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Autore: Lalani    17/01/2009    4 recensioni
Un arcobaleno luminoso e immerso tra le nuvole: ecco com'era la vita di Karura prima dell'arrivo del Kazegake nel suo villaggio. E il suo arcobaleno, il suo orgoglio ninja, il suo amore, si dovrà piegare.
Piccolo sprazzo della vita di una donna quasi sconosciuta ma coraggiosa e forte: una contadina, una kunoichi, una moglie, una madre. Piccolo sprazzo della vita di Karura, madre di Gaara.
PRIMA CLASSIFICTA AL CONTEST "KUNOICHI TRIBUTE" INDETTO DA KURENAI88 E TALPINA PENSIEROSA
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima dell'inizio
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Dunque, ecco una breve introduzione. La fic si è stranamente classificata prima al contest Kunoichi Tribute indetto da Kurenai88 e Talpina Pensierosa, che ovviamente ringrazio, assieme alle concorrenti, podiste e non, e alla “bannerista” Sky.La Kunoichi su cui si basa la storia è Karura, madre dei fratellini della sabbia. Una donna della quale si sa poco o niente, ma che mi ha molto colpita. La drammatica fine della sua vita e i risultati della sua morte si vedono attraverso Gaara ( che amo immensamente…e forse è proprio per questo che amo Karura*_*) e la sua sofferenza sembra mischiarsi con quella della madre. Ho  parlato dei colori dell’arcobaleno: ogni colore è trattato due volte, la prima parla dell’infanzia di Karura e la seconda della sua vita a Suna dopo il matrimonio. I primi pezzi sono molto staccati tra loro ma nella parte “verde” scoprirete perché la vita di Karura è mutata così drasticamente. Dato che ci sono poche informazioni su Karura, ho narrato la sua infanzia e quella del più famoso Yashamaru( che è suo fratello) in un piccolo villaggio del Paese dell’Acqua.
Buona Lettura!^^
Grazie per la vostra attenzione,
LaLa


Black   Rainbow


Il viola non era un colore inusuale nel Paese dell’Acqua: spesso la notte veniva inghiottita da questo affamato colore, finché quest’ultimo non veniva a sua volta risucchiato dal nero. E in autunno, puntualmente, i campi venivano punteggiati di viola da un preciso ma originale artista.
E l’uva sbocciava, un frutto amante del vivace freddo autunnale.
Per i contadini il raccolto dell’uva era una festa, e Karura non poteva sottrarsi alla loro gioia.
Nonostante la bambina si lamentasse con suo padre sul fatto che non sarebbe mai diventata una brava kunoichi se avesse perso tempo a raccogliere l’uva, l’uomo, imperturbabile, si limitava a prenderla per il colletto e a trascinarla nei campi.
Suo padre era orgoglioso delle capacità ninja della figlia, ma la vita del contadino era un dovere, l’uva una benedizione.
Perciò Karura, mentre gli adulti riempivano cesti di acini,
pattugliava la vigna accompagnata da un’opaca alba e da suo fratello per scacciare eventuali ladruncoli o mocciosi affamati.
L’uva era l’unico frutto che i bambini potevano cogliere facilmente e infilarselo tra le labbra, succhiando il sapore nato tra il dolce e l’aspro.
Per questo motivo Karura aveva sempre associato il viola a un malinconico senso di debolezza, un pianto annacquato, dissolto e sbriciolato, una colore anonimo nato dal blu e dal rosso solo per dare nutrimento al nero.
A Karura piacevano le pere, le mele, i fichi perché erano tipici frutti da “ninja”: invece di arrampicarsi e graffiarsi tra i rami sottili, bastava avere un kunai affilato e una buona mira.
E poi godersi complimenti e sguardi ammirati.
Karura spiegava la sua teoria( logorroica e pignola come ben poche figlie di contadini potevano permettersi)sui frutti a chiunque volesse ascoltarla; e quindi solo alla sua amica Tsuki, che coi suoi occhi bianchi ascoltava concentrata la coetanea.
“Hai proprio ragione, Karura-chan!” esclamava alla fine, stelle negli occhi, perle tra i denti. E subito rubava un kunai dalla saccoccia dell’amica per centrare un frutto nascosto, con risultati disastrosi.
Ma a Tsuki non serviva saper maneggiare i kunai: lei era la figlia del signorotto locale, bella, bellissima, ricca, famosa; avrebbe sposato un uomo come lei e sarebbe vissuta felice e contenta.
Almeno così dicevano le favole che ascoltava sin da piccola.
Per questo Karura voleva diventare un ninja: forse nelle favole non si parlava delle contadine, ma nella vita reale lei sarebbe stata ricordata come ninja.
Non sarebbe stata un semplice, violaceo, acino d’uva.


Il Paese della Sabbia puzzava.
Sudore, sabbia ed escrementi si radunavano nelle strade, conditi con spezie e fetori di svariati animali.
Ogni persona portava con sé odori nauseanti e il paese, alla deriva nel deserto, si trasformava in una caotica oasi.
E in quell’oasi ogni rumore era dissonante, ogni superficie ruvida.
Come ogni bravo ninja Karura attivava tutti i suoi cinque sensi per addentrarsi nella città, anche se avrebbe preferito strapparsi le narici.
Solo gli occhi erano chiusi, bruciati dal sole.
L’astro bruciava la sua pelle innaturalmente pallida, quella delle sue mani levigate e quella del suo ventre ormai rotondo, uccidendo i colori.
Vedeva solo il bianco, Karura, ogni superficie brillava di quel colore accecante, proprio come gli occhi di Tsuki. Karura si morse le labbra, sofferente: voleva vedere ancora i colori, anche se scoloriti dalla nebbia, come quelli del suo paese, ma voleva rivederli.
Anche il viola, mi accontento anche del viola!Soffocherò il mio orgoglio, rinnegherò le divinità, maledirò il mio villaggio!Tutto per riavere il viola, il colore dei codardi!
Aumentò la pressione sul labbro e avanzò, cieca, fino al palazzo( a casa), consapevole che ormai non era più una kunoichi.


Karura temeva il blu.
Era un colore infido e bastardo, troppo profondo e troppo lugubre, bisognerebbe farlo a fettine e infilzarlo per sminuirlo e distruggerlo, un bastardo, sì, proprio così.
E poi lei non sapeva nuotare.
Temeva l’usanza contadina di gettare i figli nell’acqua oleosa del porto e osservarli a sguazzare come cagnolini impazziti, proprio com’era successo a suo fratello Yashamaru.
Karura non vedeva l’ora di iniziare le lezioni di nuoto ninja, che le avrebbero permesso di guardare l’acqua scura senza sentire lo stomaco rivoltarsi e di immergersi tra le onde senza brividi.
Persino sulla barca personale di Tsuki si sentiva minacciata e si stringeva all’amica, nascondendosi dietro la sua affusolata ombra.
“Ma come, Karura-chan?” aveva mormorato un giorno il suo sensei, mentre limava i kunai e li rigirava tra le dita callose “Non dovevi diventare la kunoichi più forte di tutto il Paese? Ti addentri nella notte come un puma selvaggio e hai paura del mare?”.
Karura conficcò il kunai nella carota che stava pelando, alias il suo pranzo per la missione, penetrandola e raggiungendo con la punta il masso sotto di essa.
“Certo, sensei” aveva esclamato convinta “Non temo né la notte né il nero, è il blu che….” concluse Karura scrutando la superficie del mare non distante con un tremito.
“Tu temi un colore che non esiste, Karura-chan” aveva replicato il sensei tranquillo.
“In fondo il cielo è blu solo perché è formato da sostanze che lo colorano di quel pigmento…. Te l’ho già detto, ricordi? E il mare è blu perché riflette il colore del cielo. Noi coloriamo, dipingiamo e pensiamo un colore che non esiste”.
La carota di Karura venne ridotta a uno scheletro: da quando il suo sensei, la cui bocca era piena di insulti e denti rovinati, le cui mani sapevano graffiare la carne e non accarezzare la pelle tenera, decantava tali discorsi?
Lui le rivolse un sorriso stretto mentre le cicatrici sulle sue guance si allargavano e si strappavano.
“Ascolto il vecchio saggio del villaggio, da quando segui i miei allenamenti, Karura. Mi annoiano e mi deprimono, ma ho bisogno di imparare per rispondere ai tuoi dubbi e alle tue domande,sei più saggia di quegli zotici dei tuoi compagni. Devo dire che hai ridimensionato il mio stile d’insegnamento…anche se sarà inutile, dato che finirai per sposare un vecchio maiale che russa tra le sue cipolle!”.
“Io non mi sposerò mai! Un ninja non deve innamorarsi” sbottò furiosa Karura all’ennesimo commento sul suo desiderio di rimanere nubile.
Ridusse in frantumi i miseri resti della carota ascoltando la risata di scherno del suo sensei.
Tuttavia, quel pomeriggio, sulla barca di Tsuki, immerse la mano nel blu fasullo, con l’animo più leggero.


Il lungo vestito blu petrolio, agganciato dalla forza di gravità, precipitava a terra senza sosta, disdegnando la figura secca e piatta a cui era incollato.
Il bordo del vestito fluttuava lievemente, schiavizzato dal vento e incatenato a terra, seguendo il passo tremante di scarpe sottili e troppo strette.
Karura inciampò nei suoi stessi piedi mentre raggiungeva l’altare, un attimo, un attimo di respiro, e poi di nuovo a capofitto nell’incubo.
Il mazzo di gigli era candido, bianco, quel colore che ora sembrava così traditore, sporco e insanguinato.
Non era così che aveva immaginato il suo matrimonio; anzi, non ci aveva mai pensato, non ci doveva pensare, lei non doveva avere legami.. Ma adesso avrebbe voluto la campagna col suo odore fresco e rude, i suoi genitori a sostenerla e il suo sensei che scherniva senza rispetto le debolezze femminili.
Che le diceva che il blu non era reale e che era solo un incubo.
Ma il blu era lì, la stava indossando, abbracciando, palpando, sentiva la violenza del colore infangarle la pelle.
Era lì, tangibile e reale, come il prete sudato e sorridente, e il Kazekage al suo fianco, nervoso. La suola della sua piatta scarpa si infrangeva sul pavimento con foga ed impazienza, probabilmente per il pensiero di quanto fastidio e ritardo gli stava procurando la cerimonia.
Loro tre e il blu. E poi il vuoto.
Karura affondò il suo sguardo chiaro sulle pareti di quell’edificio claustrofobico e pensò allo sguardo desolato del sensei, l’unico terrorizzato dalla sua partenza. Pensò ai kunai buttati nel blu, insieme a lacrime inesistenti e speranze infrante.
Il vestito ondeggiò di nuovo: Karura era sopravissuta alle alluvioni nel suo Paese natale e ora stava annegando nel deserto.
“Lo voglio”.
Non respiro più.


Il suo copri fronte rifletteva la singolare sfumatura azzurra del cielo.
Era raro vedere la volta celeste così limpida, nel loro villaggio piovoso e denso di nubi, e Karura approfittava dell’inaspettato bel tempo  per risucchiare ogni raggio del pallido sole sovrastante.
Ricordava una sfumatura il giorno della sua promozione a genin e una macchia chiara nel cielo tempestoso, il giorno della sua vittoria all’esame chuunin.
Mentre la sua pelle diafana reclamava un calore così prezioso, Karura ingannava e beffava il tempo guardando la stramba forma delle nuvole quando non erano una grigiastra massa informe.
Sentì i piedi di Tsuki posarsi leggiadri affianco alla sua mano ancor prima di vedere i suoi contorni perlacei.
“Sei tornata dalla missione e hai portato il sole…brava Karura!” mormorò affascinata l’amica mente si sedeva sull’erba umida e scrutava il tramonto, tremolante lungo l’orizzonte nebuloso.
“E qualche cicatrice in più” continuò Tsuki preoccupata, osservando il collo fasciato di Karura.
“Troppo impressionante, hime-sama?” sussurrò Karura con un sorriso forte, incurante della bruciatura sotto la mascella.
Tsuki rise al -sama, che si era perso negli anni, assieme al –san e infine al –chan, ormai inutile all’alba dei loro vent’anni.
“Davvero, dovresti stare attenta” continuò Tsuki assottigliando gli occhi candidi “Ti voglio in forma per il mio imminente matrimonio!”.
“Certo, certo” la rassicurò Karura, terrorizzata per il probabile inizio di un nuovo, interminabile elenco di principi azzurri, inviti, scarpe e fiori.
Tsuki ridacchiò e tacque, assaporando i minuti che poteva trascorrere con la sua amica, ora che le loro vite stavano  volando verso orizzonti differenti.
Karura guardò il cielo limpido che si stava velocemente trasformando in indaco.
Vent’anni, un panorama di sogni che si stagliava davanti ai loro occhi ancora giovani ma non più ingenui e due sentieri opposti. La principessa e la guerriera finalmente si separavano, piene di ricordi conservati sotto quel cielo azzurro che aveva cullato le loro prime conversazioni e i loro primi segreti.
Regnava la calma: le due amiche si conoscevano da troppo tempo, sapevano distinguere il momento del gioco da quello del silenzio mistico.
“Tsuki-sama! Tsuki-sama!”
La giovanissima cameriera di Tsuki caracollava sulla collina, infliggendo duri colpi alla quiete con i suoi spinosi tacchi.
Tsuki si rialzò curiosa: proprio come le missioni di Karura erano diventate più toste, a Tsuki si presentavano pretendenti sempre più insistenti.
La cameriera vinse l’insidiosa pendenza della collina ed esclamò estatica.
“Il Kazekage è giunto in città, Tsuki-sama! E cerca moglie!”.
L’azzurro spirò tra le mani del buio.
E calò la notte.

Stelle colorate implodevano sotto le palpebre.
Sopra di esse, azzurro artificiale.
Karura reprimeva il dolore stoicamente, con l’angoscia tipica di una kunoichi sconfitta.
Il soffitto della sua camera matrimoniale era un ipocrita cielo di plastica; ma era anche l’unico modo per vedere l’azzurro sopra di lei, dato che quello naturale era schiavizzato dalla luce e dalla sabbia. Meglio vedere l’azzurro raramente, mentre sfuggiva dal possessivo abbraccio delle nuvole, o poterlo rimirare sempre, sempre, in una fredda imitazione?
Il dolore bruciava nelle vene, ogni movimento, una pugnalata al cuore: i polmoni si stringevano, l’aria fluiva via, il corpo gemeva.
Il sangue scorreva inarrestabile, assaporando la libertà e incollandosi alle dita martoriate della donna, abbandonata tra le lenzuola impregnate di dolore.
L’immensa agonia era iniziata dalla stretta metallica della mano di suo marito sul suo polso e terminava su quel sigillo impresso sulla sua pancia, sul suo bimbo che dormiva ignaro, nel calore materno.
Un singulto terrorizzato, e il sangue macchiò anche le sue labbra, risalendo all’indietro verso i suoi occhi, mentre la donna sentiva il tasso agitarsi nel suo ventre.
Siamo prigionieri entrambi, Shukaku.
Ma presto saremo entrambi liberi.
Purtroppo.
Tu da mostro, io da morta.
“ Perché?” tentò Karura in un patetico mormorio agonizzante, per chiamare aiuto o almeno per sentirsi viva.
Karura cercò di attenuare il dolore, come quando il suo sensei le torceva il braccio per insegnarle la liberazione nelle situazioni critiche, come quando zappava il fango durante l’inverno famelico e il freddo acerbo la mangiava viva.
Ma quella era una sofferenza diversa: la violenza del sortilegio ninja, il viso fanatico del Kazegake, le dita rugose che le scorticavano il viso, la formula recitata e gli occhi trapezoidali del demone erano reali, assieme alla sensazione di panico e alla consapevolezza che nessuno avrebbe potuto salvarla.
Che non si sarebbe potuta salvare.
Ormai non era più niente. Non era più una kunoichi.
Era rimasta immobile, terrorizzata, a guardare l’azzurro, quel colore così estraneo al suo cielo nebuloso, mentre la vita di suo figlio veniva maledetta.
Sentì voci schiamazzare nel corridoio esterno, ignare e ipocrite, tra le quali le frasi sgrammaticate del piccolo Kankuro.
Karura si girò speranzosa, ma la porta d’ebano rimase chiusa e scura.
L’azzurro brillava ancora sopra la sua testa, ma stavolta era sola: Tsuki era svanita come un sogno troppo bello e reale, assieme al loro mondo gioioso.
Ancora meteore implose dietro le sue palpebre.
E l’azzurro sfumò di nuovo in indaco e si gettò a capofitto nel nulla, dietro le nuvole.


Ecco come si sentiva; sì, questo paragone le piaceva.
Una foglia ancora viva e verde, staccatasi prematuramente dal suo albero, destinata ad essiccarsi secondo la volontà del sole.
La stessa viscida sensazione germogliava nel petto sottile di Karura.
Si era staccata dal suo destino ed eccola lì, vacillante incerta, prima di essere spazzata via. Il copri fronte, pesante come non mai, cadeva a terra e lei rimpiccioliva, il suo viso si ingrossava, la testa girava, mozzata. Ed era tornata una bimba con le ginocchia sbucciate, ignorante, sboccata, senza cultura, lacrimante di dolore. Rimpiccioliva nell’animo, mentre era di nuovo tra i campi in mezzo al fango, creatori di vita, fino a sciogliersi in un frammento di vita e poi a dimezzarsi nel buio.
Era bastata quella frase, una carezza gentile, e il suo mondo si era capovolto, si era riempito di illusioni e nausea e vomito e schifo.
Respirò.
Ora che era un frammento nel nulla, ora che era solo una foglia smeraldina, doveva ritrovare il suo albero, doveva rinascere.
Ma come? Come?
“Il Kazegake ha scelto te”.
Era scivolata fuori dalla sua umida casa sotto lo sguardo di sua madre (“tesoro, gli dei ti hanno benedetta!”) e di suo padre (“finalmente potrai rendermi veramente fiero, non come quelle scemenze da kunoichi”) e si era addentrata nel bosco.
Nella sua mente svuotata il primo, unico e folle pensiero era che doveva dire addio al verde muschiato e cupo che si incollava alle sue amate foreste, teatro di giochi e missioni.
Non c’era il verde, a Suna.
Gli alberi ondeggiavano sicuri e i cespugli fremevano mentre Karura si beava di quel colore immenso e appiccicoso come edera.
Si fermò in una raduna appena illuminata e rimase a rimirare il verde e il pino dove i giovani genin avevano appeso un bersaglio per i kunai, in mancanza di frutti da centrare.
Karura estrasse i suoi kunai, facendoli ruotare come anelli e saettare in aria come comete.
Centrò il bersaglio.
Un kunai, due kunai.
Perché lei? C’era Tsuki, bella, bellissima, ricca, famosa, la sua famiglia aveva accolto il Kazegake con una festa che sarebbe rimasta scolpita nella memoria del loro villaggio, sarebbe diventata racconto, poi favola, poi leggenda e poi sarebbe scomparsa nell’oblio. La leggenda del principe azzurro che aveva preferito la contadina, la guerriera, alla principessa e che aveva mutilato il lieto fine.
Tre kunai, quattro kunai.
Karura aveva sbirciato il Kazegake, dalla finestrelle rattoppate assieme a Yashamaru, sorpresa come molti dei suoi concittadini dalla presenza di un uomo politico così importante nel loro misero villaggio di contadini ignoranti e marinai vaganti.
Dieci kunai, undici kunai, dodici kunai.
Karura era rimasta sorpresa dalla furia e dalla severità che aveva visto in quegli occhi stretti e scuri sotto il capello del signore della sabbia. La ragazza aveva subito capito, dai suoi kunai ben riposti, dalla sua falcata precisa e dalla scioltezza con il quale individuava eventuali pedinatori, che era un ninja temibile e che non ne voleva altri attorno.
Non le sarebbe stato permesso di rimanere una kunoichi.
E allora perché?
Cinquantacinque kunai, cinquantasei kunai, cinquantasette kunai.
Si sentiva osservata e spiata, sentiva lo sguardo famelico dell’uomo, come  se, appena l’aveva vista, l’avesse marchiata a fuoco, imprigionandola.
Centoventuno kunai, centoventidue kunai, centoventitrè kunai.
Sarebbe dovuta diventare tutto quello che disprezzava: una figura politica, una brava donna senza atteggiamenti rudi o scandalosi, una madre, un sorriso dolce per i cittadini, una prigioniera nel palazzo, una moglie senza amore.
Lei era una kunoichi e ora non poteva scegliere il suo destino.
Non poteva combattere per la sua vita e le sue idee.
Ma allora non sono più una kunoichi.
Prese il centosessantesimo kunai e si abbatté sul pino come un falco su un agnello senza ginocchia, e lo uccise, scorticandolo, strappandogli il nettare, calpestando le foglie sue figlie, sue compagne.
Karura avrebbe voluto sentire il pianto del pino, le sue urla e le sue suppliche in ginocchio, sentire il sangue umano scorrerle sulla pelle come quando abbatteva un nemico e urlava nella notte, trionfante.
L’espressione della donna rimase innaturalmente pietrificata, severa, mentre martoriava l’albero innocente e sentiva le schegge della corteccia raggiungerle la gola e le pupille.
Poi Karura si accasciò a terra, seppellendosi tra la polvere  e rimase a rimirare il giorno che scorreva via, tra il verde umido della foresta.
La trovò Yashamaru, che, muto e impietosito, la prese per mano e la ricondusse a casa, per i preparativi.
Dalla campagna sgorgavano fiumi di vino e fiamme rossastre, trasformata in una festa notturna per Karura, in una falena invulnerabile al fuoco. Proprio come si sentivano adesso i contadini, vincitori sulla borghesia locale, ubriachi, avvolti nelle spire della vittoria.
Nessuno, neanche i suoi genitori, si erano accorti che Karura si era seppellita nella stessa tomba che aveva scavato per i suoi kunai, alcuni deposti nel verde, sotto il pino, altri giù nel blu, nel mare superbo.
Ormai l’arcobaleno era sparito.
Era rimasto solo il nero.

Un malinconico ed esibizionista sole moriva di nuovo sopra le dune ansanti, sbriciolate dal caldo infernale.
Karura si accarezzava la pancia, dove il suo terzogenito cresceva lentamente e tranquillo, imbevuto nel ventre materno.
“Come lo chiamerà, Karura-sama?” chiese una delle domestiche dell’enorme palazzo dorato, incuriosita e intenerita.
Kankuro, che gattonava sul tappeto color lavanda, si mise il pugno in bocca e propose: “Karasu!”.
Karura si sentì ridere per la prima volta dopo secoli, con una voce da corvo scherzoso.
“Sai, Kanku-chan, stavo pensando che potevamo dargli o darle un nome di un fiore, o dei colori della foresta” mormorò Karura mentre si posava il bimbo paffuto sulle ginocchia e scrutava nostalgica l’orizzonte arido.
La cameriera annuì con il suo sorriso sdentato e l’espressione ignorante di chi è rimasta rinchiusa a Suna, l’unico mondo che conosceva.
“Tu non hai mai visto i boschi o le valli, le foglie…potremmo chiamarla Konoha, se è una bimba” sussurrò al bimbo, curioso.
Un porta si infranse e la cameriera fuggì via come un’ombra.
Karura si voltò e parò la mano callosa del marito in procinto di schiaffeggiarla.
Il volto del Kazegake, sconvolto dalle assurdità della moglie e dall’aver sentito il nome del villaggio nemico, ringhiò scoprendo denti e alitando sul collo della donna.
Karura sentì una punta di orgoglio ninja esploderle nel petto e nel ventre, sepolto nel fango della foresta.
Rivoltò la mano e strinse il polso aguzzo dell’uomo nell’ingenuo e vano tentativo di spezzarlo.
Indirizzò un ghigno al marito( suo aguzzino, sua maledizione) e come punizione venne ribaltata giù dal divano con Kankuro sul tappeto.
Sentì scariche di dolore violarle il corpo, la debolezza graffiarle gli occhi, le urla di Kankuro torturarle le orecchie.
“Sarà un maschio, donna.” Mormorò il Kazekage con voce funerea prima di svanire.
La cameriera rientrò per consolare Kankuro e, come tutti, abbassò lo sguardo e ignorò il rivolo di sangue che colava dal naso di Karura.
La donna gemette. Poi sputò un dente e alzò gli occhi per cercare alberi e foglie invisibili.
Quella notte, il demone venne sigillato nel suo corpo.
E i colori, annacquati di lacrime, scivolarono via.
Persino il verde, umido e appiccicoso, si perse negli angoli di una memoria spezzata
 

Un’ uggiosa alba, nebbiosa e gialla, sbucava dai pini anoressici.
Karura, sprofondata in una malinconica apatia, aveva osservato per ore l’evolversi dell’automatica nascita del sole: non aveva dormito, aveva aspettato sveglia il suo viaggio verso il patibolo.
Attendeva il mattino come aveva atteso il ninja nemico, nascosta tra la selva, non intimorita dalla morte, con il kunai tra i denti, l’adrenalina che navigava piacevolmente nel suo corpo agile.
Non aveva mai fallito una missione, Karura.
Ma questa volta si sarebbe consegnata al nemico senza combattere e già sentiva il sapore metallico delle catene scorrerle sulla lingua.
Sua madre sbucò nella stanza, trascinandosi dietro una fascio di luce giallognola, sbeccata e umida.
Karura si ritrasse codardamente, come se temesse che la luce frantumasse la notte, la sua ultima notte; ma il viso di sua madre era così lucido ed estatico all’opaca luce dell’alba che Karura venne trascnata subito alla realtà, ancorata dalla felicità altrui.
L’immensa massa dei contadini non si era ancora diradata; anzi, erano appollaiati dietro alla porte come selve, in attesa di veder la prescelta del Kazekage.
Ma Karura, dopo ogni sorso di tè preparato dalla madre,si sentiva sempre più brutta e fanciulla, sempre più indegna di tale onore.
L’onore della prigionia dorata. La condanna a morte di un ninja.
Quel dannato sole troppo giallo e troppo irreale per il loro pese nebuloso tormentava la pelle delicata di Karura, la scorticava.
“Ecco l’abito, tesoro” mormorò la madre raggiante mentre reggeva un abito color primula, giallognolo, coordinato con l’alba umida e luminosa oltre i monti.
“Scommetto che si abbinerà perfettamente alla sabbia del deserto” esclamò sua madre, commossa “Sono fiera di te”.
Karura si ritrovò nel corteo che l’avrebbe condotta alla carovana del Kazegake come in un vorticoso tornado.
Soffocava, ansimava, gemeva.
Cercò disperatamente i suoi compagni, il suo burbero sensei, i suoi genitori ai quali non poteva appellarsi. Erano contadini: il dovere di una donna era sposarsi ed avere figli, no? La filastrocca della kunoichi era durata fin troppo.
Karura cercò invano il suo onore da ninja ma lo perse tra la folla indemoniata che la ancorava al suo destino tetro.
Trovò soltanto uno sprazzo perlaceo nell’alba maledetta, latte nel miele.
Tsuki era là, ai margini della massa contadina, un pallido fantasma vendicatore, uno spirito assetato di vita.
Se non avesse guardato attentamente la sua espressione, Karura avrebbe pensato davvero che la morte avesse colto nella notte la sua migliore amica.
Ma i morti non covavano tanto odio: sentiva la vita impregnare quel viso stravolto dall’ira e quegli occhi insanguinati.
Tsuki aveva sempre pregato per un solo sogno, e Karura lo sapeva: il principe, il più bello e il più ricco, con cui vivere la sua favola. Era questo il suo inevitabile destino, come quello della ex-kunoichi era di morire tra gli stenti e con il copri fronte a farle da bara.
Tsuki era cresciuta tra le favole, tra gli agi, sopra i rozzi contadini e si era convinta che non ci fossero altre ragazze che potessero raggiungere la sua bellezza, inguardabile ad occhio umano.
Poteva ammettere di avere tutte le debolezze, ma non dubitava che la protagonista del suo lieto fine sarebbe stata la sua felicità.
Lei era una principessa. La principessa.
Era impensabile che questo potesse mutare. E l’impensabile non esiste.
Karura sapeva che Tsuki non l’avrebbe mai perdonata, neanche nel paradiso che avrebbero raggiunto, prima o poi: l’avrebbe morsa e graffiata finché non sarebbe ricaduta nel suo inferno terreno.
Un raggio color topazio illuminò il volto dorato del Kazekage appena arrivato, incartato nell’alba dorata, e la gola di Karura arse di umiliazione: forse quella notte stessa avrebbe sentito le sue mani callose sopra e dentro di lei.
Si voltò un’ultima volta, ma Tsuki era svanita, tramontata, nascosta nella notte, assieme alla luna, lontana dal sole, dalla realtà, nel regno dei sogni.
E così il bianco uscì dall’ arcobaleno. Un colore che non gli era mai appartenuto.
La folla seguì la carovana per un breve tratto, lanciando fiori, fiocchi, nastri e la bimbe guardavano ammirate la neo-signora del deserto, sognando di imitarla.
Poi i contadini svanirono nella nebbia e il mondo di Karura si sfasciò.
Rimase solo Yashamaru al suo fianco, membro della scorta e parte del suo universo perduto.
Karura guardò il profilo aguzzo del Kazegake e poi il sole sempre più caldo, più giallo, nunzio di morte.

Il caldo di Suna regolava a suo piacimento la forza di gravità del deserto, con sadica soddisfazione.
Karura, come la maggior parte degli abitanti, era inchiodata a letto, nel suo sudario di sabbia e dolore.
Annaspò un attimo ed emise un patetico vagito: il caldo denso di sabbia le bloccava il fiato.
Accarezzò meccanicamente il pancione, pesante e saettato da vene bluastre, dove suo figlio cresceva in simbiosi con un demone.
E lei, sua madre, aveva permesso che accadesse, che la violassero e profanassero il miracolo della vita. Che distruggessero quello per cui aveva sempre combattuto: libertà e giustizia.
Il sudore colava dai suoi capelli secchi, sciogliendo tutti i colori opachi della stanza, togliendo luci e ombre.
“Kaa-san! Kaa-san!”.
Piccoli passi rimbombarono nel corridoio come un terremoto, mentre Karura si sedeva e tentava di sciogliere le lacrime nascoste sotto le ciglia.
Respirò a fatica e spalancò le braccia ancora prima che una spinosa testa gialla sbucasse dalla porta.
Temari era finalmente riuscita ad evitare le cameriere che le intimavano di far riposare la madre e ora rideva felice tra le sua braccia. Era la sua mamma e Temari si sentiva in obbligo di vederla quando voleva. Karura sorrideva senza neanche rendersene conto e dedicava alla figlia tutte quelle attenzioni che lei non aveva ricevuto.
La sfumatura bionda della figlia, ereditata da Yashamaru, che era arrivata con la carovana della sorella e non se n’era più andato, portò la luce negli occhi di Karura.
A volte la donna pensava che forse era valsa la pena di soffrire così immensamente per essere ripagata con la nascita dei suoi figli.
Ora pensava con tenerezza alla vecchia sé stessa, a quella giovane ninja che afferrava le trote a mani nude, si sedeva nel fango e rabbrividiva all’idea di portare nel proprio ventre un corpo estraneo.
Carezzò le spesse trecce della figlia proprio mentre Temari annunciava che voleva iscriversi all’Accademia ninja, come suo zio.
“Diventerò la kunoichi più forte di tutto il paese! Così proteggerò Kaa-san, Kankuro e il fratellino”  esclamò gioiosa “Anche il Kazekage-sama ha detto di sì!”.
Karura, graffiandosi il palmo con le unghie sottili, imprecò mentalmente contro il Kazegake e la sua indifferenza.
Ma non sarebbe stata lei ad impedire alla figlia di imparare a difendersi, a combattere, a sputare il sangue che si annidava dentro le guancie, a correre verso la luce, a volare verso il sole che già le aveva illuminato i capelli.
“Tu non avresti mai voluto diventare un ninja, Kaa-san?” chiese Temari, alzando i suoi occhi celesti verso i suoi gemelli.
Karura sentì il suo sorriso sbiadire e i suoi occhi rimirare i capelli biondi della figlia, rammentando la luce di quell’uggioso e lontano mattino, quando tutto il suo mondo era crollato.
“No, tesoro. Se no, non sarei qui. E neanche tu” mormorò la donna pensierosa. Quanti destini si erano incrociati nella sua esistenza? Contadina, kunoichi, principessa, madre, moglie…qual era la via giusta?
In quel momento si sentiva una vecchia contadina, una kunoichi tradita, una moglie usata, una principessa usurpatrice.
Ma era una madre. Temari, grazie a questo, era lì, viva.
E questo non poteva essere sbagliato.



Arancione?”
“È così che lo chiamano…”
“Suvvia, Yashamaru, non esiste un colore tra il giallo e il rosso!”
“Ma è vero! L’avresti visto anche tu se ti fossi unita alla nostra spedizione sui confini del Paese Del Fuoco!”
“Vorrai dire se mi avessero lasciata venire!Papà mi ha costretto a zappare tutto il giorno!”
“Bè, forse non voleva che ti allontanassi troppo. In fondo, sei una femmina.”
“Grazie mille”.
“È vero, sei quasi l’unica ragazza del nostro villaggio a praticare le arti ninja. Comunque, tornando al discorso di prima, io, l’arancione, te l’ho portato. C’è l’ho in tasca.”
“Ma non mi hai detto che era solo una sfumatura dei tramonti meridionali?”
“Non proprio. Guarda!”
“Ma…cosa sono?”
“Arance. E se ti interessa sono dei frutti ninja, facilmente raggiungibili solo con i kunai!”.
“Hanno un odore incredibile. E il loro colore è indecifrabile. Non l’ho mai visto prima d’ora, neanche nelle rare volte che il sole è sbucato nella nostra valle”.
“Visto? Nee-san,anche se sei la maggiore, non devi avere sempre ragione. E comunque io non ti mentirei mai. Ti puoi fidare di me.”
“Sempre?”
“Sempre”.


Karura si ritrovò a pensare che alla fine era tutto più semplice di quello che sembrava. Aveva trovato l’uscita del labirinto, aveva srotolato il gomitolo del destino.
La cella che le si stava stringendo attorno sembrava intagliata nelle aspre arance che le aveva portato Yashamaru e che aveva mangiato macchiandosi gli abiti, cercando invano di immaginare quel colore nel cielo del tramonto.
Karura ridacchiò con voce stridente: dopo una vita passata senza arancione e senza colori caldi, ora loro le ruotavano attorno, la ipnotizzavano, mentre il sole, oltre la minuscola finestrella, moriva.     
La cella ruotava e il sangue colava.
Il tutto si scioglieva nella sabbia aranciata.
Karura era stata rinchiusa nella prigione non appena erano cominciate le doglie, in attesa che tutto fosse pronto per il parto che avrebbe portato alla vita suo figlio e avrebbe strappata lei dal mondo.
Karura tremò, mentre nella sua testa rimbombava la sentenza del Kazekage, illuminato da un fuoco folle e da un sorriso ambizioso.
Poi, euforico, l’aveva messa nella cella, per impedire la fuga della moglie, e ancora Karura si chiedeva come fosse possibile così tanta follia.
Forse perché finalmente, dopo anni di preparativi, aveva realizzato un piano covato da sempre: donare all’esercito di Suna un mostro, un’arma.
Era andato fin nel Paese dell’Acqua per trovare come moglie una contadina semplice e povera che sarebbe stata il tramite perfetto per il suo piano.
Non aveva voluto Tsuki, fatta di candida bellezza, perché era troppo ricca e importante. Se fosse stata lei ad essere stata oltraggiata così, sarebbe scoppiata una rivolta che avrebbe ridotto in polvere persino il deserto.
Ma a chi importava una contadina di un paese lontano?
I suoi genitori in quel momento stavano ancora zappando il terreno e pregavano per la felicità dei loro figli. Tsuki, se era stata informata delle sventure dell’ex-amica, probabilmente non avrebbe mosso un dito. Avrebbe avuto l’occasione per ridere istericamente, dopo anni pieni di velenosa invidia.
Yashamaru aveva tentato di aiutarla, ma ribellandosi avrebbe messo a rischio la sua stessa vita, quella della sorella, quella dei nipoti. Il Kazegake l’aveva risparmiato soltanto perché era un ninja medico, che scarseggiavano a Suna.
Karura gemette, mentre un’altra fitta le attraversava il corpo tremante e insensibile: erano entrambi prigionieri, carcerati lontani dalla pioggia e dalla loro casetta umida.  
Stava per morire, Karura lo sapeva: avrebbe voluto trascinare con sé il Kazegake e quella vecchia che aveva distrutto la vita di suo figlio. Li avrebbe afferrati per il collo e li avrebbe gettati tra le fiamme infernali, tra i loro simili.
Karura tento invano di allargare quella cella claustrofobica che la faceva marcire, che le donava la morte più indegna per un ninja.
Un’esplosione e il mondo di Karura si ribaltò. Aprì gli occhi tra la polvere e, mentre cercava di ricordare come muovere il proprio corpo, una figura familiare fece capolino dal foro provocato dalla carta bomba.
“Karura!”. Il proprio nome rimbalzò nella testa della donna e un nome le si fermò sulla punta della lingua arida. Un nome familiare che sapeva di freddo, neve e di casa.
Yashamaru sollevò faticosamente la sorella mentre il terremoto esplodeva sotto i loro piedi.
“Arrivano le guardie!” esclamò terrorizzato e con gli occhi enormi, come nelle prime missioni, quando Karura gli stringeva la mano solidale, con la freddezza di un ninja.
Ma ora Yashamaru era un uomo e il suo volto era un libro pieno di frasi addolorate.
I due fratelli uscirono, ricoperti di detriti arancioni, e Yashamaru si diresse verso la finestra, spalancata su Suna.
“Fidati di me, nee-san” mormorò l’uomo e, con in braccio Karura saltò tra i tetti delle case piatte e sabbiose della città.
La donna si artigliò alle spalle del fratello, mentre sentiva il suo bimbo sussultare, i metri che la dividevano da terra aumentare, le guardie avanzare verso di loro.
Karura strinse i denti e urlò, di dolore e terrore, come non le era stato permesso in tutti quegli anni di prigionia.
Imprecando con il volto rivolto verso le prime stelle, sfilò dei kunai dalla saccoccia del fratello e colpi numerosi ninja inseguitori.
Schizzi di sangue e urla furiose si sciolsero tra le dune del Paese.
Karura gorgogliò debolmente di soddisfazione, mentre Yashamaru si infilava in una finestra nascosta.
Il tramonto dorato sparì dietro l’orizzonte.


Karura aveva visto per la prima il rosso durante la sua prima missione.
Un kunai si era infilato nella cute del suo sensei e uno spruzzo carminio era atterrato sulle guance pallide di Karura, prima che lacrime terrorizzate, desiderose di fuggire, non lo avessero sciolto.
Se mai si era ferita con la zappa in mezzo ai campi, se n’era dimenticata o aveva attribuito la ferita al risultato di un lavoro impreciso e a un evento normale.
Ma quel rosso vischioso che zampillava dalla ferita era causato da un attacco nemico e Karura, nonostante la tenacia e gli allenamenti,  si era sentita minacciata, disarmata.
Se il sensei non l’avesse trascinata lontana dal pericolo, sarebbe morta lì, bruciata da un orda di kunai, sarebbe morta da ragazzina, con il seno appena cresciuto stretto nel giubbotto, sarebbe morta da codarda.
Dopo il terrore e le lacrime di quella notte, Karura si era stretta il coprifronte tra i capelli sudati e si era ripromessa di essere più forte, di combattere quel colore quasi sconosciuto.
Il rosso, che non era mai comparso nei cieli bui del villaggio e solo raramente sui fiori scheletrici, era diventato un colore proibito, maligno, che doveva rimanere rinchiuso, imprigionato.
“Io ho sempre sognato di ricevere un mazzo di rose rosse, come il fuoco” aveva sospirato una volta sua madre, il viso illuminato da contadine infatuazioni “Il rosso è anche il colore dell’amore, lo sai, Karura-chan?”.
Ma la figlia aveva sbuffato: troppo ninja, troppo giovane per cercare l’amore e il rosso.
Tutta la sua attenzione non bastò nelle missioni successive: schizzi rossi insanguinarono il terreno di battaglia.
Combattere contro ninja adulti ed esperti, i loro volti sudati e mostruosi intagliati nella roccia, la terrorizzava.
Ma non avrebbe tradito la fiducia del suo villaggio, non avrebbe tradito il suo credo ninja, nonostante il tremore che coglieva le sue gambe sottili alla vista del sangue.
Ma in fondo anche grazie a lui durante la sua sesta missione, la prima dove aveva messo piede sulla terraferma, Karura era stata ricoverata in un campo medico per un profonda ferita all’addome.
Aveva visto molto sangue, macchie color magenta le erano esplose tra le palpebre, il dolore pungeva i suoi organi.
Però al suo risveglio, Karura per la prima volta aveva visto un cielo turchino e, quasi come un’allucinazione, un arcobaleno unire sole e fango.

Sangue, troppo sangue.
Karura strinse i denti, fino a spezzarli, ma emise comunque un urlo acuto.
Stava partorendo da sola. Solo lei e il pavimento ghiacciato. E il sangue.
Fuori dalla stanza Yashamaru, che avrebbe voluto assistere la sorella, combatteva contro le guardie: era sicuro che con il suo aiuto Karura avrebbe potuto partorire senza perdere la vita. Ma il Kazegake aveva riso di fronte alla speranzosa dichiarazione del giovane. Nessun umano sopravvive al sigillo del demone.
Karura piangeva, di rabbia, che colava dal suo ventre rossa e furibonda. Piangeva per i figli che abbandonava, per la sua vita sprecata, per suo fratello, che forse l’avrebbe seguita presto.
La luna piena, impiccata nel cielo stellato, assomigliava agli occhi candidi di Tsuki, che osservavano la scena impotenti.
Un dolore disumano e la vita che si scioglieva tra le sua gambe.
Un vagito potente, mentre Karura scivolava nel buio.
Raccolse suo figlio, atterrato sul pavimento madreperlaceo, e altre lacrime vennero spazzate via.
Il neonato, minuscolo e piangente, stringeva i pugni e scuoteva piano la testa, dal quale spuntavano sottili ciuffi color rubino.
E in quel momento, Karura capì perché il rosso era il colore dell’amore.
“Gaara…”.
Il bambino allacciò le mani alla veste della madre, alla ricerca del seno.
Karura sorrise al figlio il cuore colmo di gioia. Poi un lampo di follia l’attraversò, e il demone si insinuò nella sua voce.
“Vivi, bambino mio…diventa un ninja…e uccidili…vendicami” sospirò in preda al dolore freddo della morte.
La porta cedette e Karura si spense come una candela, sprofondando in un colore cupo e tetro, che non aveva mai visto nel suo arcobaleno.
  
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