contrastanti che esplodevano in lei come fuochi d’artificio, si alzò in piedi di scatto, per poi allontanarsi frettolosamente:
« che ti prende adesso? »
« stammi distante! » gli abbaiò contro.
Alcuni clienti si voltarono incuriositi, distratti da quel rumoroso diversivo in un ambiente talmente tranquillo da risultare talvolta noioso.
Erin proseguì la sua fuga, uscendo dal ristorante e piazzandosi davanti agli ascensori. Premette un pulsante a caso, sperando che le porte si aprissero all’istante, ma non fu accontentata. Castiel era a pochi metri, così inforcò le scale e cominciò a salirle più velocemente che poteva. Il taglio del vestito, unito ai tacchi delle scarpe, la svantaggiavano non poco nella sua fuga.
Non poteva permettergli di vedere quanto l’avesse sconvolta, quanto potere avesse su di lei.
Stava per salire anche l’ultimo gradino, quando sentì una presa da dietro afferrarle il polso:
« cazzo Erin, datti una calmata! Non te l’ho detto, qual è il problema? » ansimò Castiel.
Un brivido la percorse e, girandosi di scattò, esclamò furente:
« il problema? Il problema è che più ti conosco e più… »
Mi innamoro di te.
« ti prenderei a calci! » esternò infine, voltandosi verso di lui.
In quella circostanza sentiva quasi di odiarlo per quanto lo amasse.
Era l’unica persona che riusciva a mandare in pezzi tutte le sue certezze, a vanificare tutti i miglioramenti che aveva ottenuto nel suo percorso di maturazione caratteriale: davanti a Castiel, Erin tornava ad essere una ragazza fragile ed emotiva, in balia di emozioni troppo forti per essere nascoste dalla sincerità del suo sguardo.
A smorzare la tensione del momento, ci pensò Castiel che ridacchiò:
« beh non sei l’unica che lo pensa »
« cerca di restare serio! » lo rimproverò, ancora irritata.
« e come faccio? Dai, ne stai facendo un dramma per niente! »
La fissava con quell’adorabile e al contempo irritante sorrisetto malizioso, in un tentativo di smorzare la tensione. 
Riusciva a fregarla, sempre.
Abbassò lo sguardo, incerta, cercando di far ordine nella propria mente e nel proprio cuore.
Lui non le aveva detto di essere tornato, ma lei non gli aveva detto di essersi innamorata di lui. Messi sul piatto di una bilancia immaginaria, era lei a recitare la parte della bugiarda.
La stretta sul suo polso si allentò e percepì le dita del ragazzo scivolare lungo la sua mano, afferrandola stretta:
« vieni, ti faccio vedere una cosa »
Lei si lasciò guidare, arrossendo imbarazzata per quel contatto che Castiel non si era nemmeno accorto di aver creato.
Erano saliti di un piano e Castiel svoltò a destra, imboccando un corridoio stretto e seminascosto. Si trovarono di fronte una porta, con la scritta “RISERVATO AL PERSONALE” e nello spingerla, il ragazzo abbandonò la stretta dalla mano di Erin; anche se si era trattato di pochi secondi, lei aveva già il viso in fiamme.
« teoricamente non potremmo stare qui » le confessò, facendole cenno di seguirlo. Aveva il suo solito ghigno astuto, sprezzante delle regole e per questo, eccitato dall’idea di infrangerle.
Erin però continuava a guardarlo duramente e l’imbarazzo appena provato le rendeva gli occhi più lucidi:
« vuoi davvero tenermi il muso per una stupidata del genere? » le domandò, fermandosi davanti alla porta, aperta per metà.
« non è una sciocchezza! » s’infuriò lei « perché hai attraversato mezzo mondo per poi sparire, senza dirmi nulla? »
Castiel rimase immobile a fissarla in silenzio, finché dichiarò con fermezza:
« perché non dovevo essere io a consolarti Erin… quel posto spettava a Nathaniel »
La ragazza esitò, ma solo per un istante: sapeva esattamente cosa dirgli e, per quanto le costasse una certa difficoltà, cercò di essere il più sincera possibile:
« eri l’unica persona che volevo accanto in quel momento, Castiel »
 
Aveva riaccompagnato a casa Brigitte e nel tragitto in macchina, nessuno dei due aveva parlato.
Si era congedato dagli amici, dicendo che per lui la serata si era conclusa, senza fornire loro ulteriori spiegazioni. Per quanto il suo comportamento fosse risultato strano, Dajan non aveva insistito nel conoscere i dettagli quella sera, ma si era ripromesso di chiamare l’amico l’indomani.
Fu così che Trevor si era ritrovato a casa sua, di sabato sera alle undici.
Non c’era nessuno in casa, nemmeno la sorella e quel silenzio non faceva che peggiorare la sua afflizione. Aveva così ripreso in mano le chiavi della macchina e si era buttato per strada: l’album dei Nirvana, Nevermind a tutto volume e il tachimetro che si ergeva verticale. Sfrecciare di notte, quando la carreggiata era sgombera di autisti, lo rilassava un po’, facendogli perdere la cognizione del tempo.
« papà » mormorò tra sé e sé.
Per quanto cercasse di convincersi che nulla era certo, la gravità con cui Brigitte gli aveva annunciato quell’eventualità lo aveva fortemente condizionato.
Diventare padre. Già come figlio era un disastro, l’idea di prendersi cura di un esserino non autosufficiente lo aveva catapultato nella consapevolezza che erano finiti gli anni della spensieratezza e delle stupidaggini per cui era famoso.
Il fascio di luce dei lampioni, disposti in successione, si alternavano sul suo viso, oscurandolo e illuminandolo ad intervalli regolari.
Dopo più di mezz’ora, si accorse di essere tornato nella zona del pub, dove aveva trascorso la serata un paio d’ore prima. Controllò nel parcheggio del locale, ma non vide le auto dei suoi amici e quella constatazione in un certo senso lo sollevò: voleva stare da solo, al limite in compagnia di qualche boccale di birra.
 
Castiel non aveva aggiunto altro, era rimasto a fissare Erin.
Si sforzò di non arrossire, di non cadere nella tentazione di equivocare quelle dolci parole: erano l’uno il migliore amico dell’altra, non c’era chiave di lettura diversa nell’interpretare quell’affermazione.
« mettiamoci una pietra sopra » concluse lei, sospirando « grazie per essere venuto quella volta »
Incurvò le labbra dalla rassegnazione, come se non avesse altra alternativa che quella di far buon viso a cattivo gioco.
Rincuorato dal venir meno della tensione tra di loro, Castiel annuì, mentre Erin esclamò:
« allora? Che posto è questo? »
Lui allora aprì del tutto la porta, facendosi poi da parte in modo che lei potesse vedere oltre di essa:
« dopo di lei, madame » ironizzò.
La ragazza venne investita da un vento freddo, che la lasciò per un attimo disorientata: erano su un terrazzo esterno del grattacielo. La luce artificiale illuminava quella che all’inizio le sembrò un bosco selvaggio ma poi osservandolo più attentamente, si rivelò una sorta di giardino.
Il parapetto era nascosto dal fogliame di vario tipo e in un angolo, era allestito un gazebo in legno con al di sotto altre piante e fiori.
Ovunque si voltasse, Erin era immersa dalla natura, in una sorta di angolo di paradiso in città.
« c-che ci fa un posto del genere qui? »
Castiel sorrise compiaciuto dell’effetto che aveva sortito in lei e, dopo essersi richiuso la porta alle spalle, replicò:
« questo è l’orto che usano i ristoranti di questo palazzo per i loro piatti. Trattandosi di posti esclusivi, per loro è importante avere la materia prima fresca, principalmente erbe aromatiche in realtà, ma coltivano anche qualche ortaggio »
Finita quella spiegazione, la mora avvertì infatti l’odore dell’alloro a solleticarle le narici e, passando le mani su delle foglie appuntite e strette, percepì tra le dita l’aroma di rosmarino.
Si sporse oltre il parapetto e rimase incantata a guardare la città, più di quanto non l’avesse impressionata farlo da dietro le vetrate del ristorante. All’esterno, lo scenario era ancora più spettacolare, al punto da farle venire un brivido per un leggero senso di vertigine.
« come hai scoperto questo posto? »
Castiel si portò accanto a lei, appoggiando i gomiti sul davanzale del parapetto.
« per caso: da piccolo i miei mi portavano spesso a cena qui ma visto che mi annoiavo a morte, ogni occasione era buona che sgattaiolare via »
« spesso a cena qui? » ripeté Erin sconvolta, pensando al listino prezzi del locale. Riconsiderò poi la neo scoperta parentela di Castiel e concluse « beh, d’altra parte tuo padre è un chirurgo famoso »
Lui non replicò minimamente, ma si frugò nelle tasche, accendendosi una sigaretta. Era tutta la sera che si portava dietro quel pacchetto, aspettando l’occasione per usarlo.
« è il tuo giardino segreto » aggiunse Erin, cominciando ad esplorarlo.
« già, anche se crescendo ha perso tutto il fascino che poteva avere agli occhi di un bambino: quando avevo dieci anni sembrava una foresta inquietante, specie di  notte, ora invece è solo- »
« un posto meraviglioso » lo interruppe lei, accarezzando con dolcezza un petalo scarlatto.
Non le erano mai piaciute le piante, per lo meno non era mai riuscita a guardarle con quell’interesse che nutriva la sua amica Iris. Eppure quella sera, ogni fiore, ogni foglia, le sembravano rivestite di un alone di perfezione, fungendo da cornice per una serata in compagnia del ragazzo di cui era segretamente innamorata.
Castiel non le disse che, proprio in quello stesso luogo, vent’anni prima, suo padre aveva chiesto a sua madre di sposarlo. Quando lui l’aveva scoperto, era solo un bambino e aveva visto in quella scena romantica, la testimonianza di un amore che non era mai esistito. Il proprio rancore che aveva fatto seguito al divorzio, aveva radicato nel rosso la convinzione che Tyra non avesse mai amato realmente suo padre e, dopo l’amara parentesi con Debrah, si era risoluto che le donne fossero esseri troppo volubili ed emotivi per restare fedeli alle loro emozioni.
Per quanto lo riguardava, sentiva che ciò che lo legava ad Erin non si sarebbe mai annientato completamente, anche se lei un giorno avesse trovato un sostituto per Nathaniel.
Ogni volta che quel genere di riflessioni si impadronivano di lui, percepiva una triste angoscia, sobillata dalla certezza che mai si sarebbe messo in gioco per provare a cambiare il destino: non avrebbe sopportato un’altra delusione, non un rifiuto di Erin, che avrebbe comportato la rottura della loro amicizia.
Era talmente assorto, che non si accorse di come lei lo guardava: gli sarebbe bastato voltarsi un attimo e, forse, le sue insicurezze sarebbero svanite, leggendo in quegli occhi verdi la reciprocità dei suoi sentimenti.
Castiel era così pensieroso e tenero quella sera, che lei non riusciva a smettere di fissarlo con adorazione. Aveva le labbra leggermente contratte e le palpebre abbassate a fissare il vuoto:
« ho una sorella »
Shock.
Erin si staccò dal parapetto, mentre il cuore cominciava ad accelerare improvvisamente:
« una sorella? » ripetè sconvolta.
Il rosso si strinse nelle spalle e abbandonò anch’egli la posizione, mettendosi eretto e affondando le mani in tasca:
« scoperta stasera » biascicò, con la sigaretta in bilico tra le labbra.
« come sarebbe a dire che l’hai scoperta stasera? »
« me l’ha detto mio padre. Ad essere precisi è una sorellastra »
Erin boccheggiò ancora sconvolta, poi cercò di riepilogare:
« quindi non avete legami di sangue? »
« no, è figlia di una precedente relazione del marito di mia madre »
La mora rimase di sasso: non era tanto la notizia in sé ad averla spiazzata, quanto l’immaginare cosa avesse provocato nell’amico:
« come l’hai presa? » deglutì, leggermente in ansia.
« mah » biascicò inizialmente il ragazzo. Si allontanò da lei, per poi sedersi su una sorta di muretto che delimitava le piante aromatiche « meglio di quanto si aspettasse mio padre, suppongo »
Castiel le sembrava tranquillo, troppo per il suo carattere impulsivo e collerico.
Gli era stata tenuta segreta quella parentela eppure non appariva offeso o arrabbiato.
« quanti anni ha? »
« nove »
« come si chiama? »
« Hailey »
« è un bel nome »
Lui scrollò le spalle e spense il mozzicone contro il terriccio umido del basilico.
Più lo fissava, e più Erin non lo riconosceva: si sarebbe aspettata ben altra reazione da lui, invece il musicista sembrava quasi disinteressato alla faccenda.
« quando andiamo a trovarla? »
Lui alzò lo sguardo, sbattendo le palpebre a più riprese:
« andiamo? » ripeté, quasi beffardo, sottolineando l’utilizzo della prima persona plurale.
Erin sorrise e, incurvandosi nelle spalle, esclamò:
« se non ti costringo io, non ci andresti mai »
« questo è vero » convenne lui, tranquillamente.
Non si sentiva vincolato a instaurare un legame con quella bambina sconosciuta, per questo quella scoperta lo lasciava indifferente. Aveva preso atto della sua esistenza, ma la sua vita avrebbe continuato a scorrere come era sempre stato. Solo a distanza di tempo, capì quanto la sua previsione fosse sbagliata.
« allora? » incalzò Erin, piazzandosi davanti a lui.
« allora che? »
« quando andiamo? Ti accompagno solo io, giuro che non ne faccio parola con nessun altro, ma voglio assolutamente conoscere questa bambina! »
Dapprima la fissò come se fosse una marziana, poi iniziò a grattarsi il capo:
« tu farti i cazzi tuoi mai eh? »
Lei sorrise furbescamente, strappandogli a sua volta un ghigno analogo:
« è un sì? » indagò speranzosa:
« è un “qualsiasi cosa dirò, farai di testa tua” »
« dove abita tua madre? »
« in Canada »
Cadde un silenzio gelido, causato dallo spiazzamento di Erin, finché il ragazzo si lasciò sfuggire in una risatina divertita:
« sto scherzando scema…  è a due ore di macchina da Morristown »
Per nulla offesa da quella piccola burla, Erin proseguì imperterrita:
« perfetto! Andremo in autobus » stabilì, senza avere la minima idea di quale fosse la loro destinazione.
Il rosso scrollò le spalle, senza obiettare in alcun modo. In fondo, lo lusingava quell’interesse che Erin manifestava per la sua situazione familiare, perché sapeva che era scaturito principalmente dalla volontà della ragazza di aiutarlo. Per un’ottimista come lei, era inevitabile investire le sue energie nel cercare di instaurare la serenità tra le persone a cui voleva bene; ne aveva già avuto prova in passato, quando l’amica aveva compiuto ogni sforzo per farlo riappacificare con i suoi amici.
Anche se Castiel non credeva che ci fossero speranze per cambiare la sua storia familiare, concesse ad Erin il diritto di intromettersi; non lo avrebbe ammesso, ma era un pretesto per stare con lei.
« comunque non è un segreto di stato. Lo dirò anche agli altri » chiarì il musicista.
« ma io l’ho saputo per prima » gongolò Erin.
« contenta te » minimizzò.
Lei cominciò a camminare tra i corridoi fittizi creati dai vasi giganti e dalle costruzioni in mattoni che delimitavano la vegetazione, mentre lui la fissava in silenzio.
« anche io devo dirti una cosa » esclamò Erin d’un tratto, fermandosi davanti ad una siepe di alloro « e voglio che tu sia il primo a saperla »
Tastò la rigidità delle foglie e, sapendo di aver calamitato l’attenzione dell’amico, proseguì:
« credo di aver trovato la chiave per capire il perché dello strano comportamento di mia sorella »
« cioè? »
Erin compì una mezza piroetta e tornò da lui, ancora seduto sul muretto:
« un quadro »
« un quadro? » le fece eco, scettico.
« sì, l’ha lasciato ad Allentown e, quando le ho chiesto qualcosa a riguardo, si è irrigidita all’inverosimile. Quel dipinto nasconde qualcosa Castiel, e vorrei che mi aiutassi a scoprire di cosa si tratta »
« e gli altri? Non dirai niente a Rosalya e company? »
Erin sollevò le spalle e dichiarò:
« no, glielo dirò, basta segreti. Sto cominciando ad odiarli »
Il musicista si alzò in piedi e dichiarò:
« non sempre i segreti sono qualcosa di negativo. A volte sono necessari per non soffrire »
« ma paghi il prezzo della sincerità. Non dovrebbero esserci segreti tra amici » e dopo aver pronunciato quella frase, Erin si sentì un’ipocrita.
Era l’ultima persona al mondo a poter fare una simile dichiarazione, poiché continuava a chiamare amico, il ragazzo che per lei rappresentava molto di più.
« allora diciamo che possiamo avere… solo un segreto a testa » calcolò il rosso « qualcosa che teniamo solo per noi stessi, senza condividerlo con nessun altro »
Quella sorta di bislacca concessione la fece sorridere: sapeva esattamente su quale verità lo avrebbe tenuto all’oscuro.
Ironia della sorte, la stessa che aveva scelto lui.
Quella notte, Castiel ed Erin promisero a se stessi che mai avrebbero rovinato la loro amicizia per dei sentimenti romantici che non credevano corrisposti.
Fu una promessa sciocca e per certi versi, tragicomica, ma solo a distanza di tempo ne colsero questi aspetti.
« ehi Castiel » lo chiamò « comunque ci tenevo che fossi il primo a sapere di questa storia del quadro »
Lui, anziché arrossire, ghignò spavaldo:
« comincio a pensare di essere speciale per te Ninì » la canzonò, incapace di prendere seriamente quanto gli aveva appena ribadito l’amica che, con un sorriso tenero, si limitò a pensare:
« non sai quanto »
 
« un’altra »
Quell’ordine era giunto dal giovane cliente, incurvato con la tristezza di un alcolizzato cronico, sul bancone del pub; Trevor aveva appena svuotato il suo boccale di birra, lasciando sul fondo un residuo di schiuma bianca, destinato a liquefarsi.
Il barista aveva sospirato scocciato, gettando un’occhiata all’orologio appeso alla parete: era quasi ora di chiudere e il liceale rappresentava l’unico motivo per cui non poteva anticipare il proprio rientro a casa:
« stiamo per chiudere » rispose seccato.
Era già la terza volta che glielo faceva notare e, come le due precedenti, Trevor ripetè:
« questa è l’ultima »
« come no » farfugliò l’uomo, spinando il liquido dorato lungo un nuovo boccale.
Aveva già congedato il personale, fatta eccezione per una ragazza intenta a spazzare per terra.
Posò la birra sotto il naso del cliente che però non reagì: il ragazzo rimase a fissare con uno sguardo vuoto il liquido ambrato, come se vi cercasse all’interno delle risposte a domande che solo lui sentiva.
Spazientito da quell’attesa, il gestore chiamò la cameriera:
« Jordan! Vieni tu qua. Io vado sul retro »
Di spalle, Trevor non poté accorgersi del cipiglio infastidito della ragazza che, dopo aver sollevato gli occhi al cielo, aveva raggiunto il bancone. Appoggiò la scopa in un angolo e iniziò a riporre in ordine i bicchieri appena usciti dalla lavastoviglie.
Non degnò di uno sguardo il ragazzo che a quel punto tuttavia, distolse l’attenzione dalla sua bevanda: la ragazza che aveva davanti non indossava l’uniforme del locale, ma una semplice tuta da ginnastica e una felpa, arrotolata fino al gomito. I capelli castani  erano raccolti in una coda di cavallo molto alta e lunga che, assieme alla montatura nera degli occhiali, le conferiva un’aria intellettuale.
Si muoveva con velocità e sicurezza: teneva in ogni mano due bicchieri contemporaneamente e riusciva a pizzarli al loro posto senza farli tintinnare al contatto con quelli adiacenti.
Finita quell’operazione, passò uno straccio sul bancone, eliminando i segni lasciati dal fondo dei bicchieri, gettò la spazzatura che aveva accumulato in un angolo poco prima e sparì con un fusto di birra, evidentemente vuoto. Tornò poco dopo, tenendo in mano un libro e, finalmente, si sedette su uno sgabello, vicino alla macchina del caffè.
Impressionato dall’industriosità della ragazza, Trevor considerò che in quei cinque minuti, mentre lei era così impegnata nelle sue faccende, il livello della sua birra non era sceso di un millimetro.
Si portò allora il bicchiere alle labbra e fu in quel momento che Jordan gli lanciò un’occhiata fugace: era snervante attendere che il cliente finisse la consumazione e si irritò ancora di più nel realizzare che Trevor si fosse appena inumidito la bocca.
Sospirò leggermente, tornando a concentrare la sua attenzione sul libro che aveva appoggiato sulle gambe, lisciando una piega che si era formata sul fondo della pagina. Non premette con forza, la sua era più una dolce carezza, come quella che una madre darebbe al proprio bambino.
« che merda che è la vita » mormorò Trevor d’un tratto.
La ragazza non replicò, ignorandolo apertamente, addirittura iniziò a giocherellare con i capelli, modificandoli in uno chignon. Il tentativo però venne operato con poca convinzione e, dopo pochi secondi, l’acconciatura si sciolse, tornando ad essere a coda di cavallo.
« uno non fa neanche a tempo a godersela, che già gli appioppano responsabilità » proseguì Trevor, accasciandosi sempre più lungo la superficie di granito rosso del bancone. Sembrava sciogliersi come del burro su una padella rovente, perdendo quella rigidità che caratterizza qualsiasi vertebrato.
Irritata per quella seconda interruzione, la silenziosa lettrice sbottò:
« finisci quella birra e vai fuori a fare i tuoi sermoni »
Il cliente la fissò stranito, mentre lei tornava a far finta che non esistesse:
« il cliente ha sempre ragione » borbottò, leggermente brillo.
« non dopo l’orario di chiusura » lo rimbeccò l’altra piccata.
Uno a zero a sfavore del cestista.
L’alcol gli aveva tolto qualche freno inibitore, facendogli sentire improvvisamente il bisogno di sfogarsi con qualcuno che non lo conoscesse. Quella ragazza sarebbe stata la sua vittima ideale, se solo fosse stata un po’ più gentile:
« che leggi? » le chiese, non per curiosità ma per trovare un orecchio disposto ad ascoltare le sue lagne; lei sollevò la copertina, senza scomodarsi a recitare a voce alta il titolo. Non controllò che lui stesse mettendo a fuoco il titolo, tanto sapeva che non gli interessava minimante.  
« forte » commentò stupidamente Trevor, confermando l’ipotesi della cameriera.
« da piegarsi in due dal ridere » commentò con sarcasmo la ragazza, senza distogliere lo sguardo delle pagine. Calò il silenzio, ma Trevor non intendeva farlo durare, così dopo un po’ ripeté:
« che vita di merda »
Quell’ennesima lamentela fece scattare l’interlocutrice, che chiuse il libro, incastrando prima l’indice tra le pagine che stava leggendo:
« la finisci di lagnarti? Se stai cercando una spalla su cui piangere, hai sbagliato persona! »
Aveva delle iridi verde oliva, molto chiare e un’espressione ostile, che tuttavia non intimidì minimamente la socievolezza del moro:
« la mia ragazza è incinta »
« chissenefrega? »
Quella risposta indelicata e insensibile corrugò la fronte di Trevor, che quasi stentava a credere al risentimento con cui veniva trattato:
« ti pagano per essere così stronza? »
« sì, e dicono che sono anche piuttosto brava »
Due a zero.
A quel punto non capì se quella conversazione cominciava più a irritarlo o divertirlo.
« ce l’hai con me? » indagò.
Jordan non rispose, ma riaprì il libro, solo il tempo di ricreare la stessa piega che aveva spianato poco prima. Lo richiuse e si avvicinò al ragazzo, per poi aprire un cassetto e nascondere l’oggetto.
« tu vai all’Atlantic High School giusto? La scuola per i figli di papà? »
Con quella domanda, sembrò quasi sfidarlo, come se la sua appartenenza al Dolce Amoris fosse un pretesto per odiarlo a prescindere.
« qualcosa contro le scuole private? »
« ho qualcosa contro i ragazzini viziati come te, che avete tutto ma vi lamentate della vita. Vorrei vederti a farti un culo così a lavorare, allora sì vienimi a dire che la vita fa schifo »
Tre a zero, e quello sì era un colpo ben assestato.
Per quanto il rancore di Jordan nei suoi confronti fosse ingiusto e frutto di pregiudizi, Trevor non si sentiva realmente irritato: con quella ragazza, aveva completamente dimenticato il motivo per cui si era ridotto a ubriacarsi in un pub in solitudine. Che poi, a causa della sua resistenza all’alcol, tanto ubriaco non era.
« quindi ce l’hai su con i fancazzisti? »
« precisamente » annuì l’altra.
« allora hai davanti lo stereotipo per eccellenza bella » commentò  orgoglioso, buttando poi giù una sorsata copiosa di birra. Il livello di sopportazione di Jordan si stava esaurendo molto più rapidamente della birra del cliente, per questo scattò:
« finisci quella maledetta birra e vattene. Già non ho molta pazienza »
« avrei detto il contrario » la interruppe il cestista con ironia.
La ragazza sbuffò nervosamente e riaprì il cassetto dove aveva riposto il libro:
« almeno restatene in silenzio, sto cercando di studiare »
« a quest’ora? »
Lei rimase immobile con il libro a mezz’aria e scandì, velenosa:
« si dà il caso che abbia lavorato fino a dieci minuti fa, mentre tu eri impegnato a far festa con i tuoi amici »
Non gli avrebbe raccontato la storia della sua vita, del lavoro part-time che conduceva durante la settimana e di quello al pub nel weekend. Uno come lui l’avrebbe etichettata come una poveraccia e, la cosa peggiore, era che non poteva negare che fosse vero.
« ma quanto anni hai scusa? » si incuriosì il moro.
Nonostante i suoi tentativi di demolirlo, Trevor resisteva eroico, forse aveva una qualche preoccupante tendenza al masochismo, che stava prosciugando anche le ultime energie che le erano rimaste dopo una settimana pesante.
« ma che te ne frega? E poi non si chiede l’età ad una donna » scattò lei sulla difensiva, guardandosi attorno.
« hai ragione, in effetti non sembri una ragazza » convenne lui. Indispettita Jordan, afferrò un paio di noccioline dal bancone e gliele scagliò contro; quel gesto infantile, quasi strideva con la sua personalità, ma era il primo segnale che la sua barriera di insofferenza e diffidenza stava crollando:
« ti posso mandare fuori a calci, sai? »
Quella minaccia irretì il moro: Jordan lo vide ghignare beffardo e alzarsi dallo sgabello, rivelandosi molto più alto di quanto avesse immaginato; Trevor si sporse oltre il bancone, portando il suo viso a pochi centimetri da quello della cameriera. A quella distanza ravvicinata, lei si trovò davanti dei caldi occhi color nocciola, luminosi e vivaci.
« scommettiamo? » le sussurrò malizioso.
Si sentì avvampare, poiché presa alla sprovvista e, soprattutto disabituata a quel genere di confidenza.
Si allontanò istintivamente e, cercando di recuperare la sua presuntuosa sicurezza, velenò:
« che ne è della tua disperazione di prima, futuro papà? »
Quel colpo basso si rivelò l’arma più efficace per ridimensionare il buon umore di Trevor: tornò ad abbandonarsi sullo sgabello e abbassò lo sguardo, dipingendolo di malinconia.
« non mettere il dito nella piaga, è una cosa seria » mormorò sconfitto.
La sua afflizione era talmente palpabile che, anche la dura scorza di Jordan, ne rimase intaccata: cominciò a sentirsi un po’ in colpa per quella frase, ma il suo orgoglio le impediva di dimostrare che in fondo non era così insensibile. Volendo quindi indossare ancora per un po’ quella maschera di cinismo, replicò secca:
« avresti dovuto pensarci prima… voi ragazzi e la vostra superficialità »
« ehi non è che Brigitte non abbia le sue colpe! »
La ragazza sollevò gli occhi al cielo, zittendosi. Avrebbe finito per dire qualcosa di spiacevole, come del resto aveva fatto sin da quando si era trovata di fronte quel ragazzo. Poteva ispirarle antipatia, ma era innegabile che si trovasse in una situazione molto delicata, talmente tanto da dover rinunciare alla sua sarcastica acidità.
Impercettibilmente intenerita dalla pena del giovane cliente, si sforzò di apparire un po’ più indulgente, anche se il suo atteggiamento era visibilmente forzato:
« a quante settimane è? »
« no, in realtà non è sicura di essere incinta, ha un ritardo ma-»
Quel briciolo di comprensione che Jordan aveva provato, venne disintegrato all’istante: il sopracciglio cominciò a traballarle nervosamente, anticipando l’irritazione con cui lo avrebbe attaccato:
« e tu mi hai rotto le palle finora per una cosa di cui manco sei sicuro!? »
« beh, lei sembrava quasi certa che- » tentennò Trevor, sorpreso da quell’uscita così violenta.
Lei tese il braccio, indicando la porta e sbottò:
« muovi quel culo dallo sgabello, ho perso fin troppo tempo per assecondare le tue lagne »
Sbuffò pesantemente e si portò le mani sui fianchi, arpionandoli con foga. Lo fissava collerica e stanca, desiderosa solo di andare a casa a dormire, lasciandosi alle spalle quella serata così intensa
« devo chiudere » tagliò corto, accomodandosi gli occhiali sul naso.
Trevor allora si alzò pigramente dallo sgabello, cominciando a frugare nella tasca della giacca alla ricerca del portafoglio. Recuperò una banconota e la lanciò sul bancone, incrementando l’insofferenza di Jordan: per lei quei venti dollari non erano un banale pezzo di carta, doveva lavorare due ore come cameriera per racimolarli. Lui invece poteva permettersi il lusso di lasciarglieli lì, come se fossero l’incarto di una caramella.
La cameriera rimase a fissarlo di spalle, mentre spingeva la porta del locale, in silenzio:
« ehi »
Trevor si voltò, quasi apatico.
« mancano venti centesimi »
La fissò dapprima sorpreso, poi ridacchiò; tornò ad avvicinarsi al bancone e le porse un paio di monetine, necessarie ad annullare il suo debito:
« sei proprio senza cuore » le disse, tra la beffa e l’amaro.
Lei non si scompose, ma rimase a fissarlo con serietà.
Trevor ripercorse la strada verso l’uscita e, questa volta, abbandonò definitivamente il locale, lasciando Jordan da sola, immersa in un silenzio che per qualche motivo, le sembrò quasi triste.
 
« Mackenzie, devi essere più gentile con le tue compagne! »
Miss Gilson le alitò quel rimprovero a pochi centimetri dal suo viso, impregnando l’aria circostante con l’odore della sigaretta che aveva fumato pochi minuti prima. Il regolamento scolastico vietava agli insegnanti di fumare nel cortile della scuola, ma la donna ne ignorava il contenuto, come le resto la maggior parte dei suoi colleghi. Quella mattina era occupata a chiacchierare con la sua collega e amica Joslin ed essere interrotta per un banale bisticcio tra bambine l’aveva irritata non poco.
« ma mi prendono in giro! » protestò Mackenzie.
Assolutamente disinteressata ad approfondire la questione, l’adulta replicò:
« non è un buon motivo per tirare loro i capelli! Lo vedi che Cassidy sta piangendo? »
« e le mie lacrime di rabbia non le vedi, stupida? » pensò tra sé e sé la bambina, stringendo i pugni con forza, nascosti dalle tasche del suo grembiule blu.
La superficialità della donna, unita ad una scarsa sensibilità, la facevano apparire agli occhi della scolaretta, una figura inutile e disprezzabile: Miss Gilson nutriva un’ingiustificata antipatia verso di lei, che pure si considerava una bambina sveglia e in gamba. Per contro, preferiva Cassidy Bloom, incarnazione di una bambolina di porcellana sia nell’aspetto che nel cervello.
La moretta si divertiva non poco a punzecchiare Mackenzie, denigrandola agli occhi del suo gruppetto di amiche, per le sue umili risorse economiche. Quest’ultima si guardò le scarpe, ormai consumate e scolorite, forse anche un po’ piccole per il suo fisico che si accresceva velocemente. Cassidy si era permessa di canzonarla per la loro dozzinalità, paragonando poi l’abbigliamento di Mackenzie a quello di una barbona.
Umiliata e inviperita dalle risatine stupide a cui avevano fatto seguito le sue cattiverie, la bambina le era saltata addosso come una furia, finché non erano intervenute le maestre a separarle.
Miss Gilson non poteva capire, semplicemente perché non voleva capire.
Per la sua studentessa, non rimaneva altra soluzione che restarsene in silenzio; strinse saldamente la piccola ciocca di capelli neri che pochi minuti prima erano radicati sul cuoio capelluto di Cassidy Bloom. Erano l’unica consolazione e soddisfazione che poteva avere dopo quella brutta giornata.
 
Nel rientrare a casa, sentì che un nuovo sentimento stava per rimpiazzare la rabbia: l’amarezza di dover raccontare a sua madre l’accaduto.
Sul diario, con una scrittura svolazzante, Miss Gilson le aveva segnato una nota da far firmare e dalla sua espressione, sembrava quasi soddisfatta di infierire quell’ultima umiliazione alla bambina.
« mettici anche una faccina felice dopo il tuo nome » aveva pensato con sarcasmo Mackenzie, mentre alle spalle avvertiva la risatina soddisfatta di Cassidy. Aveva richiuso il diario con foga, tornando al suo posto a testa alta.
Nessuno l’avrebbe demolita, lei era forte, doveva esserlo.
« oh, sei qui tesoro » la accolse un sorriso dolce.
Doveva esserlo per sua madre, Dianne.
Appena aveva sentito i passi della figlia, la donna aveva alzato il capo di scatto, cozzandolo contro la vasca del lavandino: Mackenzie infatti aveva fatto il suo ingresso in cucina, trovando la madre accucciata a terra, intenta a maneggiare il sifone. Una chiave inglese e altri attrezzi erano sparpagliati sul pavimento piastrellato, alcuni dei quali perfettamente inutili per la sua improvvisata attività di idraulico:
« il lavandino perde ancora, mannaggia » borbottò Dianne, cercando di risultare buffa.
Tuttavia sua figlia non si lasciò incantare. Era tipico di sua madre, nascondere dietro ai sorrisi, quello che pensava realmente; anche se si dimostrava serena davanti alla figlia, Dianne provava una grande frustrazione nel dover essere così autonoma e industriosa. Non potevano permettersi un idraulico, avrebbe inciso troppo sul bilancio familiare e, analogamente ad altre situazioni, dove poteva, cercava di compensare con le sue capacità manuali.
Mackenzie per lei aveva sempre la precedenza, appena percepiva lo stipendio, si assicurava che alla bambina non mancasse nulla per la scuola e che vivesse la sua infanzia felice, lontana dal peso della precarietà economica che invece incombeva sul suo ruolo di genitore.
Nonostante i suoi generosi tentativi però, Dianne si accorgeva delle occhiate pietose che le lanciava la figlia, troppo intelligente per lasciarsi ingannare dai suoi sorrisi.
« come è andata a scuola? » tentò la donna, pulendosi frettolosamente le mani sui pantaloni della tuta. Anche se, diversamente dalle mamme dei suoi compagni di classe, Dianne non poteva permettersi trucchi o vestiti di classe, per sua figlia era la donna più bella del mondo: aveva i capelli castano chiaro, che amava raccogliere in una treccia laterale e un sorriso gentile, che incantava chiunque con la sua dolcezza.
La scolara scrollò le spalle, laconica, e si avvicinò al ripiano per prendere un biscotto al cioccolato.
« ti sei fatta delle nuove amiche? » chiese speranzosa la madre.
Quell’ingenua domanda irritò Mackenzie: sapeva che sua madre era preoccupata per quello che le maestre avevano definito un “atteggiamento asociale”, ma la sola idea di diventare amica dei suoi compagni di classe, le infondeva un senso di claustrofobia:
« ho picchiato Cassidy »
« come sarebbe a dire? »
Mackenzie non aggiunse altro ed accese la TV; non la stava guardando veramente e sua madre se ne accorse. Non era il momento migliore per farle una ramanzina, che peraltro si sarebbe rivelata inefficace.
L’unica cosa che le era richiesta come madre, era tentare di cancellare un po’ di quell’amarezza e risentimento che traspariva dagli occhi lucidi della bambina.
Sorridendole paziente, Dianne si alzò da terra, avvicinandosi a lei.
Si mise tra Mackenzie e lo schermo, accucciandosi davanti e portandole una mano sulle ginocchia:
« tesoro, non lo fare più, intesi? Per quanto una persona possa farti arrabbiare, non arrivare mai a picchiare gli altri » mormorò dolcemente.
Mackenzie non voleva dire a sua madre cosa l’avesse fatta scattare, sia per non ferirla, sia perché temeva che Dianne l’avesse già intuito; non era pentita di aver picchiato Cassidy, se l’era meritato, ma non poteva sopportare di far stare in pena sua madre. Era la donna più buona del mondo, non si meritava una figlia impulsiva come lei, che le dava così tante preoccupazioni.
Eppure Dianne sembrava aver capito cosa fosse accaduto a scuola e, a conferma di tale ipotesi, subentrò la continuazione del discorso:
« è vero che non abbiamo molto soldi, ma questo non è un motivo per farci sentire inferiori. Se ti comporti bene e con rispetto, allora manterrai una cosa che nella vita conterà sempre più dei soldi… »
Finalmente la bambina si decise a cercare gli occhi amorevoli della donna e, con voce impastata, domandò:
« e cioè? »
« la tua dignità »
Mackenzie sorrise rincuorata.
Sua madre era il suo idolo.
 
 
 
 
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NOTE DELL’AUTRICE
 
¡Hola chicas!
 
Lo so, fino all’ultimo ho lasciato come data di pubblicazione l’8, e sapete perché? Veniva a coincidere con il compleanno di una delle lettrici, LisyDarkyLove (ciao F.!), così le ho promesso che quel giorno avrei messo on line il 51. Stamattina però, presa dall’ispirazione, sono riuscita a bruciare i tempi e mi sono trovata un capitolo fresco di stampa… e l’idea di aspettare fino a mercoledì per leggere le recensioni era una tortura -.-.
Così ho posto a Lisy questo dilemma: posso infrangere la promessa e pubblicarlo oggi, oppure aspetto mercoledì? Ringraziate la sua impazienza se oggi c’è stato questo fulmine a ciel sereno xD
 
Capitolo piuttosto pieno, a partire dalla scoperta della parentela tra il dottor Wright e Castiel che, se andiamo a vedere alcune parti del capitolo in cui il medico è comparso, oppure lo spin-off, certe frasi acquistano più senso:
 
“Non poteva definirsi bello ma nei suoi occhi c’era qualcosa di tremendamente affascinante e carismatico, così come nei lineamenti virili del volto” _ Capitolo 35 – La speranza è un sogno fatto da svegli.
 
“Quella fu la prima occasione in cui l’uno guadagnò la stima dell’altro: in futuro Peter scoprì altri motivi per affezionarsi a me, sostenendo addirittura di essere in debito nei miei confronti;”_ In Castiel Shoes.
 
Nel primo caso, come è stato spiegato nel capitolo, Erin rimane affascinata dallo sguardo del chirurgo perché, anche se non ne è consapevole, è lo stesso di Castiel, suo figlio (manco si è accorta che l’amico ricambia i suoi sentimenti, figuriamoci se potevo fare che si accorgesse che i due hanno gli stesso occhi -.-‘’).
Nel secondo invece, il debito a cui si riferisce il rosso è che, contrariamente a quello che vi ho lasciato intendere, è stato grazie a Castiel che il dottor Wright è venuto a sapere di Sophia (quando l’ha chiamato il dottor Hogan, Frank era già in partenza).
Inoltre nello spin-off si accenna al fatto che il protagonista maschile di questa fic abbia un cognome diverso da quello di suo padre… vi giuro che questa cosa mi rendeva un po’ nervosa, perché temevo che alcune di voi sospettassero che questa precisazione sottintendesse che avesse qualche parentela che volevo tenere nascosta xD
Insomma, ora è venuto finalmente fuori un altro scheletro nell’armadio di questa fic, armadio che si sta spopolando sempre più e i colpi di scena che ho progettato cominciato a contarsi sulle dita di una mano :S
 
Passiamo a Tyra, la mamma di Castiel: sono piuttosto eccitata all’idea di descriverla, perché amo i personaggi combattuti e contorti e lei lo è senz’altro. Si trova in una situazione davvero strana, oltre che scomoda; il Castiel che conosce lei è un ragazzo impulsivo e orgoglioso, mentre quello tornato dalla Germania dimostra qualche segno di maturità in più… come si comporterà al momento dell’incontro?
Con questo capitolo ho voluto sottolineare la maturazione di questo personaggio, diventato un po’ meno isterico ;) (anche se non rinuncerà alla sua impulsività, che del resto fa parte del suo fascino u.u).
E sempre nell’ottica di vedere nuovi lati di Castiel, conosceremo anche un’altra new entry: Hailey (hai visto Manu a cosa mi serviva la tua lista di nomi femminili? Anche Jordan è un nome che ho preso da là).
Come ve la immaginate questa bimba? Per quanto mi riguarda, la caratterizzazione psicologica e comportamentale l’ho già definita da tempo, mentre sull’aspetto fisico ho avuto l’idea guardando una bambina di quinta elementare ad un saggio di danza qualche settimana fa; l’ho vista e ho pensato “cacchio, quella è Hailey!” (ma quanti problemi psichici ho?).
 
Poi abbiamo Jordan: intanto ringrazio Kiritsubo83 non solo per questi bellissimi disegni (*^*):
             
(neanche si capisce la tua simpatia per Trevor, Simo ^^) ma anche per avermi dato un contributo essenziale nell’ideare il personaggio. Sua l’idea del look della ragazza e quindi di inscenare l’incontro tra lei e Trevor (con tanto di scena sulle tette x,D) nel pub :).
Come avete quindi capito, la ragazza che serve i cestisti all’inizio e quella che parla con Trevor alla fine del capitolo, sono la stessa persona… secondo voi lui se ne è accorto? xD (quanto idioti sono i personaggi di questa fic? Rispecchiano troppo il rincoglionimento dell’autrice o_O)
 
Sempre a proposito di Kiri, ecco un terzo disegno:
 
per chi si fosse già dimenticato di lei, questa è Melanie Green ^^ (ahah noto ora che le felpa è verde xD).
Conto di far fare una comparsata anche a lei e al resto della ciurma in futuro, anche se si tratterà di un evento sporadico, giusto per non allungare la storia più di quanto già non stia facendo;)
Comunque ringrazio pubblicamente Kiritsubo83 per i suoi disegni e ci tengo a precisare che tutto, dal lineart alla colorazione digitale è opera sua :3 (la mia tavoletta grafica è ricoperta da un centimetro di polvere ormai ç_ç)
 
Visto che in questo capitolo non sono mancati i nuovi personaggi, abbiamo scoperto anche qualcosa in più su Mackenzie, inquadrando un po’ la sua situazione familiare. L’unica cosa che posso dirvi è: prendete appunti. Io mi astengo dal commentare le parti in corsivo, ma voi potete farlo quanto volete.
 
Poi c’è Gustave (oddio, ma quanta carne al fuoco ho messo in un solo capitolo?). E’ da San Valentino che vuole un colloquio con Armin e sua figlia (comprensibilmente) è restia a farli incontrare.
Il motivo di questo incontro lo immaginerete facilmente, quindi non me la tiro più di tanto nel creare mistero u.u… magari sarà più interessante vedere come si svolgerà, perché quando c’è di mezzo Armin, ci si diverte sempre un pochino :).
 
Bene, come molte di voi ormai sanno, almeno fino a Dicembre, è un periodo molto pieno per me, quindi penso ci vorrà un altro mese per il prossimo capitolo… comunque, appena ho una data precisa, ormai sapete dove la comunico ;)
 
Buone vacanze :D
 
See you, alla prossima! 
  
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